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PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA MERIDIONALE

ISTITUTO TEOLOGICO CALABRO


«San Pio X»
CATANZARO

«IO SONO IL PANE DELLA VITA» (GV 6,35)


Per un invito ecclesiale a ripensare e vivere la presenza eucaristica

Dissertazione per il
Baccellierato in Teologia

Docente: Studente:
Prof. FORTUNATO MORRONE FRANCESCO ANDREA ALLEGRETTI
(matr.726/B)

Anno Accademico 2020-2021


«Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé,
come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?»
(Dt 4,7)

A Vivi, con l’augurio di sperimentare,


nelle piccole cose quotidiane,
la bellezza di Colui che è Via, Verità e Vita.
ABBREVIAZIONI

PG = Patrologia Græca
PL = Patrologia Latina
PLS = Patrologia Latina Supplementum
ST = Summa Theologiæ
SCG = Summa contra Gentiles
DH = Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum
AAS = Acta apostolicæ sedis
SC = Sacrosanctum Concilium
LG = Lumen Gentium
EG = Evangelii gaudium
INDICE

ABBREVIAZIONI ………………………………………………………………….... 2
INDICE ………………………………………………………………………………. 3
BIBLIOGRAFIA …………………………………………………………………….. 5
INTRODUZIONE …………………………………………………………………… 9
I. LA PRESENZA EUCARISTICA DI CRISTO NELLA SACRAMENTARIA
PATRISTICA E NELLE CONTROVERSIE EUCARISTICHE MEDIEVALI …….. 12
I.1 La teologia eucaristica dei Padri e la prima controversia …………………… 12
I.1.1 Il “modello tipologico” patristico, tra metabolismo e simbolismo …………… 12
I.1.2 La svolta allegorica e la controversia tra Pascasio e Ratramno …………….. 16
I.2 La controversia berengariana e la «transustanziazione» …………………… 20
I.2.1 La controversia di Berengario di Tours ……………………………………… 20
I.2.2 Gli sviluppi della dottrina eucaristica e il Concilio Lateranense IV ………… 24
I.3 L’Eucaristia in genere signo et causa nella Summa Theologiæ …………….. 28
I.3.1 La ratio sacramenti tommasiana nel contesto devozionistico medievale …….. 28
I.3.2 La sacramentalità e il primato dell’Eucaristia, tra poesia e teologia ……….. 32
II. IL MODELLO TOMMASIANO-TRIDENTINO
DELLA PRESENZA EUCARTISTICA …………………………………………….. 37
II.1 La materia dell’Eucaristia e la transustanziazione ………………………… 37
II.1.1 La specie della materia eucaristica e la sua conversione …………………… 37
II.1.2 La modalità di presenza di Cristo e il permanere degli accidenti …………… 41
II.2 La forma dell’Eucaristia e il suo contesto esegetico-rituale ……………….. 45
II.2.1 La cristologia dell’istituzione e la marginalità del rito ……………………… 45
II.2.2 La performatività delle parole di consacrazione come momento apicale .…… 50
II.3 La conferma del modello a Trento contro le istanze riformatrici …………. 53
II.3.1 Le riflessioni eucaristiche dei Riformatori …………………………………… 53
II.3.2 Il decreto tridentino «De SS. Eucharistia» …………………………………… 57
III. LA PRESENZA EUCARISTICA NELLA TEOLOGIA DEL XX SECOLO:
DIBATTITI E PROSPETTIVE …………………………………………………….. 62
III.1 Oltre la stasi: l’Eucaristia in genere ritus ………………………………….. 62

3
III.1.1 La riappropriazione teologica del rito e le istanze del Movimento liturgico …. 62
III.1.2 La «forma fondamentale» dell’Eucaristia ………………………………….. 66
III.2 Verso un ripensamento della transustanziazione …………………………. 70
III.2.1 Dall’ontologia alla fenomenologia: dibattiti e proposte di riformulazione …… 70
III.2.2 La Nouvelle théologie: l’ontologia relazionale di Rahner e Schillebeeckx …… 75
III.3 Riflessioni e prospettive a partire dal Concilio Vaticano II ……………….. 81
III.3.1 L’esperibilità rituale della presenza eucaristica, dogma “in divenire” ……. 81
III.3.2 «Essere presenza» e «fare Chiesa»: per una teologia “in uscita” …………. 83
CONCLUSIONE ………………………………………………………………………. 87
RINGRAZIAMENTI .…………………………………………………………………. 91

4
BIBLIOGRAFIA

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8
INTRODUZIONE

«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35): le parole di Cristo, così riportate da Giovanni,
rivelano chi Egli sia; certo, le Sue parole sono emblematiche, difficili da comprendere, e il
contesto lo testimonia: i Giudei e i discepoli non capiscono cosa Egli voglia dire; ma Pietro,
alla domanda se anche lui, come altri, non capendo, voglia rinunciare alla sequela, con fede,
risponde: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). La fede diviene
più ardua quando non si comprendono determinate realtà, ed è per questo che essa esige più
accoglienza quando ci si trova dinanzi al Mistero di Dio presente realmente e veramente nei
Sacramenti: ebbene, siccome la teologia nasce dalle esigenze della vita teologale, il teologo
è chi si avvicina a Colui che ama e che lo ama, dando ragione della sequela (Cfr 1Pt 3,15).
La scuola alla quale Cristo stesso chiama l’uomo è la liturgia, “teologia prima”, nella
quale Egli si presenta come Parola e come Pasto, presenziando nella celebrazione, e in cui il
battezzato può esprimere, orando, la sua fede nel Redentore1. Per tali ragioni, «ciò che crea
l’unità delle comprensioni (…) della fede, non è una dottrina che sovrasti le variazioni
dell’interpretazione: è invece la pratica ecclesiale dell’Eucaristia»2, per cui «raccogliersi nel
nome del Signore per l’Eucaristia è sempre e comunque un evento che manifesta e significa
l’autentica natura della Chiesa»3.
La presente dissertazione si propone di ripercorrere il cammino teologico della Chiesa
circa il modo in cui è stata intesa ed esplicitata la presenza eucaristica di Cristo, volendo non
solo delineare gli aspetti storico-dottrinali, ma anche quelli liturgici, soffermandosi sul ruolo
e sull’influenza che il rito ha avuto, dal devozionismo medievale al rinnovamento conciliare,
sulle formulazioni dottrinali con cui il Mistero della presenza eucaristica è stato pensato ed
espresso nelle varie epoche storiche: a tal proposito, il filo rosso che percorrerà tutte le pagine
che seguono sarà la tensione e il passaggio dall’hoc est dell’Eucaristia all’hoc facite, cioè tra
la dottrina e la celebrazione del Mistero eucaristico, enfatizzandone l’inscindibilità alla luce

1
«Nella celebrazione di sacramenti, la Chiesa trasmette la sua memoria, in particolare, con la professione
di fede. In essa, non si tratta tanto di prestare l’assenso a un insieme di verità astratte, ma, al contrario, nella
confessione di fede tutta la vita entra in un cammino verso la comunione piena con il Dio vivente (…).Tutte le
verità che si credono dicono il Mistero della nuova vita della fede come cammino di comunione con il Dio
vivente», FRANCESCO, Lettera enciclica Lumen fidei 45, 29 giugno 2013: AAS 105 (2013), 555-596, qui 585.
2
LAFONT G., Eucaristia, il pasto e la parola. Grandezza e forza dei simboli, Elledici, Torino 2001, 189.
3
MAGGIONI C., Eucaristia. Il sigillo sul cuore della Sposa, Edizioni Paoline, Roma 2005, 46.

9
di una serie di contributi. A tal fine, i riferimenti bibliografici ricadranno maggiormente sui
testi di teologi contemporanei che hanno dato un forte contributo alla ricerca sull’Eucaristia,
come Andrea Grillo, Zeno Carra, Pierpaolo Caspani ed Enrico Mazza.
Nello specifico, nel primo capitolo si tratterà del modello tipologico assunto dalla
teologia sacramentaria patristica, con particolare riferimento al metabolismo ambrosiano e
al simbolismo agostiniano; dopo, ampio spazio verrà riservato alle controversie eucaristiche
medievali tra Pascasio Radberto e Ratramno, e tra Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia,
per poi proseguire con il Concilio Lateranense IV, in cui l’espressione «transustanziazione»
venne introdotta per esplicitare il cambiamento del pane e vino in corpo e sangue di Cristo;
ancora, nel contesto del devozionismo eucaristico medievale, si tratterà la ratio sacramenti
nella tertia pars della Summa Theologiæ di Tommaso d’Aquino, soprattutto in riferimento
al primato dell’Eucaristia.
Nel secondo capitolo, poi, sempre nella teologia dell’Aquinate, ci si soffermerà su
alcuni aspetti della trattazione eucaristica di particolare rilevanza, come l’esplicitazione del
fatto eucaristico tramite le quattro cause aristoteliche, soprattutto sulla materia e sulla forma,
e sulla spiegazione della transustanziazione per mezzo delle categorie sostanza-accidenti, in
base alle quali Tommaso d’Aquino la sistematizzò concettualmente e terminologicamente;
prima di giungere all’“ufficializzazione” del modello tommasiano con il decreto tridentino
De SS Eucharistia, uno spazio sarà riservato ad accennare la teologia dei Riformatori circa
l’Eucaristia, proponendone una rivalutazione teologica. In tutto il capitolo, ci si soffermerà
in particolar modo sulla forma dell’Eucaristia, identificata, per tutto il Medioevo, con le
parole pronunciate dal ministro sul pane e sul vino, quale chiave ermeneutica per l’accesso
alla realtà della presenza eucaristica stessa.
Il terzo capitolo, infine, travalicando una stasi lunga circa quattro secoli, tratterà delle
istanze promosse dal Movimento liturgico, sulla scia della teologia dei misteri e della «forma
fondamentale» dell’Eucaristia; un particolare interesse sarà mostrato per la teologia del XX
secolo, la quale, tramite vari esponenti, avanzerà proposte di riformulazione sulla presenza
eucaristica, aprendo la strada a nuovi dibattiti circa il ripensamento della transustanziazione,
oltre l’ontologia classica: a tal proposito, due particolari prospettive verranno prese in esame,
ovvero quella fenomenologica e quella ontologico-relazionale; l’ultimo paragrafo, poi, sarà

10
dedicato ad alcune riflessioni e prospettive, prendendo le mosse dalla costituzione conciliare
Sacrosanctum concilium, considerando il passaggio dalla comprensione dell’Eucaristia in
genere signo all’in genere ritus, enfatizzandone la realtà simbolico-rituale. Proprio queste
considerazioni, soffermandosi sulla questione della progressione del dogma della presenza
reale e sull’actuosa partecipatio, intendono proporre un ampliamento degli orizzonti per la
teologia e per la vita della Chiesa: a partire dal Mistero di Cristo presente nell’Eucaristia,
infatti, la Chiesa può aprirsi al dialogo con le diverse realtà umane, adottando una logica
della complessità e optando per una ospitalità antropologica che le facciano riscoprire la
propria “maternità”; allo stesso modo, ogni battezzato, partecipando alla sequela di Cristo
come vocazione e come missione della famiglia ecclesiale, partendo proprio dall’incontro e
dal dialogo orante col Suo Signore, può rendersi Sua presenza nel mondo.
Volendo contestualizzare la presente ricerca teologica nel panorama magisteriale ed
ecclesiale di papa Francesco, si potrebbe affermare che il motivo della dissertazione consiste
nel recupero della consapevolezza, in teologia, che la realtà è più imporrante dell’idea4,
ovvero dell’elaborazione concettuale che di essa se ne può fare: in questo caso, il Mistero
della presenza di Cristo nel pane e nel vino, nella Parola, nella liturgia della Chiesa, nei fedeli
battezzati, nella storia e nel mondo, travalica di gran lunga la capacità di ogni uomo di poter
racchiuderla in schemi dogmatici; per tali ragioni, si vorrà evidenziare com’è necessaria la
riformulazione del dogma della presenza eucaristica, soprattutto alla luce della vita cristiana
e del primato della teologia vissuta sulla teologia pensata, pur essendo di certo intoccabile
il contenuto del dogma, in quanto è Cristo stesso ad essersi identificato nel pane e nel vino
nell’ultima cena. Alla luce dei motivi appena esposti, si rende palese il senso del sottotitolo
della dissertazione: configurare la ricerca non semplicemente come la ricostruzione storico-
dottrinale del dogma, ma come un vero e proprio invito a ripensare ed a vivere la presenza
eucaristica, per una Chiesa e una teologia “in uscita”, «passando dal nominalismo formale
all’oggettività armoniosa»5, mettendo in luce il rapporto tra Eucaristia e vita ed essere, così,
più vicini a Cristo presente nei fratelli, consci che «come il Padre, che ha la vita, ha mandato
Me, e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia Me, vivrà per Me» (Gv 6,56-57).

4
Cfr EG 231-233. «Non condurre la parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura
idea, degenerare in intimismi e gnosticismi che non danno frutto», Ivi, 233.
5
Ivi, 232.

11
I..LA PRESENZA DI CRISTO NELLA SACRAMENTARIA PATRISTICA
E NELLE CONTROVERSIE EUCARISTICHE MEDIEVALI

I.1 La teologia eucaristica dei Padri e la prima controversia


I.1.1 Il “modello tipologico” patristico, tra metabolismo e simbolismo
Ai Padri della Chiesa pare non sia ascrivibile alcun testo dedicato specificatamente al
tema dell’Eucaristia1: le loro riflessioni al riguardo, tuttavia, sono deducibili dalle catechesi
mistagogiche nelle quali, sia che fossero finalizzate alla formazione dei catecumeni prossimi
al battesimo oppure in relazione a questioni legate all’unità della Chiesa 2, essi ricorrono al
cosiddetto “modello tipologico” di reminiscenza platonica.
Innanzitutto è opportuno chiarire il termine typos: «L’idea fondamentale significata da
typos sembra essere quella di “forma”, “rappresentazione astratta” di una realtà, sia che si
tratti di un modello ideale o dell’immagine, della copia di un originale» 3.
Il modello tipologico è riscontrabile nei primi secoli del Cristianesimo in due ambiti
distinti: uno è quello esegetico, l’altro quello rituale; difatti, la “tipologia”, prima di essere
una «mimesi a livello rituale»4, ovvero un modello interpretativo dell’Eucaristia, è un
metodo esegetico finalizzato alla comprensione dell’historia salutis5: «Il metodo tipologico
affonda le proprie radici nel linguaggio con cui la Scrittura esprime il rapporto tra l’annuncio
anticotestamentario dell’opera di salvezza e il suo compimento nel Nuovo Testamento»6.
Da un punto di vista squisitamente rituale, che qui interessa di più per capirne l’utilizzo
relativamente all’Eucaristia, la tipologia è servita ai Padri per spiegare il perché «bisogna
fare ciò che Gesù ha fatto»7 e dunque provare a dare una spiegazione in chiave ontologica
ed escatologica dell’Eucaristia. La tipologia, infatti, come per le narrazioni nella Scrittura,

1
Cfr AA.VV., Anàmnsesis 3/2. Eucaristia, teologia e storia della celebrazione, Marietti, Bologna 1983, 34;
Cfr POWERS J.M., Teologia eucaristica, Queriniana, Brescia 1979, 35.
2
Cfr CASPANI P., Pane vivo spezzato per il mondo. Linee di teologia eucaristica, Cittadella Editrice, Assisi
2019, 148-152.
3
J.-M. Husser citato in MAZZA E., Dall’ultima cena all’Eucaristia della Chiesa, EDB, Bologna 2014, 88.
Il termine greco τύπος «colpo, impronta», deriva dal verbo τύπτω «battere imprimere», esso indica «il modello,
la matrice che trasferisce la sua immagine su ogni pezzo della moneta», Ivi, 91: questo implica l’esistenza di
ciò su cui tale modello venga impresso, esso è l’ἀντιτύπος, come si vedrà a breve.
4
CASPANI, Pane vivo, 139.
5
Sullo studio della tipologia biblica, Cfr MAZZA, Dall’ultima cena, 88-97.
6
CASPANI, Pane vivo, 140-141.
7
Ivi, 139.

12
si presenta come una «una qualità degli eventi della salvezza. È la realtà ad essere
tipologica»8; essa «privilegia il realismo dei riti, ossia il loro valore ontologico che li rende
atti a trasmettere quella medesima salvezza che si trova narrata negli eventi nella Scrittura» 9.
Nonostante il suo utilizzo in questioni prettamente cristiane, le origini della tipologia
sono però riscontrabili nel platonismo, la cui filosofia venne conciliata con l’ermeneutica
biblica da Filone Alessandrino e il cui influsso sui Padri, proprio in merito alle questioni
eucaristiche, è stato messo bene in luce da Alexander Gerken10: la tipologia, infatti, si rifà
alla «partecipazione» espressa da Platone nel Fedone in merito al rapporto uno-molteplice11.
Su questa scia, già Ireneo di Lione si era esplicitato sulla tipologia in questi termini:
«La figura e l’immagine secondo la materia e la sostanza sono talvolta diverse dalla realtà
che significano, ma secondo l’aspetto e i lineamenti devono osservare la somiglianza e grazie
a questa somiglianza mostrare per mezzo di ciò che è presente ciò che non è presente» 12.
Definendo il typos secondo l’accezione che qui interessa, esso è ciò a cui qualcosa, in
questo caso l’Eucaristia e la Sua celebrazione, fa riferimento: la cena di Cristo; se dunque il
typos è Cristo allora la celebrazione eucaristica è l’antitypos13. In terminologia latina, il typos
è veritas, l’antitypos è figura: infatti, «l’Eucaristia, proprio in quanto è figura, riproduzione
nelle parole e nei gesti, del rito agito nella cena di Gesù, ne è accesso, spazio di presenza» 14.
Volendo riassumere in una sola parola il rapporto tra typos/antitypos, veritas/figura si
potrebbe ricorrere al termine greco homoiōma, tradotto in latino con similitudo: in questo
modo si può comprendere meglio che è proprio la homoiōma-similitudo sussistente tra la

8
MAZZA, Dall’ultima cena, 91.
9
ID., «L’interpretazione del culto nella chiesa antica» in AA.VV., Celebrare il mistero di Cristo. Manuale
di liturgia I, CLV Roma 1993, 249.
10
Cfr GERKEN A., Teologia dell’Eucaristia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1978, 65-75.
11
«La distinzione dei due piani della realtà, intelligibile e sensibile, costituisce veramente la via maestra di
tutto il pensiero platonico e quindi non fa stupore se i Padri della Chiesa, che avevano appunto un problema
analogo a proposito del valore ontologico dei sacramenti, si sono serviti dei concetti già elaborati da Platone e
dal neoplatonismo (…). L’idea spiega, in senso ontologico, le cose sensibili che da essa dipendono», MAZZA,
Dall’ultima cena, 102-103.
12
IRENEO DI LIONE, Adversus hæreses II, 23: PG 7, 786-787.
13
Similmente, nella tipologia esegetica si dice che «un evento, un personaggio della storia della salvezza –
dell’AT – viene letto come prefigurazione di Cristo. Quel personaggio o evento viene definito figura/antitypos
che trova in Cristo la sua veritas/typos (…). Per cui si ha una prima direzione figura > veritas = AT > NT»,
CARRA Z., Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo, Cittadella Editrice,
Assisi 2018, 20-21; Cfr DE LUBAC H., Corpus Mysticum. L’Eucaristia e la Chiesa nel Medioevo, Jaka Book,
Milano 2018, 258-281; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 141-142.
14
CARRA, Hoc facite, 22; Cfr DE LUBAC, Corpus Mysticum, 61-81.

13
celebrazione eucaristica e l’ultima cena «che le unisce e rende quella (la celebrazione
eucaristica, ndr) presenza di questa (la cena di Cristo, ndr)»15.
Ritraducendo quanto detto in relazione alla categoria platonica della «partecipazione»,
infatti, è possibile rilevare che «l’antitipo partecipa ontologicamente del tipo (…). In quanto
modello caratterizzante, determinante e plasmatore, il tipo vive ed è presente all’interno
dell’antitipo e lo pervade. Ciò che vale del tipo vale anche dell’antitipo, seppure per
partecipazione, cosicché c’è una reale identità tra tipo e antitipo» 16;
Grazie alla tipologia è così possibile «garantire l’unità tra l’evento e il rito, superando
così il divario spazio-temporale tra il luogo, l’epoca e la forma dell’evento di salvezza e il
luogo, l’epoca e la forma del rito»17. In questo modo, «il “mistero” dell’Eucaristia annulla
la distanza di tempo che passa tra il primo avvenimento della salvezza e coloro che sono
presenti alla celebrazione, i quali vengono così introdotti personalmente nell’historia salutis
di Cristo. Ciò che avvenne semel nella storia, nel mistero avviene quotiescumque»18.
In sostanza, «l’istituzione dell’Eucaristia non è altro che la trasmissione del typos»19,
il quale si rende attuale tramite la consacrazione: è a questo punto che nella Patristica avviene
un passaggio fondamentale alla teologia della trasformazione20 o della consacrazione21.
Di particolare rilevanza è il De sacramentis di Ambrogio, nel quale è citata la sezione
Quam oblationem del Canone Romano22, in cui si trova scritto: «Fa’ che per noi questa
offerta sia ratificata, spirituale, gradita, perché è la figura del corpo e del sangue (quod est
figura corporis et sanguinis) del Signore nostro Gesù Cristo»23. La categoria di figura24 qui

15
CARRA, Hoc facite, 22.
16
MAZZA E., La celebrazione eucaristica. Genesi del rito e sviluppo dell’interpretazione, EDB, Bologna
2003, 83; Cfr CARRA, Hoc facite, 21.
17
ID., Dall’ultima cena, 96.
18
AA.VV., Anàmnsesis 3/2, 58. Questa espressione potrebbe essere considerata l’anello di congiunzione
della tipologia esegetica e rituale: per ulteriori modelli tipologici legati anche all’uso terminologico, Cfr
AA.VV., Anàmnsesis 3/2, 35-37 e 44-58, nonché Cfr DE LUBAC, Corpus Mysticum, 241-281 e 393-399.
19
MAZZA, Dall’ultima cena, 98.
20
Cfr AUER J., Il mistero dell’Eucaristia, Cittadella Editrice, Assisi 1972, 202.
21
Cfr CARRA, Hoc facite, 23-25; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 141-148; Cfr ID., Dall’ultima
cena, 100; Cfr GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 88-94.
22
Cfr MAZZA, Dall’ultima cena, 179-208; Cfr GRILLO A., Eucaristia. Azione rituale, forme storiche,
essenza sistematica, Queriniana, Brescia 2019, 192-195.
23
AMBROGIO, De sacramentis IV, 21: PL 16, 443.
24
Altrove è usato l’analogo similitudo: «Forse tu dici “non vedo l’aspetto visibile del sangue” (speciem
sanguinis). Ma ne ha anche la similitudine (sed habet similitudinem)», AMBROGIO, De sacramentis IV, 20: PL
16, 443; Cfr GRILLO, Eucaristia, 193-194.

14
applicata al pane e vino, è un tratto distintivo della sacramentaria di Ambrogio (così come
in seguito anche di Agostino); essa è l’elemento formale della sacramentalità25, dalla quale
emerge un dato fondamentale, molto importante per la riflessione eucaristica del XX secolo:
sostenere che l’offerta è il corpo e sangue di Cristo prima ancora delle parole dell’istituzione
significa che nella concezione eucaristica dell’epoca, il pane e il vino presenti sull’altare ma
non ancora “consacrati” sono già figura del corpo e sangue di Cristo in virtù del fatto stesso
che si stia celebrando l’Eucaristia26.
Tale concezione è ancora più esplicita allorquando Ambrogio scrive: «Tu forse dici:
“È il mio solito pane”. Ma questo pane è pane prima delle parole sacramentali; quando
interviene la consacrazione, da pane diviene carne di Cristo (ubi accesserit consecratio, de
pane fit caro Christi)»27. Questi passi di Ambrogio sono tali da far ritenere ad Andrea Grillo
la possibilità di trovare in esse «un’assonanza con testi posteriori e possiamo quasi vedere
anticipata addirittura in nuce una teoria della transustanziazione»28.
Erede di Ambrogio fu Agostino il quale, come altri Padri, discusse sull’Eucaristia in
prospettiva di unità ecclesiale29: Essa, difatti, è intesa come «il Sacramento del corpo di
Cristo ed è finalizzata alla comunione di tutto il Cristo, capo e membra» 30. Scrive Agostino:
«Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il
mistero di voi: ricevete il mistero di voi»31.
In merito alla presenza eucaristica, Agostino afferma l’identità del pane e del vino col
corpo e sangue di Cristo; infatti, nella catechesi di Pentecoste ai neofiti, egli sostiene che «si
vede una realtà e se ne intende un’altra (aliud videtur, aliud intelligitur)»32; ciò avviene per
mezzo della parola, infatti: «Il pane che voi vedete sull’altare, una volta che sia santificato

25
Cfr MAZZA, Dall’ultima cena, 98- 99.
26
Questa concezione verrà in seguito modificata con Gregorio Magno, per cui i doni divengono veritas di
Cristo solo dopo la consacrazione; Cfr CARRA, Hoc facite, 24-25; Cfr CASPANI, Pane vivo, 126-130.
27
AMBROGIO, De sacramentis IV, 14: PL 16, 439-440; Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 37.
28
GRILLO, Eucaristia, 194. In quest’ottica, le parole “consacratorie” sono esplicative della consacrazione,
la quale invece avviene durante tutta la preghiera sul pane e sul vino.
29
Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 40.
30
POWER D., Il mistero eucaristico. Infondere nuova vita alla tradizione, Queriniana, Brescia 1997, 192.
31
«Siate ciò che vedete, ricevete ciò che siete (Estote quod videtis, accipite quod estis)», AGOSTINO, Sermo
272: PL 38, 1246-1248; Cfr GRILLO, Eucaristia, 198. Interessante è la sintesi secondo cui «Agostino vede
simboleggiato nell’Eucaristia il Cristo mistico nel corpo mistico della Chiesa e quindi la Chiesa stessa», AUER,
Il mistero dell’Eucaristia, 203.
32
AGOSTINO, Sermo 272: PL 38, 1246-1248.

15
dalla parola di Dio, è il corpo di Cristo, e quel calice o piuttosto quanto il calice contiene,
una volta che sia santificato dalla parola di Dio, è il sangue di Cristo»33.
Una questione particolarmente rilevante in Agostino, la quale aprirà alle controversie
medievali sull’Eucaristia, è la terminologia di chiara impostazione neo-platonica: Agostino
distingue «tra modello e immagine (res e signum). Il sacramentum è signum, figura,
similitudo della realtà storica (res) di Gesù»34; in tal modo, Agostino «concepisce le realtà
materiali esclusivamente nei termini della loro relazione con quelle spirituali» 35.

I.1.2 La svolta allegorica e la controversia tra Pascasio e Ratramno


Le posizioni espresse da Ambrogio e Agostino portarono ad una duplice possibilità di
spiegazione dell’Eucaristia: una realistico-metabolica e l’altra segnico-simbolica36; questi
due “filoni” segnano il passaggio dalla tipologia all’allegoria, ovvero ad «un’interpretazione
fondata sulla somiglianza dell’azione si sostituisce una comprensione fondata sull’analogia
del contenuto»37, nonché una progressiva scissione tra il rito e la dottrina 38, proprio in quanto
il pane e il vino vengono considerati indipendentemente dal contesto celebrativo.
Amalario di Metz39, discepolo di Alcuino, ha contribuito in maniera notevole a questo
passaggio, interpretato da A. Gerken come «un rovesciamento del pensiero occidentale: dal
simbolismo dei Padri greci si passa al realismo cosificante dei germanici» 40. Tuttavia, il
punto di rottura tra la tipologia e l’allegoria è ben difficile da determinare come rivelano

33
AGOSTINO, Sermo 227: PL 38, 1099-1101; Cfr CASPANI, Pane vivo, 131-138; Cfr POWER, Il mistero
eucaristico, 194. Così, in Agostino, come in Ambrogio, è riscontrato il primato della parola: «Mediante la
parola di Cristo le cose naturali sono afferrate, private del loro specifico essere naturale e riempite dallo Pneuma
santo di Dio, in modo tale che in esse è presente Cristo (…). Questa posizione è detta realismo e metabolismo»,
MÜLLER G.L., Dogmatica cattolica, San Paolo, Torino 1999, 843. Per uno studio recente sul tema Cfr BOZZOLO
A. – PAVAN M., La sacramentalità della parola, Queriniana, Brescia 2020, 39-48.
34
MÜLLER, Dogmatica cattolica, 844. Per un’analisi approfondita sulla terminologia eucaristica usata da
Agostino Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 196-197.
35
POWER, Il mistero eucaristico, 193.
36
Cfr GRILLO, Eucaristia, 199. Le due spiegazioni possono anche dirsi realismo e spiritualismo, Cfr
POWERS, Teologia eucaristica, 42.
37
Ivi, 200-201.
38
Cfr Ivi, 204-205; Cfr DE LUBAC, Corpus Mysticum, 78; Cfr, CASPANI, Pane vivo, 154; Cfr MAZZA, La
celebrazione eucaristica, 161.
39
Per uno studio su Amalario, Cfr CRISTIANI M., «Simbolismo liturgico e mediazioni culturali. Il “Liber
Officialis” di Amalario di Metz e la dottrina del “corpus triforme”» in ID, Tempo rituale e tempo storico.
Comunione cristiana e sacrificio. Le controversie eucaristiche nell’alto medioevo, Centro Italiano di Studi
sull’Alto Medioevo, Spoleto 1997, 39-76; Cfr CASPANI, Pane vivo, 162-163.
40
CASPANI, Pane vivo, 153, riprendendo GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 99-107.

16
attenti studi di E. Mazza e A. Gerken41; ciò che si può rilevare, è che la tipologia ha
un’impostazione ontologica platonicamente ispirata, mentre l’allegoria si sofferma di più sul
rito come drammatizzazione della Passione, senza preoccuparsi dell’ontologia 42.
Questa “frammentazione” del rito in tanti passaggi rappresentati i momenti della
Passione, porterà Amalario ad elaborare la dottrina del triforme corpus Christi, secondo cui
le particole devono essere divise in base al loro utilizzo, ovvero l’immixtio, la comunione e
il viatico. Scrive Amalario stesso: «Per la particola immessa nel calice si mostra il corpo di
Cristo già risorto dai morti; per quella mangiata si mostra il corpo che ancora cammina sulla
terra; per quella lasciata sull’altare si mostra il corpo che giace nel sepolcro»43.
La visione di Amalario non toccò in sé la questione ontologica dell’Eucaristia44 ma
rimarcò il solco interpretativo tra il realismo e il simbolismo, portando di fatto alla prima
controversia eucaristica45, nonché ad un sempre maggiore mutamento dell’azione rituale 46.
Col passare del tempo, il realismo eucaristico venne confermandosi anche in relazione
all’Incarnazione, per cui «si dice che Gesù diventa pane così come diventò carne nel seno di
Maria»47, opponendosi così sempre più al simbolismo ereditato dai Padri.
In questo contesto teologico, nel IX secolo si assistette ad una controversia tra due
monaci appartenenti al monastero di Corbie: Pascasio Radberto e Ratramno, autori di due
opere dal titolo omonimo: De corpore et sanguine Domini. A far emergere la questione fu
la domanda posta addirittura da re Carlo il Calvo, il quale chiese se l’Eucaristia fosse il corpo
di Cristo in mysterio o in veritate, ovvero se lo fosse simbolicamente-figurativamente o
realmente-concretamente48.

41
Cfr MAZZA, «L’interpretazione del culto», 277-278; Cfr GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 284.
42
Cfr CASPANI, Pane vivo, 156; Cfr GARCIA IBAÑEZ A., L’Eucaristia, dono e mistero, Edusc, Roma 2015,
194; «Poiché la Messa è la celebrazione della Passione di Cristo, ogni singolo rito dell’Eucaristia dovrà
rappresentare una tappa della Passione di Cristo (…). La Messa viene interpretata come una grande
drammatizzazione della Passione di Cristo», MAZZA, La celebrazione eucaristica, 155.
43
AMALARIO, Liber Officialis, in HANSSENS I.M. (ed.), Amalarii Episcopi. Opera liturgica omnia II,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1950, 367-368.
44
Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 169. Nonostante ciò, la dottrina del triforme corpus Christi
venne accusata, dal concilio di Quierzy dell’853, di minare l’unità tra il corpo di Cristo e la Chiesa.
45
Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 48.
46
Cfr GRILLO, Eucaristia, 206-207; Cfr CASPANI, Pane vivo, 157-161.
47
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 169; Cfr FALSINI R., «La “trasformazione del corpo e del sangue
di Cristo”» in Studi francescani 52 (1955), 5-57.
48
Cfr D’ONOFRIO G., Storia della teologia nel medioevo I. I principi, Piemme, Casale Monferrato 1996,
197-384.

17
Alla domanda di Carlo il Calvo sono riconducili due risposte, una diametralmente
opposta all’altra: la prima fu appunto quella di Pascasio Radberto, il quale in verità redasse
la sua opera tra l’831 e l’833, prima che il re ponesse esplicitamente la domanda (cosa che
avvenne presumibilmente tra l’840 e l’860, anni del regno di Carlo), ma che servì a Ratramno
come modello per la risposta indirizzata direttamente al Sovrano.
Pascasio Radberto scrisse il suo De corpore et sanguine Domini49 su richiesta di Warin
I, abate di Corvey: in questo opuscolo egli, rifacendosi a Gv 6, 55 e ad Isidoro di Siviglia,
secondo cui sacramentum significa «sacrum secretum»50, Pascasio Radberto sostenne che
«nell’Eucaristia figura è ciò che percepiamo esteriormente mediante i sensi, cioè il pane e il
vino. La verità dell’Eucaristia, la sua natura profonda e invisibile, percepibile all’interno di
essa mediante la fede, è invece la carne di Cristo»51, la stessa carne nata da Maria;
l’Eucaristia è dunque per Pascasio «la carne fisica di Cristo che viene “velata” dalle
apparenze del pane e del vino»52. Conseguenza di ciò è che, metabolicamente, il fedele,
cibandosi del vero corpo i Cristo, ne assimili la carne ed il sangue53.
Tutto ciò è spiegato da Pascasio Radberto con queste parole:

«Nessuno dubita che a motivo della consacrazione del mistero si abbiano in verità corpo
e sangue di Cristo. Perciò colui che è la Verità dice: “La mia carne è veramente cibo e il mio
sangue è veramente bevanda” (Gv 6, 55). Ma poiché non è lecito che Cristo venga divorato
coi denti, volle che nel mistero questo pane e vino tramite la consacrazione dello Spirito Santo
siano creati potenzialmente come vera carne Sua e Suo sangue (…), cosicché come dalla
Vergine, tramite lo Spirito, senza coito, è stata creata vera carne, così, per mezzo dello stesso
Spirito, dalla sostanza del pane e del vino viene consacrato misticamente lo stesso corpo e
sangue di Cristo (…). Ciò che si avverte esteriormente è figura o impronta, ma ciò che si riceve
interiormente è in tutto e per tutto verità e nessuna apparenza. Perciò qui non si scopre altro
che la verità e il sacramento della carne. È dunque vera carne di Cristo che è crocifissa e
sepolta, il vero sacramento della carne di Lui, che tramite il sacerdote viene consacrato

49
Cfr PASCASIO RADBERTO, De corpore et sanguine Domini: PL 120, 1259-1350.
50
Cfr ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum sive Originum libri Viginti VI, 19: PL 82, 252-260; Cfr
CASPANI, Pane vivo, 166.
51
CASPANI, Pane vivo, 165.
52
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 170.
53
Cfr ID., Continuità e discontinuità. Concezioni medievali dell’Eucaristia a confronto con la tradizione
dei Padri e della liturgia, CLV Edizioni, Roma 2001, 213; Cfr CASPANI, Pane vivo, 166.

18
sull’altare nella parola di Cristo per mezzo dello Spirito Santo. Perciò il Signore stesso
dichiara: “Questo è il mio corpo”»54.

Con tale impostazione, estremizzando il realismo, Pascasio Radberto cade in maniera


inevitabile in un grossolano fisicismo che considera l’Eucaristia in maniera somatica 55.
«Pascasio Radberto procede ad una soluzione ispirata a un deciso realismo materialista
(…). Ratramno invece è il testimone di uno spiritualismo di matrice inversa, innestato su
una precisazione e delimitazione degli ambiti e delle potenzialità della logica umana»56.
In maniera del tutto diversa da Pascasio Radberto, nel suo De corpore et sanguine
Domini57, Ratramno, dal canto suo, espone la questione in questi termini:

«La Vostra Altezza illustrissima (Carlo il Calvo) chiede se ciò che viene assunto nella
chiesa dalla bocca dei fedeli, cioè il corpo e il sangui di Cristo, accada nel mistero oppure in
verità (in mysterio fiat an in veritate), cioè se contenga qualcosa di misterioso che si manifesti
solo agli occhi della fede o se invece, senza l’occultamento di alcun mistero, lo sguardo esterno
del corpo contempli la stessa cosa che la visione della mente osserva interiormente, in mondo
che tutto ciò che viene fatto diventi chiaro nella luce, e se sia lo stesso corpo nato da Maria,
che ha sofferto, è morto ed è stato sepolto, e che dopo la sua risurrezione e ascensione siede
alla destra del Padre (…). Quella carne, con la quale Cristo è stato crocifisso e sepolto, non è
mistero, ma verità di matura (veritas naturæ); invece questa carne, che ora, nel sacramento,
contiene una similitudine di quella, non è realmente carne, ma sacramento»58.

Semplificando, Ratramno rispose al quesito del Re sostenendo che «bisogna cambiare


la questione, dato che non si può opporre la veritas al mysterium. Il corpo eucaristico di
Cristo è sacramento del suo corpo storico (…). Bisogna distinguere il corpo storico di Cristo
dal corpo che è sull’altare: questo è figura perché è sacramento»59.

54
PASCASIO RADBERTO, De corpore et sanguine Domini IV, 1-5. 14-17. 78-85: PL 120, 1259-1350. «In
questa opera troviamo, in una formulazione ancora molto acerba, alcune premesse di quel modo di pensare la
presenza di Cristo che verrà chiamato transustanziazione», GRILLO, Eucaristia, 207.
55
Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 171; Cfr HOPING H., Il mio corpo dato per voi. Storia e teologia
dell’Eucaristia, Queriniana, Brescia 2015, 164-165; Cfr GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 102.
56
D’ONOFRIO G., Storia della teologia. L’età medievale, Piemme, Casale Monferrato 2003, 92; Cfr ID.,
Storia della teologia nel medioevo, 220-224; Cfr CARRA, Hoc facite, 27-28.
57
Cfr RATRAMNO, De corpore et sanguine Domini: PL 121, 125-170; Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia,
200-205; Cfr MAZZA, Continuità e discontinuità, 63-93; Cfr CASPANI, Pane vivo, 167-171.
58
ID., De corpore et sanguine Domini I, 5-7. 57; Cfr GRILLO, Eucaristia, 209.
59
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 172; Cfr CARRA, Hoc facite, 28.

19
In tal modo, dunque, Ratramno «considera il pane e il vino immagini reali del corpo
del Signore che, nella sua propria corporeità, è il vero corpo del sacramento dell’Eucaristia.
Il concetto eucaristico di figura dà a Ratramno la possibilità di distinguere, in modo più
chiaro di Radberto, tra il corpo sacramentale e il corpo storico»60, per cui, «nella realtà
figurata del sacramento è rappresentato il vero corpo del Signore. Il sacramento, secondo
tutta la sua realtà, è figura che partecipa realmente del corpo del signore. In questo senso
Ratramno parla di una trasformazione spirituale, non corporale. Il mutamento non è
percepibile ai sensi, ma avviene figurato»61.
Traendo le conclusioni di questa controversia, si può affermare che tra Pascasio e
Radberto «il problema non è la fede nell’identità tra l’Eucaristia e il corpo di Cristo (…).
Discutibili sono piuttosto i punti limite cui tali affermazioni conducono qualora vengano
sviluppate in modo rigorosamente consequenziale»62: se infatti Pascasio cadde in un
fisicismo estremo, Ratramno, dall’altra parte, cadde in un esagerato spiritualismo63.

I.2 La controversia berengariana e la «transustanziazione»


I.2.1 La controversia di Berengario di Tours
All’inizio dell’XI secolo, le controversie teologiche andarono inasprendosi anche a
causa dell’introduzione del linguaggio aristotelico nei dibattiti teologici 64.
In questo periodo, Berengario di Tours65, discepolo di Fulberto e maestro alla scuola-
cattedrale della città, ripercorrendo i passi tracciati da Ratramno col suo De corpore et
sanguine Domini, si rese protagonista della controversia eucaristica più importante
dell’epoca, tanto da essere citato da Tommaso d’Aquino come l’artefice dell’eresia secondo
cui «il corpo e il sangue di Cristo non sono nel Sacramento se non come segno»66.

60
HOPING, Il mio corpo dato per voi, 163.
61
Ivi, 164; Si può «concludere che il pane e vino sono corpo e sangue in figura, in modo misterioso,
nascosto, velato, non percettibile attraverso i sensi, ma creduto dalla fede», CASPANI, Pane vivo, 169.
62
CASPANI, Pane vivo, 171-172; Cfr MAZZA, Continuità e discontinuità, 92-93.
63
Il trattato di Ratramno infatti, data la sua ufficialità teologica in quanto risposta al re, venne condannato
nel sinodo di Vercelli del 1050; Cfr. CASPANI, Pane vivo, 172.
64
Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 50-51; Per un’analisi del metodo teologico usato nelle controversie
in quest’epoca, Cfr D’ONOFRIO, Storia della teologia nel medioevo, 380-452.
65
Il pensiero di Berengario è deducibile, come si vedrà, dalle sue due Confessio fidei e dai dibattiti coi suoi
avversari, soprattutto con Lanfranco di Bec; Cfr CASPANI, Pane vivo, 176-178.
66
ST III, 75, 1. Prima ancora, Tommaso aveva così sentenziato sul conto di Berengario in S CG IV, LXII;
Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 175.

20
Berengario, riprendendo Agostino67, opta per un’interpretazione dell’Eucaristia
simbolico-spiritualista, per cui, «nel mondo della corporeità nessuna trasformazione è
possibile senza un divenire della sostanza, ossia, senza la cessazione di esistenza delle
sostanze del pane e del vino e un inverso venire all’esistenza di quelle del corpo e del sangue,
è indispensabile negare che nel mistero avvenga una trasformazione sostanziale»68. Tuttavia,
«mentre Ratramno capì che non si può opporre la figura alla veritas e rifiutò quel modo di
impostare la questione, Berengario non comprese la portata del binomio figura-veritas,
accettò l’opposizione e fece la sua scelta in favore della figura»69.
Per Berengario, dunque, «i segni sacramentali diventano uno strumento più esteriore
per la ricezione spirituale nella fede del contenuto di questo sacramento (…). Tra il corpo
storico e il corpo sacramentale di Cristo non esiste alcuna intrinseca unità. L’unità si verifica
solo nella coscienza del credente»70.
In tal modo Berengario, negando la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, nega anche
di conseguenza la trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue, scindendo dunque
tra sacramentum res e saracmentum tantum (e dunque tra veritas e figura) per soffermarsi
su quest’ultima in maniera peculiare.
A causa di queste sue posizioni, Berengario venne denunciato all’autorità ecclesiastica
proprio come «negatore della realtà del Sacramento da due teologi già suoi compagni di
studio, intenzionati a difendere la memoria del comune maestro Fulberto»71.
L’accusa di eresia mossa nei confronti di Berengario giunse a Roma e, su insistenza
del cardinale Ildebrando di Soana, futuro papa Gregorio VII, egli fu forzatamente condotto

67
La teologia di Berengario «era fin dall’inizio subordinata alla sua analisi logica e grammaticale. Con la
sua cruda teoria pre-nominalista della conoscenza, Berengario non poteva distinguere fra realtà e apparenza, e
sosteneva che la mente vedeva le cose nella loro vera essenza e che, perciò, quanto era visto era la vera essenza
delle cose. Così, se quanto è visto sull’altare è pane, esso è pane (…). A sostegno della sua idea, egli insisteva
sulla definizione del sacramento derivata da Agostino: “il segno di una cosa sacra”. Ma mentre in Agostino, e
nella teologia patristica in generale, ciò significava che Iddio entra veramente nella vita dell’uomo assumendo
le cose terrene per dispensare la grazia, per Berengario tutto ciò significava che gli elementi materiali sono
soltanto segni astratti dell’azione di Dio sul credente. Mentre, nella teologia dei Padri, segno e realtà venivano
fatti coincidere fra di loro nell’ordine sacramentale, Berengario e i suoi contemporanei contrapponevano fra
loro segno e realtà», POWERS, Teologia eucaristica, 48-49.
68
D’ONOFRIO, Storia della teologia. Età medievale, 149.
69
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 176; Cfr CARRA, Hoc facite, 29; Cfr CASPANI, Pane vivo, 173-176;
Cfr GRILLO, Eucaristia, 210-211.
70
MÜLLER, Dogmatica cattolica, 846.
71
D’ONOFRIO, Storia della teologia. Età medievale, 149.

21
nell’Urbe72 dove, durante il Sinodo Lateranense del 1059, fu costretto ad abiurare e ad
accettare una Confessio fidei che confutasse il suo stesso pensiero:

«Io, Berengario, condanno ogni eresia (…): quella che si sforza di sostenere che il pane
e il vino che vengono posti sull’altare, dopo la consacrazione, sono solo il sacramento, e non
il vero corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, e che questo non può, se non nel solo
sacramento, attraverso i sensi essere toccato e spezzato dalle mani dei sacerdoti o masticato
dai denti dei fedeli (…) Con la bocca e con il cuore confesso di attenermi (…) a quella fede
trasmessa e confermata: cioè che il pane e il vino posti sull’altare, dopo la consacrazione, non
sono solo il sacramento, ma anche il vero corpo e sangue del nostro signore Gesù Cristo (non
solum sacramentum, sed etiam verum corpus et sanguinem), e attraverso i sensi, non solo nel
sacramento, ma in verità (sensualiter, non solum sacramento, sed in veritate), è toccato e
spezzato nelle mani dei sacerdoti e masticato dai danti ei fedeli»73.

Dopo il Sinodo del 1059, al fine di fugare ogni dubbio e scongiurare altre deviazioni
dottrinali, l’Eucaristia assunse la denominazione di Corpus Christi verum74. Nonostante ciò,
il dibattito teologico intorno alla questione eucaristica non si esaurì ma anzi divenne sempre
più prolifico per via di numerosi pensatori che si aggregarono alla questione, apportandone
il contributo. Tra questi merita menzione Lanfranco di Bec, che rappresenta la controparte
più significativa su questo fronte, il quale scrisse appositamente il De corpore et sanguine
Christi adversus Berengarium Turonensem 75, datato tra il 1063 e il 1068.
Nel testo, rimproverando a Berengario di «aver anteposto la verità della logica a quella
della fede»76, Lanfranco afferma:

«Crediamo che le sostanze terrene (…) sono trasformate nell’essenza del corpo del
Signore (converti in essentiam dominici corporis) in modo ineffabile, incomprensibile e
mirabile, per l’opera di una potenza superiore, mentre l’aspetto e alcune qualità delle cose
permangono (…). Tuttavia lo stesso corpo del Signore esiste in cielo alla destra del Padre,
immortale, inviolato, integro, immacolato, intatto. Perciò si può dire in verità che noi

72
Cfr HOPING, Il mio corpo dato per voi, 166.
73
DH 690.
74
Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 847.
75
Cfr LANFRANCO, De corpore et sanguine Christi adversus Berengarium Turonensem: PL 150, 407-442;
Cfr, HOPING, Il mio corpo dato per voi, 169-172.
76
D’ONOFRIO, Storia della teologia. Età medievale, 151.

22
nell’Eucaristia prendiamo lo stesso corpo che è stato generato dalla Vergine, e tuttavia non lo
stesso. Lo stesso per quanto concerne l’essenza e la proprietà e la forza della sua vera natura;
ma non lo stesso se consideri l’aspetto del pane e del vino e le altre cose esposte sopra» 77.

Lanfranco sostiene, dunque, che il cambiamento delle specie del pane e del vino in
corpo e sangue di Cristo «è completamente misterioso e che, mentre il corpo di Cristo rimane
in cielo intero, inviolato e intangibile, nello stesso tempo è veramente presente sull’altare» 78;
per cui «nell’Eucaristia non riceviamo la carne e il sangue di Cristo nel loro normale aspetto
sensibile (…). E il mutamento operato dalla consacrazione riguarda non le apparenze e le
qualità sensibili del pane e del vino che restano immutate, bensì l’essentia del pane e del
vino che si converte nell’essentia della carne e sangue di Cristo»79.
A questa tesi di Lanfranco 80 fece eco Guitmondo di Aversa, secondo il quale «il pane
e il vino sono cambiati substantialiter nel corpo e sangue di Cristo e nella comunione noi
riceviamo quel corpo in ipsa veritate substantiæ»81.
Berengario, poi, rispose alle accuse mossegli da Lanfranco con un libello, il
Rescriptum contra Lanfrancum, in cui però nono fece altro che riaffermare le sue vecchie
tesi82, abiurate con la Confessio fidei del 1059. Ciò lo portò ad essere nuovamente accusato
di eresia e a ripresentarsi al Sinodo Lateranense del 1079 per una nuova Confessio fidei:

«Io, Berengario, credo con il cuore e confesso con la bocca che il pane e vino che sono
posti sull’altare, in virtù del mistero della santa preghiera e delle parole del nostro Redentore,
sono trasformati sostanzialmente (substantialiter converti) nella vera e propria e vivificante
carne e sangue del nostro Signore Gesù Cristo e che dopo la consacrazione sono il vero corpo

77
LANFRANCO, De corpore et sanguine Christi: PL 150, 430; Cfr CASPANI, Pane vivo, 179; Cfr GARCIA
IBAÑEZ, L’Eucaristia, 211.
78
POWERS, Teologia eucaristica, 50.
79
CASPANI, Pane vivo, 178; Cfr D’ONOFRIO, Storia della teologia nel medioevo, 453-457.
80
«Lanfranco può concludere che, per un potere superiore a tutti quelli naturali introdotto dalla grazia
sacramentale, nell’Eucaristia mutano miracolosamente le sostanze del pane e del vino mentre le loro apparenze
accidentali permangono e restano visibili dopo l’avvenuta trasformazione sostanziale», D’ONOFRIO, Storia
della teologia. Età medievale, 152.
81
CASPANI, Pane vivo, 179. «Guitmondo oppone la substantia del corpo di Cristo presente sull’altare alle
qualitates sensuales o accidentia di cui essa è rivestita», Cfr Ibidem; Cfr GUITMONDO, De corporis et sanguinis
Christi in veritate Eucharistia: PL 149, 1488; Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 847.
82
«Nel suo scritto, Berengario concorda con Lanfranco che il sacrificio eucaristico non sia una ripetizione
del sacrificio di Cristo sulla croce. Sulla questione della presenza reale somatica di Cristo nei doni del pane e
del vino invece, Berengario prende chiaramente le distanze da Lanfranco. La presenza del corpo di Cristo in
cielo esclude che sia contemporaneamente presente sull’altare», HOPING, Il mio corpo dato per voi, 170.

23
di Cristo, che nacque dalla Vergine e che per la salvezza del mondo fu appeso alla croce, e che
siede alla destra del Padre, e il vero sangue di Cristo che fu effuso dal suo fianco, non soltanto
mediante il segno e la forza del sacramento, ma nella proprietà della natura e nella verità della
sostanza»83.

La novità espressa dalla seconda Confessio fidei di Berengario del 1079 «è costituita
dall’affermazione secondo cui il pane e il vino si convertono sostanzialmente (substantialiter
converti) nella vera carne e sangue dei Signore. Il riferimento è dunque a una mutazione del
pane e del vino che avviene a livello della loro sostanza»84.
Tra la prima e la seconda Confessio fidei di Berengario si assiste ad un passaggio «da
un’espressione di crudo realismo ad una più equilibrata affermazione di verità sostanziale,
su cui lavorerà a lungo il secolo successivo»85. Di contro, dunque, appare chiaro come la
posizione espressa da Lanfranco possa ritenersi un’efficace punto di mediazione e di ponte
verso le future riflessioni teologiche, difatti «soltanto con la risposta più qualificata di
Lanfranco, venne affermata adeguatamente la fede della Chiesa»86.

I.2.2 Gli sviluppi della dottrina eucaristica e il Concilio Lateranense IV


Tra il XII e il XIII secolo, la teologia eucaristica e quella sacramentaria generale ebbero
un notevole sviluppo che mirò a chiarificare tutto ciò che era emerso nelle controversie dei
due secoli precedenti.
Già Ugo di San Vittore, nel suo De sacramentis christianæ fidei, rilevò che la realtà
sacramentale è costituita dalla presenza di due elementi fondamentali: «l’aspetto esteriore,
visibile e materiale (il sacramentum), che è segno dell’aspetto interiore, invisibile e spirituale
(la res sive virtus sacramenti)»87. A mediare/legare questi due elementi/momenti è la

83
DH 700; Cfr DE LUBAC, Corpus Mysticum, 187-191.
84
CASPANI, Pane vivo, 178
85
GRILLO, Eucaristia, 211.
86
POWERS, Teologia eucaristica, 49. Il successo di Lanfranco «è dovuto alla luminosa semplicità del suo
metodo e, conseguentemente, della lucida soluzione da lui offerta in perfetto accordo con il dettato del dogma
ad un problema teologico particolarmente difficile. Il successivo dialogo tra i teologi medievali sull’argomento
eucaristico fu decisamente orientato da questo suo contributo verso un progressivo raffinamento del linguaggio
filosofico che lo esprime», D’ONOFRIO, Storia della teologia nel medioevo, 457.
87
CASPANI, Pane vivo, 182. «Il sacramento è un elemento corporeo o materiale, proposto in maniera esterna
e sensibile, che in forza della somiglianza rappresenta, in forza dell’istituzione significa, in forza della
santificazione contiene una qualche grazia invisibile e spirituale», UGO DI SAN VITTORE, De sacramentis
christianæ fidei I, IX, 2: PL 176, 317.

24
santificazione, ovvero «l’atto rituale con cui l’elemento corporeo e materiale viene
benedetto. Essa risulta quindi essere il costitutivo formale della sacramentalità (…). In
questa prospettiva, il sacramento viene fondamentalmente identificato con la materia»88.
In merito all’Eucaristia, invece, trattata nella sezione De sacramento corporis et
sanguinis Christi, Ugo distinse tre aspetti del Sacramento: «l’aspetto esteriore visibile (la
species visibilis), la verità del corpo (la veritas corporis) e l’efficacia della grazia spirituale
(la virtus gratiæ spiritualis)»89.
Questa tripartizione venne ripersa poi nella Summa sententiarum, databile intorno al
1140 e secondo alcuni scritta dallo stesso Ugo90:

«È opportuno considerare tre cose: una che è solo sacramento (unum quod est
sacramentum tantum), un’altra che è sacramento e realtà del sacramento (alterum quod est
sacramentum et res sacramenti), una terza che è solo realtà (tertium quod est res tantum).
Sacramento e non realtà (sacramentum et non res) sono le specie visibili, cioè quelle del pane
e del vino, e le cose che qui sono visibilmente celebrate, come la frazione, la deposizione,
l’elevazione (…). Sacramento e realtà (sacramentum et res) è lo stesso corpo e sangue di
Cristo: realtà in rapporto a quelle specie dalle quali è significato. Ma questa realtà, a sua volta,
è sacramento di un’altra, cioè dell’unità del capo e delle membra che la fede nel corpo e sangue
del Signore realizza; e questa realtà del sacramento (res sacramenti) è chiamata efficacia
(virtus). È detta anche carne spirituale di Cristo (spiritualis caro Christi)»91.

Qui, il rapporto tra il segno visibile e la grazia invisibile viene delineato in termini di
efficacia: infatti, «il segno sacramentale non si limita a significare la grazia, ma la conferisce;

88
CASPANI, Pane vivo, 183; Cfr MAZZA, Continuità e discontinuità, 121.
89
Ibidem; «(I sensi percepiscono) l’aspetto esteriore del pane e del vino; ciò che noi crediamo presente
sotto quell’aspetto esteriore è il vero corpo di Cristo che fu appeso alla croce e il vero sangue di Cristo che uscì
dal suo fianco. Né crediamo che attraverso il pane e il vino, il corpo e il sangue sono soltanto significati; ma
crediamo che sotto l’aspetto esteriore del pane e del vino sono consacrati il vero corpo e sangue, e che l’aspetto
esteriore visibile è sacramento del vero corpo e del vero sangue; invece il corpo e il sangue sono sacramento
della grazia spirituale», UGO DI SAN VITTORE, De sacramentis christianæ fidei II, VIII, 7: PL 176, 466; Cfr
GRILLO, Eucaristia, 213-214; Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 266-267.
90
Cfr MAZZA, Continuità e discontinuità, 135-143.
91
UGO DI SAN VITTORE, De sacramentis christianæ fidei II, VI, 3: PL 176, 140. «Il primo elemento della
struttura è rappresentato dal sacramentum tantum, che comprende tutto ciò che fa parte del rito celebrato (…).
La res di cui pane e vino sono sacramentum è costituita dal corpo e sangue di Cristo. Non si tratta però della
res ultima e definitiva, dal momento che corpo e sangue di Cristo, a loro volta, sono sacramentum di un’altra
res, che è l’unità delle membra col capo, denominata anche “carne spirituale di Cristo”: è questa la res tantum,
la realtà ultima, definitiva dell’Eucaristia», CASPANI, Pane vivo, 185; Cfr GRILLO, Eucaristia, 214.

25
e non si identifica più con l’elemento materiale, ma consiste nel gesto con cui tale elemento
viene applicato»92.
La realtà sacramentale dell’Eucaristia nella sua compiutezza, perciò, emerge solo se
considerata nella sua unità tra questi tre elementi: sacramentum tantum, res et sacramentum,
res tantum. Queste distinzioni terminologiche saranno di grande importanza nei secoli
successivi, tanto da rientrare nel linguaggio classico usato dalla Scolastica93.
A tal proposito, un posto di rilievo è occupato da Pietro Lombardo il quale, con i suoi
quattro Sententiarum libri, divenne il principale punto di riferimento, insieme alla Scrittura,
per i teologi medievali, tra i quali Tommaso d’Aquino.
Del Lombardo94, va notata anzitutto la precisazione secondo cui «il sacramentum
consiste non solo nell’elemento corporeo ma anche nella formula che accompagna la
celebrazione»95 (in quanto parte attiva nel processo di santificazione), nonché l’affermazione
circa la catalogazione settenaria dei sacramenti96.
Particolarmente rilevante, però, è proprio la straordinaria sintesi che il Lombardo fa
della tripartizione dell’Eucaristia, consegnandola con chiarezza ai posteri così formulata97:

«Uno che è solo sacramento (tantum est sacramentum), un altro che è sacramento e
realtà (sacramentum et res) e un terzo che è realtà e non sacramento (res et non sacramentum).
Il sacramento e non realtà è la specie visibile del pane e del vino; il sacramento e realtà è la
carne e sangue propri di Cristo; la realtà e non sacramento è la Sua carne mistica»98.

In questo quadro generale sulla Sacramentaria, emerse chiaramente che «l’Eucaristia


si distingue da tutti gli altri sacramenti: infatti, i segni sacramentali contengono in sé, in virtù

92
CASPANI, Pane vivo, 184; Cfr Summa sententiarum IV, 1: PL 176, 117.
93
Ivi, 185-186.
94
Per alcuni punti di vista, Cfr GRILLO, Eucaristia, 215; Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 267; Cfr
POWERS, Teologia eucaristica, 51.
95
CASPANI, Pane vivo, 187; «È detto infatti sacramento in senso proprio ciò che è segno della grazia di Dio
e forma della grazia invisibile in modo tale da portarne l’immagine ed esserne la causa (sacramentum enim
proprie dicitur, quod ita signum est gratia Dei et invisibilis gratæ forma, ut ipsius imaginem gerat et causa
existat). Pertanto i sacramenti non sono stati istituiti solo per significare ma anche per santificare. Quelli che
sono stati istituiti solo per significare sono solamente segni e non sacramenti», PIETRO LOMBARDO,
Sententiarum libri quatuor IV, 1, 2: PL 192, 839.
96
PIETRO LOMBARDO, Sententiarum libri quatuor IV, 1, 2: PL 192, 841-842.
97
Sulla tripartizione nella scolastica Cfr MIRALLES A., I sacramenti cristiani. Trattato generale, Apollinare
Studi, Roma 1999, 204-206.
98
PIETRO LOMBARDO, Sententiarum libri quatuor IV, 8, 4: PL 192, 857.

26
della consacrazione, la presenza corporea di Cristo e non solo la sua presenza negli effetti
della grazia come negli altri sacramenti»99. Il Lombardo, poi, introdusse anche un’ulteriore
distinzione, totalmente nuova, «ossia quella tra una res significata e contenuta da una parte,
ed un res significata ma non contenuta dall’altra. La prima è il corpo storico e sacramentale
di Cristo (caro propria), il secondo il corpo ecclesiale di Cristo (caro mystica)»100.
Ad esplicazione della concezione di trasformazione del pane e vino in corpo e sangue,
andarono affermandosi espressioni quali «substantia converti» e «transubstantiatio», al fine
di far comprendere la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia 101.
Il termine transustanziazione, quindi, a differenza di quanto pensasse Lutero102, non
fu coniato da Tommaso d’Aquino, ma era presente nel linguaggio teologico fin dal 1100
circa: pare, infatti, che esso sia stato usato per la prima volta nel 1140 circa, nelle Sentenze
del maestro Rolando, in cui venne impiegato per indicare «il passaggio che la consacrazione
opera dalla sostanza del pane e del vino a quella del corpo e sangue di Cristo; passaggio che
lascia immutate le specie, cioè le proprietà sensibili dei cibi eucaristici»103.
Ancora, altre testimonianze sull’uso del termine sono riscontrabili nel De sacramento
altaris di Baldovino di Ford104, databile intorno al 1120-1190, o ancora nella lettera del 1202
Cum Marthæ indirizzata da Innocenzo III al vescovo Giovanni di Lione proprio in merito
alla forma dell’Eucaristia, ai suoi elementi costitutivi e alla destinazione ecclesiale 105.
L’ufficialità della dottrina della transustanziane e la terminologia ad essa correlata, si
ebbe con il Concilio Lateranense IV del 1215106. La preoccupazione preliminare del Concilio
fu quella di redigere una Confessio fidei contro gli eretici (Valdesi, Albigesi e Gioachimiti),

99
MÜLLER, Dogmatica cattolica, 848.
100
GRILLO, Eucaristia, 215.
101
Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 847.
102
Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 51; Cfr DE LUBAC, Corpus Mysticum, 187-216; Cfr GARCIA IBAÑEZ,
L’Eucaristia, 214-221. Il termine transustanziazione si trova solo 4 volte nella Summa Theologiæ e ben 88 nel
Commentum Sententiarum, a testimonianza del fatto che Tommaso mostrasse una certa riservatezza in merito,
senza nemmeno fidarsi della sua correttezza, Cfr CASPANI, Pane vivo, 205, nota 130.
103
CASPANI, Pane vivo, 193-194.
104
Cfr Ivi, 194. In quest’opera, Baldovino sostiene che a cambiare non è appunto la specie ma la sostanza,
Cfr GRILLO, Eucaristia, 215.
105
Cfr DH 782-783; Cfr GRILLO, Eucaristia, 216-217. Per altre testimonianze sull’uso del termine, ad
esempio nel De sacramentis mysterio scritto da Innocenzo III quando era diacono, o nel Liber de divini Officiis
di Ruperto di Deutz, Cfr HOPING, Il mio corpo dato per voi,174-178.
106
Cfr JEDIN H, Breve storia dei Concili, Morcelliana, Brescia 1983, 71-75; Cfr HOPING, Il mio corpo dato
per voi, 176.

27
nella quale proclamare solennemente, ufficialmente e universalmente i principali e
indiscutibili punti della dottrina cristiana. Ed è proprio in questa Confessio che è riscontrabile
il termine «transubstantiationis» e la dottrina ad esso collegata107:

«Una è la Chiesa universale dei fedeli, fuori della quale nessuno assolutamente si salva
e nella quale lo stesso Gesù Cristo è sacerdote e vittima; infatti il suo corpo e il suo sangue
sono contenuti (continentur) veramente nel sacramento dell’altare, sotto la specie (sub
speciebus) del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato (transubstantiatis) nel corpo e
il sangue nel vino per divino potere; cosicché, per adempiere il mistero dell’unità, noi
riceviamo da lui ciò che lui ha ricevuto da noi»108.

Se i teologi del tempo furono pressoché unanimi nel sostenere la dottrina così come fu
presentata dal Concilio, diversamente avvenne nel modo di concepirla: alcuni teologi, de
facto, sostennero che la sostanza del pane e del vino venisse, sul piano logico, sostituita da
quella del corpo e del sangue, annichilendola; altri ancora, ritennero che la sostanza del pane
e del vino coesistesse con quella del corpo e del sangue. In quest’ultimo caso si affermò
l’ipotesi dell’impanazione o della consustanziazione, secondo cui tra il pane-vino e il corpo-
sangue ci fosse una specie di unione ipostatica analoga all’Incarnazione 109.

I.3 L’Eucaristia in genere signo et causa nella Summa Theologiæ


I.3.1 La ratio sacramenti tommasiana nel contesto devozionistico medievale
La Scolastica degli anni successivi al Concilio Lateranense IV attribuirà al termine
transustanziazione un senso tecnico: esso «continuerà a svilupparsi nel secolo XIII con la
ricezione dell’ilemorfismo aristotelico»110. L’evoluzione della dottrina sulla conversione del
pane e del vino in corpo e sangue di Cristo dalla controversia berengariana ai pronunciamenti
del concilio di Trento111, trova il suo apice in Tommaso d’Aquino.

107
Cfr SESBOÜÉ B. – BOURGEOIS H. – TIHON P., Storia dei dogmi III. I segni della salvezza, XII-XX secolo,
Piemme, Casale Monferrato 1998, 103-105; Cfr CASPANI, Pane vivo, 197-200.
108
DH 802. Il testo riporta chiaramente la sintesi tra due dimensioni dell’Eucaristia, quella sacramentale e
quella ecclesiale, Cfr GRILLO, Eucaristia, 216. Questa interpretazione verrà confermata da Benedetto XII nel
1342 (Cfr DH 1081) e poi a Trento, come si vedrà in seguito.
109
Cfr CASPANI, Pane vivo, 195; Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 850-851; Cfr HOPING, Il mio corpo
dato per voi, 177. Molte di queste posizioni nacquero dal problema circa la localizzazione, ovvero su come
fosse possibile la transustanziazione in modo simultaneo e in molti luoghi.
110
GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 218; Cfr SESBOÜÉ, Storia dei dogmi III, 104.
111
Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 301-310.

28
Tommaso espresse il suo contributo in merito all’Eucaristia e ai sacramenti in generale
in varie opere: nel Commentum Sententiarum Petri Lombardi (scritte a Parigi tra il 1252 e il
1256), nella Summa contra Gentiles (scritta a Parigi, Napoli e Orvieto tra il 1259 e il 1264)
e nel De articulis fidei et Ecclesiæ sacramentis ad archiepiscopum Panormitanum (scritto a
Orvieto tra il 1261-1265)112.
Vertice del pensiero speculativo tommasiano, però, è la Summa Theologiæ, scritta
dall’Aquinate come iniziativa per facilitare lo studio della teologia ai suoi studenti mentre
era Maestro reggente a Roma: la sua stesura ricoprì un arco di tempo molto vasto, dal 1266
al 1273; la trattazione dei sacramenti in genere e in specie si trova nella tertia pars della
Summa, la cui scrittura venne iniziata da Tommaso a Parigi nella primavera del 1272 e
interrotta bruscamente a Napoli il 6 dicembre 1273, allorquando, a seguito di una visione,
egli non volle più scrivere nulla, dichiarando che, in confronto a ciò che aveva visto, le sue
opere erano paglia113.
Prima di esaminare in breve la trattazione sacramentaria dell’Aquinate, però, è
interessante delineare quello che fu l’ambiente culturale-religioso, nonché cultuale-rituale in
cui Tommaso visse e scrisse, in riferimento proprio alla devozione eucaristica medievale e
alla maturanda sensibilità per il Sacramento114.
A partire dall’XI secolo, con l’esclusione dei fedeli dall’attiva partecipazione alla vita
liturgica della Chiesa, si crearono altre forme di partecipazione cultuale, le quali potrebbero
essere definite “parallele” a quelle oramai divenute esclusive dei presbiteri. Queste nuove
forme, dunque, «in certo modo, cercano di supplire e di rendere possibile l’espressione della
fede e della volontà dei cristiani di rimanere, nonostante tutto, congiunti col Cristo celebrato
nella liturgica»115.
Per i motivi di cui sopra, nella celebrazione della Messa, alla comunione sacramentale
si sostituì la devozione eucaristica: infatti, con l’avvento della Messa cosiddetta “privata”,
culmine del processo di clericalizzazione ecclesiale-liturgico, i fedeli vennero ostracizzati

112
Cfr WEISHEIPL J.A., Tommaso d’Aquino. Vita, opere, pensiero, Jaka Book, Milano 2016, 365-401. Per
un’analisi generale della sacramentaria di Tommaso d’Aquino, Cfr LAMERI A. – NARDIN R., Sacramentaria
fondamentale, Queriniana, Brescia 2020, 159-171.
113
Cfr Ivi, 324-325.
114
Circa la liturgia nella Patristica e nella Scolastica, Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 203-221.
115
NEUNHEUSER B., Storia della liturgia attraverso le epoche culturali, CLV Edizioni, Roma 1999, 118.

29
dalla partecipazione alla Messa, tanto che, deviando il quid del sacrificio eucaristico in sé,
«l’elevazione dell’ostia diventa per molti il momento in cui la celebrazione raggiunge
visibilmente il suo culmine (…). Essa ha lo scopo di permettere a tutti i fedeli di vederla e
di adorare il Signore presente»116.
A contribuire notevolmente alla devozione eucaristica medievale vi fu un certo numero
di miracoli, legati alla trasformazione dell’ostia in carne viva sanguinante: il più celebre di
questi fu senz’altro quello avvenuto a Bolsena nel 1263. Questo evento ebbe una risonanza
tale da indurre presumibilmente papa Urbano IV ad introdurre nella Chiesa la festa del
Corpus Domini (Festum Sanctissimi Corporis Christi)117, vedendo in questo miracolo anche
la conferma alla dottrina della transustanziazione, tramite la quale «Gesù Cristo è presente
con noi nella sua propria sostanza»118.
Nell’introdurre i sacramenti, Tommaso, poiché le undici questioni della Summa circa
il trattato sull’Eucaristia «non possono essere intese appieno se non vengono inserite nel
quadro della sacramentaria generale»119, scrive: «Dopo aver esaminato tutto ciò che riguarda
il mistero del Verbo Incarnato (qq.1-59, ndr), dobbiamo prendere in considerazione i
sacramenti della Chiesa, che traggono la loro efficacia dal Verbo incarnato stesso (quae ab
ipso Verbo incarnato efficaciam habent)»120. In questo contesto, l’Aquinate definisce «i
sacramenti “le reliquie della passione di Cristo”, poiché è attraverso i sacramenti che entrano
nei nostri cuori i frutti della redenzione»121.
Riprendendo Agostino122, Tommaso sostenne che «si può chiamare sacramento
qualcosa (…) perché ha qualche rapporto in ordine a questa santità (…). Ora, parliamo in

116
HOPING, Il mio corpo dato per voi, 186-187. «Il desiderio della visione (…) portò con sé anche lo
sviluppo di concezioni discutibili, come quella, per esempio, che la semplice visione dell’ostia consacrata
avesse lo stesso valore della partecipazione alla Messa», Ivi, 188; Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 52; Cfr
NEUNHEUSER, Storia della liturgia, 118-121; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 176-181; Cfr CARRA,
Hoc facite, 90-111.
117
L’introduzione della festa del Corpus Domini avvenne con la bolla Transiturus de hoc mundo delll’11
agosto 1264, Cfr DH 846-847.
118
DH 846.
119
GRILLO, Eucaristia, 217; Cfr CENTI T., Introduzione in La Somma teologica XXVIII. L’Eucaristia,
Salani Editore, Milano 1971, 10-13; Cfr GRILLO A. – PERRONI M. – TRAGAN P.-R. (edd.), Corso di teologia
sacramentaria II. I sacramenti della salvezza, Queriniana, Brescia 2002, 65-92.
120
ST III, 60, prologo; Cfr WEISHEIPL, Tommaso d’Aquino, 262.
121
WEISHEIPL, Tommaso d’Aquino, 317.
122
«Tommaso è l’erede e, in qualche modo, il perfezionatore del pensiero teologico di Agostino e, per
mezzo di lui, di tutta la tradizione simbolica, teologica, liturgica della patristica antica, nonché del pensiero del

30
particolare dei sacramenti, in quanto comportano la relazione del segno. Ed è in base a ciò
che il sacramento è posto nel genere del segno»123; di conseguenza, «si dice propriamente
sacramento ciò che è segno di una cosa sacra (signum rei sacræ), riguardante gli uomini, di
modo che, cioè, si dica propriamente sacramento (…), in quanto essa santifica gli uomini» 124.
Da ciò si comprende come il segno appare come «chiave di volta della teologia matura di
Tommaso in tutto il trattato dei sacramenti in genere e in specie» 125.
Prosegue Tommaso: «Si dice propriamente sacramento ciò che è ordinato a significare
la nostra santificazione. E in questa si possono considerare: la stessa causa della nostra
santificazione, qual è la passione di Cristo; la forma della nostra santificazione, che consiste
nella grazia e nelle virtù; e il fine ultimo della nostra santificazione, qual è la vita eterna»126.
Perciò, al fine di ottemperare alla santificazione dell’uomo, il sacramento continua ad essere
definito dall’Aquinate come un segno sensibile, «mediante cui si giunge alla conoscenza di
un’altra cosa»127; perciò, esso è spiegato da Tommaso applicando la dottrina ilemorfica: le
realtà sensibili sono infatti la materia e le parole sono la forma. Nello specifico, come si
vedrà nel secondo capitolo, le parole nell’istituzione dei sacramenti sono necessarie per tre
ragioni, ovvero «perché essi devono conformarsi al Verbo, che ne è la causa (…); perché
devono conformarsi all’uomo, di cui sono medicina spirituale (…); perché devono
conformarsi alla loro natura, che è di essere segno sacramentale» 128.
Continuando, Tommaso afferma il ruolo e la necessità dei sacramenti nell’historia
salutis, esplicitandone gli effetti: egli specifica che il principale effetto dei sacramenti è la
grazia, nella quale sono riscontrabili due cause, una principale o agente e l’altra strumentale:

primo medioevo», VAGAGGINI C., Il senso teologico della liturgia, Edizioni Paoline, Roma 1965, 540; Cfr
POWER, Il mistero eucaristico, 268-269.
123
ST III, 60, 1.
124
ST III, 60, 2.
125
VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, 540. Da ciò ne deriva che «la spiegazione dei sacramenti
è imperniata sul segno proprio a ognuno come espressione della grazia particolare che conferisce», Ivi, 541.
126
ST III, 60, 3. «Ogni sacramento è un segno triplice: rememorativo, dimostrativo e prenunziativo», DAL
SASSO G. – COGGI R., Compendio della Somma Teologica, ESD, Bologna 1991, 395.
127
ST III, 60, 4. La santificazione è ordinata al culto (Cfr ST III, 60, 5 e 63, 6): questo spiegherebbe anche
la preoccupazione di Tommaso d’Aquino di spiegare ogni sacramento considerandone l’aspetto liturgico, Cfr
VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, 545-555.
128
DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 396. Vi è qui una «spiegazione della
composizione di ogni sacramento di una cosa sensibile ulteriormente determinabile (res) e di un elemento
ulteriormente e specificatamente determinante il suo significato speciale per ogni sacramento (verbo)»,
VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, 540; Cfr ST III, 60, 6-8.

31
«La causa principale, opera in virtù della sua forma (…). E in questo modo non può causare
la grazia se non Dio (…). Invece la causa strumentale non agisce in virtù della sua forma,
ma solo grazie al moto con cui è mossa dall’agente principale» 129. In questo modo, dunque,
l’Aquinate afferma che «la grazia perfeziona l’essenza dell’anima (gratia perficit essentiam
animæ), poiché partecipa di una certa somiglianza con l’essere divino (partecipat quandam
similitudinem divini esse)»130. Causa efficiente della grazia, invece, è la passione di Cristo:
infatti, «il sacramento opera sotto forma di strumento al fine di causare la grazia. Ora, lo
strumento è di due tipi: uno è congiunto (…), un altro è separato»131; se, dunque, i sacramenti
sono strumento separato di Dio, Cristo ne è strumento congiunto.
Oltre alla grazia, il secondo effetto dei sacramenti è il carattere, il quale «comporta
una certa potenza spirituale, ordinata alle cose che appartengono al culto divino» 132. Ebbene,
il carattere è il segno indelebile di Cristo sul fedele, il quale è a sua volta «partecipazione del
sacerdozio di Cristo nei suoi fedeli, di modo che, cioè, come Cristo ha il pieno potere del
sacerdozio spirituale, così i suoi fedeli si configurano a lui, perché partecipano di un certo
potere spirituale riguardo ai sacramenti e a quelle cose che appartengono al culto divino» 133.
Avendo sostanzialmente lasciato in sospeso il problema circa la causa strumentale
nella q.62, Tommaso lo riprende, ribandendo nuovamente che esclusivamente Dio è l’agente
principale del sacramento e della santificazione che da esso deriva 134; tuttavia, il presbitero,
in quanto ministro, è da considerarsi causa «alla stregua di strumento», per cui «l’uomo può
operare (…) in quanto opera come opera un ministro»135.

I.3.2 La sacramentalità e il primato dell’Eucaristia, tra poesia e teologia


Alla luce di quanto sopra delineato, in definitiva, tutto il discorso dell’Aquinate sulla
sacramentaria generale è necessario per rilevare come l’Eucaristia, sfuggendo alla logica

129
ST III, 62, 1; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 188-189.
130
ST III, 62, 2; Cfr GARRIGOU-LAGRANGE R., La sintesi tomistica, Fede&Cultura, Verona 2017, 263.
Nello specifico, sugli effetti dell’Eucaristia, Cfr ST III, 79.
131
ST III, 62, 5.
132
ST III, 63, 2.
133
ST III, 63, 5.
134
Cristo è qui da ritenersi, invece, come detto sopra, causa efficiente in quanto ebbe il potere di operare la
santificazione non come uomo ma come Dio, Cfr ST III, 63, 2-3.
135
ST III, 64, 1. Interessanti e importanti sono le precisazioni di Tommaso in merito alla retta intenzione
del ministro nell’amministrare i sacramenti, Cfr ST III, 64, 8-10.

32
della necessità, ma incastonato, come si vedrà a breve, nella logica della staticità, sia «il più
importante tra i sacramenti (…). Questo perché: in essa è contenuto sostanzialmente lo stesso
Cristo; invece negli altri sacramenti è contenuta una certa virtù strumentale partecipata da
Cristo (…). Tutti gli altri sacramenti sembrano essere ordinati a questo sacramento come a
fine (…). Tutti i sacramenti trovano il loro coronamento nell’Eucaristia» 136: Essa, riassume
Tommaso, è «il fine/la fine di tutti i doveri (finis omnium officiorum)»137.
Ora, negli anni in cui compose il trattato sull’Eucaristia, Tommaso d’Aquino si trovava
a Orvieto, presso la corte papale ivi locata: molto probabilmente questo fu uno dei motivi
per cui proprio Urbano IV incaricò l’Aquinate di comporre un Officium in occasione della
festa del Corpus Domini138, della cui istituzione si è sopra accennato: frutto del suo lavoro
fu la celebre sequenza Lauda Sion e gli inni Pange lingua gloriosi per il vespro, Sacris
sollemnis per il mattutino e Verbum supernum per le lodi.
Con la loro composizione, unitamente all’inno Adoro Te devote, di fatto, Tommaso si
rese portavoce del devozionismo del suo tempo, enunciando poeticamente la comprensione
allora vigente del Sacramento; inoltre, tramite la composizione degli inni, venne ancor di più
«rafforzato il realismo eucaristico della dottrina della transustanziazione, dando espressione
poetica all’adorazione e alla venerazione dell’Eucaristia»139. L’Officium, così, rappresenta,
nella riflessione eucaristica tommasiana, un momento focale della maturazione concettuale
e terminologica culminata poi nella Summa140.

136
ST III, 65, 3.
137
Cfr Ibidem. «L’Eucaristia non è necessaria, né assolutamente né relativamente, perché partecipa del fine
per cui gli altri sacramenti sono necessari. In rapporto cioè all’Eucaristia, che il fine e la fine, tutti gli altri sono
mezzi e mediazioni. L’Eucaristia è allo stesso tempo più che necessaria e meno che necessaria, e per questo
risulta il sacramento più importante», GRILLO, Eucaristia, 218.
138
Cfr TOMMASO D’AQUINO, Officium de festo corporis Christi ad mandatum Urbani Papae IV dictum
Festum instituentis, in SPIAZZI R. (ed.), Opuscolum theologiæ II, Marietti, Roma 1954, 275-281. «L’Ufficio è
una composizione molto originale (…), carica di affettività, dotata di una grande precisione teologica che viene
formulata in base alla tipologia biblica (…). Tommaso mette in scena, con grande ampiezza, le figure
anticotestamentarie e le mette a confronto con la verità neotestamentaria, facendone vedere il compimento
(…). A questo si aggiunga la concezione del sacramento come memoria della passione del Signore», M AZZA,
La celebrazione eucaristica, 183; Cfr WEISHEIPL, Tommaso d’Aquino, 182-190 e 409-410; Cfr BIFFI I.,
L’Eucaristia in san Tommaso “Dottore Eucaristico”, Cantagalli, Siena 2005, 151-166.
139
HOPING, Il mio corpo dato per voi, 193; Cfr BIFFI, L’Eucaristia in san Tommaso, 151-166. Per un’analisi
multidisciplinare sul fenomeno, Cfr GAFFURI L., «Il Corpus Domini tra teologia, antropologia e politica»,
Rivista di storia della Chiesa in Italia 2 (2015), 479-489. Un’altra manifestazione circa la pietà verso l’Ostia
consacrata è data dal Sermo de Sanctissimo Corpore Christi tenuto da san Bonaventura da Bagnoregio nella
medesima occasione dell’istituzione della festa (BONAVENTURÆ, Opera omnia V, 633-566).
140
Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 189; Cfr WEISHEIPL, Tommaso d’Aquino, 226.

33
La trattazione sull’Eucaristia offerta dall’Aquinate nella Summa è un’efficace sintesi
risolutiva delle diatribe sorte in epoca medievale 141: successivamente, in essa si condensa il
riferimento costante alla filosofia di Aristotele e al suo sistema metafisico e ontologico 142.
Nella q.73, Tommaso introduce la riflessione sull’Eucaristia soffermandosi sulla sua
peculiarità e definendone la sacramentalità, soprattutto in relazione all’economia della
grazia143: per far ciò, numerosi sono i riferimenti costanti che l’Aquinate fa ad alcuni passi
biblici ben specifici, dei quali si serve a seconda della questione trattata 144.
Riprendendo l’affermazione per cui tutti «i sacramenti della Chiesa sono ordinati ad
aiutare l’uomo nella vita spirituale» 145, Tommaso scrive:

«La differenza che c’è fra l’Eucaristia e gli altri sacramenti è la seguente: l’Eucaristia
contiene in sé qualcosa di sacra in assoluto, cioè lo stesso Cristo (…). Il sacramento
dell’Eucaristia si compie nella stessa consacrazione della materia; invece, gli altri sacramenti
si compiono nell’applicazione della materia sull’uomo, che dovrà essere santificato (…). Nel
sacramento dell’Eucaristia ciò che è cosa e sacramento (res et sacramentum) risiede nella
stessa materia; invece, ciò che è cosa soltanto (res tantum) risiede in colui che la riceve, cioè
la grazia che essa conferisce»146.

L’Eucaristia, dunque, è descritta dall’Aquinate come contenente quella realtà sacra che
la rende potissimam inter sacramenta: Essa ha in sé l’autore stesso della grazia, Cristo, a
differenza degli altri sacramenti, i quali invece contengono «qualcosa di sacro in ordine ad
altro, cioè una forza santificante (virtutem ad santificandum)»147.
In virtù di queste peculiarità, Tommaso scrive che così come, ad esempio, «il battesimo
è principio della vita spirituale e porta dei sacramenti (ianua sacramentorum)», l’Eucaristia

141
Cfr MACY G., «L'Eucaristia in Occidente dal 1000 al 1300» in BROUARD M. (ed.), Eucharistia.
Enciclopedia dell'Eucaristia, EDB, Bologna 2004, 195-215.
142
Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 185-187.
143
È interessante notare che «la q.73 inserisce l’Eucaristia all’interno della visione tomistica dell’economia
della grazia; la q.83 conclude la trattazione spiegando il rito della celebrazione (…). Tutti gli altri temi sono
tenuti insieme da questo duplice riferimento all’economia e al rito (…). Scrivendo dell’Eucaristia, Tommaso
adotta un approccio ordinato all’esposizione delle verità di fede», POWER, Il mistero eucaristico, 272.
144
I più ricorrenti, secondo studi specifici, sono: Dt 4,7; 1Re 19-68; Sal 110, 4; Gv 6, 53; 1Cor 11, 28-29;
(a Mt 28, 20 non è riconosciuto alcun senso eucaristico); Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 181-182.
145
ST III, 73, 1.
146
Ibidem.
147
Ibidem. Per tale ragione dunque, il sacramento dell’Eucaristia si realizza proprio nel momento in cui
viene consacrata la materia, mentre gli altri si realizzano quando la materia viene applicata a colui che la riceve.

34
è, invece, «il completamento della vita spirituale e il fine di tutti i sacramenti (consummatio
spiritualis vitæ et omnium sacramentorum finis)»148. In questo modo, proprio perché «per
mezzo del battesimo l’uomo è ordinato all’Eucaristia»149, tra i due sacramenti, dice
l’Aquinate, viene ad imporsi un «orientamento strutturale, in forza del quale il battesimo è
ontologicamente orientato all’Eucaristia e intrinsecamente configurato in modo tale da
compiersi in Essa»150.
Tommaso, poi, procede ad operare una collocazione meta-temporale dell’Eucaristia:

«Questo sacramento possiede un triplice significato. Uno riguarda il passato, in quanto


cioè, esso commemora la passione del Signore, la quale fu un vero e proprio sacrificio (…).
L’altro significato si rapporta al presente, cioè all’unità della Chiesa, nella quale gli uomini
sono tenuti uniti per mezzo di questo sacramento (…). Ha un terzo significato rispetto al futuro,
in quanto cioè, questo sacramento prefigura la fruizione di Dio nella patria celeste»151.

Secondo questa tripartizione, l’Eucaristia è signum commemorativum rispetto al


passato, ovvero memoriale della Passione e riproposizione incruenta, espresso tramite le
categorie di sacrificium e hostia; è signum demonstrativum rispetto al presente, ovvero
comunione ecclesiale, espresso tramite la categoria di communio o synàxis (σύναξις); infine,
è signum prognosticum rispetto al passato, ovvero godimento e visione di Dio, nonché
sostegno dell’uomo e via sicura per la vita eterna, espresso tramite le categorie di fruitio Dei
et visio beatifica, viaticum et Eucharistia o bona gratia152.
Tutte queste realtà sono fatte risalire da Tommaso alla volontà di Cristo nell’istituire
l’Eucaristia; tre sono le ragioni particolari poste a fondamento dell’istituzione:

«Questo sacramento fu convenientemente istituito durante la Cena (…). Primo, in


ragione di ciò che esso contiene (…). Secondo, perché, senza fede nella passione di Cristo,
mai poteva esserci salvezza (…). Terzo, perché le cose che sono dette per ultimo, in particolare
agli amici che ci lasciano, si conservano meglio nella memoria e nell’animo»153.

148
ST III, 73, 3.
149
Ibidem. Al battesimo è connaturale il desiderio dell’Eucaristia (votum), Cfr CASPANI, Pane vivo, 203.
150
CASPANI, Pane vivo, 203.
151
ST III, 73, 4.
152
Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 851; Cfr CARRA, Hoc facite, 31; Cfr DAL SASSO – COGGI,
Compendio della Somma Teologica, 413-414; Cfr BIFFI, L’Eucaristia in san Tommaso, 9-17.
153
ST III, 73, 5.

35
Per l’Aquinate, dunque, Cristo, nel lasciare i discepoli in propria specie, ovvero
fisicamente, decise di restare nella Chiesa in sacramentali specie, sotto il segno del convito;
per far ciò, si rese necessaria una commemorazione sub sacramentali specie (di cui l’agnello
pasquale veterotestamentario ne fu prefigurazione), senza cui non ci sarebbe continuazione
della salvezza154; infine, in maniera più intima, Tommaso esprime la ragione secondo cui,
tramite l’istituzione, Gesù volle lasciare ai discepoli una sorta di testamento, un segno vivo
e tangibile della sua amicizia e del suo affetto155, come Egli promise in Mt 28, 20: «Ed ecco,
io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Concludendo la questione, l’Aquinate, infine, riprende la tripartizione del sacramento
già ben espletata da Pietro Lombardo, tra sacramentum tantum, res et sacramentum e res
tantum156, considerandola specificatamente in merito all’Eucaristia.
Questo “quadro generale” risulta imprescindibile per la comprensione dell’analisi che
Tommaso farà dei diversi aspetti che costituiscono l’Eucaristia: nelle questioni avvenire,
infatti, sulla base delle quattro cause aristoteliche 157, l’Aquinate fornirà una tra le più note
trattazioni teologiche sull’Eucaristia, il Sacramento dell’amore, vincolo di perfezione158, la
quale segnerà la teologia sacramentaria ed eucaristica fino agli albori del XX secolo.

154
È qui anticipata, oltre all’aspetto sacramentale dell’Eucaristia, anche il suo aspetto sacrificale, del quale
si accennerà nel secondo capitolo in riferimento all’uso che Cristo fece del Sacramento e al rito, per cui nella
Messa è ripresentata in maniera incruenta la passione di Cristo (Christus passus), il quale è presente per
concomitanza sia nel pane sia nel vino e in cui, per circuminsessione, è presente tutta insieme la Santissima
Trinità. Cfr WEISHEIPL, Tommaso d’Aquino, 318.
155
Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 272; Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 851.
156
«In questo Sacramento possiamo considerare tre cose, cioè: ciò che è soltanto sacramento, ossia il pane
e il vino; ciò che è realtà e sacramento, ossia il vero corpo di Cristo; e ciò che è soltanto realtà, ossia gli effetti
di questo sacramento», ST III, 73, 6; Cfr CARRA, Hoc facite, 31.
157
Cfr CARRA, Hoc facite, 32.
158
Cfr ST III, 73, 3 e 75, 1. Tommaso riprende qui Col 3, 14.

36
II. IL MODELLO TOMMASIANO-TRIDENTINO DELLA PRESENZA EUCARISTICA

II.1 La materia dell’Eucaristia e la transustanziazione


II.1.1 La specie della materia eucaristica e la sua conversione
Dopo l’introduzione alla questione dell’Eucaristia, Tommaso d’Aquino procede nella
trattazione, addentrandosi nei diversi aspetti che costituiscono questo Sacramento.
Innanzitutto, gli articoli circa la materia e la forma vengono svolti, come già detto in
precedenza, alla luce della dottrina ilemorfica di matrice aristotelica, per cui «la visuale con
cui Tommaso tratta l’Eucaristia è quella della delimitazione rispetto all’ente pane-vino di
cui ne studia accuratamente l’identità»1.
Volendo sinteticamente definire la diade materia-forma, è possibile affermare che «la
materia è il principio indeterminato, passivo, potenziale, residente in tutti i corpi, che riceve
la propria determinazione dalla forma. La forma sostanziale, invece, è l’elemento attivo,
specificante, che determina la materia, cosicché l’una non può essere senza l’altra» 2.
Procedendo con ordine, Tommaso dedica le qq.74 e 75 alla materia dell’Eucaristia e
alla sua conversione, esplicitata tramite il processo detto transustanziazione.
Indagando sulla materia del Sacramento3 e riproponendo le autorevoli affermazioni
del Decretum Gratiani, in cui si afferma che «nelle oblazioni dei sacramenti si offrano come
sacrificio soltanto il pane e il vino mescolato con acqua»4, così scrive l’Aquinate:

«Il pane è il vino sono materia conveniente di questo Sacramento (…). In Esso, si
assumono separatamente (seorsum sumitur) il pane, come sacramento del corpo, e il vino,
come sacramento del sangue (…). Come dice Ambrogio nel Commento alla prima lettera ai
Corinzi, questo sacramento “serve a conservare il corpo e l’anima”; quindi, “si offre la carne

1
GRILLO, Eucaristia, 218; Cfr CASPANI, Pane vivo, 204. Pare che l’uso della terminologia filosofica
aristotelica applicata ai sacramenti, di cui Tommaso fu di certo uno tra i primi a servirsene in quest’ambito, sia
attribuibile per la prima volta a Ugo di San Caro, nella prima metà del XIII secolo: difatti, fino alla morte di
Pietro Lombardo, i teologi avevano impiegato l’utilizzo di termini quali verbum (intendendo la forma, ovvero
la formula verbale) ed elementum (intendendo la materia, ovvero l’elemento materiale, appunto), come è stato
detto nel capitolo precedente.
2
CASPANI, Pane vivo, 203-204.
3
«Per l’Alto Medioevo, la materia, intesa come “materia prima”, è un’entità prefisica, o meglio metafisica:
potenzialità pura e, in quanto tale, impalpabile ovunque, che solo nel pensiero, solo metafisicamente,
costituisce una radice dell’essere materiale», J. RATZINGER – W. BEINERT, Il problema della transustanziazione
e del significato dell’Eucaristia, Edizioni Paoline, Roma 1969, 41.
4
Decretum Gratiani III, 2, 1: PL 187, 1731; Cfr SCG IV, LXIX.

37
di Cristo”, sotto le specie del pane, “per la salute del corpo; invece il sangue”, sotto la specie
del vino, “per la salute dell’anima”»5.

Più dettagliatamente, poi, l’Aquinate specifica di quale specie debba essere il pane da
usare nelle celebrazioni eucaristiche e, poiché fra le varie tipologie di pane «gli uomini usano
più comunemente il pane di grano» e poiché «si pensa che Cristo stesso abbia istituito questo
Sacramento sotto la specie di questo pane», allora «il pane di frumento o di grano è la materia
dell’Eucaristia (panis frumentinus sive triticeus)»6.
Il pane, poi, continua Tommaso, «non è necessario che sia azzimo o fermentato, poiché
si può celebrare sia con l’uno sia con l’altro»7, senza peraltro determinarne una precisa
quantità8: tuttavia, benché egli ammetta la liceità della tradizione delle chiese greche nell’uso
di pane fermentato9, l’Aquinate afferma che «la consuetudine di celebrare con pane azzimo
è più ragionevole»10, «sia perché Gesù avrebbe utilizzato quel tipo di pane, sia perché esso
richiama meglio la sincerità e la novità di vita dei fedeli, come ricorda 1Cor 5, 7-8»11.
Allo stesso modo del pane, anche del vino Tommaso illustra le caratteristiche al fine
di utilizzarlo validamente nella celebrazione eucaristica: «Solo il vino d’uva (vinum vitis) è
la materia propria di questo Sacramento»12, in quanto esso «si addice di più all’effetto
dell’Eucaristia, che è una letizia spirituale. Infatti è stato scritto che “il vino allieta il cuore
dell’uomo” (Sal 104, 15)»13. In maniera analoga al discorso sul pane, dunque, l’Aquinate

5
ST III, 74, 1; Cfr AMBROGIO, In epistolam beati Pauli ad Corinthios primam XI, 20: PL 17, 243.
6
ST III, 74, 3. A tal proposito, Tommaso entra in contrasto col suo maestro, Alberto Magno, il quale
riteneva che il frumentum fosse una specie, e non un genere, a cui apparterrebbero sia il grano sia la spelta. Poi,
come ulteriore prova circa la convenienza dell’uso del grano, l’Aquinate si rifà a Gv 12, 24-25, in cui Cristo
stesso si paragonò al chicco di grano che deve morire per poter dare frutto.
7
ST III, 74, 4.
8
Cfr ST III, 74, 2.
9
«È conveniente che ciascuno osservi il rito della propria Chiesa nella celebrazione del Sacramento (…).
La consuetudine dei greci ha una certa ragionevolezza», Cfr ST III, 74, 4. La “permissione” della libera scelta,
da parte delle chiese, nell’uso tra queste due tipologie di pane è dato dal fatto che la questione della materia
non è posta da Tommaso d’Aquino sul piano della necessità ma della convenienza, per cui ciò, come nel caso
del pane di frumento o di grano, non intacca la validità della celebrazione eucaristica, ma riguarda solo la liceità
della celebrazione eucaristica.
10
Ibidem.
11
CASPANI, Pane vivo, 205; «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E
infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con lievito vecchio, né con
lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (1Cor 5, 7-8).
12
ST III, 74, 5. Come prova per la convenienza dell’uso del vino, come per il grano Tommaso aveva citato
Gv 12, 24-25, allo stesso modo, ora, egli cita Gv 15, 1, in cui Cristo dice: «Io sono la vera vite».
13
ST III, 74, 5.

38
precisa la convenienza di unire al vino da consacrare una piccola quantità d’acqua 14, al fine
della liceità del Sacramento, «non solo perché così fece Cristo (…), ma anche perché ciò è
meglio riferibile alla Sua morte, nella quale uscirono dal Suo cuore acqua e sangue, e anche
perché significa l’unione del popolo a Cristo nell’Eucaristia»15.
Chiarite le caratteristiche fisiche della materia del pane e del vino per la liceità/validità
celebrativa, Tommaso procede nell’analisi circa la conversione della materia nel corpo e nel
sangue di Cristo, ponendosi quella stessa domanda che aveva dato inizio, tempo prima, alla
controversia berengariana, ovvero «se il corpo di Cristo sia in questo Sacramento secondo
la realtà oppure solo secondo la raffigurazione, come in un segno (solum secundum figuram
vel sicut in signo)»16.
Ebbene, nel Santissimo Sacramento, «Cristo ci presenta invisibilmente la Sua carne,
così come ci presentò invisibilmente la Sua divinità»17: in questa maniera, nell’Eucaristia,
«coronamento di tutti gli altri sacramenti»18, l’uomo si unisce a Cristo «mediante la realtà
del suo corpo e del suo sangue. Perciò, in Gv 6, 57 Egli stesso dice: “Chi mangia la mia carne
e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui”. Perciò, questo Sacramento è il più grande
segno della carità e conforto per la nostra speranza, grazie all’unione così familiare di Cristo
con noi»19. Questa meravigliosa e ineffabile realtà, però, «non si può percepire per mezzo
dei sensi e nemmeno per mezzo dell’intelletto, ma lo si sa per fede» 20.

14
L’acqua deve essere poca per non alterare la natura del vino stesso, Cfr ST III, 74, 7-8.
15
DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 415; Cfr ST III, 74, 6.
16
ST III, 75, 1.
17
Ibidem. Tommaso riprende, tra gli altri, il Damasceno, che dice: «Poiché gli uomini sono soliti mangiare
pane e bere vino, Dio congiunse ad essi la divinità e li fece diventar corpo e sangue Suo (…). Il pane della
comunione non è semplice pane ma pane unito alla divinità», GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa IV,
14-15: PG 94, 1143-1150.
18
PSEUDO-DIONIGI AREOPAGITA, De ecclesiastica hierarchia 3, 1: PG 3, 424. La perfezione assunta
dall’Eucaristia è anche spiegata dal fatto che la Legge Antica contenesse Cristo solum in figura (o secundum
quid), poiché «nella Legge c’è l’ombra dei beni futuri, non l’immagine stessa delle cose» (Eb 10, 1), mentre la
Legge Nuova contiene Cristo stesso nella realtà.
19
ST III, 75, 1. In virtù di ciò che è qui espresso, «ogni atto di carità è legato al desiderio dell’Eucaristia»,
POWER, Il mistero eucaristico, 280.
20
DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 416. Sulla veridicità della presenza di Cristo
nell’Eucaristia, Tommaso riprendere diversi autorevoli passi dei Padri: «Circa la realtà della Sua carne e del
Suo sangue non c’è posto per il dubbio. Ora, sia per le dichiarazioni del Signore stesso sia per la nostra fede,
la Sua carne è veramente cibo e il Suo sangue è veramente bevanda», ILARIO DI POITIERS, De Trinitate VIII,
14: PL 10, 247; «Come il Signore Gesù Cristo è vero Figlio di Dio, così è la vera carne di Cristo quella che
riceviamo ed è il suo vero sangue la bevanda», AMBROGIO, De sacramentis VI, 1, 1: PL 16, 453; «Non dubitare
se ciò sia vero, ma accogli piuttosto con fede le parole del Salvatore. Infatti, poiché Egli è la verità, non mente»,
CIRILLO DI ALESSANDRIA, Commentarii in Lucam XXII, 19: PL 72, 911.

39
Da quanto detto sinora, appare evidente che la realtà della presenza eucaristica di
Cristo è adducibile solo per fede: «Tutta la riflessione successiva si svolge a partire da questa
affermazione di fede e rappresenta il tentativo di darne ragione mettendo in gioco categorie
mutate dalla metafisica aristotelica dell’ente»21, per cui l’Aquinate «si muove tra varie
accezioni di sostanza e le utilizza al fine di rendere conto del mistero della fede di cui sta
trattando»22. Qui, nello specifico, «interessa soprattutto l’accezione di sostanza per cui essa
si definisce in opposizione agli accidenti, gli aspetti cioè contingenti che specificano il darsi
dell’ente alla nostra conoscenza per il tramite dei sensi» 23.
Partendo proprio dall’ente pane-vino 24, l’Aquinate sviluppa un’articolata riflessione
sulla conversione della sostanza25: scartando alcune posizioni26, egli afferma che, ad opera
della potenza di Dio27, istantaneamente28, il pane e il vino mutano in corpo e sangue di Cristo
(mutatio instantanea). Così scrive Tommaso:

«È quanto si compie per virtù divina in questo Sacramento: infatti, tutta la sostanza del
pane si converte in tutta la sostanza del corpo di Cristo e tutta la sostanza del vino si converte
in tutta la sostanza del sangue di Cristo. Perciò tale conversione non è formale ma sostanziale.

21
CASPANI, Pane vivo, 206. «È la fede stessa che induce alla riflessione e spinge alla ricerca delle “sue”
ragioni, senza d’altra parte che esse stemperino il mistero, rendendolo accessibile alla filosofia secondo il senso
e l’intenzione della teologia, intesa sempre non a ridurre il dogma cristiano alle dimensioni della ragione, ma
a introdurre la ragione stessa nell’impenetrabile luce della Parola di Dio, e, nel caso nostro, nella luce della
Parola sulla quale la conversione eucaristica è stabilita», BIFFI, L’Eucaristia in san Tommaso, 57-58.
22
CARRA, Hoc facite, 33. Per una maggiore chiarezza, Cfr MONDIN B., voce «Sostanza», in Dizionario
enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, EDB, Bologna 1991, 572-574.
23
Ivi, 34. Al proposito, sintetizzando quanto si andrà ad approfondire: «Data la distinzione sostanza-
accidenti, la presenza di Cristo nel suo corpo e sangue si colloca sul piano fondamentale della sostanza, mentre
permangono gli accidenti di pane e vino in quanto termine su cui riferiscono i nostri atti rituali: prendere,
spostare, mostrare, spezzare, mangiare. La transustanziazione è una mutazione della sostanza degli elementi
nella sostanza del corpo e sangue di Cristo: non si tratta di una sostituzione per cui la prima cederebbe il posto
alla seconda mediante suo annichilimento; né si tratta di una compresenza delle due sostanze una accanto
all’altra (consustanziazione). La sostanza del pane e quella del vino vengono convertite dalla potenza di Dio,
racchiusa come virtù creata nelle parole della consacrazione affidata da Cristo ai sacerdoti, nella sostanza del
corpo e del sangue di Cristo. Tale conversione non è graduale ma avviene istantaneamente, nell’ultimo, non
individuabile istante del proferimento delle parole consacratorie», Ivi, 36.
24
Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 188.
25
Cfr ST III, 75, 8.
26
Come, ad esempio, l’annichilazione, la localizzazione e la consustanziazione, di cui si è accennato nel
precedente capitolo, in merito ai differenti modi con cui i teologi concepirono la transustanziazione così come
era stata formulata dal Concilio Lateranense IV; Cfr ST III, 75, 2-4; Cfr SCG IV, LXII-LXIX; Cfr HOPING, Il
mio corpo dato per voi, 182.
27
Cfr ST III, 75, 4; Cfr CASPANI, Pane vivo, 208.
28
Cfr ST III, 75, 7. «Non deve sembrarvi inaudito e impossibile che cose terrene e corruttibili si trasformino
nella sostanza di Cristo», Decretum Gratiani III, 2, 35: PL 187, 1743; Cfr ST III, 78, 2.

40
Né appartiene alle specie del moto naturale, ma può essere detta con i il suo proprio nome
transustanziazione (sed proprio nomine potest dici transubstantiatio)»29.

Tale verità, per cui viene mutata totalmente la forma sostanziale30 del pane e del vino
in quella del corpo e del sangue di Cristo, rendendo Cristo spiritualmente presente31, lascia
però immutati i loro accidenti, cioè la percezione sensibile: «questo dato (…) è stato disposto
da Dio per tre motivi, ovvero evitare l’errore di mangiare la carne e bere il sangue nel loro
aspetto proprio, non suscitare la derisione da parte degli infedeli (…) e accrescere il merito
della fede di chi riceve in modo invisibile il corpo e sangue del Signore» 32.

II.1.2 La modalità di presenza di Cristo e il permanere degli accidenti


Poiché, da quanto emerso sinora, «non è possibile intendere la presenza del corpo di
Cristo nell’Eucaristia se non affermando una conversione sostanziale del pane» 33, Tommaso
procede nel trattare il modo in cui Cristo «esiste» (existit)34 nel Sacramento, nonostante il
permanere degli accidenti: le questioni, dunque, «mostrano il sottile lavoro concettuale con

29
ST III, 75, 4. La sostanza del pane-vino e quella del corpo-sangue, dunque, pur sussistendo una differenza
d’identità, hanno in comune la natura entis, Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 225. In riferimento alla
terminologia usata, va ricordato che Tommaso, data la non univocità della parola transustanziazione, «si basa
su un concetto generico di conversione, che egli considera come il mutamento di una cosa in un’altra (conversio
substantiæ)», GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 223; Ad ogni modo, è certo che «fu Tommaso, adoperando
categorie ricavate dalla filosofia aristotelica, a dare uno statuto scientifico all’idea di trasformazione sostanziale
in quanto spiegazione del Sacramento», POWER, Il mistero eucaristico, 307.
30
Cfr ST III, 75, 6; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 185-188.
31
«Cristo è in questo Sacramento in modo spirituale, cioè in modo invisibile e in virtù dello spirito (Christi
sit in hoc sacramento spiritualiter, idest invisibiliter et per virtutem spiritus)», ST III, 75, 1.
32
CASPANI, Pane vivo, 209; Cfr DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 417; Cfr ST III.
75, 5. «Il pane e il vino, mentre sono transustanziati, conservano le loro proprietà (…). La percezione sensibile
non è ingannevole (…). La transustanziazione quindi, viene concepita come mutazione del subiectum, nella
quale si conservano non solo l’aspetto e il colore, ma anche la qualità del pane consacrato di servire da
nutrimento, e del vino consacrato di contenere alcol», HOPING, Il mio corpo dato per voi, 179.
33
Ivi, 208. Di solito, nei trattati medievali, la questione della trasformazione sostanziale era anteposta a
quella della presenza sacramentale: invece, «Tommaso riteneva che per comprendere la presenza fosse
necessario comprendere come Cristo diveniva presente. Se ciò di cui si va in cerca non è semplicemente la
fede,a l’intelligibilità, le affermazioni sulla trasformazione risultano essenziali per afferrare la maniera della
presenza», POWER, Il mistero eucaristico, 277.
34
Terminologicamente, «Tommaso non parla ordinariamente di presenza di Cristo (infatti egli non adopera
termini latini come præsens, præsentia o præsentialiter), né impiega la formula “Cristo si rende presente
nell’Eucaristia” (…), perché nella sua concezione, comune ad altri autori medievali (…), l’“essere presente”
implica non soltanto l’essere, ma anche l’essere percepito in maniera sensibile, come se ci si trovasse in un
“qui” concreto. Egli adopera invece altre espressioni latine come esse sub, esse in, contineri sub o contineri
in», GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 222; ancora, «per gli autori medievali, il termine presenza implicava non
solo che una cosa fosse ma anche che fosse percepita tramite i sensi», Cfr GRILLO, Eucaristia, 218; Cfr MAZZA,
La celebrazione eucaristica, 219-221.

41
cui Tommaso elabora la sua dottrina rispondendo ai due fronti opposti cui vuole dare
soluzione»35, ovvero il fisicismo e il simbolismo.
Procedendo con ordine, il primo nodo centrale della q.76 è la distinzione tra i due modi
in cui Cristo è presente nel Sacramento (de modo quo Christus existit in hoc Sacramento)36:
ebbene, Egli è totalmente37 presente nell’Eucaristia, nei Suoi elementi del corpo, del sangue,
dell’anima e della divinità, secondo due diverse modalità. Scrive l’Aquinate:

«Va detto che bisogna in ogni modo professare, secondo la fede cattolica, che in questo
Sacramento ci sia tutto Cristo (totus Christus). Tuttavia, bisogna sapere che qualcosa di Cristo
c’è in due modi in questo Sacramento: in un modo, quasi in virtù del sacramento stesso (ex vi
sacramenti); in un altro modo, per una concomitanza naturale (ex naturali concomitantia).
Precisamente: in virtù del sacramento esiste, sotto le specie di questo Sacramento, ciò in cui
direttamente si converte la sostanza del pane e del vino preesistente, secondo come si significa
con le parole della formula (…). Invece, per concomitanza naturale, c’è in questo Sacramento
quel che è realmente congiunto a ciò in cui termina la predetta conversione»38.

Partendo dunque dal presupposto che la presenza di Cristo «è sacramentalmente


mediata attraverso il livello della sostanza»39, Tommaso afferma che Egli è nelle specie
consacrate nella pienezza di vero Dio e di vero uomo: nello specifico, «per le parole della
consacrazione sotto gli accidenti del pane si trova direttamente il corpo di Cristo e il sangue,
l’anima e la divinità vi si trovano per concomitanza; e, similmente, sotto le specie del vino,
direttamente si trova il sangue di Cristo e il resto vi è per concomitanza» 40.

35
CARRA, Hoc facite, 37. Tommaso, «al fisicismo risponde negando che i nostri atti rituali inferiscano
direttamente sulla carne di Cristo, per cui spezzare e masticare l’ostia significherebbe spezzare e masticare
immediatamente la carne di Cristo, con solo l’apparenza di pane e vino. Al simbolismo depotenziato di
Berengario invece, risponde affermando la realtà del darsi di Cristo per la mediazione del sacramento e non la
sua occasionalità, in virtù del fatto che al fondamento degli elementi posti sull’altare dopo la consacrazione
non sta più la loro sostanza propria, ma è subentrata la sostanza stessa di Cristo», Ibidem; Cfr M AZZA, La
celebrazione eucaristica, 183-185.
36
ST III, 76, 1. «In questo Sacramento c’è Cristo», AMBROGIO , De mysteriis IX, 58: PL 16, 439-440.
37
Il primo teologo a parlare del totus Christus fu Guglielmo di Champeaux, fondatore della scuola di San
Vittore; Cfr GUGLIELMO DI CHAMPEAUX, De sacramento altaris, PL 163: 1039-1040.
38
ST III, 76, 1; Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 275; Cfr BIFFI, L’Eucaristia in san Tommaso, 51-64.
39
CARRA, Hoc facite, 37-38; Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 281-283.
40
DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 418. Continua Tommaso: «Bisogna ritenere
come cosa certissima che Cristo è sotto le due specie del Sacramento; però, in modi diversi. Infatti, il corpo di
Cristo c’è sotto le specie del pane in virtù del sacramento; invece, il sangue c’è per la concomitanza reale, così
come l’anima e la divinità di Cristo. Al contrario, sotto le specie del vino c’è il sangue in virtù del sacramento
e, invece, il corpo di Cristo c’è per la concomitanza reale, come pure l’anima e la divinità», ST III, 76, 2.

42
Da quanto emerso41, per l’Aquinate appare conseguentemente logico che tutto Cristo,
trovandosi in tutte le parti delle specie, si trovi ad essere, sempre per concomitanza, in ogni
briciola di pane e in ogni goccia di vino consacrati, nella sua sostanziale quantità dimensiva
(quantitas dimensiva)42. Queste asserzioni aprono alla questione relativa alla localizzazione:
infatti, «non si può dire che il corpo di Cristo sia in questo Sacramento come in un luogo, in
uno spazio (…). Sono dunque le specie del pane e del vino che entrano in contatto con il
luogo, non la sostanza del corpo e sangue di Cristo»43.
Volendo semplificare questo meticoloso passaggio44 espresso in più articoli, si può
affermare che Cristo non è localmente presente, circoscritto nell’Eucaristia, ma si trova in
Essa per mezzo della Sua stessa sostanza di Cristo, immobilmente, intelligibilmente, se non
per fede, e incorruttibilmente, almeno fino al cessare delle specie stesse45.
In sintesi, «l’impressione che si ricava verso il termine della q.76 è che il modo in cui
Cristo “esiste” nell’Eucaristia sia determinabile prevalentemente in negativo: si tratta di una
presenza non quantitativa, non estesa, localmente indeterminabile, non percepibile con i
sensi»46 e dunque coglibile solo per fede e dicibile solo a partire dalle specie.
Prima di procedere oltre, però, è interessante rilevare come l’Aquinate, trattando dei
miracoli eucaristici, ha avuto modo di affermare come essi non siano la manifestazione delle
sembianze di Cristo (species propria Christi), bensì solo «un’apparenza miracolosamente

41
Secondo Z. Carra, Tommaso è conscio che, affermando la presenza di tutto Cristo in ogni specie, si corra
il rischio dell’irrilevanza della doppia consacrazione, in palese contraddizione con l’uso liturgico: egli stesso
però, risponderà più avanti, sostenendo che «la consacrazione del vino è conveniente in quanto rappresenta la
passione e morte di Cristo in cui il sangue fu separato dal corpo», CARRA, Hoc facite, 38. Allo stesso modo, la
presenza integrale di Cristo in ogni specie, legittima la comunione sotto una sola delle due, Cfr CASPANI, Pane
vivo, 210, nota 158. Entrambe le questioni verranno affrontate da Tommaso nella q.80, come si vedrà.
42
Cfr ST III, 76, 3-4. «Il corpo di Cristo è in questo Sacramento secondo il modo della sostanza e non
secondo il modo della quantità (per modum substantiæ et non per modum quantitatis)», ST III, 76, 1.
43
CASPANI, Pane vivo, 211.
44
Quanto Tommaso sostiene, di fatti, oscillando tra il fisicismo e l’occasionalismo, «blocca la dicibilità
delle affermazioni in base alla direzione in cui esse sono fatte: si afferma la località dalla parte degli accidenti
e si vieta di affermarla dalla parte della sostanza (…). A nostro avviso, qui Tommaso è giunto al punto estremo
della sua speculazione, oltre il quale non può andare perché i concetti non lo reggerebbero più», CARRA, Hoc
facite, 41; Cfr ST III, 76, 5-7.
45
«In questo Sacramento, la sostanza del corpo di Cristo subentra alla sostanza del pane. Come quindi la
sostanza del pane non si trovava sotto le proprie dimensioni localmente, ma sostanzialmente, così anche la
sostanza del corpo di Cristo (…). Le dimensioni proprie del corpo di Cristo si riferiscono a quel luogo tramite
la sostanza (…). Quindi in nessun modo il corpo di Cristo si trova in questo Sacramento localmente», ST III,
76, 5; Cfr DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 419.
46
CASPANI, Pane vivo, 211. Dialetticamente, Tommaso adotta, come suo solito, la via negationis, Cfr
POWER, Il mistero eucaristico, 278-281.

43
formata o negli occhi di quanti vedono o anche nella stessa forma del Sacramento»47. Così
facendo, a Tommaso è stato riconosciuto il merito di aver purificato «il modo di pensare la
presenza eucaristica di Cristo, liberandola da rappresentazioni troppo materiali o infantili»48.
E poiché dunque i miracoli riguardano le specie stesse, ovvero gli accidenti, l’Aquinate
procede, nella questione successiva, con la trattazione49.
Sforzando nuovamente l’ontologia aristotelica 50, Tommaso asserisce che il corpo e il
sangue di Cristo non costituiscano il soggetto degli accidenti del pane e del vino, per cui,
dopo essere transustanziati essi ne rimangano privi (manent sine subiecto)51: così, in questo
caso, «Tommaso consente agli accidenti la sussistenza autonoma per il caso speciale
dell’Eucaristia. Tra essi assume la funzione di soggetto, cioè di ciò che li sorregge nella loro
realtà, l’accidente intrinseco della quantità o dimensione»52.
Ebbene, questa sussistenza degli accidenti senza l’intervento di una sostanza «è una
cosa possibile per virtù divina (quod quidam virtute divina fieri potest)»53, cioè è Dio stesso
a supplire a questa mancanza per mezzo del miracolo (speciale privilegium gratiæ)54.

47
ST III, 76, 8; Cfr DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 419-420.
48
CASPANI, Pane vivo, 212; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 184-185. «La presenza di Cristo
nell’Eucaristia corrisponde al Suo amore per l’umanità portato al punto estremo (maximæ caritatis signum).
La presenza reale di Cristo corrisponde alla fede piena nella Sua divinità e nella Sua umanità, alla fede di chi
crede che nel Sacramento Egli si doni a noi totalmente», HOPING, Il mio corpo dato per voi, 181.
49
«La sostanza è la realtà essenziale nota all’intelletto, l’accidente è tutto ciò che stimola i sensi. Servendosi
di questa analogia, Tommaso spiega che il corpo e il sangue di Cristo sono conosciuti dalla fede e costituiscono
la realtà effettivamente presente nel Sacramento, anche se la percezione sensibile rimanda agli accidenti del
pane e del vino», HOPING, Il mio corpo dato per voi, 277; Cfr SCG IV, LXI; Cfr MONDIN, voce «Accidente»,
in Dizionario, 21-23.
50
Cfr CANTALAMESSA R., Dal kerygma al dogma. Studi sulla cristologia dei Padri, Vita & Pensiero,
Milano 2006, 11-51. «Tommaso sta sforzando al massimo il supporto filosofico di cui si serve perché sappia
rendere conto del mistero della fede che è l’oggetto della trattazione. Il punto in oggetto (…), qui, costituisce
a rigor di termini un assurdo (…): non è possibile che degli accidenti sussistano se non sorretti dalla sostanza
corrispondente cui ineriscono (…). Un accidente non sorretto dalla sua sostanza si riduce ad un’apparenza, ad
un’illusione dei sensi, come vorrebbe la posizione fisicista», CARRA, Hoc facite, 42.
51
Cfr ST III, 77, 1.
52
CARRA, Hoc facite, 43; Cfr ST III, 77, 2.
53
ST III, 77, 1. Per tale ragione, «non è più il mistero del corpo e sangue nel pane e vino con cui la Chiesa
entra in comunione, ma la possibilità metafisica che vi sia una sostanza cui ineriscono gli accidenti di un’altra»,
GRILLO, Eucaristia, 219.
54
Ibidem; Cfr CASPANI, Pane vivo, 213. In questo modo, «il miracolo entra nel sistema metafisico di
Tommaso come componente necessaria per evitare la contraddizione», MAZZA, La celebrazione eucaristica,
186. Quest’intervento diretto da parte di Dio, rende l’Eucaristia un «evento soprannaturale miracoloso analogo
al concepimento verginale di Gesù», CARRA, Hoc facite, 43; ancora, la presenza eucaristica di Cristo «si radica
sul fatto dell’unione ipostatica per cui il Figlio assume l’umanità da Maria. E questo è fondamento necessario
e sufficiente affinché la sostanza della Sua carne e del Suo sangue si rendano presenti», Ivi, 62; Cfr DE LUBAC,
Corpus Mysticum, 309-311.

44
Proseguendo negli altri articoli55, i quali fungono da corollari all’assunto fondamentale
di cui sopra, emerge come «il rapporto che, in seguito alla consacrazione, si determina tra la
sostanza del corpo e sangue di Cristo e gli accidenti del pane e del vino è del tutto singolare.
Per certi versi infatti, ciò che accade alle specie non tocca il corpo storico di Cristo»56, come
ad esempio la frazione del pane, per cui esso viene spezzato e mangiato «non nella propria
specie (in sua specie), bensì sotto la specie sacramentale (in specie sacramentali)»57; poi,
«d’altra parte, qualora le specie sacramentali si corrompano, il corpo e sangue di Cristo non
rimangono in questo Sacramento»58.
Ebbene, dalle questioni trattate emerge chiaramente che «dentro il sistema concettuale
tommasiano la presenza di Cristo è legata alla realtà dimensivamente rilevante degli elementi
consacrati e non a tutto il resto (non all’altare, non alle tovaglie, ecc.)»59: per tale ragione,
una rilevanza particolare è data alle parole consacratorie, costituenti la forma dell’Eucaristia,
cui Tommaso dedica la questione successiva.

II.2 La forma dell’Eucaristia e il suo contesto esegetico-rituale


II.2.1 La cristologia dell’istituzione e la marginalità del rito
Prima di procedere, è interessante, in breve, contestualizzare il pensiero dell’Aquinate
sulla questione circa l’uso che Cristo fece del Sacramento nell’ultima cena e sull’esegesi che
Tommaso conduce circa il racconto dell’istituzione nella prima lettera ai Corinzi.
Innanzitutto, la domanda circa l’uso che Cristo fece dell’Eucaristia 60, «è rivelativa di
come il trattato sull’Eucaristia si radichi nella cristologia» 61. In particolare, due sono le
domande che Tommaso si pone al proposito: Cristo si è nutrito di sé? E in quale “condizione”
Egli, non essendosi ancora compiuta la Passione, era presente nel pane spezzato?
Alla prima questione, l’Aquinate risponde riprendendo le parole di Girolamo, il quale
scrisse che «il Signore Gesù è Egli stesso commensale e mensa: è sia Colui che mangia e sia

55
ST III, 77, 3-8; Cfr DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 420-422.
56
CASPANI, Pane vivo, 214.
57
ST III, 77, 7.
58
CASPANI, Pane vivo, 214; Cfr ST III, 77, 4.
59
CARRA, Hoc facite, 40.
60
Cfr ST III, 81; Cfr DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 427-428.
61
CARRA, Hoc facite, 61. «Una sacramentaria concepita nei termini della metafisica dell’ente trova il suo
adeguato supporto in un fondamento cristologico ristretto», Ivi, 64.

45
Colui che è mangiato»62: alla luce di ciò, Tommaso rileva dunque che «ciò che Cristo istituì
che dovesse essere osservato dagli altri, l’osservò Lui per primo» 63.
Alla seconda questione, invece, l’Aquinate risponde in questi termini: «È evidente che
il reale corpo di Cristo, che allora i discepoli vedevano nelle sue sembianze, era lo stesso
corpo che assumevano nella specie del Sacramento»64. Dal modo in cui Tommaso conduce
l’analisi, emerge quindi «l’identità sostanziale del corpo eucaristico col corpo storico» 65 di
Cristo, «per cui il corpo eucaristico si propone così com’è il corpo storico»66. Da ciò, è logico
concludere con facilità che «dove ci sono le specie, lì c’è il corpo di Cristo»67, quello stesso
corpo che a breve sarebbe stato issato sulla croce, quello stesso corpo nato da Maria 68.
Dunque, dalla presente questione emerge un rapporto fondamentale tra Incarnazione e
Passione di Cristo che dà origine all’argomento circa il sacrificio69. Senza volerne entrare
nel vivo, al fine del presente lavoro basti sottolineare il fatto che «il sacrificio è un elemento
secondo, il quale scaturisce ontologicamente dal fatto stesso della presenza eucaristica (…).
L’Eucaristia è intesa come sacrificio non a partire dal proprio del sacrificio di Cristo ma
dallo schema religioso generale del sacrificio»70.
L’analisi della q.80, come si è potuto constatare, verte totalmente sull’identità tra il
corpo del Cristo storico e il corpo eucaristico: alla radice di questa fondamentale asserzione
vi sono, senz’ombra di dubbio, le parole consacratorie sul pane e sul vino, le quali esprimono
proprio questa sostanziale identità, così come testimoniano i racconti dell’istituzione.

62
GIROLAMO, Epistola 120, 2: PL 22, 986.
63
ST III. 81, 1
64
ST III, 81, 3.
65
CASPANI, Pane vivo, 219.
66
Ibidem.
67
Ibidem.
68
Si rileva come, data l’analogia con l’Incarnazione, «la presenza reale nell’Eucaristia non è vincolata alla
totalità del mistero pasquale della morte e risurrezione (…). Ebbene, la risurrezione determina la possibilità
della presenza (...), e l’Eucaristia media la presentificazione sulla terra» di Cristo glorificato, C ASPANI, Hoc
facite, 61-62; Sulla concezione medievale di questa realtà, Cfr DE LUBAC, Corpus Mysticum, 161-216.
69
Per un’analisi circa il tema del «sacrificio» nella Summa Theologiæ, Cfr GARRIGOU-LAGRANGE, La
sintesi tomistica, 269-276. Sintetizzando l’argomento, è possibile affermare che «l’Eucaristia è detta sacrificio
(immolatio), essendo la ripresentazione sacramentale dell’azione sacrificale di Gesù Cristo. Il dono sacrificale
(…) è lo stesso che fu offerto da Cristo (…). Il sacrificio eucaristico, rispetto al sacrificio della croce, non
produce nessun nuovo effetto, ma ne destina l’efficacia salvifica», HOPING, Il mio corpo dato per voi, 181. Per
ulteriori approfondimenti e riflessioni sul tema del sacrificio eucaristico, frutto di recenti dibattiti teologici in
prospettiva liturgica, Cfr TRUDU F. (ed.), Teologia dell’Eucaristia. Nuove prospettive a partire dalla forma
rituale, CLV Edizioni, Roma 2020, 71-110.
70
CARRA, Hoc facite, 83-84. L’argomento verrà ripreso poi a proposito del rito, Cfr ST III, 83.

46
Ebbene, «l’insieme dei teologi medievali mette alla base della propria trattazione
eucaristica non la frase “fate questo in memoria di me”, ma le parole “questo è il mio corpo,
questo è il mio sangue”»71. Tuttavia, se le parole accomunano il procedimento teologico dei
pensatori medievali, lo stesso non può dirsi col testo scritturistico di riferimento: difatti, «nel
Dodicesimo secolo c’è un importante spostamento d’accento nella scelta dei testi biblici che
descrivono il rapporto tra i cristiani e l’Eucaristia: anteriormente il testo chiave era Gv 6, 53,
mentre in questo secolo comincia a prevalere 1Cor 11, 28-29»72. La scelta del brano paolino
ha, da parte dei teologi, delle motivazioni alquanto ragionevoli: difatti, in 1Cor 11 «non si
tratta di riferire un episodio biografico, ma di proclamare un’azione fondante» 73.
In questo panorama esegetico, dunque, anche l’Aquinate «si disponeva nella continuità
dell’interpretazione eucaristica che lo aveva preceduto»74. Per tali ragioni, nell’Expositio et
lectura super Epistolas Pauli Apostoli75, Tommaso mette in luce come le parole della
consacrazione indichino «la verità e il contenuto dell’Eucaristia»76, tanto da assorbirne
l’attenzione teologica, tralasciando completamente il contesto stesso dell’ultima cena, che è
solo il luogo, il “contenitore”, dell’istituzione eucaristica77.
A questo proposito, prima di lasciare spazio alla trattazione della forma dell’Eucaristia,
è da rilevare proprio la marginalità della Sua celebrazione: essa è trattata dall’Aquinate nella

71
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 182.
72
Ibidem; Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 73-96.
73
GRILLO, Eucaristia, 153. Secondo gli studi e le tesi di X. Léon-Dufour, il testo paolino si configura in
una tradizione cultuale-liturgica, quello giovanneo invece, in una tradizione testamentaria.
74
BIFFI, L’Eucaristia in san Tommaso, 77.
75
Cfr TOMMASO D’AQUINO, Commento al corpus paulinum II. Prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna
2005; Cfr BIFFI, L’Eucaristia in san Tommaso, 88-90; Cfr WEISHEIPL, Tommaso d’Aquino, 377-381. Tommaso
commentò l’Epistolario paolino per ben due volte: una tra il 1259 e il 1265, un’altra tra il 1272 e il 1273;
ebbene, il commento è riconosciuto dagli studiosi come l’apice del suo lavoro esegetico: difatti, esso
«rappresenta da solo un terzo di tutta la produzione esegetica ed è stata considerata la più adatta alle esigenze
teologiche dell’esegesi di Tommaso», SANTI F., «L’esegesi biblica di Tommaso d’Aquino nel contesto
dell’esegesi biblica medievale», in Angelicum 71 (1994), 509-535.
76
BIFFI, L’Eucaristia in san Tommaso, 85. A questo proposito, è rilevante come Tommaso non consideri il
contesto dell’ultima cena ma che si soffermi solo sulle parole consacratorie e sul loro effetto transustanziante,
questo perché «la dottrina della presenza reale e della transustanziazione non è applicabile alle azioni, ma solo
all’ente, ossia, nel nostro caso, al pane e al vino», MAZZA, Dall’ultima cena, 62; Cfr GRILLO, Eucaristia, 156-
161. Contrariamente a questo stallo tipico della riflessione eucaristica medievale, J. Jeremias ha fatto notare
come, nel caso dell’Eucaristia, le parole e le azioni ad Essa collegate non possono affatto essere separate, ma
che anzi, la comprensione del Sacramento non può prescindere dal dinamismo che Gli è proprio: l’urgenza,
come verrà dimostrato in seguito, è quella di spostare lo sguardo dall’ente all’azione, come ben compresero i
teologi del XX secolo; Cfr JEREMIAS J., Le parole dell’ultima cena, Paideia Editrice, Brescia 1973.
77
Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 211.

47
q.83, mediante un’expositio Missæ che ben si dispone ad essere una pregevole testimonianza
del modus celebrandi tipico del periodo tardo-medievale78.
Ebbene, il rito è considerato, come accennato poc’anzi, una “cornice” ad un fatto più
importante, ovvero la transustanziazione: difatti, «a questa centralità dell’ente (il pane e il
vino transustanziati, ndr) corrisponde, purtroppo, la marginalità dell’azione (…). E quanto
più la finezza dell’analisi è ammirevole, tanto più è costretta a ricorrere a “formule
concettuali” distanti rispetto alla “forma rituale”»79.
Ora, appurato che il rito eucaristico è la riproposizione incruenta dell’immolazione del
Christus passus80, Tommaso, stabilendo un rapporto tra i momenti della Messa e la Passione,
adottando il metodo allegorico, individua «una corrispondenza tra la successione dei vari
gesti celebrativi e la successione delle tappe della Passione»81: difatti, nella Messa, definibile
imago rapræsentativa della Passione, vengono riproposti in chiave figurativa i momenti
costituenti il mistero della morte di Cristo82, come rimemorazione affettivo-psicologica83.
Per questi motivi, appurato questo senso figurativo del rito, l’Aquinate divide in tre
parti fondamentali la celebrazione eucaristica, ovvero la preparazione, la celebrazione del
mistero e il ringraziamento84.

78
Cfr GRILLO, Eucaristia, 105-107.
79
Ivi, 218; Cfr BÉKÉS G. – FARNEDI G. (edd.), Lex orandi, lex credendi. Miscellanea in onore di p. Cipriano
Vagaggini, Studia Anselmiana, Roma 1980, 221-233. Per un’esposizione circa la prassi celebrativa e la
teologia della celebrazione eucaristica, Cfr AA.VV., Anàmnsesis 3/2, 78-116.
80
Cfr ST III, 83, 1. Tommaso riprende qui Agostino, il quale scrive: «Una sola volta Cristo s’immolò nella
Sua persona e tuttavia ogni giorno s’immola nel Sacramento», AGOSTINO, Epistula 98, 9: PL 33, 363-364; Cfr
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 190-193; Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 283-288.
81
CASPANI, Pane vivo, 222. Il linguaggio allegorico usato da Tommaso e, più in generale, da tutta la
Scolastica, ha lo scopo di rievocare nella Messa, in quanto imago rapræsentativa, i momenti della Passione e
non di riproporli nella loro realtà, come fa notare F. Pratzner, citato in GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 143:
«L’idea sacramentale, secondo cui l’evento salvifico (…) deve veramente diventare presente e rivelarsi nel
simbolo o segno sacramentale, non è più rinvenibile nella teologia predominante nel Medioevo e neppure in
Tommaso d’Aquino». Infatti, «l’allegoria è una figura retorica per la quale si attribuisce un significato ad una
determinata realtà senza che ne sussista una relazione vera e propria», CARRA, Hoc facite, 66.
82
Cfr ST III, 83, 5. «Tommaso restringe la corrispondenza allegorica alla sola liturgia eucaristica, mentre
la tradizione di Amalario vi comprendeva anche la liturgia della Parola, già a partire dall’ingresso del sacerdote
che va all’altare», MAZZA, La celebrazione eucaristica, 191.
83
Cfr CARRA, Hoc facite, 66; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 153-169.
84
Cfr GRILLO, Eucaristia, 102-105 e 105-109. La strutturazione della Messa e il suo svolgimento, mettono
in luce un accentuato dualismo tra i fedeli, i quali sono “spettatori”, e il ministro celebrante (di cui si tratta in
ST III, 82): pur di tutelare la potestas derivante dall’Ordine, Tommaso esaspera il genus sacramentale, anche
a discapito della teologia eucaristica stessa, per cui la liceità della celebrazione deriverebbe non dalla presenza
di Cristo, ma dalla validità dello status del ministro: per tale ragione paradossale, un fedele che si comunicasse
dalle mani di un ministro accusato di eresia incorrerebbe nel danno spirituale, Cfr C ARRA, Hoc facite, 65.

48
Dunque, alla luce di tutte le considerazioni finora fatte, è riscontrabile come, nel rito
ci sia «un momento in cui il rapporto tra la celebrazione e la Passione diventa di carattere
ontologico: si tratta della consacrazione»85, a cui ogni cosa è subordinata, per cui «tutto
quanto precede la consacrazione è solo preparazione o istruzione, mentre quello che segue
è cerimonia o uso»86. Così, proprio in quanto chiave ermeneutica storico-sistematica del
trattato eucaristico, la preminenza data alla consacrazione, quale momento fattuale della
transustanziazione, e la secondarietà riservata al resto, «segnalano apertamene il disagio con
cui una grande tradizione, nel momento del suo massimo fulgore, abbia saputo illuminare i
punti ciechi di una comprensione non univoca della teologia eucaristica» 87.
In questo contesto, in cui emerge il limitato accesso rituale al Sacramento, poiché «il
fine dell’Eucaristia è l’uso da parte dei fedeli (finis autem est usus fidelium)»88, è interessante
soffermarsi brevemente sull’esame di Tommaso circa le modalità tramite cui tale uso può
essere compiuto, ovvero sui tipi di manducazione. Perciò, in quanto «due sono i modi di
cibarsi: uno sacramentale e l’altro spirituale»89, l’Aquinate scrive:

«E così, come alcuni sono battezzati con il battesimo dello spirito, per il desiderio del
battesimo, prima di essere battezzati con il battesimo dell’acqua, così pure, alcuni si cibano
spiritualmente di questo Sacramento, prima di assumerLo sacramentalmente (sicut aliqui
baptizantur baptismo flaminis, propter desiderium baptismi, antequam baptizentur baptismo
aqæ; ita etiam aliqui manducant spiritualiter hoc sacramentum antequam sacramentaliter
sumant). Ora, ciò accade in due modi: in un modo, per il desiderio di assumere questo
Sacramento; e, in questo modo, si dice che sono battezzati e che se ne cibano spiritualmente e
non sacramentalmente, quelli che desiderano ricevere questi sacramenti già istituiti. In un altro
modo, per la figura, come l’Apostolo in 1Cor 10, 2-3 dice che gli antichi Padri “sono stati
battezzati nella nube e nel mare e che mangiarono un cibo spirituale e bevvero una bevanda

85
CASPANI, Pane vivo, 222-223. Si assiste qui ad una giustapposizione tra sacramento e sacrificio, che si
rifà sulla doppia refezione sacramentale e spirituale, Cfr CARRA, Hoc facite, 53-61. Scrive Tommaso: «Questo
Sacramento è allo stesso tempo sacrificio perché offerto e sacramento perché ricevuto», ST III, 79, 5.
86
GRILLO, Eucaristia, 108; Cfr CARRA, Hoc facite, 66.
87
Ivi, 220. L’accantonamento di tutti quegli elementi che, di fatto, rendono possibile la presenza di Cristo
nell’Eucaristia, come la liturgia o l’actuosa partecipatio dei fedeli, l’esasperazione della transustanziazione,
intesa come verità obliante, non soggetta alla necessaria progressione critico-speculativa della teologia, darà
vita a dispute accademiche fuorvianti, come nel caso della consacrazione della panetteria o della cantina.
88
ST III, 74, 2. Anche qui, l’uso è condizionato dalla pervasività cautelativa della presenza ontologica.
89
PIETRO LOMBARDO, Collectanea in Epistolas Pauli. In Epistolam I ad Corinthios XX, 29: PL 191, 1647;
Cfr DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 425.

49
spirituale”. E tuttavia, cibarsi sacramentalmente non è inutile, poiché produce più pienamente
l’effetto del Sacramento la stessa assunzione del Sacramento piuttosto che il solo desiderio,
come s’è detto sopra circa il battesimo»90.

La distinzione qui operata da Tommaso tra le due modalità di manducazione, «si radica
sull’antropologia duale che egli stesso adotta: nella distinzione anima e corpo, il termine
proprio dell’efficacia sacramentale è l’anima e solo come conseguenza tale efficacia ricade
sul corpo: in quanto l’anima se ne serve per attuare la carità di cui il Sacramento l’ha dotata
ed in quanto il corpo beneficerà dell’incorruttibilità guadagnata dalla salvezza dell’anima» 91.
Alla luce di quanto appena espresso, appare evidente come la comunione debba prima
essere spirituale e solo successivamente sacramentale, per cui «come il corpo è momento
ontologicamente secondo, così la refezione sacramentale, che avviene tramite il corpo, è
mezzo per il livello che la oltrepassa, cioè la refezione spirituale» 92.

II.2.2 La performatività delle parole di consacrazione come momento apicale


Appurato che «l’Eucaristia trova la sua possibilità e la sua origine (…) nella volontà
di Cristo che l’ha istituita»93, Tommaso si interroga circa la forma del Sacramento e, nella
q.78, rifacendosi ad Ambrogio 94, scrive:

«Questo Sacramento si compie con la consacrazione della materia (…). Essa consiste
in una certa conversione miracolosa della sostanza, che può essere compiuta solo da Dio (…).
La forma di questo Sacramento comporta la sola consacrazione della materia, che consiste
nella transustanziazione, come quando si dice: “Questo è il mio corpo”, o: “Questo e il mio
sangue” (…). La forma dell’Eucaristia è proferita in nome della persona dello stesso Cristo
che parla, di modo che s’intenda che il ministro, nel compiere questo Sacramento, non fa altro
che proferire le parole di Cristo»95.

90
ST III, 80, 1. Sul battesimo, Cfr ST III, 68-69.
91
CARRA, Hoc facite, 56.
92
Ivi, 57; Cfr DE LUBAC, Corpus Mysticum, 201-216 e 407-409.
93
BIFFI, L’Eucaristia in san Tommaso, 19.
94
«La consacrazione si fa con le parole e le espressioni del Signore Gesù. Infatti, con tutte le altre parole
che si dicono, si elevano lodi a Dio, si prega per il popolo, per i re, per gli altri. Invece, quando si compie il
Sacramento, il sacerdote non si serve più delle sue parole, ma delle parole di Cristo. Dunque, è la parola di
Cristo che compie questo Sacramento», AMBROGIO, De sacramentis IV, 4: PL 16, 440.
95
ST III, 78, 1. «Mentre gli altri sacramenti si compiono nell’uso della materia, l’Eucaristia si compie nella
consacrazione della materia, e mentre negli altri sacramenti la consacrazione della materia consiste in una

50
Ebbene, le parole consacratorie sul pane e sul vino pronunciate dal ministro in persona
Christi96 sono la forma dell’Eucaristia. A quest’affermazione, rileva l’Aquinate, si potrebbe
muovere l’obiezione secondo cui l’aggettivo «questo», riferito sia al corpo che al sangue di
Cristo (hoc est corpus, hic est calix sanguinis)97, designi una cosa «come pensata e non come
effettuata»98. Tommaso però, riproponendo l’autorevole massima di Agostino, secondo cui
«la parola si unisce all’elemento e si ottiene il sacramento (accedit verbum ad elementum et
fit sacramentum)»99, sentenzia dicendo che le parole di Cristo sono da intendersi «non in
senso materiale ma significativo (non materialiter sed significative sumebantur)»100, per cui
«per il proferimento da parte dello stesso Cristo, queste parole hanno ottenuto una virtù
capace di consacrare, da qualsiasi sacerdote siano pronunciate, come se fosse Cristo presente
a pronunciarle (Christus præsentialiter)»101. Di conseguenza, quindi, le parole consacratorie
sono da considerarsi come ipsissima verba Christi, portando con sé una virtù strumentale
che effettua la transustanziazione (significando causant)102.
La forma dell’Eucaristia, così presentata nelle parole consacratorie, per l’Aquinate, è
dunque assolutamente conveniente (conveniens forma consecrationis): difatti, «occorre che

benedizione, nell’Eucaristia consiste in una miracolosa conversione (…). Negli altri sacramenti la forma deve
essere relativa all’uso della materia (…), nell’Eucaristia invece deve essere relativa alla consacrazione della
materia: perciò sono forma dell’Eucaristia le parole: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue”», DAL
SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 422.
96
Cfr ST III, 82.
97
In greco: «τοῦτό ἐστιν τὸ σῶμά μου», «τοῦτό ἐστιν τὸ ἇμά μου».
98
ST III, 78, 5.
99
AGOSTINO, In Evangelium Ioannis tractatus XV, 3: PL 35, 1840. «La forma del Sacramento, secondo la
Scolastica, è l’elemento che, accendendo alla materia creata, attua il sacramento», CARRA, Hoc facite, 46.
100
ST III, 78, 5. «Le parole della consacrazione hanno virtù fattiva e non valore significativo; fanno la cosa
non la presuppongono; operano istantaneamente e non successivamente», DAL SASSO – COGGI, Compendio
della Somma Teologica, 423. «La forma della consacrazione viene collocata nella categoria della causalità
strumentale per spiegare che in essa esiste una particolare virtus. L’istituzione dell’Eucaristia consiste proprio
in questo: nella creazione della forma», MAZZA, La celebrazione eucaristica, 211.
101
Ibidem.
102
Cfr ST III, 78, 4. «Sebbene le apparenze rimangano quelle del pane e del vino, sono tali parole a mostrare
che il corpo e il sangue sono presenti in verità e vengono realmente distribuiti nella comunione (…). Le parole
del Signore mostrano inoltre che questo dono del corpo e del sangue innesta il comunicante nella realtà salvifica
della passione cui Cristo si è sottoposto e della quale si fa memoria nel sacramento (…). Le parole pronunciate
sugli elementi sono dette in memoria della passione di Cristo. Esse rievocano l’immensità del suo dolore e del
suo amore, che nel sacrificio ci ha dato accesso a Dio e alla comunione con lui, attraverso la comunione nel
corpo di Cristo stesso», POWER, Il mistero eucaristico, 276 e 282. Tra le testimonianze patristiche citate da
Tommaso si trova, tra le tante, questa massima di Ambrogio: «Benché si vedano le sembianze del pane e del
vino, tuttavia, dopo la consacrazione, bisogna credere che non ci sia altro che la carne e il sangue di Cristo»,
AMBROGIO, De sacramentis IV, 4, 14: PL 16, 439-440.

51
la forma del Sacramento significhi ciò in cui consiste il sacramento. Per conseguenza, anche
la consacrazione del pane e del vino deve significare la stessa conversione del pane nel corpo
di Cristo e del vino nel Suo sangue»103. Tuttavia, se la convenienza delle parole consacratorie
valgono per il pane, lo stesso potrebbe non dirsi per il vino, poiché esse contengono una
specificazione, «una determinazione del predicato»104: infatti, il sangue versato da Cristo pro
multis è la sorgente della nuova ed eterna Alleanza, per cui «mentre le parole “questo è il
calice del mio sangue” designano la conversione del vino in sangue, le altre parole che
seguono designano gli effetti del sangue versato nella Passione da Cristo stesso»105.
L’aspetto così pregnante della forma dell’Eucaristia è stato considerato nello specifico
poiché mette in luce, nel più ampio contesto della trattazione, una situazione rilevante ed
importante, soprattutto in vista degli sviluppi che la ricerca teologica avrà nel XX secolo,
come a breve si vedrà nel capitolo successivo: la situazione in questione è la considerazione
degli enti pane-vino transustanziati indipendentemente dal contesto celebrativo, in cui cioè,
la preghiera eucaristica risulta, in sostanza, superflua.
Rilevato dunque che nel procedimento teologico tommasiano circa l’Eucaristia, «le
parole che significano ciò che il Sacramento attua sono soltanto quelle che indicano la
mutazione ontologica e non le altre»106, la conseguenza è quella illustrata da E. Mazza:

«Tommaso sostiene che la consacrazione avviene per l’efficacia delle parole del
Signore, indipendentemente e in modo autonomo dalla preghiera eucaristica che le contiene
(…). In questo modo, egli rompe l’unità della preghiera eucaristica e assolutizza indebitamente
le parole della consacrazione (…). La concezione di Tommaso rende, per così dire, superflua
la preghiera eucaristica dato che le assegna un ruolo solo devozionale. Questa concezione
troverà la sua logica conclusione nella riforma liturgica di alcune Chiese evangeliche che
hanno abolito la preghiera eucaristica per conservare solo le parole consacratorie» 107.

103
ST III, 78, 2. «Nell’ultima cena, le parole hanno ricevuto da Gesù la forza di produrre ciò che significano.
Dunque, proprio in questo consiste l’istituzione del sacramento dell’Eucaristia: nel dotare le parole in questione
del potere consacratorio», CASPANI, Pane vivo, 215.
104
ST III, 78, 3. Tuttavia, le parole di consacrazione del pane hanno effetto prima che siano pronunciate
quelle della consacrazione del vino, Cfr ST III, 78, 6.
105
DAL SASSO – COGGI, Compendio della Somma Teologica, 423; Cfr HOPING, Il mio corpo dato per voi,
180; Cfr BOZZOLO – PAVAN, La sacramentalità della parola, 49-54.
106
CARRA, Hoc facite, 47.
107
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 190; Cfr, Ivi, 168-186. In ciò si avverte particolarmente la rottura
con la patristica: De Lubac nota questa scissione anche nella distinzione semantica tra i termini sacramentum

52
Traendo le conclusioni sulle questioni della Summa esaminate, come rileva A. Grillo,
è possibile mettere in luce due condizioni epistemologiche alle quali l’Aquinate, come
pensatore e come testimone della tradizione 108, si è assoggettato: una è proprio l’assoluta
preminenza riservata alla transustanziazione, l’altra invece, è la messa in ombra delle azioni
rituali, per cui «al centro non vi è l’imitazione dell’azione di Cristo ma la spiegazione del
mistero mediante analogie e somiglianze concettuali e non pratiche» 109.
Ebbene, da quanto emerso, non è possibile non riscontrare delle “imperfezioni” nelle
argomentazioni di Tommaso d’Aquino, per cui il suo «registro pratico-autoritativo non è più
utilizzabile dalla modernità: che una cosa sia così perché lo dice la Chiesa non è più un
argomento recepito. Nel trattato tommasiano, dunque, esso può sorreggere ancora i pezzi
della sacramentaria che non ineriscono al sistema speculativo. Nella ricezione successiva del
trattato tomista ciò non funziona più ed è inevitabile che tali pezzi si perdano per via» 110.

II.3 La conferma del modello a Trento contro le istanze riformatrici


II.3.1 Le riflessioni eucaristiche dei Riformatori
Nell’intervallo di tempo plurisecolare che separa l’Aquinate dal Concilio di Trento,
numerose furono le prese di posizione contro il modello tommasiano, ovvero contro il modo
in cui Tommaso spiegò la presenza eucaristica di Cristo111.
Già i teologi francescani Duns Scoto e Guglielmo d’Ockham avanzarono perplessità e
critiche alla teologia eucaristica tommasiana. Scoto, per esempio, concepì la presenza come
ordo partium in toto, ovvero come presenza reale interna al pane e al vino, priva però di
estensione locale, cioè di ordo partium in loco112: tale realtà poi, non era data dalla conversio

e mysterium: infatti, «mentre il sacramentum è confezionato, portato, deposto, conservato, diviso, spezzato,
distribuito, ricevuto, mangiato e bevuto, il mysterium invece, viene agito, operato, celebrato, offerto, compito,
interrotto, ricominciato, frequentato», DE LUBAC, Corpus Mysticum, 76.
108
Cfr CASEL O., Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano, Edizioni Messaggero,
Padova 2001, 96-112.
109
GRILLO, Eucaristia, 108. «Il servizio all’annuncio della presenza del Signore in mezzo ai suoi paga un
prezzo molto caro alle condizioni culturali ed ecclesiali dell’esperienza e dell’espressione», Ivi, 220.
110
CARRA, Hoc facite, 69. «È dunque la dimensione speculativa dello strumentario metafisico applicato al
Sacramento ciò che di Tommaso diverrà corrente nella dottrina della Chiesa, in quanto è ciò che permette di
rispondere alle questioni di urgenza del momento storico. Ciò fa sì che dei due registri, speculativo e pratico-
autoritativo, la recezione valorizzerà molto di più il primo», Ivi, 68.
111
Cfr POWER, Il mio corpo dato per voi, 183-186.
112
Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 241-243.

53
ma dalla successio substantiarum, ovvero dalla traslazione (adductio) del pane e del vino in
corpo e sangue di Cristo, per speciale intervento divino. Dal canto suo, invece, Ockham,
sostenne la coesistenza del pane e del vino col corpo e sangue di Cristo, abbracciando, di
fatto, la teoria della consustanziazione 113.
Ad ogni modo, sia Scoto che Ockham, seppur in maniera diversa e comunque in netto
contrasto con la posizione dell’Aquinate 114, accolsero la dottrina della presenza eucaristica
non perché dimostrabile teologicamente, bensì perché fermamente insegnata dall’autorità
della Chiesa, accogliendola, così, come verità di fede e non come risultato della speculazione
teologica sul Sacramento.
Qualche tempo dopo, in varie parti d’Europa, iniziarono a sorgere le prime istanze di
riforma ecclesiale, le quali accesero aspre polemiche nella Chiesa e che non risparmiarono
nemmeno l’Eucaristia: i primi focolai furono ad opera di John Wyclif e Jan Hus115.
In particolare, Wyclif, contro le forzature di Tommaso al sistema aristotelico, sostenne
la tesi della remanentia, secondo la quale, essendo la sostanza unita agli accidenti, non può
esservi transustanziazione senza una contestuale mutazione degli accidenti, per cui, «dopo
la consacrazione l’ostia rimane pane esattamente come lo era prima» 116. Questa tesi, come è
facile immaginare, venne condannata, insieme ad altre asserzioni teologiche, come, ad
esempio, l’utraquismo stesso di Hus, nel Concilio di Costanza 117 del 1418.
La vera riforma nell’ambito della sacramentaria, però, si ebbe con Martin Lutero: del
teologo sassone è pressoché impossibile tracciare un’ordinata e lineare sintesi di riflessione
eucaristica118. Molte sue tesi sono deducibili da varie opere, come i sermoni Sul venerabile
Sacramento del 1519, quello Sulla santa Messa del 1520, la Confessione sulla cena di Cristo
del 1528, nonché da alcune opere di riforma liturgica119.

113
Cfr GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 132-133; Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 852-854.
114
Cfr GRILLO, Eucaristia, 223; Cfr CASPANI, Pane vivo, 223-228.
115
In realtà Hus non negò mai la dottrina della transustanziazione: le polemiche tra la Chiesa e il movimento
hussita sorsero, invece, con Jakoubek di Stribro, esponente degli utraquisti, il quale sostenne la comunione
sotto le due specie, contro la prassi liturgica dell’epoca; Cfr AUER, Il mistero dell’Eucaristia, 207-208.
116
CASPANI, Pane vivo, 229. Le tesi di Wyclif sono sostenute da spiegazioni prettamente filosofiche e, nel
loro complesso, ricordano la posizione simbolista adottata tempo prima da Berengario, Cfr M AZZA, La
celebrazione eucaristica, 241.
117
Cfr DH 1151-1195.
118
Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 265-277.
119
Ad esempio, il De abroganda Missa privata del 1521 e la Formula Missæ et communionis del 1523; Cfr
AA.VV., Anàmnsesis 3/2, 74; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 234-236.

54
Tuttavia, per un breve ma efficiente quadro del pensiero eucaristico di Lutero 120, può
essere preso in considerazione un altro testo: il De captivitate babylonica Ecclesiæ, scritto
nel 1520, in cui egli «non si limita a contestare gli abusi pratici, ma sottopone a dura critica
alcuni aspetti della dottrina sacramentale, soprattutto per ciò che concerne l’Eucaristia» 121.
Il contesto entro cui si svolge la riforma sacramentaria luterana è senz’altro quello del
rifiuto di alcuni caratteri propri della Messa122, nonché dell’acquisizione di nuove categorie
interpretative dei sacramenti. Nel primo caso, l’Eucaristia viene intesa da Lutero non come
officium ma come beneficium, valorizzando così la comunione a discapito dell’offerta123: la
Messa, dunque, è da lui intesa come atto di commemorazione, come ricordo dell’evento
storico della croce, nonché come dimostrazione pubblica della fede124, prospettiva condivisa
anche da altri Riformatori. Nel secondo caso, invece, circa le categorie sacramentali, va
notato che «mentre la concezione medievale dei sacramenti è legata alle categorie del segno
e della causa (…), la concezione di Lutero è legata al concetto di promessa (…) e alla fede,
come risposta necessaria alla promessa (promissio)»125.
Ora, nel De captivitate, Lutero sostiene che, tra gli elementi che “imprigionano” il
Sacramento, vi è la transustanziazione: egli, tuttavia, contrariamente a quanto si pensi e si
dica, pur rifiutandone la dottrina interpretativa prettamente metafisica, non disconosce la
presenza di Cristo nella santa cena, anzi, egli afferma che «pur non potendo dire in che modo
il pane è corpo di Cristo, voglio rendere la mia ragione prigioniera dell’obbedienza a Cristo,
attenendomi semplicemente alle Sue parole e credere fermamente non solo che il corpo di
Cristo è nel pane, ma che il pane è il corpo di Cristo»126. Poiché, dunque, Lutero afferma che
nell’Eucaristia «vi sono sia il pane sia il corpo, rifiutando le teorie che tentano di escludere
l’uno o l’altro»127, la sua posizione è pressoché in linea con la consustanziazione, in quanto

120
Per un’analisi più approfondita delle tesi luterane sull’Eucaristia, Cfr CASPANI P. – MAGNOLI C.,
«L’Eucaristia nei testi di Martin Lutero», La Scuola Cattolica 129 (2001), 597-679.
121
CASPANI, Pane vivo, 238.
122
Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 854-855; Cfr CASPANI, Pane vivo, 247.
123
Cfr GRILLO, Eucaristia, 232.
124
Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 55.
125
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 234; Cfr LAMERI – NARDIN, Sacramentaria, 179-186.
126
LUTERO M., La cattività babilonese della Chiesa, in PANZIERI SAIJA G. (ed.), Scritti politici di Martin
Lutero, UTET, Torino 1949, 250.
127
GRILLO, Eucaristia, 231. Per un recentissimo contributo sulla concezione eucaristica di Lutero, Cfr
SABETTA A., «Realismo dell’incarnazione, realismo sacramentale. La controversia di Lutero sulla presenza
reale di Cristo nel sacramento dell’altare tra il 1527-1528», Rassegna di teologia 61 (2020), 399-422.

55
egli, appellandosi all’Incarnazione 128, intende la presenza di Cristo «come compresenza di
due sostanze»129, per cui la sostanza corpo-sangue coesiste con la sostanza pane-vino.
Anche per Lutero, poi, la compresenza delle sostanze è data dalle parole consacratorie,
i Verba Testamenti130, le quali, però, realizzano la presenza solo durante lo svolgimento della
cena (in usu), non ex opere operato ma per sola fide.
Ebbene, i dibattiti di Lutero sull’Eucaristia non furono solo con la Chiesa di Roma, ma
furono anche interni alla Riforma stessa, in particolare con Ulrico Zwingli: tra questi due
teologi intercorse una controversia circa l’interpretazione delle parole istitutive di Cristo. Se
da una parte Lutero le interpreta in senso letterale, dall’altra, invece, Zwingli le interpreta in
senso metaforico: egli, infatti, appartenente agli Schwärmer, i fanatici, è convinto che «il
pane e il vino siano semplicemente segni sacri che evocano il corpo e il sangue di Cristo
senza renderli realmente presenti»131. Il Riformatore svizzero avalla le sue tesi rifacendosi a
Gv 6, 63, il cui testo132 «basta da solo a costringerci ad interpretare “è” con significa o con
è simbolo di»133. Dunque, «l’esito di queste argomentazioni è una comprensione del pane
eucaristico come puro simbolo del corpo di Cristo, segno che rimanda a una realtà esteriore
al segno stesso e che il segno in nessun modo comunica»134.
Antecedente alla Formula di concordia135, un tentativo di mediazione tra le posizioni
di Lutero e Zwingli venne avanzato da un altro grande teologo riformista, Giovanni Calvino,

128
«L’analogia proposta da Lutero tra Eucaristia e unione ipostatica non funziona, in quanto porta a ritenere
che, con la consacrazione, si realizzi una sorta di nuova incarnazione (…), Mediante la consacrazione, infatti,
Gesù Cristo assumerebbe la sostanza del pane, ma così nell’Eucaristia avremmo un Cristo diverso da quello
storico (…). Il che risulta evidentemente contraddittorio con la fede nel fatto che il Cristo dell’Eucaristia è
identico al Cristo della storia», CASPANI, Pane vivo, 241.
129
Ivi, 239; Cfr CARRA, Hoc facite, 75. Scrive Lutero: «Ferro e fuoco, per esempio, sono due sostanze che
si mescolano nel ferro rovente in modo tale che ogni parte è contemporaneamente ferro e fuoco: perché,
dunque, il glorioso corpo di Cristo non può, a maggior ragione, essere contenuto in ogni parte della sostanza
del pane?», LUTERO, La cattività babilonese della Chiesa, 248. Così facendo, Lutero, sempre in riferimento
all’Incarnazione, paragona la presenza sacramentale all’ubiquità di Dio; Cfr POWER, Il mistero eucaristico,
320; Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 858.
130
Qui, Lutero si rifà chiaramente alla tradizione patristica della teologia della consacrazione; Cfr HOPING,
Il mio corpo dato per voi, 206-207; Cfr BOZZOLO – PAVAN, La sacramentalità della parola, 55-75.
131
CASPANI, Pane vivo, 245.
132
«È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla: le parole che vi ho detto sono spirito e vita»; Cfr,
GRILLO, Eucaristia, 232.
133
ZWINGLI U., Scritti teologici e politici, Claudiana, Torino 1985, 242.
134
CASPANI, Pane vivo, 246-247.
135
Nel 1580, le chiese protestanti sottoscrissero il Liber concordiæ, una raccolta di testi dottrinali luterani:
tra questi, vi fu la Solida declaratio, in cui la presenza di Cristo venne affermata «in, con e sotto» il pane (cum,
in et sub). Cfr AA.VV., Anàmnsesis 3/2, 68, nota 41; Cfr MÜLLER, Dogmatica cattolica, 857.

56
che al proposito scriverà il Piccolo trattato sulla santa cena. Tuttavia, una trattazione
sistematica sulla questione della presenza eucaristica si trova nell’Istituzione della religione
cristiana, in cui egli, «nel suo grande rispetto del mistero di Dio, non vuole pronunciarsi sul
“come” della presenza reale»136, mantenendo così un forte realismo e rifiutandosi di
localizzare il corpo-sangue di Cristo nel pane-vino: infatti, scrive Calvino, «nel definirsi
pane di vita, il Signore ha voluto non solo attestare che la nostra salvezza consiste in una
fiducia nella Sua morte e risurrezione, ma che in virtù della reale comunione che abbiamo
con Lui, la Sua vita viene trasferita in noi e diventa nostra»137.
Concludendo, dalle istanze dei Riformatori circa la dottrina eucaristica emerge come
«ognuno di essi affermava un diverso modo di presenza di Cristo nel Sacramento. Lutero
parlava di presenza reale; per Zwingli il Sacramento era solo segno e figura della presenza
di Cristo (…); Calvino ammetteva che il Sacramento fosse il tramite di una virtù che
emanava Cristo sedente nei cieli» 138. Tuttavia, ciò che accomuna tutti loro è che «preferivano
parlare di una presenza di Cristo nell’uso del Sacramento, cioè nel rito della comunione»139,
intendendo l’Eucaristia come dono e non come sacrificio, mettendo al centro della santa
cena la Parola e non l’ostia 140.

II.3.2 Il decreto tridentino «De SS. Eucharistia»


I punti dottrinali messi in dubbio da Lutero, ovvero la presenza eucaristica, il carattere
sacrificale della Messa e la comunione al calice per i laici141, vennero sistematicamente presi
e affrontati dal Concilio di Trento142, iniziato il 1545 e conclusosi solo nel 1563. Ebbene, i
Padri conciliari, dal punto di vista metodologico, intervennero su vari livelli, enunciando
dottrine teologiche e basandosi sulla plurisecolare prassi ecclesiale143.

136
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 237; Cfr CASPANI, Pane vivo, 249-253
137
CALVINO G., Istituzione della religione cristiana, UTET, Torino, 1971, 1584. Per un’analisi della
teologia eucaristica di Calvino, Cfr THURIAN M., L’Eucaristia, Editrice AVE, Roma 1967, 288-306.
138
AA.VV., Anàmnsesis 3/2, 68.
139
POWER, Il mistero eucaristico, 317; Cfr HOPING, Il mio corpo dato per voi, 214-224.
140
Cfr Ivi, 314; Cfr GRILLO, Eucaristia, 231.
141
Cfr HOPING, Il mio corpo dato per voi, 208.
142
Cfr AA.VV., Anàmnsesis 3/2, 61.
143
Cfr GRILLO, Eucaristia, 233-234. Questi due livelli possono definirsi come livello lessicale e livello
strutturale, Cfr CARRA, Hoc facite, 70. Per un’attenta analisi, Cfr MAFFEIS A., «Il dibattito sull’Eucaristia al
Concilio di Trento tra riflessione teologica, controversia confessionale e definizione dogmatica», Teologia 37
(2012), 67-108; Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 288-322.

57
Tra i tre decreti dedicati alle altrettante controversie protestanti, dunque, quello in cui
i Padri si occupano specificatamente della presenza eucaristica di Cristo, è il De Eucharistia,
della XIII sessione conciliare, datato 11 ottobre 1551144, in cui si legge:

«In primo luogo, questo santo Sinodo insegna e professa apertamente e semplicemente
(aperte ac simpliciter docet et profitetur) che nel divino sacramento della Santa Eucaristia,
dopo la consacrazione del pane e del vino, il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero
uomo, è conenuto veramente realmente e sostanzialmente sotto l’apparenza di quelle cose
sensibili (vere, realiter ac substantialiter sub specie illarum rerum sensibilium contineri). Non
vi è infatti contraddizione tra il fatto che lo stesso nostro Salvatore sieda sempre nei cieli alla
destra del Padre, secondo il modo naturale di esistere, e il fatto che, presente sacramentalmente
(sacramentaliter præsens) in molti altri luoghi, sia presso di noi nella Sua sostanza (Sua
substantia nobis adsit), con quel modo di esistere che, difficile da esprimere a parole, tuttavia
possiamo comprendere con la nostra mente illuminata dalla fede, come possibile a Dio, e che
anzi dobbiamo credere fermissimamente (constantissime credere debemus)»145.

Questa formulazione dogmatica, in cui solennemente si afferma la presenza di Cristo


nelle specie del pane e del vino vere, realiter ac substantialiter146, trova la conferma nella
teoria della transustanziazione, esattamente come era stata affermata, un paio di secoli
prima, da Tommaso, al quale Lutero ne aveva erroneamente attribuito l’“invenzione”, come
già accennato in precedenza:

«Poiché il Cristo, nostro redentore, ha detto che ciò che offriva sotto la specie del pane
era veramente il Suo corpo, nella Chiesa di Dio vi fu sempre la convinzione, e questo santo
Concilio lo dichiara ora di nuovo, che con la consacrazione del pane e del vino si opera la
conversione di tutta la sostanza del corpo del Cristo, nostro Signore, e di tutta la sostanza del
vino nella sostanza del Suo sangue. Questa conversione, quindi, in modo conveniente e
appropriato è chiamata dalla Santa Chiesa transustanziazione (quæ conversio convenienter et
proprie a Sancta Ecclesiæ transubstantiatio est appellata)»147.

144
Cfr DH 1635-1661. Gli altri due decreti sono il De communione, della sessione XXI, circa la comunione
sotto le due specie, datato 16 luglio 1562 (DH 1725-1734) e il De Missæ sacrificio, della sessione XXII, circa
il carattere sacrificale della Messa, datato 17 settembre 1562 (1738-1760).
145
DH 1636; Cfr CARRA, Hoc facite, 73-90.
146
Al capitolo III, poi, il Concilio affermerà che Cristo è anche presente «tutto e integro (totus et integer)»
(DH 1641) in ognuna delle due specie, giustificando così la prassi della comunione sotto il solo pane.
147
DH 1642. Sull’attribuzione del termine a Tommaso, Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 55.

58
La spiegazione teologica della presenza eucaristica, comprese le questioni sulla Messa
come sacrificio e sulla comunione, sfociano, come detto all’inizio, nella prassi celebrativa,
cui il Concilio dà spiegazioni ben precise, come nel caso della conferma alla solennità del
Corpus Domini, per cui i Padri affermano che «non vi è alcun dubbio che i fedeli cristiani,
secondo la prassi sempre in uso nella Chiesa cattolica, debbano onorare questo Santissimo
Sacramento con il culto di latria, dovuto al vero Dio» 148. Accanto ad affermazioni simili,
poi, i Padri, per mezzo dei Pontefici, diedero inizio ad una massiccia riforma liturgica,
sopperendo a tutte le denunce di Lutero in ambito rituale 149: tale riforma, venne eseguita «in
continuità con la tradizione, in senso critico-storico, cioè eliminando le aggiunte posteriori
(…), diminuendo le messe votive, ricercando una maggiore uniformità, componendo un
Ordo Missæ con rubriche obbligatorie per tutti»150.
Ad ogni modo, dal punto di vista squisitamente speculativo-teologico, comunque, «il
pensiero tridentino è completamente riconducibile a quello di Tommaso (…). Il Concilio di
Trento adotta le soluzioni elaborate da Tommaso d’Aquino»151: in questo modo, la teologia
eucaristica dell’Aquinate viene “consacrata” dalla dottrina della Chiesa, alla quale Essa si
ispirerà pedissequamente nel corso dei secoli avvenire.
Continuando, il decreto De Eucharistia trova il suo culmine, come tutti i decreti, nelle
preposizioni dogmatiche espresse nei canoni, con cui si condanna, tramite la celebre formula
anathema sit, ogni asserzione futura, contraria a quelle espresse dal Concilio.

148
DH 1643; Cfr HOPING, Il mio corpo dato per voi, 192. Anche questa solennità, però, rientra, come si
vedrà di seguito, nella più vasta opera di riforma liturgica, la quale avrà il suo culmine nel Messale di Pio V,
infatti, «il Concilio riconosce che il senso primario della celebrazione eucaristica, e anche della presenza reale,
non è l’adorazione del Cristo presente, bensì la recezione», GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 164.
149
La situazione aberrante circa la celebrazione eucaristica in epoca pre-tridentina è riscontrabile nella lista
degli abusi liturgici compilata dalla commissione preparatoria al Concilio, datata 8 agosto 1562, in cui si legge
della confusione derivata da Messe celebrate simultaneamente e privatamente, della rivalità tra fedeli, ministri
e confraternite che, nelle processioni, sfociavano in risse, dei monaci che parlavano animatamente nei cori
durante le funzioni religiose, e altro ancora, Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 53-54.
150
NEUNHEUSER, Storia della liturgia, 137. L’opera liturgica tridentina, di fatto, «ha salvato la liturgia dalla
crisi del Cinquecento. È però anche un’opera limitata: mentre ha dato forma fissa alla liturgia per superare la
situazione caotica dell’epoca, l’ha anche allontanata dalla vita reale, l’ha quasi “congelata”, costringendo così
la pietà dei fedeli ad allontanarsene per rivolgersi a forme di pietà popolare e devozionale. Essa ha finito così
col dare origine, senza volerlo, alla cultura religiosa del Barocco», Ivi, 139; Cfr JUNGMANN J.A., Missarum
sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Messa romana I, Marietti, Casale Monferrato 1953-1954,
109-120; GRILLO, Eucaristia, 241-248.
151
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 243. Ad esempio, nei capitoli sull’uso e gli effetti dell’Eucaristia,
il Concilio riprenderà la trattazione in ST III, 79-80, Cfr DH 1646-1650.

59
Così scrivono i Padri tridentini:

«Se qualcuno negherà che nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia è contenuto


veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con
l’anima e la divinità, e, quindi, il Cristo tutto intero, ma dirà che esso vi è solo come in un
simbolo o figura (in signo vel figura), o solo con la sua potenza (in virtute): sia anatema. Se
qualcuno dirà che nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia il corpo e il sangue di nostro
Signore Gesù Cristo rimane la sostanza del pane e del vino e negherà quella meravigliosa e
singolare conversione (mirabilem et singularem conversionem) di tutta la sostanza del pane
nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel sangue, mentre rimangono solamente le specie del
pane e del vino, conversione che la Chiesa con termine appropriatissimo (aptissime) chiama
transustanziazione: sia anatema»152.

A questo punto, è opportuno trarre qualche conclusione sulla recezione che il Concilio
di Trento fece del modello tommasiano, assumendo così la dottrina della transustanziazione
come interpretazione “ufficiale” alla presenza di Cristo nel pane e nel vino.
Innanzitutto, poiché, oltre a Tommaso e a pochi altri, molti teologi, come già visto, si
erano espressi diversamente sulla presenza eucaristica, adottando, già dopo il Concilio
Lateranense IV, altri modi per esprimerne la realtà, è da rilevare come il Concilio riflesse su
«una teoria eucaristica già frantumata e scompensata, nella quale il tema della presenza reale,
in sé e per sé considerata, assorbiva l’intero interesse o quasi della riflessione teologica sul
Sacramento, a scapito di altri aspetti, come per esempio quello del valore sacrificale della
Messa, lasciato di preferenza alla predicazione e alla devozione popolare»153.
Ebbene, l’adozione della teoria della transustanziazione, col Concilio di Trento, da
parte della Chiesa, non fu motivato da riflessioni filosofico-teologiche, ma solo, come si è
potuto apprendere nelle pagine precedenti, dall’accoglienza delle spiegazioni più plausibili
in merito, ovvero quelle dell’Aquinate: difatti, come fece notare Karl Rahner, la spiegazione
della presenza tramite la transustanziazione «è logica, piuttosto che ontica»154.

152
DH 1651-1652. Così espressi, dai canoni si evince chiaramente la presa di posizione contro le tesi di
Lutero (la consustanziazione), di Zwingli (la presenza metaforica) e di Calvino (la presenza per virtù divina).
153
BUZZI F., Il Concilio di Trento. Breve introduzione ad alcuni temi teologici principali, Glossa, Milano
1995, 130; Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 284-287; Cfr GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 145-148.
154
Citato in POWER, Il mistero eucaristico, 319; Cfr RAHNER K., La presenza di Cristo nel Saramento della
cena del Signore, in Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Edizioni Paoline, Roma 1965, 173-217.

60
In sostanza, dunque, il Concilio, «nel difendere la formula della presenza sostanziale,
pare non cogliere in alcun modo la provocazione luterana, che avrebbe potuto aprire il campo
cattolico ad una riconsiderazione serena della natura complessa della presenza di Cristo nel
Sacramento»155, il tutto rinunciando all’unico elemento in grado di conferire dinamicità alla
riflessione, ovvero il rito, declassandolo e facendolo apparire «soltanto come un “mezzo”
per realizzare un “miracolo metafisico”»156.
Di fatto, i pronunciamenti tridentini concepiti secondo il fine che i Padri si prefissero,
cioè contrastare le tesi dei Riformatori, appaiono escludere la possibilità di aprire a nuove
prospettive: i canoni enunciati dal Concilio, infatti, inibiranno per lungo tempo la riflessione
sull’Eucaristia e sulla presenza di Cristo, la quale sarà di fatto assente nelle speculazioni
teologiche dei quattrocento anni successivi157.
L’unico modo per poter proseguire la trattazione ed accedere ai lavori dei teologi del
XX secolo sull’Eucaristia senza incorrere in cesure storico-dottrinali, è quello di riuscire a
scorgere, tra i decreti, la possibilità di poter riflettere, consci del fatto che «la Chiesa ha
sempre professato la sua fede nel vero mutamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue
di Cristo, senza però esprimere sempre tale fede usando il termine transustanziatone»158.
Adottando questa prospettiva aperta, l’unica che permette di fare teologia, è possibile
procedere, proprio perché, in questo caso, la Chiesa «fa suo il termine transustanziazione
poiché lo giudica molto appropriato, ma non esclude la possibilità di impiegare altri termini
in grado di esprimere ciò che esso significa»159.

155
GRILLO, Eucaristia, 240.
156
Ibidem. Il rito è considerato «dal lato luterano-protestante è mera funzione della fede o della Scrittura o
della grazia; dal lato tridentino-cattolico è mera funzione dell’autorità. Manca del tutto la consapevolezza del
ruolo peculiare e irriducibile della mediazione operata da parte dell’azione rituale», Ivi, 241.
157
Fino al 1800, si insisterà solo e sempre più sul carattere sacrificale della Messa, Cfr GERKEN, Teologia
dell’Eucaristia, 151. Nella teologia eucaristica post-tridentina non subentrerà alcuna novità, se non l’insorgere
di dottrine interpretative del sacrifico eucaristico, come l’immolazionismo e l’oblazionismo, incentrate sulla
presenza del Christus passus, Cfr CASPANI, Pane vivo, 282-292 e 380-381; Cfr AA.VV., Anàmnsesis 3/2, 121.
158
POWER, Teologia eucaristica, 51. Dunque, si può assurgere che il Concilio, in virtù della consacrazione
testimoniata nel NT, dogmatizza la presenza di Cristo, affermando così «l’oggettività del cambiamento che si
compie nelle specie eucaristiche», SESBOÜÉ, Storia dei dogmi III, 146.
159
CASPANI, Pane vivo, 260.

61
III..LA PRESENZA EUCARISTICA NELLA TEOLOGIA DEL XX SECOLO:
DIBATTITI E PROSPETTIVE

III.1 Oltre la stasi: l’Eucaristia in genere ritus


III.1.1 La riappropriazione teologica del rito e le istanze del Movimento liturgico
A seguito dei pronunciamenti tridentini anche il discorso circa la presenza eucaristica,
così come altre questioni teologiche, venne “ingessato” in un costrutto dogmatico, confluito
poi nella teologia manualistica1.
Questa stasi, pressoché rintracciabile in quella che A. Grillo ha definito una cesura tra
contenuto discente, cioè santificazione-sacramento, e forma ascendente, cioè culto-liturgia2,
durò fino agli inizi del XIX secolo, allorquando la teologia, come si vedrà di seguito, prese
coscienza dell’impossibilità per la dogmatica di essere autosufficiente e autoreferenziale, per
aprirsi alla ritualità quale sostrato fondamentale e fondativo della teologia eucaristica stessa,
nonché quale parte essenziale per la retta comprensione dei sacramenti.
Dunque, in questo panorama, con la nascita del Movimento eucaristico, immesso poi
nel Movimento liturgico, il sapere teologico-sacramentario si affiancò al sapere rituale-
liturgico, dall’essentia all’usus, e colmando una lacuna plurisecolare, già rintracciata nel
precedente capitolo, per cui il rito era inteso come ens e non come actio, ovvero come cornice
marginale entro cui comprendere il fatto della transustanziazione.
Ebbene, il mutamento di paradigma sacramentale dal genus signi et causæ al genus
symboli et ritus, pur senza contrapporsi al discorso ontoteologico3, «oltre ad ammettere una
significatività del rito per la storia, rappresenta anche, sul piano sistematico, il compimento
della teologia sacramentaria e della teologia liturgica, prima opposte, in una nuova sintesi
teologico-fondamentale»4. Il rito iniziò, quindi, a rivelarsi come locus theologicus, tanto che
l’esperienza stessa della ritualità venne riconosciuta come presupposto per intelligere fidem5,

1
Cfr CASPANI, Pane vivo, 297-299.
2
Cfr GRILLO, Eucaristia, 251. Per un’attenta analisi su questa distinzione, Cfr CHAUVET L.-M., Simbolo e
sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Elledici, Torino 1990.
3
«L’affermazione secondo cui i sacramenti (…) devono essere collocati anzitutto in genere ritus non
significa infatti screditare in quanto tale l’approccio tradizionale in genere signo, ma piuttosto valorizzarne
appieno la decisiva altezza di intuizione», ID., La forma rituale della fede cristiana. Teologia della liturgia e
dei sacramenti agli inizi del XXI secolo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2011, 30.
4
Ivi, 32.
5
Cfr TERRIN A.N., Il rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità, Morcelliana, Brescia 1999.

62
cioè come «una dimensione strutturante della fede e non semplicemente come un momento
del suo esercizio pratico»6.
La basilarità del rito per la teologia e per la riflessione eucaristica venne messa anche
in luce da un “profeta” del rinnovamento liturgico, Antonio Rosmini, il quale, nella celebre
operetta Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, sottolineò la necessità di riscoprire l’unità
ecclesiale nel rito eucaristico, anticipando così «l’esigenza di un ripensamento teologico e
spirituale dell’Eucaristia, il cui ruolo dell’azione deve essere investito di una nuova funzione
e di un nuovo statuto»7. Contemporanei a Rosmini, anche i benedettini Prosper Guéranger,
Lambert Beauduin e Maurice Festugiére, contribuirono con le loro opere alla riscoperta del
fondamento rituale dell’Eucaristia, proponendone così un nuovo approccio8.
Questa correlazione tra l’intellectus fidei e l’intellectus ritus9, da intendersi quindi non
come una “rivoluzione” ma come un logico, necessario e teologicamente naturale passo in
avanti, iniziò col favorire la riappropriazione teologica del rito stesso, passando, dunque, per
la riscoperta del mistero che esso manifesta.
Alla teologia misterica, innanzitutto, «va riconosciuto il merito di aver recuperato una
considerazione unitaria del mistero eucaristico»10: tra i suoi iniziatori, partendo da una
rilettura del concetto tommasiano di sacramento, vi fu il benedettino Anscar Vonier11. Egli,
spiegando il mistero dell’Eucaristia, afferma che «il sacrificio dell’altare e il sacrificio di
Cristo sono un solo e stesso sacrificio»12. In questo contesto, dunque, l’azione sacrificale
della Messa è da intendersi come ripresentazione di ciò che avvenne sul Calvario; infatti «se
il sacrificio è un sacramento nel pieno senso della parola, esso non può essere un nuovo
sacrifico: deve invece essere la rappresentazione pura e semplice del sacrificio storico o

6
SEQUERI P., Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, 739. In sintesi,
la situazione appena delineata va intesa come «forma di riappropriazione della teologia di uno dei presupposti
di quell’esperienza cristiana del Dio di Gesù Cristo che proprio la riflessione teologica ha il compito di
tematizzare ed illustrare», GRILLO, La forma rituale della fede, 26.
7
GRILLO, Eucaristia, 253.
8
Cfr LAMERI – NARDIN, Sacramentaria, 213-215.
9
La dinamica del rito in teologia è espressa da P. Caspani con la triade presupposizione-rimozione-
reintegrazione: difatti, il rito era un presupposto ovvio per la teologia patristica, fu marginalizzato e, di fatto,
rimosso da quella medievale-moderna e, infine, è stato reintegrato, come detto sopra, a partire dal XIX secolo,
proprio grazie al Movimento liturgico; Cfr CASPANI, Pane vivo, 337-340.
10
CASPANI, Pane vivo, 299.
11
Cfr Ivi, 302-304.
12
VONIER A., La chiave della dottrina eucaristica, Edizioni Paoline, Milano 1955, 139.

63
naturale»13. Questa visione di Vonier, così come gli impulsi di Rosmini, di Guéranger e di
Beauduin, saranno efficaci nel riproporre il tema della presenza reale svincolata dal fissismo
dogmatico sancito a Trento sulla base delle speculazioni teologiche della Scolastica.
Ancora, contro il “fissismo” tridentino si pose un altro benedettino, Odo Casel14, che
indagò il dinamismo rituale, anche dal punto di vista antropologico, intendendolo come via
di accesso al mistero eucaristico, nonché come modo per cui Cristo si rende presente15. Nella
sua «dottrina dei misteri», la Mysterienlehre, Casel propose «una rilettura della tradizione
rituale dei sacramenti (…) operando una critica alla razionalizzazione con cui il concetto di
segno ha eliminato la ripresentazione che la tradizione misterica antica attuava nell’azione
di culto»16; fu lui, con i suoi studi, a suggerire «di scoprire il mistero del culto come logica
del sacramento e di recuperare un “pensiero totale” come stile teologico, intendendo con
esso un approccio non segnato dall’opposizione razionalistica tra soggetto e oggetto»17. Nel
caso specifico di Cristo presente nell’Eucaristia, dunque, egli propose «l’interpretazione
della presenza in correlazione con l’azione»18.
La riflessione sull’azione liturgico-sacramentale gli permise di ritrovare l’essenza del
cristianesimo «nel mistero di Cristo, in cui si compie la rivelazione di Dio»19: in tal modo
emerse una fondamentale realtà, ovvero che «la presenza dell’azione del Signore nell’atto
liturgico è il dato di base della fede, il presupposto che giustifica la prassi del celebrare e ne
determina la rilevanza. Si tratta di un’evidenza che il credente percepisce nel concreto
esercizio dell’atto liturgico, non a prescindere da esso»20.

13
Ivi, 140.
14
Cfr VILANOVA E., Storia della teologia cristiana III, Borla, Roma 1995, 605-609; Cfr LAMERI – NARDIN,
Sacramentaria, 221-226. Per un’ampia e documentata presentazione del pensiero di Casel, Cfr BOZZOLO A.,
Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 2003.
15
Casel definisce il mistero come «azione sacra di carattere cultuale nella quale un fatto salvifico compiuto
da un dio, sotto forma di rito diventa attualità; per il fatto che la comunità cultuale compie questo rito essa
prende parte al fatto salvifico e conquista in tal modo la salvezza», CASEL O., Il mistero del culto cristiano,
Borla, Torino 1966, 95-96. Per tali ragioni, il mistero rituale «fa sì che l’opera salvifica di Cristo, ormai lontana
nel tempo, divenga veramente presente in mezzo a noi e operante sacramentalmente», WARNACH V., voce
«Odo Casel» in Mysterium salutis XII. Lessico dei teologi del XX secolo, Queriniana, Brescia 1978, 307.
16
GRILLO, Eucaristia, 259.
17
Ivi, 259-260.
18
Ibidem.
19
CASPANI, Pane vivo, 307; Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 345.
20
Ibidem. Ebbene, «si parla in proposito di Mysteriengegenwart, cioè la presenza misterica dell’evento
salvifico, che non si dà se non attraverso la Mysterienhandlung, cioè l’azione celebrativa della Chiesa», Ibidem.

64
Le riflessioni dei teologi sopracitati costituirono le istanze del Movimento eucaristico,
poi confluito, come già accennato, nel Movimento liturgico21, il cui fulcro fu il monastero
benedettino tedesco di Santa Maria Laach e di cui essi ne furono i pionieri e gli ispiratori: la
linea di fondo emergente, che accomuna tutti gli Autori, è una sostanziale presa di distanza
da Trento e dalla rigidità di quell’impostazione dogmatica che non permetteva nessun tipo
di riflessione teologica ulteriore sulla presenza eucaristica. Tuttavia, è da specificare che la
distanza dal dogmatismo tridentino non significa negazione dei pronunciamenti magisteriali,
ma indica un dispiegamento di orizzonti frutto della rilettura del fatto eucaristico, la quale
poi confluirà nei documenti del Concilio Vaticano II22.
Prima di giungere all’ultimo Concilio, però, già negli anni contemporanei a quelli in
cui sorse il Movimento liturgico, le cui istanze iniziarono a farsi strada nel pensare teologico
del tempo, i Pontefici ebbero modo di esprimersi sulla liturgia e sull’Eucaristia: innanzitutto,
passando brevemente in rassegna questi documenti magisteriali, Leone XIII, il quale sancì
l’autorità dell’insegnamento di Tommaso d’Aquino23, promulgando, nel 1902, l’enciclica
Miræ caritatis sull’Eucaristia24; Pio X, circa la comunione eucaristica, emanò i decreti Sacra
Tridentina Synodus25 e Quam singulari26, rispettivamente nel 1905 e nel 1910; ancora, Pio
XI, con l’enciclica Studiorum ducem27 del 1923, definendo l’Aquinate Doctor Eucharisticus,
sancì la dottrina eucaristica espressa nella Summa Theologiæ.
La prima significativa svolta magisteriale, comunque, si ebbe con l’enciclica Mediator
Dei di Pio XII, del 194728: in essa, «interamente consacrata al rinnovamento liturgico»29, la
quale, seppur sommariamente, raccoglie le polifoniche posizioni teologiche del Movimento

21
Cfr NEUNHEUSER B., voce «Movimento liturgico» in SARTORE D. – TRIACCA A.M., Nuovo dizionario di
liturgia, Edizioni Paoline, Milano 1984, 904-918; Cfr ROUSSEAU O., Storia del Movimento liturgico.
Lineamenti storici dagli inizi del XX secolo a oggi, Edizioni Paoline, Roma 1961.
22
Difatti, il Vaticano II prenderà le mosse dalla sacramentaria tridentina, al fine di «conservare la sana
tradizione e aprire però la via a un legittimo progresso», SC 23. Per un’analisi circa gli elementi di continuità
e di discontinuità tra il Concilio di Trento e il Vaticano II, Cfr SESBOÜÉ, Storia dei dogmi III, 244-249.
23
Trattasi dell’enciclica Aeterni patris del 1879, Cfr DH 3135-3140.
24
Cfr Ivi, 3360-3364.
25
Cfr Ivi, 3375-3383.
26
Cfr Ivi, 3530-3536.
27
Cfr Ivi, 3665-3667.
28
Cfr Ivi, 3840-3855. L’enciclica sancì il fondamentale ruolo dei fedeli nella liturgia cosicché, introducendo
in nuce l’actuosa partecipatio, riconobbe il ruolo attivo del popolo nell’azione cultuale della Chiesa: col senno
di poi, è possibile vederci un accenno di ampliamento degli orizzonti anche in merito alla presenza eucaristica.
29
SESBOÜÉ, Storia dei dogmi III, 222.

65
liturgico, è rintracciabile un’esposizione magisteriale sulla liturgia del tutto innovativa e
“progressista”, considerando la stasi vigente per circa cinque secoli.

III.1.2 La «forma fondamentale» dell’Eucaristia


La presa di coscienza della necessità di un approccio diverso ai sacramenti «non più a
prescindere dal rito celebrato, ma intercettandolo e considerandolo pienamente»30, dando al
popolo di Dio la «possibilità di accedere all’evento celebrato attraverso lo svolgimento della
ritualità»31, ha aperto la strada a riflessioni teologiche importanti.
Come è stato più volte messo in luce nei capitoli precedenti, e come ebbe a ribadire,
nel 1947, Pio XII in Sacramentum ordinis32, la forma dell’Eucaristia è data alle parole di
consacrazione sul pane e sul vino, dalle quali dipende l’avverarsi della transustanziazione.
Ebbene, nel 1950, il teologo Romano Guardini decise di ampliare gli orizzonti circa la forma
fondamentale dell’Eucaristia (Grundgestalt), rintracciandola, anche alla luce della teologia
dei misteri, non più nelle parole della preghiera consacratoria ma nella celebrazione stessa
dell’Eucaristia, quale più alta espressione spirituale della vita cristiana33.
Con l’espressione «forma fondamentale», l’actio sacra, che influenzerà moltissimo il
ripensamento dei temi classici eucaristici, come si vedrà a breve, «si apre all’esperienza
pastorale a al pensiero teologico un fenomeno più ampio di celebrazione eucaristica e di
riflessione su di essa. La nozione indica, allo stesso tempo, un diverso modo di “guardare”
e un diverso modo di “agire”: anzi, per dirlo ancora più precisamente, questo termine cerca
di fare dell’agire un diverso modo di guardare»34.
Scrive Guardini:

«Per molti, la Messa ha acquisito il carattere di una sacra rappresentazione alla quale il
fedele assiste, o di un evento misterioso che invita alla preghiera. Questo, tuttavia, cela il suo
reale significato e ne nasconde l’insostituibile valore (…). È tempo che, nella coscienza dei

30
DELLA PIETRA L., Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale, Edizioni
Messaggero Padova, Padova 2012, 14.
31
Ivi, 15. «L’arricchimento liturgico dipende in modo non accessorio alla maturazione di una nuova
coscienza sistematica, mentre tale coscienza riflessa deve potersi nutrire di (e la lavorare su) nuove forme e
pratiche rituali», GRILLO, Eucaristia, 308.
32
Cfr DH 3857-3861; Cfr SESBOÜÉ, Storia dei dogmi III, 224.
33
Qui, Guardini subordina la sua teologia alle domande antropologiche primarie, spirituali ed esistenziali.
34
GRILLO, Eucaristia, 309.

66
fedeli, la Messa torni ad essere ciò che è per sua stessa istituzione e cioè l’azione sacra della
comunità di Cristo che è compiuta dall’ufficio sacerdotale, ma che deve veramente vivere ed
agire come comunità»35.

Per Guardini, dunque, poiché la Messa «è il modo in cui i fedeli devono partecipare
alla memoria, non solo osservando e pregando, ma agendo insieme al sacerdote»36, si
evidenziano due punti fondamentali: il fatto dell’Eucaristia e la Sua azione.
Procedendo con ordine, Guardini sostiene che, essendo la cena la forma fondamentale
della Messa37, «la strada più semplice per individuarla è quella di riferirsi all’istituzione
dell’Eucaristia, avvenuta nel quadro dell’ultima cena»38, la quale è da considerarsi la «radice
genetica»39 che specifica l’identità profonda della celebrazione eucaristica stessa. Ponendo
l’enfasi sull’aspetto conviviale dell’ultima cena, la posizione di Guardini potrebbe ricordare
quella di Lutero, in cui viene sminuito l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia, tanto caro ai Padri
tridentini. Lungi dal voler insinuare questo, è possibile rilevare, come lascia emergere lo
stesso Guardini nei suoi scritti, che la comunionalità scaturente dal convito eucaristico «non
è un momento separato, indipendente, ma è la piena realizzazione della memoria stessa del
Signore»40: infatti, tramite l’azione liturgica, il dogma del sacrificio eucaristico viene di fatto
espresso visibilmente, per cui «ciò che si mostra liturgicamente nella forma del pasto può
comunque avere come contenuto dogmatico il sacrificio»41.
Ebbene, l’azione liturgica della Messa, stando al pensiero guardiniano, corrisponde, in
sostanza, all’obbedienza al comando di Gesù di spezzare il pane in Sua memoria: dunque,
«tale nesso non avviene attraverso un’imitazione esteriore dell’avvenimento (…), ma si
cristallizza, per così dire, in una forma liturgica, ossia un’azione reiterabile e declinabile
sempre. Tale forma liturgica, è proprio quella della cena»42.

35
GUARDINI R., Il testamento di Gesù, Vita & Pensiero, Milano 1993, 25-26. Egli «esige una
ricomprensione sistematica nuova, che ponga al centro dell’Eucaristia una “comunità-comunione di azione”.
Non è sufficiente osservare e pregare, ma occorre recuperare il terreno originario per un agire comune, che
unifica in una comunità sacerdotale la Chiesa e il Suo Signore», GRILLO, Eucaristia, 310.
36
Ivi, 144.
37
Cfr Ivi, 150-155.
38
CASPANI, Pane vivo, 367.
39
CARRA, Hoc facite, 127.
40
GUARDINI, Il testamento di Gesù, 155.
41
CASPANI, Pane vivo, 367.
42
CARRA, Hoc facite, 127-128.

67
Il sistema teologico di Guardini, da come si può facilmente evincere, ha delle forti
ripercussioni sul tema della presenza eucaristica: infatti, se la Messa, che è memoria, realizza
la presenza del mistero di Cristo presente nell’azione liturgica, spiegare il come tale presenza
avvenga è teologicamente azzardato, poiché «il verbo “è” che compare nelle due frasi (della
preghiera consacratoria, ndr) non dovrebbe assolutamente essere inteso come “significa” o
“è una metafora” (…). Azzardare un’interpretazione di queste parole significa commettere
non solo un errore, ma un sacrilegio»43.
Da quanto appurato, se la forma fondamentale dell’Eucaristia è il convito, il banchetto,
la cena, per Joseph Jungmann, essa deve essere rintracciata e riconosciuta nella preghiera
eucaristica: la sua posizione merita attenzione essendo, di fatto, quella più nota e,
probabilmente, la più diffusa e accettata nel pensare comune ecclesiale.
Nei suoi studi sull’evoluzione storica della forma della celebrazione eucaristica, anche
in base alle primissime testimonianze liturgiche cristiane, come la Didachè, Jungmann mise
in luce il primato della preghiera di rendimento di grazie sul pasto, il quale, inevitabilmente,
va ad assumere un’importanza secondaria: nella Chiesa primitiva, infatti, la centralità
riservata alla preghiera di ringraziamento, intesa come offerta, adombra l’azione liturgica, la
quale è da intendersi comunque come sacrificio conviviale44.
Sulla scia di Jungmann, tentando una mediazione col pensiero di Guardini, si situa il
cardinale Joseph Ratzinger, il quale sostiene che «la liturgia della Chiesa è caratterizzata
dalla prevalenza dell’elemento verbale “eucaristia” sulla forma del pasto»45. Ancorato al
primato della parola sull’azione46, Ratzinger ha modo di specificare che, poiché nell’ultima
cena Gesù agisce in un contesto rituale ebraico, in essa non è rintracciabile nessuna «forma

43
GUARDINI, Il testamento di Gesù, 133; Cfr ID., Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù
Cristo, Vita & Pensiero, Milano 2005, 485-492. Questa posizione di Guardini spiega la sua reticenza nel parlare
della presenza eucaristica nei termini della transustanziazione, privilegiando, come già accennato, l’uso della
forma per instaurare una «connessione tra l’accesso antropologico di chi oggi celebra la Messa e Colui che in
essa è contenuto», Cfr CARRA, Hoc facite, 128.
44
Cfr JUNGMANN, Missarum sollemnia I, 20; Cfr CASPANI, Pane vivo, 367-368.
45
CASPANI, Pane vivo, 369. Scrive Ratzinger: «Eucharistia significa tanto il dono della communio, in cui
il Signore si rende cibo per noi, quanto l’autodonazione di Gesù Cristo, che ha portato a compimento il Suo sì
trinitario al Padre nel sì della croce, e in questo sacrificio ha riconciliato tutti noi col Padre. Non c’è alcun
contrasto tra convito e sacrificio: nel nuovo sacrificio del Signore ambedue s’intrecciano inscindibilmente»,
RATZINGER J., «Forma e contenuto della celebrazione eucaristica», in I D., Opera omnia XI. Teologia della
liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, 430.
46
Cfr GRILLO, Eucaristia, 311-312.

68
liturgica autonoma e specificatamente cristiana (…). L’ultima cena è di certo il fondamento
di ogni liturgia cristiana, ma essa non è ancora una liturgia cristiana»47. Le riflessioni di
Ratzinger, quindi, spiegherebbero come il pasto consumato da Gesù prima della Passione,
«fonda il contenuto dogmatico dell’Eucaristia cristiana, ma non nella sua forma liturgica»48:
quest’ultima sarà il risultato dell’evoluzione storica della Chiesa che, col tempo, riconoscerà
nell’ultima cena gli elementi essenziali che comporranno il rito della Messa49.
Ora, considerando le posizioni di cui sopra circa la questione della forma fondamentale
dell’Eucaristia, è possibile acquisire dei punti fermi e provare a trarre alcune conclusioni:
innanzitutto, appurata l’importanza dell’approccio in genere ritus al fatto eucaristico50, si
può affermare, con Guardini, che la forma dell’Eucaristia, intesa come actio sacra, «è un
elemento solo apparentemente secondario»51, riconoscendo così la centralità del convivium,
dello “stare insieme”, come fondamento della Messa e, dunque, della vita ecclesiale.
Dalle riflessioni di Guardini e Jungmann, infine, è stato possibile prendere atto di una
divergenza teologica creatasi dalla separazione tra la forma teologica e la forma celebrativa,
ovvero, rispettivamente, tra l’Eucaristia come preghiera e come rito: detto altrimenti, tra la
Messa intesa come pasto e come parola, con la conseguente questione circa la preminenza
di un’interpretazione sull’altra.
Una mediazione tra queste due posizioni è riscontrabile nella teologia del benedettino
nostro contemporaneo Ghislain Lafont, il quale propone una visione che potrebbe essere
considerata una sintesi tra quelle dei teologi presi in esame: infatti, egli sostiene l’uso della
parola nelle modalità «di invocazione, di preghiera e di memoria, cioè di racconto»52. Dalla
posizione espressa da Lafont, qui appositamente citato, si può facilmente intuire che il rito,
quale forma fondamentale dell’Eucaristia, non è da intendersi come una sterile sequenza di
azioni, ma come convocazione-raduno del popolo di Dio intorno alla mensa del Signore, la

47
RATZINGER, «Forma e contenuto», 420.
48
Ivi, 421; Cfr DELLA PIETRA, Rituum forma, 120-122.
49
Cfr JUNGMANN, Missarum sollemnia I, 7-143. Da ciò, sulla scorta di quanto Paolo afferma in 1Cor 11,22,
tra l’ultima cena e la liturgia c’è una certa discontinuità: ciò spiegherebbe il fatto che la Chiesa «ripete il
memorale istituito nell’ultima cena, ma non l’ultima cena in quanto tale. Ed ecco perché non è del tutto esatto
affermare che l’ultima cena sia la “prima messa” (essa potrebbe essere il pasto a Emmaus, ndr): lo è certamente
quanto al contenuto dogmatico, ma non sotto il profilo della forma liturgica», CASPANI, Pane vivo, 371.
50
Per un’efficace sintesi, Cfr GRILLO, La forma rituale della fede, 127-136.
51
GUARDINI, Il testamento di Gesù, 152; Cfr CARRA, Hoc facite, 132.
52
LAFONT, Eucaristia, il pasto e la parola, 13.

69
quale definisce l’essenza stessa della Chiesa. Implicando un dinamismo tanto interno quanto
esterno, spirituale e rituale, la forma dell’Eucaristia, dunque, si esplica sia nel pasto sia nella
parola: per avvalorare la posizione circa la non contraddittorietà tra questi due elementi, e
provando a rispondere alla questione circa la preminenza di uno sull’altro, è da citare anche
la prospettiva di E. Mazza, il quale sostiene, a buone ragioni, che «è il pasto stesso, in quanto
espressione del dono divino della terra, ad avere una sua sacralità che esige la parola, dunque
la preghiera e il ringraziamento»53.
In tale prospettiva, alla luce di quanto espresso, le parole della consacrazione vengono,
di fatto, inglobate nell’azione liturgica e non più separate da essa, divenendo parole
esplicative e formali anziché forma dell’Eucaristia54, aprendo la via per un ripensamento
della transustanziazione, come si vedrà nei prossimi paragrafi. A questo ripensamento
contribuirà il crescente valore riconosciuto all’actuosa partecipatio, tramite la quale la forma
si esplica55: essa, in particolare, ha aiutato la Chiesa nel superamento dell’intellettualismo e
«dell’individualismo religioso, strutturando comunitariamente il soggetto della celebrazione
e, in secondo luogo, valorizzando essenzialmente il livello della prassi-azione piuttosto che
quello della teoria-contemplazione»56.

III.2 Verso un ripensamento della transustanziazione


III.2.1 Dall’ontologia alla fenomenologia: dibattiti e proposte di riformulazione
I teologi del cui pensiero si è fatta finora esposizione hanno posto le basi per il dibattito
che ha animato la teologia eucaristica del Novecento: come già accennato, la riscoperta del
rito quale forma dell’Eucaristia ha avuto forti ripercussioni sul modo di pensare la presenza
eucaristica, aprendo la via ad un suo ripensamento, andando ben oltre la staticità dogmatica
data dall’ontoteologia della transustanziazione.
Se all’approccio dogmatico alla celebrazione eucaristica subentrò quello liturgico, allo
stesso modo, come conseguenza, all’approccio ontologico classico alla presenza eucaristica

53
MAZZA, La celebrazione eucaristica, 21. Tutto ciò, come ebbe a sostenere anche Guardini, «implica una
nuova e più ricca esperienza di Parola e sacramento», GRILLO, Eucaristia, 313; Cfr GUARDINI, Il testamento
di Gesù, 77-80.
54
Cfr GRILLO, Eucaristia, 308.
55
I fedeli, infatti, sono agenti e destinatari dell’intera azione liturgica della Messa, avente perciò come apice
il rito di comunione, Cfr TRUDU, Teologia dell’Eucaristia, 111-168.
56
GRILLO A., La nascita della liturgia nel XX secolo, Cittadella Editrice, Assisi 2003, 20.

70
subentrò, come possibilità di una nuova prospettiva, quello fenomenologico. Partendo dal
presupposto, purtroppo dimenticato lungo il corso dei secoli, che i racconti dell’istituzione
contenuti nei Vangeli, quali imprescindibili punti di avvio per il discorso sulla presenza di
Cristo nell’Eucaristia, «portano in sé difficoltà filosofiche abissali»57, la radice dei dibattiti
e delle proposte che a breve si prenderanno in esame, oltre che nella teologia di Casel e
Guardini, è da riscontrarsi nella “svolta” effettuata da Martin Heidegger circa la filosofia
dell’Essere, successivamente definita «fenomenologia dell’inapparente»58.
Per comprendere l’approccio fenomenologico alla questione della presenza eucaristica
è interessante presentare qui, seppur sommariamente, la posizione del liturgista Loius-Marie
Chauvet, il quale, criticando l’ontologia così come venne declinata da Tommaso d’Aquino,
ha contestato il sistema filosofico dell’Aquinate e, in generale, il modo classico di pensare
la presenza eucaristica59.
Allo stesso modo di Casel e di altri esponenti del Movimento liturgico, anche Chauvet
si affianca al discorso eucaristico della presenza adottando una prospettiva antropologica:
rifacendosi proprio ad Heidegger, egli sostiene che il concetto di “essere”, filosoficamente e
teologicamente, abbia portato l’uomo ad un’esperienza di alienante della realtà. Dunque,
proprio perché il destino dell’uomo e del mondo può essere concepito solo per tramite della
«partecipazione alla realtà terrena e cosmica, e non separatamente da essa»60, Chauvet,
proponendo una critica al concetto tommasiano di causalità, afferma che la presenza di
Cristo nell’Eucaristia non è data dalle parole di consacrazione, come la tradizione afferma,
ma che essa si dà gratuitamente nel contesto celebrativo per opera di Dio, per cui, nell’atto
stesso della celebrazione eucaristica, «la presenza entra in presenza; la presenza stessa si fa
presente»61. Ancora, allo stesso modo, evidenzia come «la versione tomistica del linguaggio
presuppone che il parlante possieda il proprio pensiero (…). Chauvet rileva come Tommaso

57
ROUILLE D’ORFEUIL M., «Parlare della presenza. Approcci filosofici al Mistero» in T RUDU, Teologia
dell’Eucaristia, 38. «Il dato rivelato si impone a noi (…), ma dare un senso al dimostrativo “questo” o al verbo
“è” è probabilmente il compito più terribile che ci sia quando si tratta di commentare l’espressione: “Questo è
il mio corpo”, come riportato nei Sinottici», Ibidem.
58
HEIDEGGER M., Seminari, Alelphi, Milano 1992, 179. A tal proposito, anche la teologia di Guardini, ad
esempio, potrebbe essere definita una “fenomenologia teologica”, Cfr DELLA PIETRA L., «La presenza reale in
prospettiva liturgica» in TRUDU, Teologia dell’Eucaristia, 60-63.
59
Cfr CHAUVET, Simbolo e sacramento, 51-80 e 463-484.
60
POWER, Il mistero eucaristico, 344.
61
D’ORFEUIL, «Parlare della presenza», 48.

71
trascuri il fatto che il mondo è costituito dal linguaggio, e che è nel linguaggio che si viene
portati a dimorare nel mondo. Il linguaggio precede il pensiero»62.
Questa visione fenomenologica della presenza eucaristica, la quale prende le mosse
dalla presenza intesa come “fenomeno”, di cui Chauvet è esponente, alimentò gli accesi
dibattiti epistemologici che su di essa si ebbero, nella seconda metà del XX secolo, in merito
al fenomeno eucaristico, in particolare alla luce della fisica moderna63, oscillando tra il
nuovo approccio fenomenologico e quello ontologico classico64.
Ora, partendo proprio dalla crisi della categoria di sostanza e, quindi, del concetto di
transustanziazione, Filippo Selvaggi si chiese quali rapporti intercorrano «tra la filosofia
dell’ente elaborata dalla tradizione scolastica e i nuovi apporti delle scienze alla conoscenza
del reale»65: lo status quæstionis, quindi, è dato dalla divergenza tra la presenza eucaristica
intesa come realtà sperimentabile coi sensi e come realtà metafisica accessibile per fede66.
Ebbene, Selvaggi osservò proprio come, poiché la gnoseologia delle scienze moderne ha
fatto coincidere la realtà con l’esperibilità, il dogma eucaristico della presenza necessitasse
di un ripensamento e di un nuovo modo per esprimerlo. Dunque, egli propose di esplicare
l’ontologia della transustanziazione nei termini di una mutazione fisica in cui il pane e del

62
POWER, Il mistero eucaristico, 349. Chauvet, criticando l’Aquinate e discostandosi dalla Scolastica,
abbraccia quella che, nel XX secolo, è la teologia apofatica espressa dal filosofo Stanislas Breton, il quale
sostenne la necessità di ricorrere alla meontologia di plotiniana memoria, al fine di dimostrare come la presenza
eucaristica non possa essere assoggettata alla logica, alla causalità e al linguaggio, ma debba essere compresa
solo come esperienza del Mistero. «Parlare di meontologia significa, in primo luogo, negare dell’Uno
qualsivoglia concetto ontologico, indipendentemente dal fatto che si fondi sull’analogia dell’essere o su una
qualche concezione della persona umana (…). Facendo ampio ricorso a 1Cor 1, Breton mette in rilievo come
il linguaggio della croce, il linguaggio che rappresenta l’“avvento” di Dio attraverso la croce, non possa
assimilare alcuna sapienza umana (…). La croce dice che Dio non può essere presentato in conetti o intuizioni
umane (…). I nomi divini ricavati dall’evento includono questa negazione, oltre a quella dell’adeguatezza della
rappresentazione medesima all’evento in quanto tale», Ivi 352-353.
63
Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 382-388.
64
La fenomenologia mise in crisi il sistema della Scolastica, basato sulla categoria di sostanza, la quale
offuscava, tra l’altro, la possibilità di valorizzare l’esperienza della presenza eucaristica: la transustanziazione,
intesa come espressione dogmatica viene così riconosciuto come non-necessaria e non-sufficiente. L’intento
delle posizioni teologiche che si andranno ad analizzare, lungi dal voler negare la presenza eucaristica, ha il
solo obiettivo di «restituire all’integrale esperienza eucaristica maggiore spessore di azione e più limpida unità
di esperienza», GRILLO, Eucaristia, 330-331.
65
CARRA, Hoc facite, 133.
66
«L’adesione di fede ad un tale dogma e l’attitudine religiosa, che essa richiede, è compatibile con
l’attitudine dello spirito moderno, che si apre senza restrizioni all’evidenza scientifica? E, in concreto, le
affermazioni dogmatiche sulla sostanza del pane e del vino sono in accordo con i risultati certamente acquisiti
dalla scienza moderna intorno alla costituzione dei corpi?», SELVAGGI F., «Il concetto di sostanza nel dogma
eucaristico in relazione alla fisica moderna», Gregorianum 30 (1949), 7.

72
vino, intesi come masse e cariche, diventano il corpo e il sangue di Cristo, intesi come
particelle, come materia: il corpo e il sangue, quindi, nell’esposizione scientifica di Selvaggi,
sono intendibili come il sostrato dell’Eucaristia, mentre il pane e il vino sono le proprietà
mediante le quali i primi sono percettibili67.
A questa posizione, la quale, di fatto, confermava da un punto di vista scientifico il
modello tommasiano-tridentino, traducendo fisicamente la diade sostanza-accidenti, rispose
Carlo Colombo, il quale prese atto di come la teologia eucaristica, nel tentativo di dare
ragione al dogma della transustanziazione, sia oggigiorno dinanzi ad un bivio, ovvero «se
continuare ad affermare la realtà ontologica oggettiva della presenza di Cristo al sacramento
(sostanza), oppure se optare per una presenza ridotta al piano dell’intenzionalità del soggetto
(significato)»68. Dunque, se Selvaggi aveva proposto un approccio fisico al fatto della
presenza eucaristica, dal canto suo, Colombo ribadì l’approccio classico, ovvero quello
metafisico, sostenendo che la transustanziazione consiste in una mutazione che «avviene tra
realtà che sono “al di là” delle realtà fisicamente attingibili, tra realtà “trans-fisiche”, cioè
propriamente metafisiche»69.
Questo minuzioso dibattito epistemologico tra Selvaggi e Colombo70 sul dualismo tra
il terminus a quo della conversione eucaristica, cioè le sostanze del pane e del vino, e il
terminus ad quem, cioè le sostanze del corpo e del sangue di Cristo71, spronò molti teologi

67
«Nella transustanziazione, per le parole di Cristo, tutta la sostanza del pane e del vino si converte nel Suo
corpo e nel Suo sangue divino, allora i protoni, neutroni ed elettroni in atto, che appartengono alla massa della
materia consacrata, gli atomi, le molecole, gli ioni, i complessi molecolari, i micro-cristalli, insomma tutto
l’insieme delle sostanze che costituiscono il pane e il vino, cessano di esistere e si convertono nel corpo e nel
sangue di Cristo. Rimangono invece gli accidenti appartenenti a tutte quelle sostanze, l’estensione, la massa,
le cariche elettriche cinetiche, che ne derivano, e quindi tutti gli effetti ottici, acustici, termodinamici,
elettromagnetici, che quelle forze possono produrre; e tutti questi insieme costituiscono le specie eucaristiche,
cioè l’insieme dei fenomeni direttamene sperimentabili», Ivi 43.
68
CARRA, Hoc facite, 137. «Si tratta di una conversione “fisica” o “metafisica”, cioè tra realtà concepite
come entità fisiche nel senso della scienza o metafisiche nel senso della filosofia scolastica?», COLOMBO C.,
«Teologia, filosofia e fisica nella dottrina della transustanziazione», La Scuola Cattolica 83 (1955), 89-124.
69
COLOMBO, «Teologia, filosofia e fisica», 121.
70
Per un’ottima sintesi del dibattito, Cfr C ARRA, Hoc facite, 133-147. Per altre interessanti analisi, Cfr
GHIRARDI M., «Ai margini d’una controversia eucaristica», La Scuola Cattolica 84 (1956), 289-300; Cfr
RUFFINI E., «Note per lo studio di una recente controversia teologica sull’Eucaristia», diviso in tre contributi,
La Scuola Cattolica 96, 97, 98 (1968, 1969, 1970), 115-138, 3-36, 3-38.
71
Il dibattito tra i due teologi ebbe modo di continuare con altri articoli. Cfr SELVAGGI F., «Realtà fisica e
sostanza sensibile nella dottrina eucaristica», Gregorianum 37 (1956), 16-33; Cfr ID., «Ancora intorno ai
concetti di “sostanza sensibile e realtà fisica”», Gregorianum 38 (1957), 503-514; Cfr COLOMBO C., «Ancora
sulla dottrina della transustanziazione e la fisica moderna», La Scuola Cattolica 84 (1956), 263-288; Cfr ID.,
«Bilancio provvisorio di una discussione eucaristica», La Scuola Cattolica 88 (1960), 23-55.

73
ad esprimersi al riguardo, magari adottando diversi punti di vista72, proponendo varie tesi
per la riformulazione della transustanziazione.
A questo punto è necessario fare una precisazione fondamentale, già annotata in nota
nelle pagine precedenti, ma che è importante da ribadire, esplicitandola meglio: la questione
verte sulla distinzione, non sempre chiara, tra il dogma fidei, in questo caso l’affermazione
della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, è l’explicatio theologica, ovvero la spiegazione
teologica che, in questo caso, si fa di tale presenza, nei termini della transustanziazione, sulla
scorta delle due categorie aristotelico-tommasiane di sostanza e accidenti73. Ebbene, poiché
la transustanziazione è una teoria a posteriori, cioè nata affinché la Chiesa potesse esprimere
la fede nella presenza di Cristo nel pane e nel vino eucaristici, allora appellare questo mistero
con la terminologia della transustanziane, per quanto possa essere conveniente, come Trento
stesso si espresse, non è però necessaria né sufficiente, come si sta mettendo in luce in queste
pagine. Difatti, in base alle istanze filosofiche, teologiche e scientifiche contemporanee,
appare ancora più evidente come la transustanziazione sia un’appellatio che non sancisce in
nessun caso la definitio della presenza eucaristica, ma che anzi potrebbe sminuirne la realtà74.
Sintetizzando le posizioni teologiche riportate in questo paragrafo, e altre ancora solo
accennate, è possibile rintracciare due grandi filoni esprimenti due approcci e due espressioni
differenti della presenza eucaristica, oltre l’impostazione ontologica classica: il primo è dato
dalla visione fenomenologico-religiosa, l’altro da quella ontologico-relazionale75. La prima
si interroga sul Presenziato partendo dal fatto eucaristico così come si propone all’esperienza

72
Basti pensare ai contributi di Franz J. Leenhardt, il quale tratto il tema della transustanziazione con taglio
ecumenico, cercando di favorire il dialogo tra protestanti e cattolici su questa tematica e sostenendo che la
presenza di Cristo nel pane eucaristico sia possibile solo «per coloro che sanno come andare oltre la semplice
realtà sensibile», POWERS, Teologia eucaristica, 151; poi, Joseph de Baciocchi sostenne che l’Eucaristia è il
dono di Cristo alla Chiesa, per cui Essa è da intendersi «come mistero della signoria universale e trasfigurante
del Cristo glorioso», Ivi, 154; ancora, per Alfred Vanneste, la transustanziazione è una realtà religiosa, per cui
tutto il discorso su di essa «anziché essere una garanzia divina della distinzione reale tra sostanza e accidenti
(…), è un’affermazione creativa di ciò che questo pane significa per Dio», Ivi, 155.
73
In altre parole, usando la terminologia di J. Auer, si potrebbe differenziare tra l’oggetto della fede e la
giustificazione teorica di tale oggetto.
74
«La forzatura del pensiero, giustificata dalla fede, capovolge la relazione tra fede e ragione: l’argomento
della ragione dovrebbe spiegare la presenza reale, mentre in realtà è la presenza reale ad essere presupposta
all’argomentazione razionale, che finisce per considerare ovvia l’evidenza di ciò che dovrebbe essere oggetto
di argomentazione», GRILLO, Eucaristia, 319. Per una critica all’impostazione “sostanziale” del dogma della
presenza eucaristica, Cfr ODIFREDDI P., Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), TEA,
Milano 2007, 190.
75
Per una sintesi su queste due prospettive, Cfr C ARRA, Hoc facite, 149-180.

74
che l’uomo può fare di tale presenza: tuttavia, come punto debole di questa visione, potrebbe
essere la probabilità di ridurre la mediazione sacramentale a favore dell’immediatezza del
rapporto tra Cristo e l’uomo. La seconda prospettiva, invece, prende le mosse dalla certezza
che bisogni «ritrovare uno sguardo sul reale che ricollochi come centrale all’identità delle
cose la rete relazionale in cui esse sono collocate»76.
Se alla prospettiva fenomenologico-religiosa deve andare il merito di aver chiarificato
il rapporto che, nel fatto eucaristico, si instaura tra Cristo e l’uomo77, a quella ontologico-
relazionale va riconosciuto, invece, di aver manifestato con maggior chiarezza il discorso
sulla presenza di Cristo e non, come fatto sinora, sulla presenza della sostanza di Cristo.

III.2.2 La Nouvelle théologie: l’ontologia relazionale di Rahner e Schillebeeckx


La prospettiva ontologico-relazione78, invece, nacque e si sviluppò nel contesto della
Nouvelle théologie, un movimento teologico al quale sono appartenuti i maggiori teologi del
XX secolo, il cui nucleo di pensiero è rintracciabile nel Nuovo Catechismo Olandese79 del
1969 e le cui istanze proposero di rinnovare la teologia, originando così un ampio dibattito
sulla sua natura e i suoi metodi80. Ebbene, circa la teologia eucaristica, la linea dell’ontologia
relazionale promossa dalla Nouvelle théologie, si propose di riportare l’attenzione sulla
relazione Dio-uomini, e dunque Cristo-Chiesa, «attraverso la mediazione di quel tessuto di
connessioni relazionali che è l’evento storico, il sacramento»81. Questa impostazione, quindi,
determinò «una rilettura complessiva della realtà non più in termini di essenza, bensì di
senso, di significato, di funzione, di finalità, di valore»82.

76
CARRA, Hoc facite, 166-167.
77
«Quel che ci è dato riscontrare già nei limiti del nostro mondo (…), avviene in senso radicale e totale nel
Risorto, che fa esplodere i confini della sarx, le limitazioni e i condizionamenti storici, ed ha il potere di darsi
in ogni luogo, di rendersi presente in tutta la Sua pienezza al “tu” dell’uomo», RATZINGER J. – BEINERT W., Il
problema della transustanziazione e del significato dell’Eucaristia, Edizioni Paoline, Roma 1969, 53. Per una
visione di sintesi delle posizioni fenomenologico-religiose, espresse soprattutto durante l’incontro ecumenico
di Chevetogne, in Belgio, del 1958, Cfr DUPONT J., «Ceci est mon corps, ceci est mon sang», Nouvelle Revue
Théologique 80 (1958), 1025-1041. A questo proposito, per alcune interessanti riflessioni circa l’Eucaristia in
prospettiva ecumenica, Cfr GRILLO, Eucaristia, 421-427.
78
GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 215-227.
79
Per un’esposizione circa il contesto, Cfr P OWERS, Teologia eucaristica, 149-234; Cfr GERKEN, Teologia
dell’Eucaristia, 167-277; Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 381-425.
80
Cfr VILANOVA, Storia della teologia cristiana, 626-632.
81
CARRA, Hoc facite, 169. Il referente ultimo della relazione Cristo-Chiesa è l’uomo: «nella relazione della
cosa all’uomo, essa merge nella sua collocazione relazionata e dunque emerge per ciò che essa è», Ivi, 167.
82
CASPANI, Pane vivo, 317

75
Il punto di partenza per le riflessioni dei teologi della Nouvelle théologie e, soprattutto,
dei due teologi che qui verranno presi in considerazione, ovvero il gesuita Karl Rahner e il
domenicano Edward Schillebeeckx, è la convinzione che il dato rivelato sia assolutamente
trascendente rispetto alle traduzioni concettuali che di esso è possibile farne: di conseguenza,
le formule dogmatiche sono “relative”, ovvero valide per la spiegazione del dato di fede in
un determinato periodo storico. Ora, se la presenza eucaristica venne spiegata nel Medioevo
con la terminologia aristotelico-tommasiana, in epoca moderna, anche per via dei progressi
scientifici, essa è insufficiente e parziale, per cui sorge la necessità non di “cambiare” il
contenuto del dogma, ma di riesprimerlo coerentemente al tempo presente83.
L’avvio del dibattito teologico venne dalla pubblicazione di un opuscolo anonimo, nel
1945, dal titolo La présence réelle, poi attribuito al gesuita Yves de Montcheuil, molto vicino
a Henri de Lubac84. Il concetto portante di questo testo, attentamente analizzato da Bernard
Sesboüé85, è che il mistero della presenza di Cristo nell’Eucaristia vada bel oltre le capacità
umane di poterlo spiegare e tantomeno “rinchiudere” concettualmente in postulati teologici
basati su un linguaggio filosofico: dunque, de Montcheuil, parla della presenza a partire dalla
visione agostiniana di “cosa-segno”, per cui «si può pensare che una cosa, che per volontà
di Dio è il segno di altro rispetto a ciò che era per natura, sia divenuta essa stessa altro, senza
essere cambiata nella sua apparenza»86. Ebbene, questa prospettiva si pone in armonia con
l’ontologia tommasiana, pur reinterpretandola, poiché si afferma che la significazione è ciò
che c’è di più profondo nella realtà ontologica: il cambiamento di sostanza, difatti, non è fine
a sé stesso ma significa una realtà spirituale che va ben al di là del mutamento87.
Ora, sullo sfondo dell’antropologia trascendentale88, Rahner sviluppa la sua riflessione
situando l’Eucaristia al vertice dell’economia sacramentale, nel contesto dell’azione cultuale

83
Per una riflessione su questo punto, Cfr SCHOONEMBERG P., «Fin dove la dottrina della transustanziazione
è storicamente condizionata?», Concilium 4 (1967), 97-111.
84
Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 150-158; Cfr GARCIA IBAÑEZ, L’Eucaristia, 392-395.
85
Cfr SESBOÜÉ B., Yves de Montcheuil (1900-1944). Précurseur en théologie, Cerf, Parigi 2006.
86
Ivi, 409.
87
«Riferendo queste prospettive al mutamento che avviene nel pane e nel vino eucaristici, si può ritenere
che essi non siano cambiati a livello fisico-chimico, bensì a livello del loro essere religioso: l’offerta eucaristica
e la consacrazione, infatti, li hanno resi simboli efficaci della presenza di Cristo. Ma poiché l’essere religioso
rappresenta il livello di realtà più profondo del pane e del vino, il suo mutamento è la trasformazione più
profonda che in essi possa verificarsi. Secondo Sesboüé, questa interpretazione della transustanziazione è
ontologicamente fondata e pienamente conforme al dogma», CASPANI, Pane vivo, 320.
88
Cfr RAHNER K., La Grazia come centro dell’esistenza umana, Edizioni Paoline, Roma 1974, 28.

76
della Chiesa e come apice dell’incontro tra Dio e l’uomo, dato specificatamente dalla Grazia,
comunicata proprio all’Eucaristia89. Nel delineare la prospettiva rahneriana sulla presenza
eucaristica, non si può non tener conto di una serie di passaggi che uniscono vari ambiti della
teologia, come la cristologia, l’ecclesiologia, l’escatologia, l’antropologia, a testimonianza,
d’altronde, della complessità e della profondità del suo pensiero. Procedendo con ordine, la
“storicizzazione della salvezza”, ovvero la presenza di Dio nel mondo, è data dall’azione
della Chiesa la quale, nell’amministrare i sacramenti, si esprime quale simbolo tra Dio e
l’uomo90: dunque, la Chiesa è il sacramento originario e fondamentale (Ursakrament und
Grundsakrament), che attua «la presenza continuata del Verbo Incarnato nello spazio e nel
tempo»91 e continua la funzione simbolica del Lógos92. Specificatamente, poi, l’Eucaristia è
intesa da Rahner con accezione segnica, ovvero come rivelazione e rimando della Parola di
Dio: introducendo questa nuova prospettiva, Rahner afferma che la Parola, «generatrice di
salvezza, porta in sé quello che esprime; è evento di salvezza che (…) annuncia ciò che
avviene in esso e sotto di esso e fa accadere quello che annuncia»93. In questo modo, tramite
un dinamismo dialettico ecclesiologico-sacramentale, Rahner intende la Chiesa-Sacramento,
nel momento in cui gli uomini si riuniscono nella liturgia, come il locus entro cui Cristo, la
Parola di Dio, si fa presente nel mondo e nella storia94.
Da questa sintesi della visione rahneriana circa la sacramentaria è possibile trarre, per
ciò che qui interessa, due elementi particolarmente interessanti ed importanti: il primo è che,

89
Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 335-340.
90
Cfr CARRA, Hoc facite, 174-175.
91
RAHNER K., «Sulla teologia del simbolo», in ID., Saggi sui Sacramenti e sull’escatologia, Edizioni
Paoline, Roma 1965, 85.
92
Cfr LAMERI – NARDIN, Sacramentaria fondamentale, 235. I sacramenti, quindi, manifestano la «realtà
simbolica della Chiesa, facendola entrare nella vita del singolo e costituiscono, per questo, (…) una realtà
simbolica», RAHNER, «Sulla teologia del simbolo», 88.
93
RAHNER K., «Parola ed Eucaristia», in ID., Saggi sui Sacramenti e sull’escatologia, 122.
94
Cfr ID., «Teologia dei sacramenti», in ID. (ed.), Sacramentum mundi. Enciclopedia teologica VII,
Morcelliana, Brescia 1977, 274-275. «L’atto che, nella transustanziazione, opera la presenza eucaristica di
Cristo viene interpretato in maniera esatta solo nel contesto di tutto il culto. Infatti, la forma del sacramento
(che rientra nel segno sacramentale di questa presenza, come vi rientrano le species del pane e del vino) è
costituita dalle parole (che rimangono sempre valide nella dimensione della storicità umana) della
consacrazione e soltanto insieme con esse le species sono il segno della presenza di Cristo. Le parole della
consacrazione, però, possono esistere e venire pronunciate e comprese (senza questa comprensione non
sarebbero affatto parole umane) solo nel contesto di tutto il culto cristiano. Anche la presenza “sostanziale” di
Cristo nell’Eucaristia rientra, seppure come attualità suprema nel culto, nella dimensione del segno e quindi
nel complesso del culto», ID., «La presenza del Signore nella comunità di culto» in ID., Nuovi saggi III, Edizioni
Paoline, Roma 1969, 486-487.

77
per Rahner, in armonia alle istanze prefissate dal rinnovamento teologico del XX secolo, il
pronunciamento dogmatico tridentina non è vincolante circa la definizione della presenza
eucaristica di Cristo95; il secondo, sulla scorta del primo, è che Rahner si pone in continuità
con Tommaso d’Aquino, ampliando l’orizzonte della teologia tommasiana e approfondendo
l’aspetto ontologico-relazionale dell’Eucaristia come segno96, cioè come “punto d’incontro”
che la Chiesa, tramite la Grazia, realizza tra Dio e l’uomo97.
Così come Rahner, anche Schillebeeckx ritiene lecito oltrepassare i confini che oramai
la tradizione aveva attribuito ai pronunciamenti tridentini, ritenendo doveroso approfondire
la presenza eucaristica oltre l’ontologia classica, espressione di un tempo passato98. Ebbene,
Schillebeeckx si proporrà di reinterpretare la formulazione di fede classica del Sacramento
prendendo antropologicamente le mosse dalla religione quale fenomeno essenzialmente
inteso «come un rapporto personale dell’uomo con Dio, un rapporto da persona a persona:
un incontro personale o una comunione personale con Lui»99. Questa comunione, sostiene
Schillebeeckx, avviene nella storia, dall’incontrano tra la Grazia di Dio e il culto dell’uomo
come risposta ad Essa: quest’incontro, come già sostenne Rahner, si realizza nella Chiesa100,
tramite i sacramenti, anàmnesi dei misteri della vita di Cristo101, per mezzo dei quali Cristo
«rende la Sua presenza attiva di Grazia visibile e tangibile fra noi»102. La teologia eucaristica
di Schillebeeckx, nello specifico, è essenzialmente apofatica103, in quanto egli sostiene che

95
Cfr ID., «La presenza di Cristo nel sacramento della cena del Signore» in I D., Saggi sui Sacramenti e
sull’escatologia, 173-180.
96
Per capire cosa sia Rahner sia Schillebeeckx, come si vedrà a breve, intendano con il termine «segno», è
possibile ricorrere a questa definizione: «Il sacramento è considerato un segno, cioè una cosa che si presenta
ai sensi ma che fa venire in mente qualcosa di diverso, e in questo caso la Grazia. Applicando tale definizione
ai sacramenti si considera allora il sacramento come una cosa che ha una relazione logica o gnoseologica con
un’altra “cosa”, la grazia», POWERS, Teologia eucaristica, 110.
97
In questo modo, l’uomo viene riconosciuto quale parte integrante del segno eucaristico, proprio in quanto
la realtà soprannaturale gli si comunica per suo stesso mezzo, Cfr RAHNER, «Parola ed Eucaristia», in ID.,
Saggi sui Sacramenti e sull’escatologia, 136; Cfr ID., Uditori della parola, Borla, Roma 1988.
98
«Il Concilio di Trento non può concepire questa reale presenza eucaristica se non sulla base di una
conversione della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo», SCHILLEBEECKX
E., La presenza eucaristica, Edizioni Paoline, Roma 1968, 43. Egli dedicherà buona parte di questo suo testo
proprio all’analisi di come la presenza eucaristica sia stata concepita e definita dal Concilio tridentino.
99
ID., Cristo, sacramento dell’incontro con Dio, Edizioni Paoline, Roma 1974, 13.
100
Cfr LAMERI – NARDIN, Sacramentaria fondamentale, 228-229.
101
In virtù dell’ipostasi, «il sacrificio della croce e tutti i misteri della vita del Cristo sono ugualmente realtà
eternamente attuali, indistruttibili. In questi atti umani il Figlio stesso è dunque presente, in una maniera che
trascende il tempo», SCHILLEBEECKX, Cristo, sacramento dell’incontro con Dio, 91-92.
102
Ivi, 67.
103
Cfr POWER, Il mistero eucaristico, 340-342.

78
niente e nessuno possa esprimere il mistero della presenza di Cristo nell’Eucaristia: tuttavia,
essa è ricordata soprattutto per la “tesi” circa la transignificazione, tramite cui Schillebeeckx
propose un nuovo approccio all’Eucaristia stessa. Ora, la transignificazione non si oppone
alla transustanziazione, ma si affianca ad essa, cui è intrinsecamente legata, costituendone
uno sviluppo nell’indagine sul fatto eucaristico:

«Il significato della figura fenomenica pane e vino muta perché, in forza dello Spirito
creativo, è mutata la realtà alla quale il fenomeno rimanda: non è più pane e vino, ma è nulla
di meno che il corpo del Signore offertomi in cibo spirituale. Essedo mutato oggettivamente
ciò che è significato attraverso il fenomenico, è mutata contemporaneamente la significazione
del fenomenico (…). Nell’Eucaristia transustanziazione (“conversio entis”; che cosa è la realtà
presente? Il corpo di Cristo) e transignificazione (nuova costituzione di significato o valore di
segno) sono inseparabili, ma non le si può identificare sic et simpliciter»104.

La questione così posta suscita non poche perplessità: senza entrare nel vivo delle tesi
contrarie alla posizione di Schillebeeckx105, va comunque evidenziato come il nucleo della
questione risieda nel fatto che egli «sostituisce l’ipotesi contraria di un mutamento “ontico”,
intendendo dire che la realtà del pane è mutata perché esso diventa un segno della presenza
del Cristo. Questo mutamento è sostanziale perché il pane è ora mutato nel segno sostanziale
della presenza di Cristo»106.
Ebbene, sia Rahner che Schillebeeckx, come si è potuto notare, presentano numerosi
punti di convergenza: ciò è dato dal fatto che entrambi condividono la prospettiva sul fatto
eucaristico di stampo ontologico-relazionale. Questa relazionalità, che funge da sostrato per
la teologia dei due teologi, verte principalmente sull’uomo e, dunque, sulla Chiesa, quale
comunità dei credenti: la comunità riunita intorno alla mensa del Signore è, allora, il motivo
e il luogo del farsi presente di Cristo nell’Eucaristia, per cui, «nella fondazione ontologico-
relazionale, l’ente pane/vino consacrato è in sé ciò che è solo in virtù del contesto reale in
cui è collocato: questa è la forza del modello proposto da questi autori (…), in cui non si dà
qualcosa a prescindere dal tessuto contestuale relazionale»107.

104
SCHILLEBEECKX, La presenza eucaristica, 163-165.
105
Cfr GERKEN, Teologia dell’Eucaristia, 213-214.
106
POWERS, Teologia eucaristica, 172.
107
CARRA, Hoc facite, 172.

79
Ancora, sia in Rahner sia in Schillebeeckx, è stato possibile notare le acquisizioni di
prospettive “diverse”, che aprono a nuovi modi di intendere e di accedere al fatto eucaristico:
sta di fatto, comunque, che queste due categorie, come la transustanziazione e la
transignificazione per Schillebeeckx, non possono coesistere e nemmeno giustapporsi,
poiché, come è stato rilevato da Z. Carra, «se la prima categoria risponde alla complessità
operativo-vitale in cui l’evento eucaristico era acceduto prima della riflessione medievale,
la seconda categoria soggiace, invece, alla distinzione medievale tra l’in sé ontologico del
reale e l’inferenza del soggetto, e pretende di instaurare il collegamento tra essi mediante
l’accesso conoscitivo-noetico»108.
Le conseguenze delle riflessioni effettuate da Rahner e, soprattutto, da Schillebeeckx,
furono nefaste: Pio XII stesso intervenne, nel 1950, con l’enciclica Humani generis109,
considerando le posizioni circa la transignificazione, definita anche, per i motivi di cui sopra,
transfinalizzazione, relativiste e contrarie alla perenne validità del pensiero dell’Aquinate110,
la cui definizione del dogma della presenza reale nei termini della transustanziazione è valida
semper, ubique et ab omnibus, per cui qualsivoglia riformulazione implica la riduzione della
presenza reale eucaristica in semplice presenza spirituale111. La “condanna” venne ribadita
anche nell’enciclica Mysterium fidei112, promulgata da Paolo VI nel 1965113, la quale, pur
recependo in nuce le istanze del Concilio Vaticano II espresse, nel 1963, nella costituzione
Sacrosanctum Concilium114, e pur considerando l’evidente validità teologica delle posizioni

108
Ivi, 172-173. Ad ogni modo, «cambiare modello non significa dire le stesse cose in un altro modo, ma
aprire vie che il modello vecchio chiudeva ed accettare di dover chiudere vie che il vecchio modello percorreva
come strade maestre», Ibidem; Cfr POWERS, Teologia eucaristica, 217.
109
Cfr DH 3875-3899.
110
«Le conseguenze (…) vengono sospettate di relativismo storico e dottrinale, considerati frutto di una
posizione anti-intellettualistica e poco rispettosa del sistema di san Tommaso. È vero che fra i rappresentanti
della Nouvelle théologie si somma, alla polemica anti-scolastica, un vivo interesse per la patristica, che non
rientra in un programma di restaurazione arcaicizzante ma piuttosto nella ricerca di una teologia che esprima
il mistero cristiano senza eccessivi condizionamenti razionali», VILANOVA, Storia della teologia cristiana, 630.
111
«Non mancano coloro che sostengono che la dottrina della transustanziazione, in quanto fondata su un
concetto antiquato di sostanza, deve essere corretta in modo da ridurre la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia
ad un simbolismo, per cui le specie consacrate non sarebbero altro che segni efficaci della presenza di Cristo e
della sua intima unione nel corpo mistico con i membri fedeli», DH 3891.
112
Cfr DH 4410-4413; Cfr CASPANI, Pane vivo, 180-188.
113
«Avvenuta la transustanziazione, le specie del pane e del vino senza dubbio acquistano un nuovo fine,
non essendo più l’usuale pane e l’usuale bevanda, ma il segno di una cosa sacra e il segno di un alimento
spirituale; ma intanto, acquistano nuovo significato e nuovo fine in quanto contengono una nuova “realtà”, che
giustamente denominiamo ontologica», DH 4413.
114
Cfr DH 4001-4048.

80
riconducibili a Schillebeeckx, continuò a qualificare la transustanziazione come espressione
designante la presenza eucaristica “per antonomasia”, facendo sorgere, però, non pochi
problemi ermeneutici115, tuttora irrisolti, oscillando tra il riconoscimento della correttezza
delle deduzioni teologiche impostesi nella teologia del XX secolo 116, superando l’ontologia
tradizionale, e la fermezza tuziorista per il timore di “tradire” un dogma plurisecolare.

III.3 Riflessioni e prospettive a partire dal Concilio Vaticano II


III.3.1 L’esperibilità rituale della presenza eucaristica, dogma “in divenire”
Il nocciolo dell’oggetto del presente studio è collocabile, com’è chiaro, tra le questioni
circa la storicità e la progressione del dogma, proponendosi di affermare il rito come accesso
all’Eucaristia, cioè “vivere” la presenza eucaristica di Cristo come momento imprescindibile
per poterla “dire”. Ora, ci si può chiedere: il superamento ontologico in favore di un accesso
rituale e antropologico all’Eucaristia è intendibile come progressione del dogma?
Come già appurato in precedenza, poiché vi è una precisa distinzione tra il contenuto
di un dogma di fede e la sua esplicazione teologica e poiché proprio quest’ultima è frutto di
un preciso contesto storico-culturale-ecclesiale, allora la necessità di riformulare tale dogma,
ripensandolo, è una necessità vitale per la teologia e per la Chiesa117. La presenza eucaristica,
quindi, non si esime dalla storicità, ma, proprio per la sua centralità, è forse maggiormente
necessario saperlo rendere vicino all’uomo di ogni epoca storica, tramite un uso adatto del
linguaggio118, traducendo il depositum fidei, al fine di far “vivere la fede”119: difatti, «una

115
Cfr CASPANI, Pane vivo, 323-331.
116
La liceità delle posizioni di Schillebeeckx è così riassumibile: «Fondamentalmente, transignificazione
indica l’atto divino (non umano) in cui la sostanza (cioè il significato e il potere) di un segno religioso è
trasformato con la rivelazione personale di Dio. Abbiamo visto che transignificazione ha luogo al livello della
religione rituale di Israele, poiché tutta la vita di Israele è intimamente trasformata con la rivelazione personale
di JHWH come Dio di Israele. Con ciò la vera realtà di Israele, come popolo, diventa per il mondo un segno
religioso della presenza e del potere di JHWH», POWERS, Teologia eucaristica, 220; Cfr, Ivi, 78-91.
117
Cfr RATZINGER J., Natura e compito della teologia, Jaca Book, Milano 2015, 130. Circa il contenuto
del dogma, «la tradizione non può aggirarlo o cessare di confrontarsi con esso. La possibilità, però, di dire in
altro modo ciò che questo termine di referenza implica resta aperta. Il segno di tutto questo si trova in Oriente:
il cristianesimo orientale è infatti in grado di confessare la fede eucaristica della Chiesa senza fare ricorso al
termine transustanziazione», SESBOÜÉ, Storia dei dogmi III, 226.
118
Cfr RATZINGER, Natura e compito della teologia, 109-142. Il contenuto della presenza eucaristica è dato
dalle parole stesse di Cristo, per cui modificarlo vorrebbe dire travisare quanto da Egli affermato. Cfr S EEWALD
M., Il dogma in divenire. Equilibrio dinamico di continuità e discontinuità, Queriniana, Brescia 2020.
119
Cfr GRILLO A., «Il rapporto tra forma celebrativa e forma teologica dell’Eucaristia. Ipotesi teorica,
verifica storica e apertura pastorale» in T RUDU, Teologia dell’Eucaristia, 22.

81
storia dei dogmi è legittimamente possibile anche quando un dogma è già chiaramente dato
ed enunciato (…). Esso resta così fedele alla propria essenza ed al suo particolare significato,
recuperando sempre più la sua origine ed esprimendo sempre più la sua validità permanente,
e in questo modo muta precisamente restando identico»120.
Ancora, com’è emerso, soprattutto in epoca recente, il pericolo nella riformulazione di
un dogma consiste nella possibilità di travisarne il contenuto121, e questa è un’accusa oggi
mossa da alcuni ambienti ecclesiali, ai pronunciamenti del Concilio Vaticano II, il quale,
recependo le istanze del Movimento liturgico, ha sancito che l’approccio all’Eucaristia e alla
presenza di Cristo, prima intellettualmente data da categorie filosofiche, può avvenire anche
tramite i riti e le preghiere, per ritus et preces122: «In una parola, non è sufficiente proporre
una dottrina dell’Eucaristia, occorre che Essa sia ciò che dev’essere nella pratica celebrativa
per tutti coloro a cui questo Sacramento è destinato»123.
Quest’acquisizione più ampia e più ricca della presenza eucaristica passa, come si è
potuto constatare, proprio da un cambio di prospettiva sul fatto eucaristico: usando un bel
concetto di A. Grillo, si può dire che si passa da un tȗto all’altro, dal «questo è» al «fate
questo», dalla sostanza al rito124. In quest’ottica, quindi, la transustanziazione non è scartata,
ma “inglobata” nella celebrazione eucaristica, per cui non è più la visione dell’ostia a rendere
esperibile la presenza di Cristo ma lo è il contesto liturgico entro cui essa si realizza, tramite
la partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio, nei diversi ministeri125: l’agire, quindi, fonda
il pensare, l’Eucaristia è pensabile solo se è agibile.
Inoltre, rilevare l’importanza del contesto cultuale, come finora evidenziato, a partire
dalla Mysterienlehre di Casel, ha portato al sorgere di una nuova problematica: se la liturgia
è azione di Dio, come la transustanziazione dimostra, essendo intervento stesso di Dio sulle

120
RAHNER K., Mysterium salutis II, Queriniana, Brescia 1968, 300.
121
«La teologia cattolica custodisce la tradizione nella misura in cui è in grado di salvaguardare l’oggettività
ella presenza reale. La posta in gioco (…) è l’idea che reale e sostanziale (per quanto necessari) non siano gli
unici aggettivi possibili a presenza, e che gli altri determinabili non siano in contrasto con la realtà», BELLI M.,
Sacramenti tra dire e fare. Piccoli paradossi e rompicapi celebrativi, Queriniana, Brescia 2018, 89-90.
122
Cfr SC 48.
123
NOCETI S. – REPOLE R., Commentario ai documenti del Vaticano II. Sacrosanctum concilium – Inter
mirifica, EDB, Bologna 2014, 178.
124
Cfr GRILLO, Eucaristia, 325.
125
Cfr DELLA PIETRA, Rituum forma, 190; Cfr BELLI, Sacramenti tra dire e fare, 77-86. «La realtà della
Sua presenza (…) è da ritrovarsi nella realtà dell’azione che egli compie nella e mediante la Chiesa, raccolta
in preghiera in Lui e con Lui», POWERS, Teologia eucaristica, 207.

82
sostanze del pane e del vino, che posto ha l’azione cultuale umana? 126 Ebbene, l’azione
liturgica della Chiesa è da intendersi teandricamente127, ovvero «ha la caratteristica di essere
nello stesso tempo umana e divina»128. Da un’adeguata antropologia rituale129, perciò, si può
facilmente intendere la verità per la quale l’azione cultuale della Chiesa media e favorisce
l’incontro tra Dio e l’uomo e viceversa: il rito, da intendersi come «interruzione dal contesto
vitale mondano»130, spazio dedicato specificatamente a questo incontro esistenziale, è fare
esperienza dell’altro e dell’Altro, apertura alla comunione e al Mistero.
Ancora, poiché «ciò che Dio dice è ciò che Dio opera»131, l’incontro con il Signore
non avviene nella contemplazione dell’ostia transustanziata elevata dal ministro, ma avviene
alla duplice mensa132, cioè nell’ascolto della Parola e nella partecipazione comunionale al
Pasto eucaristico in cui la Parola stessa si incarna. In questo modo, come volevasi dimostrare,
la transustanziazione stessa diviene dono della presenza di Cristo all’uomo, per mezzo della
Chiesa133: la presenza, quindi, è Mistero da vivere, prima ancora che da capire.

III.3.2 «Essere presenza» e «fare Chiesa»: per una teologia “in uscita”
Consci della profondità del mistero della presenza di Cristo nella celebrazione della
Chiesa, i Padri del Vaticano II ampliarono la “veduta” sulla presenza eucaristica, situandola
«in un più ampio contesto (…), ossia nell’assemblea e nella persona del ministro. L’intera
celebrazione dunque è interpretata con la categoria della presenza reale di Cristo, nei vari
segni della celebrazione e la presenza reale sotto le specie del pane e del vino viene detta
reale non per esclusione bensì per eccellenza, rispetto alle altre due maniere»134. Questa
ampiezza corrisponde alla presa di coscienza sulla molteplicità del dirsi-darsi di Cristo nella

126
Cfr KUNZLER M., La liturgia della Chiesa, Jaca Book, Milano 2018, 43-50.
127
Cfr GRILLO A. – VALENZIANO C., L’uomo della liturgia, Cittadella Editrice, Assisi 2017.
128
SC 2. «Tutto questo in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino,
il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo
incamminati», Ibidem.
129
Cfr CASPANI, Pane vivo, 341-251.
130
JȖNGEL E., «Sacramento e rappresentazione. Essenza e funzione dell’azione sacramentale» in N. REALI
(ed.), Il mondo del sacramento. Teologia e filosofia a confronto, Edizioni Paoline, Milano 2001, 227; Cfr
LAMERI – NARDIN, Sacramentaria fondamentale, 362-366.
131
SC 53; Cfr LAMERI – NARDIN, Sacramentaria fondamentale, 366-369. Nel rito, «ciò che è realmente
detto è ciò che è fatto», CHAUVET, Simbolo e sacramento, 224.
132
Cfr SC 56; Cfr BOZZOLO – PAVAN, La sacramentalità della parola, 17-31 e 286-323.
133
Cfr CASPANI, Pane vivo, 411; Cfr LAFONT G., Un cattolicesimo diverso, EDB, Bologna 2019, 50-53.
134
Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 246.

83
liturgia: pur restando la presenza reale “per antonomasia” quella del corpo e del sangue sotto
le specie del pane e del vino, il Vaticano II esplicita meglio che la transustanziazione non è
intendibile se non nel contesto cultuale in cui tutto il popolo di Dio è implicato, nella varietà
dei ministeri, rendendosi esso stesso causa strumentale dell’Eucaristia135, e in cui Cristo non
agisce solo limitatamente al momento dell’epiclesi ma in tutta l’azione liturgica136, la quale,
ripresentando il Christus passus137, continua ad attuare l’opera della redenzione138.
Nell’introdurre queste “novità”, che altro non sono se non un approfondimento della
realtà della celebrazione eucaristica, i Padri conciliari ebbero modo di far emergere i vari
modi in cui Cristo è presente nella liturgia: non solo nel pane e nel vino transustanziati,
quindi, ma è anche pienamente presente negli altri sacramenti, nella Parola proclamata, in
ogni gruppo di fedeli che pregano: in ogni circostanza, dunque, in cui l’uomo, riconoscendo
sé stesso creatura di Dio e da Lui dipendente, vuole renderGli lode, allora Cristo, come Lui
stesso promise, per cui «dove sono due o tre riuniti nel mio Nome, là sono io» (Mt 18,20),
«associa sempre a sé la Chiesa, Sua sposa amatissima, la quale l’invoca come Suo Signore
e per mezzo di Lui rendere il culto all’eterno Padre»139.
Il perno su cui l’argomentazione conciliare si basa è senz’altro la riscoperta, travagliata
e più volte soffocata ed esclusa dalla riflessione teologica, dell’importanza, liturgicamente
vitale, del sacerdotium commune140: il soggetto dell’azione cultuale della Chiesa, infatti, non
è il ministro da solo, ma ogni fedele battezzato, il quale proprio in Essa esercita la funzione
sacerdotale141, acquisita con la figliolanza in Cristo.
Ebbene, «l’actuosa partecipatio non è soltanto il vero fine della riforma liturgica, ma
anche il principio efficace di una nuova intelligenza teologica, la quale esige di ricollocare
la “forma valida” dell’Eucaristia amministrata all’interno del più ampio orizzonte della

135
Cfr LAFONT, Un cattolicesimo diverso, 40-43.
136
«Lo schema conciliare, imposta il discorso sulle azioni di Cristo e parla di presenza descrivendo il Cristo
agente nelle azioni della liturgia: l’azione liturgica è azione di cristo», CARRA, Hoc facite, 198. Per tali ragioni,
molti teologi, anziché parlare di modi della presenza, preferiscono parlare di «poli di un unico complesso di
azioni salvifiche compiute da Cristo», Ibidem.
137
Cfr SC 47; Cfr MAZZA, La celebrazione eucaristica, 247.
138
Cfr SC 2.
139
SC 7; Cfr NOCETI – REPOLE, Commentario. Sacrosanctum concilium, 96-100.
140
Cfr LG 10-11; Cfr NOCETI S. – REPOLE R., Commentario ai documenti del Vaticano II. Lumen gentium,
EDB, Bologna 2018, 160-175.
141
Cfr MAZZA E., «La partecipazione attiva alla liturgia e l’efficacia dei sacramenti», in ID., Rendere grazie.
Miscellanea eucaristica per il 70° compleanno, EDB, Bologna 2010, 195-210.

84
“forma rituale”, cioè dell’Eucaristia celebrata»142, in cui il corpo di Cristo ecclesiale entra in
rapporto col corpo di Cristo sacramentale143, proprio nella liturgia che quotidianamente la
Chiesa celebra144, incontrando in essa il Suo Signore: nella Sacrosanctum concilium è scritto
che «la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti
spettatori (extranei vel muti spectatores) a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo
bene nei suoi riti e nelle sue preghiere (per ritus et preces), partecipino all’azione sacra
consapevolmente, pienamente ed attivamente (sacram actionem conscie, pie et actuose)»145.
La dinamica dell’azione sacramentale, e dell’implicazione umana in essa, intrinseca
alla Rivelazione, come dimostra il mistero dell’Incarnazione146, è necessaria e vitale, per la
Chiesa e per la teologia, al fine di ricordare sempre qual sia la loro dimensione e la loro
missione, uscendo dall’impasse intellettualistico che le rende museali, per accogliere Cristo
sempre in maniera nuova, il germoglio di quel giardino che la Chiesa, e con Essa la teologia,
è chiamata a divenire147.
Il risvolto impellente che emerge dalla coscienza ecclesiale promossa dal Vaticano II,
certamente, è quello della formazione liturgica: la liturgia, infatti, via pulchritudinis, proprio
perché in essa Cristo si rende realmente presente, diviene luogo per la formazione cristiana
integrale del battezzato: riprendendo l’invito di R. Guardini148, Benedetto XVI ebbe modo
di soffermarsi proprio sulla dimensione formativa ed esistenziale della liturgia, in cui la vita
cristiana possa prendere una «forma eucaristica»149.
La testimonianza di Cristo è, dunque, l’effetto della Grazia donata all’uomo-liturgo
che incontra il suo Signore vivo e vero nella storia, nella “festa della Chiesa”: tuttavia, anche
la missione e la testimonianza cristiana, che dalla liturgia scaturiscono, possono imparare a
loro volta qualcosa proprio dalla complessità del Mistero che in essa si compie. L’Eucaristia,

142
GRILLO, Eucaristia, 321. Una possibile e, certamente, una necessaria conseguenza di questa realtà è la
de-clericalizzazione della celebrazione, la quale non è più “del ministro”, ma luogo pienamente ecclesiale.
143
Cfr Ivi, 322-324. Una posizione analoga potrebbe essere quella degli Ortodossi: la trasmutazione.
144
Cfr DELLA PIETRA, «La presenza reale in prospettiva liturgica», 67-69.
145
SC 48. Per un commento e un’analisi alle problematiche emerse circa questa definizione, Cfr NOCETI –
REPOLE, Commentario. Sacrosanctum concilium, 177-180.
146
Cfr LAMERI – NARDIN, Sacramentaria, 89-90.
147
Cfr GRILLO, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Cittadella
Editrice, Assisi 2019. Questa terminologia è ripresa da papa Francesco in EG 95.
148
Cfr GUARDINI R., Formazione liturgica, Morcelliana, Brescia 2008.
149
Cfr BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis, 22 febbraio 2007:
AAS 99 (2007) 106-180.

85
infatti, comunica all’uomo che la vive l’acquisizione di una nuova “ottica”, di una nuova
prospettiva con cui guardare il mondo e approcciarsi al fratello, ma anche, e non per ultimo,
con cui fare teologia: questa particolare attenzione, che è doveroso rivolgere ad ogni tipo di
situazione umana, segnata dal tempo, e che, proprio a partire dalle molteplici forme di
presenza eucaristica, potrebbe essere definita “logica della complessità” 150, porta a quella
che potrebbe definirsi ospitalità antropologica. Ebbene, questa ospitalità, declinabile in tanti
modi quanti sono gli innumerevoli ambiti dell’umano, e magari, nondimeno, anche come
progetto pastorale, fa sì che ogni uomo possa trovare, nell’Eucaristia, la consolazione e la
pace, ma, soprattutto, la gioia e la forza di vivere cristianamente, avendo la certezza di essere
amato da Dio e dalla Chiesa, voluto e accettato contro qualsivoglia differenziazione umana.
Questa forma di ospitalità antropologica, configurabile non solo come realtà scaturente
dall’Eucaristia, ma come vera e propria missione per il cristiano, instaura un’ermeneutica
circolare tra Cristo e l’uomo, tra la liturgia e la vita, tra la teologia e la Chiesa, tra l’Eucaristia
e il mondo e la storia, tra il Creatore e le Sue creature: in gioco, di certo, vi è la storicità della
salvezza e la possibilità che, per mezzo di Cristo, essa raggiunga tutti gli uomini.
La meravigliosa, dinamica e complessa realtà, “sistolica e diastolica”, che scaturisce
dall’Eucaristia spinge ognuno a vivere ciò che si celebra, a manifestare esistenzialmente ciò
che si contempla: incontrare Dio nella liturgia della Chiesa, in chi si siede accanto, nel pane
e nel vino che diventano corpo e sangue del Signore, radunati intorno al Pasto e alla Parola,
essere prolungamento del Mistero, continuando, nella vita quotidiana, la portata amorosa
con cui Dio si dona nell’Eucaristia151. É questa, dunque, la straordinaria “novità” che il
Concilio Vaccino II ha donato alla Chiesa e alla riflessione teologica: farsi presenza di
Cristo, a partire dalla liturgia, nella Sua sequela, per essere pienamente Chiesa, fare della
propria vita un rendimento di grazie e una missione ecclesiale152, non “produrre” presenza
sostanziale, ma generare presenza eucaristica153.

150
«In questa prospettiva di ricollocazione della presenza di Dio alle forme intra-storiche, va ripensato (…)
lo statuto dell’accesso credente al dato di presenza. Va superato decisamente il restringimento intellettuale,
tipico della teologia della fede di stampo classico, e ridato campo all’accesso olistico dell’uomo in tutte le sue
dimensioni», CARRA, Hoc facite, 261-262. Cfr BONACCORSO G., «L’epistemologia della complessità e la
teologia», Rassegna di Teologia 54 (2013), 61-95.
151
Cfr BELLI, Sacramenti tra dire e fare, 238.
152
Cfr ZIZIOULAS J., Eucaristia e Regno di Dio, Edizioni Qiqajon, Magnano 1996.
153
L’espressione è di A. Grillo.

86
CONCLUSIONE

Lo sviluppo storico-dottrinale percorso, dalla teologia patristica ai pronunciamenti del


Concilio Vaticano II, passando per Tommaso d’Aquino, anziché dare risposte, moltiplica le
domande, consci che il Mistero vada ben oltre il pensare teologico1: quale limite tra presenza
eucaristica come vocazione-missione derivante dalla sequela di Cristo e come questione
sistematica? Quale relazione, dunque, tra presenza di Cristo e vita quotidiana dei battezzati?
Quale possibilità per la pastorale e per l’agire di ognuno? Ebbene, più si cerca di capire, più
si amplia la profondità del mistero di Dio che, in Cristo e per mezzo dello Spirito Santo, si
mostra alla Sua creatura «faccia a faccia»2, presenziando nella Parola, nell’assemblea dei
fedeli, nel pane e nel vino transustanziati per la preghiera della Chiesa che Egli ama.
Ebbene, dal punto di vista squisitamente dogmatico, è stato possibile far emergere che,
per la teologia eucaristica e, più in generale, per quella sacramentaria, la nozione di segno è
oramai insufficiente a qualificare la realtà dell’Eucaristia e degli altri Sacramenti. Poiché,
infatti, l’Eucaristia è principalmente un incontro teandrico, un evento esistenziale, un atto
celebrativo della Chiesa, allora l’intendere il Sacramento come un segno deve essere di certo
abbandonato: difatti, il segno, ascrivibile ad un piano noetico, «si pone sul versante del dire
qualcosa, cioè della trasmissione di informazione e di conoscenza; il simbolo, sul versane
del dire a qualcuno, cioè della comunicazione con un soggetto riconosciuto come soggetto
e situato nella sua posizione di soggetto»3. Per tali ragioni, quindi, «a differenza del segno
che rimanda ad altro da sé, il simbolo invita a entrare in sé e a partecipare di sé (…). A
differenza, dunque, del segno – che propriamente designa e informa –, il simbolo piuttosto
assegna e forma un’identità e un posto all’interno di una relazione»4.
Tuttavia, le riflessioni e le conseguenti prospettive sul tema della presenza eucaristica
proposte dalla teologia contemporanea possono certamente illuminare la strada per qualche
passettino in avanti: difatti, in pieno accordo con il Vaticano II, la consapevolezza di essere

1
«Una speculazione distaccata e neutra rispetto al suo oggetto non esiste», CARRA, Hoc facite, 228.
2
AMBROGIO, Apologia prophetæ David ad Theodosium XII, 58: PL 14, 916; Cfr CUVA A., voce «Gesù
Cristo» in SARTORE – TRIACCA, Nuovo dizionario di liturgia, 629-641.
3
CHAUVET L.-M., I Sacramenti. Aspetti teologici e pastorali, Ancora, Milano 1997, 115; Cfr LAMERI –
NARDIN, Sacramentaria, 348-351; Cfr SARTORE D., voce «Segno/Simbolo» in SARTORE – TRIACCA, Nuovo
dizionario di liturgia, 1370-1381.
4
BIANCU S. – GRILLO A., Il simbolo: una sfida per la filosofia e la teologia, San Paolo, Milano 2013, 77.

87
presenza di Cristo e la derivante responsabilità di fare Chiesa, interpellano il cristiano, alla
luce della celebrazione eucaristica, chiedendogli di far divenire la sua stessa vita una “Messa
continua”. Ogni battezzato, prezioso per la famiglia ecclesiale universale, ha la vocazione e
la missione ad essere presenza di Cristo nel mondo, ogni giorno: ognuno di noi è parte del
corpo di Cristo, siamo braccia e mani di Cristo, siamo occhi e orecchie di Cristo, siamo cuore
palpitante di Cristo. Tutto ciò, è Egli stesso che ce lo chiede: “celebrarLo con la vita”, «in
spirito e verità» (Gv 4,24), «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1).
Alla luce di ciò, dunque, considerato l’abbandono della categoria del segno in favore
di quella del simbolo, congiuntamente alla riscoperta della dimensione rituale eucaristica5,
ci si chiede: qual è il limite del modello tommasiano-tridentino?

«Noi abbiamo valutato il vecchio modello eucaristico come ormai inabitabile da parte
del soggetto credente che cerca e vive nella pratica eucaristica la presenza di Cristo. Per il fatto
che in sé tale modello non custodisce più l’accesso vivo a tale presenza. E abbiamo percorso i
tentativi di ristrutturazione di un nuovo modello indicandole la fecondità nel fatto che cercano
una nuova abitabilità dell’uomo contemporaneo nel dato di fede in questione. Questo vuol dire
spostare decisamente i pesi nell’impostazione classica del conoscere: il vero non va pensato
come l’inferenza intellettuale adeguata all’oggetto, ma come l’armonica collocazione del
soggetto nei suoi rapporti con il reale. Si tratta del superamento dell’oggettivismo classico che
ha guidato l’ideale di conoscenza nel secondo millennio dell’era cristiana e dell’assunzione
delle attuali istanze di recupero del soggetto (…). Il vero sta nelle forme del reale, nelle
relazioni che connettono il reale tutto ed in cui l’uomo è responsabilmente collocato» 6.

Dalle parole appena riportate, dunque, si può affermare che il simbolo è la categoria
“naturalmente necessaria” alla teologia eucaristica e sacramentaria contemporanea, poiché
esprime al meglio il legame agapico tra Cristo e la Chiesa, dato proprio dalla Sua multiforme
presenza: da ciò, allora, si evince il motivo per cui tale categoria è stata più volte rigettata,
ovvero a causa del secolare modo di pensare l’Eucaristia come realtà a sé stante.
A partire dalla liturgia, quindi, in cui l’incontro uomo-Dio ha nella fractio panis il suo
culmine, il battezzato è chiamato non solo ad una professione di fede, ma alla sequela, ovvero

5
Per una sintetica rilettura “capovolta” della storia dell’Eucaristia, Cfr GRILLO, Eucaristia, 289-297.
6
CARRA, Hoc facite, 229-231. Per un approfondimento tematico sul simbolo in liturgia, Cfr KUNZLER, La
liturgia della Chiesa, 132-134 e 207-209; Cfr VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, 49-56.

88
alla viva partecipazione del corpo di Cristo, che è la Chiesa, il bisognoso e l’emarginato, nel
quale Egli, nondimeno, è presente (Cfr Mt 25,35-44). Cristo stesso, d’altronde, ha rivelato
l’inalienabilità della sequela-missione che deriva dall’Eucaristia: «Colui che mangia Me
vivrà per Me» (Gv 6,57)7. Questa condizione cui il battezzato è vocato, partendo dalla Parola
e dal Pasto eucaristico, implica l’essere promotori di pace e fratellanza, fautori di speranza,
annunciatori della gioia del Vangelo, costruttori di ponti, come invita papa Francesco, oltre
la chiusura del mondo, oltre le barriere, oltre le differenze: solo così la Chiesa potrà edificare
il Regno di Dio ed essere Madre cattolica, universale8.
Ecco, quindi, il senso dell’ospitalità antropologica a cui l’Eucaristia, l’espressione più
alta con cui il Padre continua a manifestare la Sua misericordia, apre le porte: «Dio trasforma
l’accoglienza da dono ricevuto in dono offerto»9; ospitare Cristo nella propria vita quotidiana
e accoglierLo nella consapevole certezza che «la nostra partecipazione al Suo corpo e sangue
non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo»10, vuol dire saper ospitare
nella liturgia, cuore della Chiesa, l’Altro e l’altro: così facendo, allora, «l’Eucaristia diventa
la possibilità impensabile e ordinaria della vita cristiana, la confessione ultima e l’esperienza
prima, la sosta e l’impulso, il riposo e l’attrazione più desiderata e invocata, a cui si giunge
e da cui si parte, anzitutto come luogo in cui il cristiano può “stare”» 11.
Nell’Eucaristia, «mistero dell’assoluta vicinanza di Dio»12, dunque, la Chiesa, in ogni
battezzato, è chiamata a professare ed a vivere conformata a Cristo, adoperandosi per rendere
il mondo intero un “rendimento di grazie”: dal Mistero della presenza eucaristica, essa può
trarre, così, una nuova metodologia teologica e pastorale, fedele all’uomo e alle periferie del
suo cuore, e fedele a Dio, il quale viene gli incontro quotidianamente, nella Parola e nel pane
spezzato, come eterna Novità, chiamando ogni battezzato alla Sua sequela, oltre qualsiasi
impedimento; altresì, l’Eucaristia voca il teologo a porsi a totale servizio della luce di Cristo
(Cfr Gv 8,12), affinché la aiuti a raggiungere ogni angolo dell’animo umano e, nondimeno,

7
Cfr CANTALAMESSA R., I misteri di Cristo nella vita della Chiesa, Ancora, Milano 1992, 317.
8
Per un interessante indagine sulla situazione della Chiesa nella postmodernità e sulle sfide poste alla Sua
missione di annunciare il Vangelo, Cfr MANNION G., Chiesa e postmoderno. Domande per l’ecclesiologia del
nostro tempo, EDB, Bologna 2009.
9
CÀNOPI A.M., Fame di Dio. L’Eucaristia nella vita quotidiana, Paoline, Cinisello Balsamo 2020, 17.
10
LEONE MAGNO, Sermo 12: PL 54, 168.
11
GRILLO – PERRONI – TRAGAN, Corso di teologia sacramentaria II, 75.
12
RAHNER K., Eucaristia, Queriniana, Brescia 2005, 35-44.

89
Essa «viene a situarsi come fondamento (…) della “società alternativa” annunciata da Gesù
e faticosamente testimoniata dalla Sua Chiesa»13. Ad ognuno, Cristo dice: «A te che
importa? Tu seguimi» (Gv 21,22); l’invito è lasciarsi conformare a Lui per essere Suo
profumo nel mondo, nella storia; nell’Eucaristia, infatti, la quale, «non è un premio per i
perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» 14, kenoticamente,

«Cristo si riversa in noi e con noi si fonde, mutandoci e trasformandoci in sé, come una
goccia d’acqua versata in un infinito oceano di unguento profumato. Questi sono gli effetti che
un tale unguento produce in coloro che Lo incontrano: non si limita a renderli semplicemente
profumati, neppure fa soltanto respirare ad essi quel profumo, ma trasforma la loro stessa
sostanza nel profumo di quell’unguento che per noi si è effuso» 15.

Ebbene, questa straordinaria realtà, che forse in tempo di pandemia ha maggiormente


sollecitato la coscienza ecclesiale 16, si è palesata tra le forme “nuove e inusuali” del celebrare
Cristo: nelle chiese vuote, tra i letti d’ospedale, tra le corsie dei reparti Covid, nelle orazioni
delle famiglie in casa, in quelle dei ministri, nel sudore dei medici, nel volontariato di ogni
uomo che ha reso sé stesso strumento di Dio, presenza di Cristo accanto ai bisognosi, in un
momento tanto drammatico quanto, forse, maieutico all’essere “fratelli tutti”. Proprio papa
Francesco, nel tardo pomeriggio del 27 marzo 2020, si è reso simbolo di tutto ciò: Cristo,
presente in una piccola ostia, elevata in una piazza vuota, accompagnata dalle sirene delle
ambulanze, nelle quali, nondimeno, Egli era presente; l’evento ha manifestato “un modo”
del «principio costitutivo del culto cristiano (…), con la sua duplice e al contempo unica
direzione verso Dio e verso il prossimo. Cristo, portando l’umanità a Dio, la introduce nella
sua salvezza»17. In quel silenzio sconfortante, magari punto di avvio per un nuovo “cammino
eucaristico”, però, si è udito con forza il bussare di Cristo al cuore dell’uomo, si è manifestata
la Sua presenza vera, reale e multiforme, fedele alla Sua promessa: «Ecco, Io sono con voi
tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

13
MORRONE F., Una grammatica dell’umano. Linee di antropologia cristocentrica in prospettiva di etica
sociale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 211. Per una riflessione sulla solidarietà eucaristica, Cfr Ivi, 209-224.
14
EG 47.
15
CABASILÆ N., De vita in Christo IV, 3: PG 150, 593. Il riferimento scritturistico è a 2Cor 2,15.
16
Cfr LAFONT G., «La Chiesa che verrà», Munera. Rivista europea di cultura 2 (2020), 25-31.
17
RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2015, 279.

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