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I volumi di questa collana sono stati curati dal «Dicastero per l’Evangelizzazione.

Sezione per le
questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo».

© 2022, by Dicastero per l’Evangelizzazione. Sezione per le questioni fondamentali


dell’evangelizzazione nel mondo

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La liturgia nel mistero della Chiesa
(SC 1-2.7-13)

Arturo Elberti

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INDICE

Capitolo 1: La stagione del Vaticano II, “primavera dello Spirito” nella Chiesa
La rivoluzione copernicana
La Chiesa volta pagina
L’estensione della lingua viva a tutta la liturgia
La celebrazione eucaristica rinnovata
I nuovi rituali

Capitolo 2: Una chiave di lettura


La discussione conciliare
La liturgia e la storia della salvezza
Principi generali per la riforma
La liturgia attua l’opera della salvezza propria della Chiesa
Cristo è presente nella liturgia
Liturgia terrena e liturgia celeste

Capitolo 3: Il centro del cammino liturgico


Liturgia e Mistero Pasquale
Il Mistero Pasquale di Cristo nel tempo
La liturgia, attuazione del Mistero Pasquale
Mistero Pasquale ed esistenza cristiana
Liturgia e Chiesa

Capitolo 4: Liturgia ed economia della salvezza


Rapporto tra Sacra Scrittura e liturgia
Rapporto rito-liturgia
Liturgia e pii eserciziL’assemblea liturgica, soggetto celebrante

Come conclusione: la liturgia dopo il Vaticano II


Ostacoli ancora consistenti
Aspetti positivi

Sacrosanctum Concilium 1-2.7-13


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CAPITOLO 1
LA STAGIONE DEL VATICANO II

La rivoluzione copernicana

Quando il 25 gennaio 1959, Giovanni XXIII annunciò la convocazione di un nuovo


cConcilio, egli compiva un atto inatteso, chiamando tutta la Chiesa cattolica a un momento solenne
altamente tradizionale e, nel medesimo tempo, inequivocabilmente innovativo. L’ascolto prestato
all’audacia dell’anziano Papa fu immenso, accendendo speranze, attese, energie e – perché no? –
timori in tutto il mondo, anche al di là dei confini cristiani. Mentre il mondo respirava a fatica sotto
la cappa della guerra fredda, l’attenzione dei popoli non si lasciò sfuggire che il Papa aveva posto il
Concilio concilio nella prospettiva della riunione di tutti i cristiani. Il che significava far uscire il
cattolicesimo da una posizione secolare di diffidenza verso il movimento ecumenico e accettare di
considerare l’unità dei cristiani come una meta impegnativa ma possibile, al di là di tanti
schematismi preconcetti.
Secondo il suo stile abituale non si soffermò sulle critiche, ma si concentrò piuttosto sulla
preparazione del Concilioconcilio. La svolta giovannea, che molti identificano con il Vaticano II, si
può definire una vera e propria rivoluzione copernicana: la Chiesa ha voltato le spalle senza
rimpianto alla controriforma, riscoprendosi come popolo di Dio all’interno e ritrovando all’esterno
la propria solidarietà con il mondo.
Alla morte di Giovanni XXIII (3 giugno 1963), accanto al dolore per la sua scomparsa,
regnava un senso di profonda incertezza sul possibile proseguimento del Concilioconcilio. Cosa
avrebbe fatto il nuovo Papa? Il 21 giugno 1963, l’elezione del cardinale Giovanni Battista Montini
allargò il cuore alla speranza. Nel primo messaggio al mondo, il giorno successivo alla sua elezione,
egli coerentemente annunciava: «La parte più importante del nostro pontificato sarà occupata dal
proseguimento del Concilioconcilio».
Il mese di ottobre di quello stesso anno segnò forse uno dei livelli più alti dei lavori
conciliari. Impegnati nella discussione dello schema sulla Chiesa e, contemporaneamente nella
votazione definitiva della Costituzione liturgica, i padri lavorarono duramente in una delle più
serrate discussioni teologiche di tutto il Concilioconcilio. Alla conclusione del secondo periodo dei
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lavori conciliari, il 4 dicembre 1963, si ebbero le prime conclusioni dell’assemblea conciliare. Esso
si rivelò come un evento particolarmente significativo sia per la Costituzione promulgata, quella
sulla liturgia, che da molti fu ritenuta e lo è ancora oggi, il testo più denso ed innovativo, sia per la
felice formula con la quale fu promulgata sia per la piena comunione esistente tra il Papa e
l’episcopato.

La Chiesa volta pagina

I nuovi libri liturgici che oggi circolano nella Chiesa cattolica in innumerevoli traduzioni,
sono stati, quasi tutti, «promulgati da Ppapa Paolo VI», il quale ha sottoscritto il documento
conciliare sulla Liturgia (Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963). È la prima volta che un
Pontefice ha legato il suo nome ad una riforma del culto così motivata, ampia e profonda come
quella voluta dal concilio Vaticano II.
Il 4 dicembre di quattro secoli prima (1563), il Concilio concilio di Trento demandava alla
Santa Sede il compito di avviare una riforma della liturgia, tanto attesa da più parti, ma che i padri
conciliari stimavano essere secondaria, senza però dare orientamenti e motivazioni teologiche e
pastorali. Tra gli anni 1570 e il 1614, fu avviato un rinnovamento per quanto riguardava il Messale,
il Rituale e il Breviario. Tuttavia, questi testi furono rivisti secondo conoscenze limitate, sia sul
piano storico-liturgico, sia nella sola prospettiva di favorire l’attenta e devota celebrazione da parte
del clero. Il popolo di Dio era del tutto ignorato, dal momento che tali forme di culto e di preghiera
erano considerate appannaggio del solo clero.
Gli studiosi di liturgia, nei secoli successivi, hanno potuto approfondire le fonti antiche e
storiche che avevano caratterizzato la liturgia della Chiesa. Grazie all’impegno del movimento
liturgico e beneficiando di una acuta consapevolezza della visione di Chiesa, intesa come popolo di
Dio, il concilio Vaticano II ha orientato la liturgia ad essere «culmine verso il quale tende l’azione
della chiesa e la fonte dalla quale promana tutta la sua energia» (SC 10).
Con la sua esperienza pregressa nella FUCI e quella pastorale nella diocesi di Milano, pPapa
Paolo VI aveva verificato quanto fosse spiritualmente e pastoralmente feconda una liturgia
rettamente compresa e partecipata. Nel suo discorso di chiusura della seconda sessione del
Concilioconcilio, affermava: «Sarà bene che noi facciamo tesoro di questo frutto del nostro
Concilio concilio come quello che deve animare e caratterizzare la vita della Chiesa; è, infatti, la
Chiesa una società religiosa, essa è una comunità orante, è un popolo fiorente di interiorità e di
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spiritualità promossa dalla fede e dalla grazia». Poi, quasi prevenendo possibili accuse e critiche nei
confronti di una tale riforma, che stava per avviare, ha aggiunto: «Non vogliamo diminuire
l’importanza della preghiera, né posporla ad altre cure del ministero sacro dell’attività pastorale, né
impoverirla della sua forza espressiva e del suo fascino artistico; bensì vogliamo renderla più pura,
più genuina, più vicina alle sue fonti di verità e di grazia, più idonea a farsi spiritualmente
patrimonio del popolo».

L’estensione della lingua viva a tutta la liturgia

La novità più caratterizzante fu l’uso della lingua viva del popolo nella celebrazione della
Messa, introdotta parzialmente il 7 marzo 1965. Inizialmente furono usate per i fedeli precedenti
traduzioni dei “messalini”, mentre il canone o preghiera eucaristica, rimaneva nella sua versione
latina. Il Papa si trovò a dover scegliere; una parte dell’episcopato si appellava ad una decisione
disciplinare decisa dal cConcilio: «l’uso della lingua latina sia conservato nei riti latini», mentre le
concessioni dell’uso della lingua nazionale riguardavano «le letture e le ammonizioni, alcune
preghiere e canoni» (SC 36).
Paolo VI dovette affrontare una questione grave ed urgente: il 4 agosto 1967 il Pontefice
approvò la decisione di usare la lingua nazionale anche per le formule di consacrazione della
celebrazione. Fu aperta, così, la via per celebrazioni totalmente partecipate dai fedeli e da loro ben
comprese.

La celebrazione eucaristica rinnovata

Nella seconda fase della riforma dei nuovi libri liturgici, l’impresa più grande era senza
dubbio quella riguardante la Messa. Il 3 aprile 1964, con la Costituzione apostolica Missale
Romanum, il Papa approvò il nuovo “Rito della messa” e i “Principi e norme per l’uso del Messale
romano”, e il 25 maggio 1969 il nuovo “Lezionario per la Messa”.
Rimaneva ancora da risolvere un problema delicato: la richiesta, sollecitata da più parti, di
introdurre nuove preghiere eucaristiche più vicine ai modelli antichi, mentre dal IV secolo la

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liturgia romana conosceva solo il Canone Romano. Questo desiderio si realizzò con la
pubblicazione di tre nuove preghiere, il 23 maggio 1968.

I nuovi rituali

Altre gravi questioni venivano dalla visione e dalla celebrazione dei sacramenti. In un lento,
ma ponderato cammino di revisione, tra il 1969 e il 1973 furono rivisti ed aggiornati i rituali di
quasi tutti i sacramenti, mettendo bene in evidenza il rito e il contenuto teologico di ciascuno di
essi. Seguirono i riti dell’ordinazione, della benedizione degli oli, della benedizione dell’Abate e
delle Abbadesse, della consacrazione delle vergini, della professione religiosa, della dedicazione
della chiesa e dell’altare, il rito delle esequie.
Con un’ulteriore Costituzione apostolica, Laudis canticum, Paolo VI, il 1° novembre 1970,
introdusse nella Chiesa la nuova edizione della Liturgia delle Ore. Essa si presentò come
l’organizzazione della preghiera pubblica della Chiesa, popolo di Dio, e non più riservata al clero e
ad alcuni ordini religiosi.

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CAPITOLO 2
UNA CHIAVE DI LETTURA

La discussione conciliare

Dalla pubblicazione dell’enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947) all’inizio del Vaticano
II (11 ottobre 1962), che come primo compito ebbe l’esame della Costituzione liturgica, fino alla
promulgazione della stessa, passano soltanto sedici anni, periodo breve rispetto ai 384 anni
intercorsi tra la conclusione del Concilio concilio Tridentino e la stessa enciclica. La riforma seguita
al Vaticano II è opera immensa che la storia porrà senza dubbio tra le vicende più imponenti della
Chiesa. Va riconosciuto che la Mediator Dei esercitò una pressione notevole nel dibattito conciliare
sulla liturgia e poi sulla stessa costituzione Sacrosanctum Concilium. L’influsso dell’enciclica
pacelliana in effetti fu tale da giustificare l’asserzione che la Mediator Dei ha fornito i principi
fondamentali per varare il documento conciliare e per la successiva riforma. Ricordiamo che la
stessa Sacrosanctum Concilium, dopo un primo momento di incertezza e di disaccordo, alla fine, su
2.152 votanti in aula, fu approvata con una opposizione di soli quattro voti ed uno nullo, e quindi
con 2.147 placet.
Per quanto riguarda il nostro argomento, esso va ricercato soprattutto nella prima parte, ma
lì, nell’insieme della Costituzione, si riscontra una duplice serie di principi:
1. Orientativi, che richiamano i dati teologici, inquadrando e sostenendo la liturgia. Ricordiamo: la
centralità del mistero di Cristo e della sua Pasqua (nn. 5-7); la Parola di Dio (n. 24), dove viene
evidenziato il binomio inscindibile Bibbia-liturgia; il carattere ecclesiale della liturgia (n. 10) e la
natura sacerdotale del culto (n. 14); la Tradizione e il progresso (n. 23).
2. Operativi, incentrandosi nello specifico della pastorale liturgica. I principi operatori accennati
sono: catechesi e formazione (nn. 14-20; 35; 52 e seguenti); sostanziale unità, senza uniformità e
nella prospettiva della inculturazione liturgica; la lingua liturgica (n. 36); il canto dell’assemblea
(nn. 112-121); la riforma liturgica (nn. 21-40): al pari della Chiesa, la liturgia è semper reformanda.
La riforma dei libri liturgici e dei riti liturgici andava fatta tenendo presente il principio conciliare
di conservare la sana Tradizione e aprire nondimeno la via ad un legittimo progresso; i suoi riti
dovevano essere adattati alle esigenze attuali (cfr. SC 50) e risplendere «per nobile semplicità; siano

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trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di
comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 34).

La liturgia e la storia della salvezza

Senza dubbio, sia nel proemio (SC 1-4) che nel primo capitolo (SC 5-13), riscontriamo un
vero compendio di teologia liturgica, che in maniera sintetica costituisce il frutto del cammino
percorso dal movimento liturgico. Il testo, abbandonando un discorso fondato su categorie
filosofiche, fa sul culto esso un discorso non deduttivo. In altre parole, non presenta la liturgia come
conclusione sull’argomento e sulle sue forme di attuazione: “interno-esterno”, “privato-pubblico”,
ma entra direttamente nella rivelazione intesa come storia della salvezza.
Il tema, molto caro alla teologia biblica, trovava da ora in poi cittadinanza anche sul piano
liturgico, presentandosi come chiave di interpretazione della stessa liturgia. Infatti, la liturgia così
fondata sulla “storia della salvezza”, acquista un suo peculiare valore esistenziale e perenne, che è
l’animo del cristianesimo, non però in chiave dottrinale, ma come momento nel quale «si attua
l’opera della nostra redenzione, in modo tale che per essa il mistero di Cristo e la stessa autentica
natura della Chiesa si esprimono nella vita e si rivelano agli altri» (GS 2).
Il documento si apre partendo dalla presentazione del rapporto “rivelazione-storia della
salvezza” fino a giungere gradualmente a quello di “liturgia-azione salvifica di Cristo nella
Chiesa”. Infatti, da subito esso passa ad illustrare il rapporto liturgia-economia della salvezza che
sin dall’antichità è stato espresso con la parola mysterion, al fine di qualificare meglio la natura
della liturgia cristiana e il suo ruolo nella vita ecclesiale. Un tale inquadramento, tra l’altro,
permette di fare esplicito riferimento al Mistero Pasquale di Cristo. Il culto cristiano, infatti, affonda
le sue radici nella stessa Incarnazione e si è esteso nel suo stadio più maturo che è il “mistero
pasquale” che si prolunga nell’oggi della Chiesa.

Principi generali per la riforma

La rivelazione, intesa come la volontà esplicita di Dio di voler salvare tutti affinché
giungano alla conoscenza piena e perfetta della verità (1Tm 2,4), si è manifestata come un
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susseguirsi di avvenimenti che «dopo avere a più riprese e in più modi parlato un tempo ai padri per
mezzo dei profeti» (Eb 1,1) denotano il realizzarsi del Mistero salvifico. La diversità di modi
manifesta i differenti piani nei quali la salvezza è stata operata, cioè il suo passaggio dalla sfera
della religiosità naturale a quella della rivelazione, cioè della ‘fede’. «A più riprese» (diversità di
tempi), indica come il «mistero nascosto nei secoli» è divenuto ‘avvenimento’, ossia si è realizzato
nella sua dimensione storica divenendo ‘realtà’.
Il fatto storico, inevitabilmente, richiede un ‘prima’ che lo preceda, lo annunzi e lo prepari
(AT); poi il fatto in sé che è ‘realtà’, ossia avvenimento reale che realizza il primo momento e ne
contiene visibilmente e concretamente tutta la portata (NT). Questo fatto storico in SC 5 viene
diviso dal NT e dalla tradizione cristiana fino al Vaticano II, in tre momenti:
– momento profetico o di annunzio: manifesta l’eterno amore di Dio per l’uomo, al punto da entrare
nella storia di un popolo e parlare ad esso. Dio cammina con il suo popolo;
– momento della “pienezza dei tempi” (Gal 4,4-5; 2Tm 1,10): non si compie più attraverso riflessi
della parola umana, né per mezzo di avvenimenti profetici, ma solo in quella pienezza di “grazia e
verità” partecipata da tutti gli uomini attraverso l’Incarnazione.
– momento di Cristo e tempo della Chiesa: gli uomini trovano in lui la riconciliazione perfetta con
Dio e sono messi in grado di poter celebrare la pienezza del culto; due elementi, questi, che
caratterizzano la salvezza portata sulla terra da Cristo. Avendo, però, la Chiesa il compito di
prolungare nel tempo e nello spazio la salvezza del suo Capo, il tempo di Cristo dà origine al tempo
della Chiesa. In altre parole, la salvezza compiuta nell’umanità di Cristo diventa di pieno diritto una
realtà per tutti, attraverso i sacramenti che costituiscono la Chiesa “vero Corpo di Cristo”.

Infatti, la linea di continuazione che lega il tempo di Cristo al tempo della Chiesa, facendo
dei due un solo ed ininterrotto momento di salvezza, è la liturgia. Non si tratta dunque di una pura
successione cronologica, ma di un unico tempo di salvezza. Mentre il primo momento era
dall’annunzio e dalla profezia prima di Cristo, questa realtà non può venire meno dopo la sua
venuta. Tuttavia, prima riguardava il solo annunzio, ora, invece, è un vangelo, cioè di un lieto
annunzio di un avvenimento perennemente operante e presente. Anche in questa linea vengono
sottolineati tre momenti o azioni caratterizzanti (cfr. SC 6). Appare chiaro che la liturgia si presenta
come un momento della rivelazione, e dunque come storia della salvezza, in quanto attuazione del
mistero di Cristo, realtà piena di tutta la rivelazione.

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Cristo è presente nella liturgia

In SC 7 si può leggere che, in quanto attuazione del mistero Cristo, la liturgia trova la sua
ragione ultima nella stessa «presenza» di Cristo. Per attuare questa opera, Cristo è presente nella
sua Chiesa e nel compimento della liturgia. Ma dal momento che questa presenza continua di Cristo
si realizza attraverso un regime di segni, la Costituzione si prende cura di elencarne alcuni: a) nel
sacrificio eucaristico e precisamente nel presbitero e nel sacramento; b) nei ‘sacramenti’, perché
Cristo è presente in essi; c) nella Parola proclamata nell’assemblea; d) nella preghiera comunitaria,
perché Cristo è presente in una comunità unita nel suo nome.
Di tutti questi momenti di ‘presenza’ si può o non si può dire che si tratti di ‘presenza reale’
di Cristo? Non è contro l’Eucaristia affermare altre ‘presenze reali’ al di fuori di essa? Senza voler
risolvere la questione in tutti i suoi termini, Paolo VI nell’enciclica Mysterium fidei, toccando
l’argomento afferma: «La presenza di Cristo nella Eucaristia si dice reale non per esclusione, quasi
che le altre presenze non siano reali, ma ‘per eccellenza’. Che cosa vuol dire? Diciamo… tra la
‘presenza reale’ eucaristica e le altre ‘presenze reali’ non vi è differenza nel senso di ‘presenza’ di
Cristo e di ‘realtà’ di presenza, ma vi è differenza per quanto riguarda il modo come queste
‘presenze’ si fanno ‘reali’. Nell’Eucaristia, infatti, la ‘presenza reale’ di Cristo è un fatto
permanente, perché aderisce ad una ‘sostanza’ (il corpo di Cristo) che permane. Nelle altre
celebrazioni liturgiche la ‘presenza reale’ di Cristo è transeunte perché è legata alla ‘celebrazione’,
che è azione che passa e non sostanza che rimane. La cosa si chiarisce ancora se si considera che
nella Eucaristia si verifica questo duplice ‘modo’ di ‘presenza reale’… mentre la sostanza-corpo di
Cristo è ‘presenza reale’ permanente, appunto perché è ‘sostanziale’, la ‘presenza reale’ del
sacrificio (celebrazione) dura solo il tempo in cui si svolge l’azione sacrificale».

Liturgia terrena e liturgia celeste

L’azione di Cristo nella Chiesa è però orientata verso la pienezza escatologica. Qui
documento primeggia l’idea della contemporaneità dell’eterno nel presente e della comunione fra la
Chiesa pellegrina e quella celeste, ma sempre nella dimensione di attesa. Il collegamento è dato
dalla presenza del Signore che è sempre presente nella sua Chiesa e nelle azioni liturgiche (SC 7).
L’accento viene posto sull’aspetto di comunione e quindi sulla dimensione dell’inizio già sulla terra
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della vita futura, come primizia e garanzia e sulla partecipazione, nella comunione dei santi, alla
vita della Chiesa celeste. Il luogo in cui ciò si realizza è sempre la liturgia, ed in particolare quella
eucaristica.

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CAPITOLO 3
IL CENTRO DEL CAMMINO LITURGICO

Liturgia e Mistero Pasquale

La riforma liturgica del Vaticano II va ancora oltre, affermando che non solo nella domenica
e nelle diverse celebrazioni del Mistero di Cristo, ma anche nella memoria dei santi e persino nella
Liturgia delle Ore, non meno che nei sacramenti che hanno il loro centro nel Battesimo e
nell’Eucaristia, si celebra nella sua unità e globalità il Mistero Pasquale di Cristo. La Liturgia delle
Ore, infatti, estende alle diverse ore del giorno le prerogative del mistero eucaristico, centro e
culmine di tutta la vita della comunità cristiana: la lode e il rendimento di grazie, la memoria dei
misteri della salvezza, le suppliche e la pregustazione della gloria celeste.
Dobbiamo evidenziare come l’anno liturgico cristiano si presenti organizzato come ciclo
annuale dei “Misteri di Cristo” e delle “Feste dei Santi”, che degli stessi misteri sono la concreta
realizzazione nella Chiesa. Lo stesso ciclo annuale ha lo scopo di inserire nel “tempo della Chiesa”
quella realtà di salvezza che si ebbe con il “tempo di Cristo”, e quindi, in certo senso, l’anno
liturgico cristiano dipende essenzialmente dal Cristo, dal quale non può essere in nessun modo
distaccato.
Di conseguenza, è centrato essenzialmente sulla Pasqua, che si rifletterà su tutte le
celebrazioni annuali, settimanali e giornaliere. La celebrazione liturgica cristiana per eccellenza sarà
appunto la celebrazione sacramentale della Pasqua di Cristo, ossia della sua opera di redenzione-
alleanza, realizzata nella sua morte-risurrezione, che è la sintesi in cui culmina tutto il suo “Mistero
di salvezza”.

Il Mistero Pasquale di Cristo nel tempo

Basta studiare la primitiva predicazione apostolica, per accorgersi come al centro del
messaggio cristiano della fede e della catechesi vi era il grande evento pasquale della morte,
risurrezione ed ascensione al cielo di Cristo. Il motivo è molto semplice: in quell’evento si era
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rivelato sino in fondo l’amore del Padre che aveva consegnato il suo Figlio alla morte redentrice per
noi e per la nostra salvezza, e il Figlio aveva accettato questa obbedienza, sacrificandosi
volontariamente sulla croce, fondando così la nuova alleanza di amore fra Dio e l’umanità.
La passione si era capovolta nella gloria della risurrezione per intervento del Padre e nel
dono dello Spirito Santo, perché tutta l’umanità diventasse partecipe della ricchezza di salvezza
portata da Cristo. Così, contemporaneamente, nella Pasqua si rivelava la natura di Dio amore che si
dona per rendere partecipi le creature di tutte le sue ricchezze; si scopriva che il Cristo morto e
risorto è il centro di convergenza a cui conduceva tutta la storia salvifica precedente. Dallo stesso
centro nasceva l’uomo nuovo rinnovato in Cristo mediante il suo Spirito. Anzi, nell’umanità stessa
di Cristo trasfigurata dalla risurrezione, cellula vivente intorno a cui si deve ricostruire un universo
già promesso nei cieli nuovi e la terra nuova (Ap 21,1), si vede l’ultimo destino a cui Dio conduce
non solo la storia umana, ma l’evoluzione stessa del cosmo anche nella sua dimensione fisica.
Il Mistero Pasquale, dunque, è il nodo risolutivo, il perno intorno al quale gira tutto il piano
di Dio riguardante l’uomo e il cosmo: il centro cui ogni cosa guarda prima e dal quale tutto parte
dopo, fino alla Parusia finale già perfettamente compiuta in Cristo, mentre noi e il mondo che ci
circonda viviamo nell’attesa della beata speranza. La trasfigurazione finale però non sarà che il
dilatarsi della Pasqua del Signore, con la potenza della sua risurrezione (Fil 3,10), capace ormai di
penetrare e di trascinare dietro di sé nel suo stesso destino tutta la realtà creata. Intanto la grazia
pasquale agisce già e ci rinnova quotidianamente nell’economia dello Spirito, in modo speciale
attraverso l’azione sacramentale della Chiesa.
Chi ha capito l’essenzialità e la centralità del Mistero Pasquale per la fede cristiana, non
potrà stupirsi che esso sia diventato anche il contenuto unico del culto cristiano, sia che si parli dei
sacramenti e di feste che di anno liturgico. Quest’ultimo tema ci mostra di fatto, nella sua origine e
nella sua evoluzione storica, come tutto è partito e deve muoversi in qualche modo intorno a quello
stesso perno. Non è possibile, dunque, parlare di anno liturgico, affermare il suo significato
profondo e seguirne le varie tappe di sviluppo, senza avere chiaro davanti agli occhi questo punto
luminoso.
Forse l’immagine più chiara e più efficace per comprendere meglio l’anno liturgico ed il
tempo secondo il cristiano, sarà quella di disegnare idealmente un punto che fa da centro, e poi tutto
intorno vari anelli concentrici sempre più distanti. Il centro è costituito, ovviamente, dal grande
evento del Mistero Pasquale di Cristo, che si è realizzato, stando ai vangeli, al mattino della prima
domenica e via via ha turbato, trascinato e coinvolto dapprima le donne esitanti e i discepoli
increduli, poi, a partire dalla loro fede e testimonianza, il mondo intero. Ecco allora come si

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collocano le varie tappe o anelli concentrici che hanno segnato il nascere e il crescere dell’anno
liturgico, determinando, così l’intera vita del popolo di Dio che è la Chiesa.

La liturgia, attuazione del Mistero Pasquale

Nel descrivere i differenti tempi della rivelazione del disegno salvifico di Dio che parte dalle
lontane radici e dall’Antico Testamento, SC 5 termina col riconoscere in Cristo l’attuazione
concreta di questo disegno, perché la redenzione degli uomini (che si risolve nella glorificazione di
Dio, iniziata al momento dell’Incarnazione) si compie al momento della morte-risurrezione-
ascensione di Cristo. Infatti, nel sottolineare le fasi dell’azione redentrice di Cristo, dice che esse
sono state realizzate da lui nel Mistero Pasquale della sua santa passione, della sua risurrezione dai
morti e della sua gloriosa ascensione.
Specificando i genitivi il cConcilio dà praticamente a questi momenti dell’opera di Cristo il
comune denominatore di Mistero Pasquale, introducendone il concetto. Con questa affermazione la
Pasqua di Cristo, ossia la realtà della redenzione operata da Cristo, viene posta:
a) al centro della storia della salvezza: infatti, qualificando come Pasqua tutta l’opera redentrice di
Cristo, non solo la intendiamo porre come compimento reale di quello che la Pasqua profeticamente
significava e preparava nell’Antico Testamento, ma viene assegnato ad essa il posto centrale;
b) al centro della liturgia: abbiamo già avuto modo di rilevare l’intimo rapporto che lega la storia
della salvezza alla liturgia, in quanto questa costituisce un momento di quella, ossia la sua
attuazione nel tempo della Chiesa.
Come si vede, la liturgia consiste fondamentalmente nell’attuazione della salvezza realizzata
da Cristo. Ma siccome questa stessa salvezza realizzata in Cristo altro non è che la Pasqua come
fatto reale, è chiaro che la liturgia sarà l’attuazione della Pasqua per mezzo del mistero, ossia per
mezzo di segni reali, cioè efficaci. Quindi la liturgia tende essenzialmente a farci vivere la salvezza-
mistero pasquale nei singoli momenti e lo fa attuando in noi lo stesso Mistero Pasquale preso nel
suo momento culminante: morte e risurrezione di Cristo.

Mistero Pasquale ed esistenza cristiana

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Abbiamo finora sottolineato come il Nuovo Testamento fondi la vocazione cristiana, che è
chiamata al culto sacrificale e pneumatico a Dio (Rm 12,1; 1Pt 2,5) sull’evento pasquale, a cui i
credenti partecipano nella liturgia. Infatti, la vita cristiana risulta contrassegnata dal già e non-
ancora che caratterizza l’evento della salvezza pasquale e la sua celebrazione nella liturgia. Per
questo, essa si può definire come una celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo celebrata
nell’esistenza.
Così si può dire che l’esistenza cristiana consiste nel realizzare nella vita il Mistero celebrato
nei sacramenti e nel far passare nella vita ciò che si è ricevuto per la fede, nell’attesa che si compia
la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo. Storia della salvezza significa, infatti, che
tutto il Mistero Pasquale di Cristo era operante ieri, tutto è operante oggi, come tutto sarà operante
nei tempi avvenire. Per questo la liturgia pone sulla bocca dei suoi ministri, all’inizio della
celebrazione della Veglia Pasquale, perché possano sempre risuonare nel cuore di tutti i credenti,
queste parole che sintetizzano il Mistero Pasquale di Cristo: «Il Cristo ieri e oggi. Principio e fine.
Alfa e Omega. A Lui appartengono il tempo e i secoli. A Lui la gloria e il potere per tutti i secoli in
eterno. Amen!».

Liturgia e Chiesa

La definizione della liturgia come culto pubblico della Chiesa risale ai primi tempi del
movimento liturgico, ed ebbe sempre il primato tra i maggiori pionieri della liturgia durante il XX
secolo. Ma spesso anche tra costoro la ‘Chiesa’ si presentava principalmente come ‘gerarchia’.
Nella visione ecclesiologica della Mediator Dei, da una parte è ricorrente l’affermazione che la
liturgia è «azione sacerdotale di Cristo continuata nella Chiesa», per cui essa si manifesta
inevitabilmente come «culto dell’intero corpo mistico»; dall’altra, quando il discorso viene
affrontato in modo più esplicito e concreto, si spiega in maniera lampante che essa è «indiscusso e
saldo diritto della gerarchia ecclesiastica e il suo esercizio appartiene in modo precipuo ai sacerdoti,
in quanto agiscono in nome della Chiesa», identificando così il concetto di Chiesa con quello di
gerarchia.
Da parte sua, pur accettando gran parte del discorso liturgico-teologico della MD, il
Vaticano II con la Costituzione liturgica ebbe il merito di far fare alla teologia liturgica un passo
che non fu solo un progresso, ma segnò senz’altro una svolta.

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Tra i molteplici punti contenuti negli altri documenti conciliari (come ad es. LG e PO) sarà
sufficiente, ad esplicitare questo aspetto, la sola lettura di SC 26, con la quale si pone fine ad ogni
incertezza creata dalle precedenti posizioni: «Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma
celebrazioni della Chiesa, che è “sacramento di unità” cioè popolo santo radunato ed ordinato sotto
la guida dei vescovi. Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e
lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli
stati, degli uffici e della partecipazione effettiva».
Il rapporto qui espresso tra liturgia e Chiesa è nettissimo e chiaro, tanto che da una parte si
evidenzia l’importante ruolo della gerarchia (vescovi e diversità di ordini), dall’altra poi si chiarisce
l’intenzione di superare definitivamente il dualismo liturgia-Chiesa gerarchica, inteso come aspetto
unico ed assoluto, e quello di Chiesa come agente principale e ordinatore di ogni azione liturgica.
Questo superamento, però, sottolineando il principio che la Chiesa è l’intero popolo di Dio, ordinato
sotto la guida dei vescovi e nella diversità dei suoi ordini e compiti, mette in evidenza che la Chiesa,
nella sua totalità, è il luogo privilegiato dove il “corpo di Cristo” si rivela e si manifesta nella sua
realtà di sacramento. Per questo motivo la Chiesa-Corpo mistico è anche sacramento di Cristo. In
questo senso la liturgia, in quanto esercizio del sacerdozio di Cristo attuato nella Chiesa, è azione
congiunta di Cristo e della Chiesa, nel significato che il Concilio concilio ha inteso affermare.
Da parte sua la Chiesa assolve il proprio ruolo di corpo e sacramento di Cristo durante la
liturgia, quando, accettando l’azione santificatrice di Cristo, ne continua la preghiera e la lode che
egli offrì al Padre nei giorni della sua vita terrena (Eb 5,7) e che, offerta dalla Chiesa, resta ancora
la preghiera che lui offre al Padre, ma oggi con il suo corpo. La liturgia dunque è il culto della
Chiesa, non perché, come sottolineava la Mediator Dei, è eseguita in nomine Ecclesiae, che la
regola e la determina, ma in quanto è eseguita in persona Ecclesiae, cioè da chi come comunità o
come individuo ‘impersona’ la Chiesa.
La comunità che “impersona la Chiesa” è prima di tutto la comunità che costituisce la
“Chiesa locale”. Di conseguenza la liturgia della Chiesa locale è quella nella quale propriamente la
liturgia si rivela e si attua come “liturgia della Chiesa”. La determinazione ‘locale’ come non toglie
alle singole comunità la loro caratteristica di essere veramente Chiesa (LG 26), anzi la accresce,
perché conferisce ad esse una certa «visibilità» (AG 37) e «concretezza» (LG 11), così non
sminuisce, ma anzi mette in evidenza la nota ecclesiale della loro liturgia. Questa, infatti, solo allora
esiste come liturgia in atto, quando è locale, ossia quando c’è una comunità che la celebra in un
determinato luogo.
L’individuo, che “impersona la Chiesa” è propriamente il “ministro sacro”; l’ordine
comunica la grazia sacramentale per la quale il vescovo e il presbitero acquistano la capacità di
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agire come ‘vicegerenti’ di Cristo capo del corpo. Infatti, essi che per il Battesimo sono, come tutti,
membri del corpo di Cristo, dal sacramento dell’ordine sono stati fatti «capi» nel corpo di Cristo
(PO 2). Così, come Cristo capo «porta tutti in sé stesso» (Cipriano, Ep. 63,13), anche il vescovo e il
presbitero portano in sé tutta la comunità di cui, dipendentemente da Cristo, sono capi.
Conseguentemente, come Cristo nella celebrazione liturgica, che pure è attuazione della sua propria
azione sacerdotale, non è mai solo, ma «sempre associa a sé la Chiesa sua sposa» (SC 7), al punto
che la liturgia risulta essere congiuntamente «opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la
Chiesa» (SC 7), così il vescovo e il presbitero nel compiere la liturgia sempre “impersonano la
Chiesa”. Naturalmente se la comunità è presente allora il “sacramento dell’unità” che è la Chiesa,
«popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi» (SC 26), si fa più evidente in quanto
tale comunità rappresenta «in certo modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra» (SC 42). Se la
comunità è assente, nel vescovo e nel presbitero è comunque presente Cristo nella sua specifica
funzione di capo della Chiesa, e quindi nella celebrazione liturgica essi hanno in Cristo associata in
sé, “impersonandola”, la propria Chiesa.
A conclusione di quanto si è detto appare chiaro che il vero soggetto della liturgia è
propriamente parlando solo la Chiesa, in essa “impersonata” – a diverso titolo – nella comunità
oppure nel ministro/capo della comunità. Non esiste dunque una liturgia “in nome della Chiesa” ma
solo una “liturgia della Chiesa”. In altre parole: nella liturgia, quando per esempio il ministro agisce
come presidente, egli non è “mediatore” della propria Chiesa, ma nella sua preghiera prega la
Chiesa.

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CAPITOLO 4
LITURGIA ED ECONOMIA DELLA SALVEZZA

Rapporto tra Sacra Scrittura e liturgia

Sin dalle origini della liturgia cristiana si è sempre ammessa l’esistenza di un particolare
legame tra Sacra Scrittura e la liturgia. La liturgia era considerata il locus e il momento privilegiato
dell’annunzio e della lettura pubblica della Scrittura. La stessa celebrazione eucaristica si
presentava come l’occasione quanto mai opportuna, assieme alla Liturgia delle Ore, per la lettura
meditata della Parola di Dio. Alla base vi sono due considerazioni, tra loro intimamente connesse,
sul piano storico e sul piano teologico.
Sul piano storico la presenza della Scrittura nella celebrazione, da questo punto di vista, è
stata sempre ritenuta come una derivazione ed evoluzione dell’uso sinagogale, che era tutta
incentrata sulla lettura della Scrittura e sul canto dei salmi. Sorta dopo la distruzione del tempio e
dopo il ritorno dall’esilio, tale liturgia assumeva un doppio scopo. Prima di tutto era diventata
l’evoluzione, il prolungamento, e da un certo punto di vista, l’estensione territoriale del culto
accentrato nel tempio di Gerusalemme. Il tempio era considerato il luogo del sacrificio, unico come
il culto, per tutto Israele. Il sacrificio era compiuto quotidianamente anche per tutti coloro che erano
distanti da esso. La sinagoga, invece, era sorta come luogo della preghiera, incentrata soprattutto
sulla lettura della Scrittura e sul canto dei salmi. In secondo luogo, una tale impostazione
permetteva un ritorno ad un culto più spirituale, che si ricollegava con la primitiva forma cultuale
ebraica. Il culto era incentrato soprattutto sull’ascolto e la messa in pratica della Parola di Dio era il
nocciolo e la causa del richiamo fatto da tutti i profeti. Dal momento che il cristianesimo primitivo
aveva decisamente abbandonato tutte quelle forme cultuali dell’ebraismo ed aveva assunto il
carattere proprio del culto spirituale, la presenza della Sacra Scrittura nella liturgia cristiana
rappresentava il ritorno alle origini, anche perché essa era letta alla luce della realizzazione in
Cristo.
Sul piano teologico, questo faceva nascere un nuovo rapporto tra Sacra Scrittura e liturgia:
diveniva una forma di culto nella quale la Parola di Dio costituiva una componente essenziale. Il

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rapporto Scrittura-liturgia era vissuto attraverso un’equazione teologica che compendiava l’intera
storia della salvezza: il piano salvifico di Dio sta alla Parola di Dio come il Verbo incarnato sta
alla liturgia.
Questo ci fa comprendere due cose che si integrano: in quanto la liturgia si presenta come
attuazione dell’annunzio, essa postula necessariamente la lettura della Parola di Dio, che ne diviene
una delle componenti essenziali. In altre parole, l’avvenimento che si legge nella Sacra Scrittura è
quello che si attua nella liturgia, e così la Sacra Scrittura trova nella liturgia la sua interpretazione
naturalmente concreta e cioè sempre sul piano della storia della salvezza e non di elucubrazione
intellettuale. La Sacra Scrittura, dunque, anche come rivelazione di salvezza, si completa nella
liturgia. Da questo si comprende molto più chiaramente perché, nella nuova riforma liturgica del
Vaticano II, lo stesso luogo della proclamazione della Parola ha assunto una importanza non
meramente esteriore, ma rivalorizzando tutta la portata teologico-salvifica che essa possiede per sua
natura.
Dobbiamo però fare un’altra sottolineatura che scaturisce dalla struttura della stessa liturgia
della Parola. Essa è essenzialmente dialogica per sua stessa natura. In tutte le azioni liturgiche Dio
parla al suo popolo; il popolo risponde a Dio con il canto e la preghiera; la Parola di Dio è rivolta
alla comunità, la risposta è data dalla comunità. Da notare la particolare natura del compito proprio
dei due interlocutori: Dio istruisce; la comunità presta docile ascolto alla Parola di Dio, crede,
prega, si impegna. La dimensione didattica della liturgia della Parola, propria della Parola
comunicata da Dio, si fonde con la dimensione cultuale e impegnativa, propria della risposta della
comunità.
A causa della sua dimensione cultuale, la liturgia della Parola è considerata giustamente una
vera celebrazione della Parola di Dio, un vero atto di culto. Ne segue che essa, in quanto
proclamazione del messaggio di salvezza, in un’atmosfera di culto, con prospettive di impegno
vitale ecclesiale, viene a costituire il prototipo di ogni catechesi. La catechesi, infatti, è veramente
tale quando parte dalla Parola di Dio, riattualizzandola nell’oggi dell’esistenza concreta della
comunità, suscitando una risposta cultuale che sfocia poi nell’impegno della vita cristiana.

Rapporto rito-liturgia

Le più rilevanti difficoltà dei cristiani a fare della celebrazione un momento di autentica
esperienza di fede non sembrano tanto avere a che fare con l’eventuale oscurità dei singoli riti, ma
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con una più generale estraneazione della sensibilità contemporanea nei confronti del linguaggio
rituale in quanto tale. È necessario, perciò, educare al rito e stimolare il senso del comportamento
rituale.
La liturgia è, a prima vista, un complesso di riti, ossia di formule e gesti, in nulla dissimile in
ciò dalle forme cultuali non cristiane. Il valore, poi, del rito religioso è variamente interpretabile, a
seconda soprattutto dell’idea che ci si fa della religione e conseguentemente dei segni nei quali si
manifesta. Nel giudicare il rapporto che il rito ha con la liturgia cristiana, la prima cosa da ritenere è
che questa verrebbe falsata se la si pensasse come un puro ordinamento di riti sacri, quasi
identificando rito e liturgia.
Sarebbe ugualmente errato affermare che la liturgia cristiana per essere autentica debba
escludere ogni forma di rito. Il pericolo del ritualismo, che è esagerato valore del rito, non può far
dimenticare che esso rientra in quella naturale esigenza che ha l’uomo di servirsi di segni per
esprimere i propri sentimenti e atteggiamenti interiori sul piano relazionale tanto umano che divino.
Se è generalmente vero sul piano religioso che il rito tende ad esplicitarsi in un gesto unito alla
parola, questo vale tanto più nella liturgia cristiana. Infatti, proprio l’intimo nesso che si è venuto
sempre più scoprendo tra Sacra Scrittura e liturgia ha posto in nuova luce anche il rito.
La caratteristica più particolare del rito è la ripetitività. La ripetizione nel rito cristiano è
memoriale o commemorativa. Mediante l’insieme delle azioni simboliche riattualizzate, la Chiesa
proclama che Dio opera, nell’atto liturgico, l’effetto salvifico delle azioni storiche passate delle
quali essa fa memoria. Infatti, il legame che unisce la Sacra Scrittura (Parola) alla liturgia porta a
scoprire che il rito consiste nell’essere segno della realtà salvifica divina, che è Cristo, quindi segno
del rapporto di Dio con l’uomo.
Un tale rapporto, che nel linguaggio biblico viene chiamato Mistero di Cristo, indica la
presenza divina realizzata per l’uomo in Cristo. Infatti, solo alla luce di Cristo segno e salvezza noi
possiamo comprendere e vivere i segni rituali del Nuovo Testamento, in quanto espressione e
attuazione della realtà permanente del Mistero Pasquale di Cristo. Tutto questo non sul piano
intenzionale, quanto e soprattutto su di un piano oggettivamente reale che attualizza un
avvenimento.
Inoltre, ogni culto-venerazione suole manifestarsi attraverso gesti esteriori (riti) che
esprimono la preghiera, la lode, la propiziazione o la stessa impetrazione; il rito si presenta alla
coscienza umana come un segno esteriore di un atteggiamento interiore. La liturgia cristiana
trascende tutto ciò, e pur servendosi di elementi esteriori, non esclude l’atteggiamento interiore di
venerazione verso Dio. Ma anche in questo, la liturgia cristiana non può essere confusa né
equivocata e tanto meno identificata con l’atteggiamento interiore del culto, equivoco che può
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derivare anche da una falsa interpretazione del concetto biblico di culto spirituale. Essa, piuttosto, è
presenza di azione divina sotto forma rituale: creando un progressivo contatto con il Mistero
Pasquale di Cristo, tende a fare degli uomini dei figli di Dio, i quali rendono ex natura in sé stessi
culto a Dio. Questo perché nella liturgia cristiana il culto esiste nella sua vera natura. La fede
richiede di essere celebrata quando esige di essere vissuta. Il rito religioso perde il suo significato
quando non funziona più come linguaggio in cui il credente esprime la sua comunione con Dio.

Liturgia e pii esercizi

Altro tema che il Concilio concilio doveva inevitabilmente affrontare era il rapporto
intercorrente tra liturgia e preghiera personale. La distinzione tra culto interno e culto esterno è
connaturata alla stessa idea di culto, non tanto perché essi sono o potrebbero apparire due forme
diverse di culto, quanto perché sono due modi di essere dello stesso culto, a seconda che venga
considerato sotto l’aspetto esteriore o sotto quello interiore. Altra distinzione determinante è quella
inerente al soggetto che può interessare un singolo o una comunità. Questi due aspetti ne generano
inevitabilmente un terzo: la distinzione tra culto privato e culto ufficiale.
Questa doppia differenza, molto presente nella coscienza della Chiesa, fu oggetto di
particolare interesse da parte dell’enciclica Mediator Dei. In quel testo si affrontava la distinzione
tra «liturgia e pii esercizi», che nel contesto storico manifestavano la chiara intenzione del Pontefice
di voler difendere le «pratiche di devozione personale o pii esercizi» dalle apparenti minacce
avanzate da parte del movimento liturgico. Alla domanda sull’essenza di un’azione liturgica di culto
risponderà la Sacra Congregazione dei Riti il 3 settembre 1958, affermando che «azioni liturgiche
sono quelle che per istituzione di Cristo o della Chiesa e a loro nome vengono eseguite da persone a
ciò legittimamente deputate in conformità ai libri liturgici approvati dalla S. Sede; le altre azioni
sacre che vengono eseguite sia in chiesa che fuori, e anche con la presenza e la presidenza di un
sacerdote, si chiamano invece “pii esercizi”».
È chiaro che in questo ultimo documento il momento “giuridico-normativo” diviene
l’elemento costitutivo ed essenziale. Dopo il lungo cammino ed approfondimento degli studi e degli
sforzi liturgici occorreva sviluppare e, sulla linea della visione di liturgia rilanciata dalla MD,
chiarire anche questo punto. Il Concilio concilio lo fa ai nn. 11-13 della Costituzione liturgica. In
realtà, essa non ha risolto il dualismo, ma lo ha piuttosto accentuato. Infatti: riconosce ai “pii

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esercizi” una speciale dignità, che deriva loro o per mandato della Sede apostolica o dai singoli
vescovi diocesani, e ritiene che essi sono tali da risultare come una emanazione della stessa liturgia.
Questo dichiara ancora una volta che nella Chiesa, sono coesistenti due forme di culto: una
proveniente ed ordinata dall’autorità gerarchica, vincolata da leggi ben precise, che conserva
carattere anche se fatto in modo privato; l’altra che sorge dal popolo, «ufficiosamente accettata»,
non obbligatoria per nessuno, ma necessaria a tutti.
Il cambio di terminologia tra “culto liturgico - culto non liturgico” non supera affatto quello
di “culto pubblico - culto privato”. Avendo dichiarato che la liturgia è culto pubblico della Chiesa,
teologicamente si intenderebbe che come culto pubblico quello esercitato dal popolo di Dio, mentre
come culto privato quello esercitato dal singolo membro del Corpo di Cristo. Per cui si ha un culto
nel e del Corpo di Cristo. Un culto “privato-individuale” è sempre esistito nella storia del
cristianesimo. Ma proprio nel cristianesimo antico sarebbe difficile fare una distinzione di valore e
di atteggiamento, se non di modo, tra esso e la liturgia. Questo dualismo va individuato sul piano
della storia.
Volendo determinare qual è l’origine di questi pii esercizi, va sottolineato che essi non si
presentano come estensione delle forme “private-individuali” che passano dalla prassi individuale a
quello della comunità, ma nascono dalla stessa liturgia. Ricordiamo: l’Angelus, detto nelle tre ore
canoniche (mattino, mezzogiorno e sera) ne conserva anche la struttura fondamentale; il Rosario,
molto diffuso tra monaci e frati conversi, cioè spesso illetterati, che sostituivano i salmi del giorno
con la recita di Pater, Ave e Gloria. A queste due pratiche potrebbero essere aggiunte anche le
novene, gli ottavari, i tridui.
Da questo si deduce che una qualunque forma di preghiera compiuta in forma individuale e
privata non è espressione né manifestazione del corpo di Cristo, e quindi non è da ritenere
un’azione liturgica. Al contrario è da ritenere come liturgia tutto ciò che la comunità cristiana, in
quanto Chiesa, esercita con l’intento di celebrare il mistero di Cristo.
La lingua, la forma e lo stile della celebrazione vanno giudicati in rapporto al principio di
adattamento previsto da SC 37-40. Questo, solo affinché si chiarisca che l’aspetto cruciale che
determina quelle componenti essenziali caratterizzanti la liturgia, cioè l’attuazione del mistero di
Cristo e la rivelazione della Chiesa, può manifestarsi nel modo più adatto storicamente,
culturalmente e psicologicamente al popolo di Dio sotto la guida dei suoi pastori. Naturalmente
spetta all’autorità ecclesiastica il dichiarare ciò che la Chiesa ritiene essere “azione liturgica vera”
oppure non vera.

24
L’assemblea liturgica, soggetto celebrante

«Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è
‘sacramento di unità’, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi» (SC 26). Le
azioni sacre della liturgia appartengono all’intero Corpo della Chiesa. Concretamente, però, esse
sono celebrate da un gruppo di fedeli riuniti intorno al ministro celebrante. Anche se in certe
situazioni le azioni liturgiche si possono celebrare senza l’intervento di una comunità di fedeli,
rimane vero che esse sono, di diritto, ecclesiali e che per loro natura richiedono di essere svolte in
una assemblea.
L’assemblea liturgica è la riunione dei fedeli, convocati dalla Parola di Dio annunciata da un
suo ministro, per celebrare i misteri della salvezza, per pregare in comune e crescere nella carità.
Ogni assemblea liturgica è una porzione di Chiesa, riunita in un certo luogo; in essa si esprime la
Chiesa nella sua realtà di comunità di credenti chiamati alla salvezza sotto la guida di ministri
gerarchici che hanno missione e autorità da Dio per condurre a questa salvezza. L’assemblea è
riunione dei cristiani nella fraternità, quindi senza esclusioni e senza distinzioni: chiunque è
battezzato ed in comunione con la Chiesa può accedervi e partecipare alla comune celebrazione.
Nella assemblea del culto si stabilisce un legame intimo tra i partecipanti: esso dovrebbe rimanere
come vincolo di carità e pegno di collaborazione anche al di fuori dell’azione sacra.
L’assemblea cultuale cristiana è gerarchica, presieduta da un ministro ordinato che, per
propria autorità o per delega, guida la celebrazione svolgendo gli atti principali, specialmente quelli
sacramentali. In una Chiesa diocesana, il grande sacerdote del popolo cristiano è il vescovo. La
piena espressione della Chiesa si ha, infatti, «nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo
santo di Dio alle stesse celebrazioni liturgiche, soprattutto alla stessa Eucaristia, alla medesima
preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri» ( SC
41). «Poiché nella sua Chiesa il vescovo non può presiedere personalmente, sempre e dappertutto,
l’intero suo gregge, deve costituire dei gruppi di fedeli». I sacerdoti che presiedono le assemblee
liturgiche di questi gruppi più ristretti «fanno le veci del vescovo». Fra questi gruppi hanno un posto
preminente le parrocchie (SC 42).
Nello svolgimento della celebrazione il consacrato è coadiuvato da ministri che compiono
diverse funzioni: vi sono, infatti, ministri della lettura (lettori e diacono), del celebrante (ministranti
o accoliti) e al servizio alla comunità (un tempo vi erano varie mansioni in seno alla comunità
cristiana divisa in ordines: ostiari, accoliti, lettori, vedove, vergini, catecumeni, neofiti, etc.).

25
«Anche i ministranti, i lettori, i commentatori e i membri della schola cantorum svolgono un
vero ministero liturgico» (SC 29). La celebrazione della comunità cristiana comporta la
collaborazione armoniosa di più persone. «Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o
semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio, si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la
natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza» (SC 28).
Tutto ciò che si fa nella celebrazione deve manifestare l’organica collaborazione di tutti
nella azione sacra. Questa si esprime particolarmente nelle orazioni che il sacerdote fa a nome ed in
favore dell’assemblea. Precedute da un saluto e una risposta («Il Signore sia con voi» – «E con il
tuo Spirito»), sono introdotte da un invito che il celebrante rivolge a tutta l’assemblea
(«Preghiamo»; «Pregate, fratelli»; «Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio») e vengono formulate
al plurale. A conclusione della recitazione della formula, l’assemblea interviene a ratificare,
approvare, sottoscrivere quanto è stato detto dal suo ‘presidente’, con l’Amen. Questa acclamazione
è formula di adesione, approvazione, consenso, partecipazione. In essa la assemblea manifesta la
sua partecipazione alla preghiera che ha seguito in silenzio, ma con intelligenza ed ulteriore
adesione.
Anche il comune comportamento esprime la partecipazione vigile, pronta e comunitaria
all’azione sacra. Le posizioni del corpo hanno pure un loro significato. Lo stare in piedi è la
posizione tipica della preghiera cristiana, poiché il fedele è redento da Cristo, con lui risorto, da lui
elevato alla dignità di figlio di Dio. Come il sacerdote sta in piedi, all’altare, così i fedeli stanno ritti
davanti al Padre, con rispettosa fiducia e confidente sicurezza; essi mostrano di attendere vigilanti e
pronti il ritorno del Signore. Lo stare in ginocchio è segno di pentimento e di umile supplica, oltre
che di profonda adorazione. L’assemblea si inginocchia nei momenti penitenziali, durante le umili
invocazioni, e per esprimere adorazione al Signore presente nell’Eucaristia. Per l’ascolto della
Parola di Dio, anche per il canto di meditazione, nei periodi di attesa, ci si pone a sedere.

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COME CONCLUSIONE
LA LITURGIA DOPO IL VATICANO II

Ostacoli ancora consistenti

Dovrebbe ormai essere possibile, a distanza di anni, dare un giudizio sereno sull’efficacia
della Costituzione sulla liturgia nella vita dei cristiani. Ma, bisogna riconoscerlo, il clima
necessario, anche se prossimo, non si è ancora realizzato. Inoltre, prima ancora di dare un giudizio
su questa efficacia, sembra necessario tentare una breve analisi sui motivi che l’hanno ritardata e la
ritardano ancora.

Il primo ostacolo, fondamentale, resta ancora oggi, l’insufficiente nozione di che cos’è la
liturgia. Per molti essa è ancora una sorta di codice di rubriche che regolano lo svolgimento del
culto. Malgrado gli sforzi della Costituzione sulla liturgia, non si è ancora passati dalla rubrica alla
teologia della liturgia. Lo si nota chiaramente in molti casi concreti.
Trattare, come avviene in alcuni scritti recenti, della preghiera e poi della liturgia, è un fatto
abbastanza rivelatore di una mentalità soggiacente. Quando si insegna ancora che la Messa ha come
centro la consacrazione e che tutto il resto è solo un elemento secondario periferico, che si può
conservare come prassi normale la comunione fuori della Messa, o sostituire alla liturgia della
Parola una lettura privata della Bibbia, o ancora, recitare il Rosario durante la consacrazione non ci
si deve meravigliare se la liturgia sembra attualmente arrestarsi e non andare né avanti né indietro.
E questo è tanto più grave in quanto le nuove generazioni rischiano di farsi una mentalità
falsata, che vede nella liturgia una rubrica senza interesse. Finché la liturgia non sarà compresa e
vissuta come attività-culmine della Chiesa (SC 10), che non ha come scopo primario quello di
elaborare un sistema teologico, o un’etica, ma è innanzitutto basata sulla storia della salvezza, che
essa attualizza nell’oggi per il suo cammino verso il futuro, non si vede come ciò che è stato
elaborato nel Vaticano II possa avere vera efficacia.

Il secondo ostacolo, strettamente legato al primo, è l’assenza di catechesi o la cattiva


catechesi delle affermazioni del rinnovamento liturgico. Prima di proporre e di far realizzare un
rinnovamento, che il più delle volte è un ritorno agli aspetti essenziali della liturgia antica, era
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indispensabile una catechesi per spiegare i motivi che spingevano a introdurre tali modifiche.
Cambiare abitudini considerate come un assoluto e quasi di istituzione divina non avrebbe
provocato smarrimento nelle persone semplici, o nelle persone colte, ma ignare dei problemi della
celebrazione liturgica? Era necessaria una spiegazione previa. Diamo qualche esempio.
Sono state modificate le preghiere dell’offertorio. Alcuni erano attaccati ad esse e le
consideravano belle; vi si parlava di offerta, e molti le ritenevano originarie. Ma bastava un
semplice sguardo alla storia per rendersi conto che queste preghiere non erano in uso dappertutto
nella liturgia romana, che variavano da una Chiesa all’altra. Non ci doveva essere quindi nessuna
difficoltà a cambiare queste preghiere accessorie e poco favorevoli a una giusta comprensione della
Messa. Ma quando è stata fatta una catechesi ai fedeli, e ai celebranti stessi, per spiegare queste
modifiche?

Un altro ostacolo al rinnovamento è la mancanza di formazione biblica, unita ad


un’insufficiente formazione ad una spiritualità della liturgia. Il rinnovamento ha introdotto nelle
celebrazioni una ricchezza scritturistica prima sconosciuta. Ad esempio, il lezionario della Messa è
di una ricchezza eccezionale e, progressivamente, dovrebbe poter dare a coloro che ascoltano la
parola di Dio, proclamata in Chiesa con tutto il dinamismo che essa comporta e che una sua lettura
privata non possiede, una conoscenza delle Scritture e contribuire a un loro maggiore influsso sulla
teologia e sulla spiritualità. Ma, affinché questi obiettivi si realizzino, è indispensabile che coloro
che devono spiegare questi testi scritturistici abbiano una formazione biblica, che permetta loro di
interpretarli secondo i criteri propri dell’esegesi, e una formazione liturgica, che glieli faccia
presentare come li intende la liturgia. Bisogna anche che l’omelia non sia confusa con un discorso
su un argomento liberamente scelto dal predicatore.

Un’altra difficoltà: l’insufficiente comprensione dei segni sacramentali e del loro valore
rappresentativo. Qui entra in gioco l’eredità di una teologia del segno, talvolta ridotta unicamente
all’applicazione della forma della materia e alla preoccupazione della validità. Un esempio chiarirà
ciò che vogliamo dire. L’Eucaristia nella tradizione ecclesiale è sempre stata considerata sotto due
aspetti: quello della presenza reale di Cristo sotto la specie del pane e del vino e quello di sacrificio
del Nuovo Testamento e, quindi, della Chiesa. Questi due aspetti comportano un comune
denominatore: l’idea sacramentale. Ma il sacramento si realizza soltanto nel sacrificio, poiché sono
le parole eucaristiche ad avere un senso sacrificale. Ora la fede della Chiesa ha sempre visto e
affermato che il sacrificio di Cristo è solo nella Messa. Il perdurare della presenza di Cristo

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nell’Eucaristia non costituisce di per sé un continuo sacrificio. I fedeli, dunque, partecipano appieno
al sacrificio di Cristo e dell’alleanza solo durante la celebrazione attraverso il segno di quel pane e
di quel vino consacrati. Ma se al momento di realizzare nella comunione tale realtà, viene loro data
l’ostia consacrata in una Messa precedente, come possono partecipare al sacrificio di Cristo?
Proprio in relazione al solo sacrificio, si trova quasi nella stessa posizione chi si comunica con ostie
non consacrate nella Messa cui assiste e chi semplicemente non si comunica. La partecipazione,
infatti, dell’uno e dell’altro al sacrificio non supera il grado di partecipazione morale. Ovviamente
tale partecipazione può diventare più reale in chi si comunica con ostie consacrate della Messa.

Un altro ostacolo è la celebrazione liturgica considerata come estranea alla vita e alle
esigenze di determinate realtà. Ciò che nella vita normale mai si penserebbe di fare, non lo si trova
strano nella liturgia o nelle devozioni. Un esempio può bastare. Malgrado i ripetuti richiami, si
constata ancora che davanti al SS. Sacramento esposto si recita il Rosario o la supplica alla Beata
Vergine Maria, o si cantano inni alla Madonna o ai Santi. Questo manifesta un certo irrealismo di
una celebrazione nella quale non si bada a ciò che si canta né si tiene conto dell’oggetto del culto
che viene reso.

Aspetti positivi

Dopo quanto detto, si potrebbe trarre la conclusione che il rinnovamento della liturgia sia
stato un fallimento e continui ad esserlo. Ci è sembrato utile presentare situazioni reali errate per
non sembrare di dare una visione paradisiaca dei risultati del rinnovamento liturgico dopo la
Costituzione sulla liturgia. Vi sono invece vari aspetti positivi, come adesso vedremo.

Uno dei punti più preziosi che caratterizzano il rinnovamento della liturgia ci sembra il
senso dell’assemblea e della “ministerialità”.

Se bisogna mettere all’attivo del rinnovamento liturgico dopo circa 60 anni la riscoperta del
popolo di Dio radunato e il significato della Chiesa locale, si deve anche attribuirgli la crescita
della celebrazione dell’ufficio divino. La maggior parte delle congregazioni religiose, che
pregavano con preghiere particolari diverse, hanno adottato l’ufficio divino in tutto o in parte; e si
può dire, senza sbagliarsi, che sono alla ricerca di un miglioramento delle loro celebrazioni.
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Si constata dunque la crescita di una nuova mentalità e di una nuova spiritualità. Questa
crescita è dovuta anch’essa a una duplice interazione: la pratica dell’ufficio divino presenta un
contenuto ben equilibrato: salmi, lettura della Scrittura e dei Padri; e questo impegna in una
spiritualità aperta, dilagante ma esigente. Non c’è da dubitare del grande progresso raggiunto a
questo riguardo: si è compreso meglio che l’ufficio non si recita ma si celebra.
Non si può negare che l’introduzione della lingua volgare sia uno degli elementi che più ha
favorito la Liturgia delle Ore, una volta riservata soprattutto ai chierici che conoscevano il latino.
Ormai accessibile a tutti, la Liturgia delle Ore è divenuta veramente, là dove si vuole, la preghiera
di tutti nella Chiesa.

Occorre notare che la partecipazione alla celebrazione eucaristica con il canto, e soprattutto
con la comunione, è divenuta molto più intensa. La celebrazione della Parola, ora ascoltata nella
propria lingua, è meglio compresa come intimamente legata alla celebrazione dell’Eucaristia che
segue e che la “sacramentalizza”. Le precisazioni date in LG 10-11 sul sacerdozio dei fedeli hanno
contribuito grandemente a questa partecipazione cosciente, attiva e fruttuosa, auspicata dalla
Costituzione sulla liturgia (SC 11).

Il bilancio è nettamente positivo anche se resta ancora molto da fare. Si richiede pazienza e,
per molti, l’accettazione di una certa sofferenza nell’attesa di un successo che essi forse non
vedranno. Ci troviamo in un’epoca in cui il cristiano non vive solo di ciò che è stato fatto e di ciò
che esiste, ma deve avere il coraggio di guardare all’avvenire, accettando anche di non vivere ciò
che egli prepara per gli altri che verranno. La conoscenza e l’amore del passato sono legittimi solo
in vista di un rinnovamento e di un progresso: traditio et progressio.

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Sacrosanctum Concilium 1-2.7-13

PROEMIO
1. Il sacro Concilio concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i
fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono
soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in
Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di
doversi occupare in modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia.

La liturgia nel mistero della Chiesa


2. La liturgia infatti, mediante la quale, specialmente nel divino sacrificio dell’eucaristia, «si
attua l’opera della nostra redenzione», contribuisce in sommo grado a che i fedeli
esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura
della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e
divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla
contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo in modo tale, però,
che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile,
l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo
incamminati. In tal modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa
per farne un tempio santo nel Signore, un’abitazione di Dio nello Spirito, fino a raggiungere
la misura della pienezza di Cristo, nello stesso tempo e in modo mirabile fortifica le loro
energie perché possano predicare il Cristo. Così a coloro che sono fuori essa mostra la
Chiesa, come vessillo innalzato di fronte alle nazioni, sotto il quale i figli di Dio dispersi
possano raccogliersi, finché ci sia un solo ovile e un solo pastore.

Cristo è presente nella liturgia


7. Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in
modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella
persona del ministro, essendo egli stesso che, «offertosi una volta sulla croce, offre
ancora sé stesso tramite il ministero dei sacerdoti», sia soprattutto sotto le specie
eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza
è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando
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nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda,
lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a
loro» (Mt 18,20). Effettivamente per il compimento di quest’opera così grande, con la
quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa
sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima, la quale l’invoca come suo Signore e per
mezzo di lui rende il culto all’eterno Padre. Giustamente perciò la liturgia è considerata
come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione
dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno
di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè
dal capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo
sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra
azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado.

Liturgia terrena e liturgia celeste


8. Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene
celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove
il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo;
insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l’inno di gloria;
ricordando con venerazione i santi, speriamo di aver parte con essi; aspettiamo come
Salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli comparirà, egli che è la nostra
vita, e noi saremo manifestati con lui nella gloria.

La liturgia non esaurisce l’azione della Chiesa


9. La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa. Infatti, prima che gli uomini
possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione:
«Come potrebbero invocare colui nel quale non hanno creduto? E come potrebbero
credere in colui che non hanno udito? E come lo potrebbero udire senza chi predichi? E
come predicherebbero senza essere stati mandati?» (Rm 10,14-15). Per questo motivo la
Chiesa annunzia il messaggio della salvezza a coloro che ancora non credono, affinché
tutti gli uomini conoscano l’unico vero Dio e il suo inviato, Gesù Cristo, e cambino la loro
condotta facendo penitenza. Ai credenti poi essa ha sempre il dovere di predicare la fede
e la penitenza; deve inoltre disporli ai sacramenti, insegnar loro ad osservare tutto ciò che
Cristo ha comandato, ed incitarli a tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato, per

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manifestare attraverso queste opere che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo
mondo, sono tuttavia la luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini.

...ma ne è il culmine e la fonte


10. Nondimeno la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo
stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato
a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea,
lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta,
la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei «sacramenti pasquali», a vivere «in perfetta unione»;
prega affinché «esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede»; la
rinnovazione poi dell’alleanza di Dio con gli uomini nell’eucaristia introduce i fedeli nella
pressante carità di Cristo e li infiamma con essa. Dalla liturgia, dunque, e particolarmente
dall’eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima
efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla
quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa.

Necessità delle disposizioni personali


11. Ad ottenere però questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla
sacra liturgia con retta disposizione d’animo, armonizzino la loro mente con le parole che
pronunziano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano. Perciò i pastori di
anime devono vigilare attenta mente che nell’azione liturgica non solo siano osservate le
leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano
parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso.

Liturgia e preghiera personale


12. La vita spirituale tuttavia non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia Il
cristiano, infatti, benché chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto a entrare
nella propria stanza per pregare il Padre in segreto; anzi, secondo l’insegnamento
dell’Apostolo, è tenuto a pregare incessantemente. L’Apostolo ci insegna anche a portare
continuamente nel nostro corpo i patimenti di Gesù morente, affinché anche la vita di
Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Per questo nel sacrificio della messa
preghiamo il Signore che, «accettando l’offerta del sacrificio spirituale», faccia «di noi
stessi un’offerta eterna».

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Liturgia e pii esercizi
13. I «pii esercizi» del popolo cristiano, purché siano conformi alle leggi e alle norme della
Chiesa, sono vivamente raccomandati, soprattutto quando si compiono per mandato della
Sede apostolica. Di speciale dignità godono anche quei «sacri esercizi» delle Chiese
particolari che vengono compiuti per disposizione dei vescovi, secondo le consuetudini o i
libri legittimamente approvati. Bisogna però chetali esercizi siano regolati tenendo conto
dei tempi liturgici e in modo da armonizzarsi con la liturgia; derivino in qualche modo da
essa e ad essa introducano il popolo, dal momento che la liturgia è per natura sua di gran
lunga superiore ai pii esercizi.

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INDICE

Capitolo 1: La stagione del Vaticano II, “primavera dello Spirito” nella Chiesa
La rivoluzione copernicana
La Chiesa volta pagina
L’estensione della lingua viva a tutta la liturgia
La celebrazione eucaristica rinnovata
I nuovi rituali

Capitolo 2: Una chiave di lettura


La discussione conciliare
La liturgia e la storia della salvezza
Principi generali per la riforma
La liturgia attua l’opera della salvezza propria della Chiesa
Cristo è presente nella liturgia
Liturgia terrena e liturgia celeste

Capitolo 3: Il centro del cammino liturgico


Liturgia e Mistero Pasquale
Il Mistero Pasquale di Cristo nel tempo
La liturgia, attuazione del Mistero Pasquale
Mistero Pasquale ed esistenza cristiana
Liturgia e Chiesa

Capitolo 4: Liturgia ed economia della salvezza


Rapporto tra Sacra Scrittura e liturgia
Rapporto rito-liturgia
Liturgia e pii eserciziL’assemblea liturgica, soggetto celebrante

Come conclusione: la liturgia dopo il Vaticano II


Ostacoli ancora consistenti
Aspetti positivi
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Sacrosanctum Concilium 1-2.7-13

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