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E questa mi guidava,
più sicura del sole a mezzogiorno,
là dove mi aspettava
chi ben io conoscea,
in un luogo ove nessuno si vedea1.
———––
1
GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Monte Carmelo, poesia iniziale, strofe n. 3 e 4, Roma
2010.
2
A. STOCK, Keine Kunst. Aspekte der Bildtheologie, Paderborn – München –Wien –
Zürich 1996; ID, Bilderfragen. Theologische Gesichtspunkte, Paderborn – München –Wien –
Zürich 2003.
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un «corpo che cerca sempre», insieme a un’altra figura di un uomo che misu-
ra lo spazio. Un uomo che cammina. Cammina sempre. In un monocromo.
Possiamo chiamarlo deserto. Cammina nel giallo. L’orizzonte non arriva mai.
Non c’è mai un limite. Sente e vede le cose ma sembra che non ci siano. Un
giallo costante fino alla disperazione, in cui si manifesta ciò che chiamiamo
assenza.
In questo stesso deserto, luogo centrale dell’Esodo e di molte altre espe-
rienze narrate dalla Bibbia, l’assenza sperimentata da questo «corpo che
cerca» diventa il luogo di culto. Il deserto è sicuramente il luogo più adatto
per percepire l’assenza come una realtà molto potente. Nell’Esodo, il deserto
è il luogo simbolico per costituire l’alleanza, il legame (Bund) tra Dio e
Mosè. L’Assenza, cioè il Dio che si ritira e lascia spazio al mondo, sta all’ini-
zio del dono della Legge. Questa Assenza non lascia l’uomo solo con se
stesso ma sorprendentemente accende una relazione: è una Assenza «viva»,
che prova rabbia, gelosia, interesse per il rapporto che la costituisce.
L’Assente nutre il popolo e il popolo continua così a procedere nel «colore
giallo», che diviene il deserto della Promessa, della speranza, della prova. Il
deserto diventa dunque metafora del desiderio che l’uomo ha di Dio e Dio
dell’uomo. Il Deserto è anche un luogo dove Dio lascia vedere a Mosè il
luogo del desiderio inesauribile: il roveto che brucia senza consumarsi.
Desiderio che coincide con un’assenza espressa radicalmente dall’indigenza
dello sguardo. È un vedere che rimanda essenzialmente a un non vedere.
Questa è, in primo luogo, l’esperienza visuale che appartiene all’esperienza
religiosa: l’esperienza di questo limite che esprime, tuttavia, un’inaudita
possibilità.
Possiamo dunque dire che l’opera di Turrell è radicalmente mistica? Didi-
Huberman risponde chiaramente di no. Allo stesso tempo l’opera di Turrell si
presenta come un esercizio di «svuotare le stanze». Turrell, infatti, ha iniziato
il suo lavoro in albergo, svuotando le stanze, per creare luoghi senza nomi e
non voleva nessun elemento di riconoscimento, senza ordine, senza regole,
senza offrire riferimenti per qualsiasi possibile visuale definita. I luoghi richia-
mano soltanto l’assenza. Didi-Huberman scrive che è illegittimo trasformare
gli Skyspaces di James Turrell (tav. 16) in una mitologia del cielo, in un
simbolismo iconografico o in un messaggio religioso di tipo sincretistico.
Sarebbe assurdo voler mettere insieme i Quaccheri americani, dove Turrell è
nato e vissuto nella sua infanzia, con il buddismo Zen, che Turrell ha speri-
mentato e la cattedrale gotica, che egli adora. Immaginare una relazione e una
confusione tra queste esperienze significherebbe — secondo Didi-Huberman
— tradire il significato del deserto che ci mostra l’arte di Turrell.
In questo senso, rimanendo legati a questo specifico deserto, Turrell può
essere considerato un costruttore di templi diversi, perché inventa nuovi
luoghi che giocano sulla tensione tra l’aperto e il limitato, tra il lontano e il
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vicino. Turrell crea così una sorta di piccole cattedrali in cui l’uomo si rico-
nosce, in cui cammina nel colore.
In questo senso, Didi-Huberman può scrivere che James Turrell ha creato
luoghi paradossali, dal doppio carattere, in cui ciò che si vede avanza nel
nascondimento, si mostra senza porsi sotto il dominio dello sguardo. L’espe-
rienza visuale dell’uomo che cerca Dio si pone dunque paradossalmente
come esperienza dell’assenza. Un’assenza che, scrive Didi-Huberman, fa
«quasi impazzire».
Il «deserto giallo» di James Turrell ci insegna, in definitiva, a uscire dalla
logica della rappresentazione, per partecipare a una particolare catastrofe
della rappresentazione stessa come esperienza del non-vedere, che tuttavia
costituisce l’autentica esperienza visuale. L’arte di Turrell mi sembra insegni
che l’esperienza originaria dell’uomo è quella di un certo nascondimento e
che, proprio in questo nascondimento, si possa raggiungere una particolare
visione. Egli stesso scrive che «siamo come in un sogno, quando proprio con
gli occhi chiusi abbiamo una visione totale. Visione completa senza occhi».
Intendiamo, in questo modo, il riferimento al sogno compiuto da Turrell,
scrive infatti Didi-Huberman:
because in a dream with the eyes closed we have full vision. So, but bringing it
into the day is not so easy […] So this bringing higher purposes [un senso più alto]
into the life during the day — sometimes they last for a short period. And so I’m
trying to extend that what’s always been interesting to try and achieve in life. But I
have noticed that if you address the higher purposes in people, that’s the part that
will ansie you. And that’s what art does. Art is made to address out higher
purposes; that’s why it’s part of our culture, that’s why we make this culture7.
———––
7
Nella tesi su James Turrell and the Poetry of perception, discussa alla John Cabot
University, Dipartimento di Storia dell’arte e Studio Art, la mia allieva Emelie Ask ha
trascritto e valutato le interviste di James Turrell. Si veda J. TURRELL, in «Conversations with
Contemporary Artists (cf. nt. 3): «Generally we use light to illuminate other things - and I’ve
always been interested in the thingness of light — almost seeing light as we see it in the
dreams — because in a lucid dream we see colors radiating of off objects and persons and this
color that suffuses the whole scene. And we don’t normally see light that way with the eyes
open. So, part of what I wanted was to make some kind of art that look like how we saw light
in a dream; because in a dream with the eyes closed we have full vision. Full vision without
eyes. So, but bringing it into the day is not so easy; it’s a little bit like when you wake up the
dream is leaving you from the moment you wake up. It’s like a New Year’s resolution; you
start off really strong in January 1st and then somewhere in February you kind of drift it off.
So this bringing higher purposes into the life during the day — sometimes they last for as
short period. And so I’m trying to extend that what’s always been interesting to try and
achieve in life. But I have noticed that if you address the higher purposes in people, that’s the
part that will answer you. And that’s what art does. Art is made to address our higher
purposes; that’s why it’s part of our culture, that’s why we make this culture».
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Ora, tutto questo rappresenta il contesto del rito. La fede, sotto il profilo
del rito, è azione. Essa è realtà dinamica, nella quale è dato di incontrare non
un Dio immobile, ma un Dio che opera e che salva. Come la Rivelazione ha
la forma di azioni e parole, così la fede, che si fonda sulla Rivelazione,
dev’essere essa stessa azione e parola, come avviene nella liturgia.
La liturgia, come azione, non può non interessare il corpo12. Lo spazio si
riferisce dunque all’azione del corpo. Scrive Giorgio Bonaccorso: «Lo spazio
è strettamente connesso tanto al corpo quanto all’azione. Esso, infatti, è esten-
sione del corpo (il corpo oggetto osservabile come spazio esteso) e percezio-
ne di tale estensione (il corpo soggetto che osserva il corpo esteso). Inoltre, lo
spazio implica, o può implicare, il movimento, che, se è intenzionato, si
chiama azione: il movimento e l’azione definiscono la possibilità e i limiti
dello spazio»13. Possiamo così distinguere, con Bonaccorso, in questo riferi-
mento allo spazio come azione del corpo, due modalità: il prossemico e il
cinesico. È dalla dimensione prossemica che, in primo luogo, dobbiamo
valutare l’organizzazione originale dello spazio liturgico. «L’orientamento
stesso del rito orienta il credente»14. Il senso ultimo delle cose, il principio o
arché è postulato dal rito, predisponendo le cose e le persone attorno a un
centro, cioè in modo prossemico15. Questo centro assume simbolicamente il
senso di centro del mondo, così come lo intende Eliade: «[...] conosciamo un
numero illimitato di “Centri”. Meglio ancora: ciascuno di questi “Centri” è
considerato, e addirittura letteralmente denominato, il “Centro del Mondo”.
Lo spazio in questione è uno spazio sacro [...]»16. Certamente non intendiamo
per centro il fulcro di uno spazio geometrico, ma un centro simbolico che si
mostra al modo di un «trovarsi al principio», nel suo valore di arché, dove si
svela il senso, il logos, di una civiltà. Ed è questo il significato del monu-
mento, cioè l’autodisvelarsi di una struttura di senso nella storia e nel tempo.
L’azione del corpo unisce e accompagna la dimensione prossemica alla
dimensione cinesica, ancora nel senso dell’indicare un verso, una direzione,
non necessariamente con lo spostamento del corpo, ma attraverso tutto ciò
che appartiene al gesto: dalle diverse posture ed espressioni a movimenti più
ampi, come la danza o la processione. Tutti gesti che innescano una tensione
spaziale che ha una modalità peculiare, in quanto formata da movimenti non
finalizzati a uno scopo, ma a un’apertura, a una possibile rivelazione, nell’at-
teggiamento dell’accoglienza e dell’ospitalità; atteggiamento che implica una
rottura con se stessi, una discontinuità.
Il punto fondamentale della gestualità liturgica è dunque l’abbandono dei
comportamenti ordinari, per creare quella modalità fondamentale del rito che
———––
12
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Cittadella 2006.
13
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 37.
14
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 37.
15
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 38.
16
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 39.
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———––
20
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 43.
21
Cf. E. BIEMMI, ed., Il secondo annuncio. La grazia di ricominciare, Bologna 2011; ID.,
ed., Il secondo annuncio. La mappa, Bologna 2013; ID., ed., Il secondo annuncio 2. Errare,
Bologna 2015.
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———––
22
BENEDETTO XVI, Die Schönheit Gottes. Ecce Homo. Seht welch ein Mensch, St. Benno
2008, 24.
23
BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Spe Salvi, 30 novembre 2007, capitolo III. Il Giu-
dizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza, Sezione 41: «Nella confor-
mazione degli edifici sacri cristiani, che volevano rendere visibile la vastità storica e cosmica
della fede in Cristo, diventò abituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna
come re — l’immagine della speranza —, sul lato occidentale, invece, il Giudizio finale come
immagine della responsabilità per la nostra vita, una raffigurazione che guardava e
accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino verso la quotidianità».
24
Cf. R. GUARDINI, L’opera d’arte, Brescia 1994, e ID., Esperienza religiosa, fede, rivela-
zione, Brescia 1996.
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25
Citato secondo C.E. ADCOCK – J. TURRELL, The Act of Light and Space, Berkeley – Los
Angeles, 1990, 36; G. DIDI- HUBERMANN, Der Mann der in der Farbe ging (cf. nt. 5), 40.
«Der Raum leert sich also, um ein Ort der Faltung und der Nähe, was den Blick selbst betrifft,
zu werden: a looking into, wie Turrell es ausdrückt, im Gegensatz zu jenem Blick, der nach
dem Objekt such a looking at».
26
J. TURRELL, in «Conversations with Contemporary Artists (cf. nt. 3): «But the idea, first
of all, like in the sky space — a very early example being here at PS1 — why go inside to
look out? I mean, you’re looking at the sky with even a fuller advantage point but I tend to
frame it in such a way that you can, first of all, the sky that looks to be out there all the time,
away from us, like the smog in LA is always over there — I like to bring the quality of the
sky, or the ocean that we’re at the bottom of — I like to bring it down so that it feels as
though it comes right at the top of the space you’re in. So it’s something you’re in direct
contact with».
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[…] some of the qualities of light that I like are light — how you see light in the
dream — it’s just that you normally don’t see it like that with your eyes open. So I
wanted first of all an art that reminded you of that world […] This piece begins to
then enter that territory to work in that territory of behind the eyes seeing27.
Ma cosa ci è dato di vedere? Cosa vede questo nuovo vedente? Su questo
punto è importante quello che Kosky nel libro di Davide Zordan La promessa
immaginata descrive riguardo alla percezione della luce: «la luce non è tanto
qualche cosa che rivela, quanto rivelazione in se stessa»28. Le opere d’arte di
Turrell capovolgono l’abbandono della luce in cui tutti gli oggetti sono visti e
ci rivelano una luce che è essa stessa una rivelazione della luce.
James Turrell afferma:
[…] the thing that was important to me was just the fact that we’re looking at light.
And that light is accorded this thingness and that becomes this thing on the wall,
and that was the important thing to me. […] so it shared some of that simplicity of
how the form was but in terms its involvement it was really more to do with
perception or how perceive or how we award thingness29.
La luce nel fuoco crea uno stato meditativo di una contemplazione chiara.
Turrell fa riferimento a una particolare contemplazione «not thinking with
words»30.
Questo aspetto qualifica l’originalità dell’arte di Turrell e la rende insosti-
tuibile, quale espressione dell’esperienza estetica come carattere dominante
del nostro tempo, con la quale dunque non possiamo non confrontarci e dalla
———––
27
J. TURRELL, in «Conversations with Contemporary Artists (cf. nt. 3): «And this has to do
with, this seeing, is how we generate sight, and this idea that’s very much involved with the
seeing that happens with the eyes closed. I mean, we have a full vision at night in the dream,
fantastic lucidity of color and resolution and that’s with the eyes closed. And some of the
qualities of light that I like are light — how you see light in the dream — it’s just that you
normally don’t see it like that with your eyes open. So I wanted first of all an art that
reminded you of that world that we also have 7-8 hours a day, as well as then… this piece
begins to then enter that territory to work in that territory of behind the eyes-seeing».
28
J.L. KOSKY, «Vedere la luce: la contemplazione e le opere di James Turrell», in
D. ZORDAN, ed., La promessa immaginata, Bologna 2011, 295-314.
29
J. TURRELL, in «Conversations with Contemporary Artists (cf. nt. 3): «So you ask
yourself, if there’s no image, no object, there’s no focus, what do you have left? Not a whole
lot. So, basically the thing that was important to me was just the fact that we’re looking at
light. And that light is accorded this thingness and that becomes this thing on the wall, and
that was the important thing to me. And to look at how it is in relationship to, say, at that time
there was a lot of dealing especially in the East coast, with what was called Minimalist art.
This is not maximalist; it shared some of that simplicity of how the form was but in terms its
involvement it was really more to do with perception or how perceive or how we award
thingness».
30
J. TURRELL, in «Landmark talks: Lynn Herbert and James Turrell, CAM Houston»,
October 2013, https://www.youtube.com/watch?v=nsGxFiFsxY8.
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quale dobbiamo necessariamente ri-partire per non estraniarci dallo spirito del
tempo e dalla quale dobbiamo partire.
L’essenza della sua percezione è descritta da Merleau-Ponty:
[…] we understand how our transcendental being and our empirical being are the
obverse and the reverse of one another […] But my perception of the world feels it
has an exterior; I feel at the surface of my visible being that my volubility dies
away, that I become flesh, and that at the extremity of this inertia that was me
there is something else, or rather an other who is not a thing31.
Il nuovo vedente pratica, attraverso le opere di Turrell, un esercizio peda-
gogico che lo conduce a re-imparare a vedere, nello stesso senso che inten-
deva addirittura un autore così borderline come Nietzsche, quando scriveva:
«Imparare a vedere, abituare l’occhio al riposo, alla pazienza, abituarlo a
lasciar venire le cose; rimettere il giudizio, imparare a ingannare e nascondere
il caso particolare. È questa la prima preparazione per educare lo spirito»32.
In sintesi, l’arte di Turrell, come lui stesso afferma, è «an exercise in blind
faith», un esercizio di fede cieca. Dopo questo percorso, si comprende bene la
citazione iniziale del nostro testo che, richiamando l’esperienza di San
Giovanni della Croce, ci ricorda come il credere cristiano sia in modo
paradossale un imparare ad aprire gli occhi, a vedere in modo diverso
(disorientamento-eterotopia), per arrivare alla fine a fidarci a occhi chiusi,
ciecamente (oltre ogni idolatria e rappresentazione, anche artistica), in quella
«fede della mezzanotte» che dice l’abbandono incondizionato, nel tempo e
nello spazio della nostra vita, al Signore che ci salva in ogni tempo e in ogni
luogo della storia. L’analisi di una proposta artistica, contemporanea e molto
particolare, come quella di Turrell, ha messo in luce come anche dei linguag-
gi molto diversi da quelli già sperimentati nella tradizione dell’arte cristiana
possano costituire un luogo di esperienza religiosa e di pedagogia alla fede
molto rilevanti nel contesto culturale attuale.
———––
31
M. MERLEAU PONTY, Phenomenology of Perception, Abingdon 2013, 33.
32
F. NIETZSCHE, Il crepuscolo degli idoli, Milano 1983, 108.
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RIASSUNTO
ABSTRACT
In reference to James Turrell, we must ask how one treats the analogy of aesthetic
and religious experiences. Didi-Huberman talks about «walking in the desert» - that
is «walking in the absence» in which seeing sends us to a non-seeing. Turrell, instead,
talks about dreams, in which vision appears with closed eyes like a blind man
searching — a sort of «active passivity». In this sense, erring leads to an aesthetic
experience as creative transformation. Thus, Turrell proposes a pedagogy of «re-
learning» the act of seeing in the sense of a phenomenology of experience as
elaborated by Merleau-Ponty, which we may define as a spiritual exercise in all
effects. We may express this sensory participation in space as a liturgical one.
Bonaccorso speaks of an original symbolic liturgical space as one that determines a
specific way in which we may inhabit space itself, wherein we encounter it as a
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utopian, eteropic and teleotopic one. This is in accordance with the three unique
modes of human experience: the inner relationship to oneself, the horizontal
relationship with the other, and the vertical relationship of the totally other. At the
polar opposite is Romano Guardini between the inner and outer about which we may
say that the artist works within a threshold area which is essential for sacred space. In
this sense, we may talk about the aesthetic experience of the sublime, which creates a
restless crossing, leading in turn to a radical transformation of the relation between
human beings and space.