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Gregorianum

YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN


Imparare ad abbandonarsi a occhi chiusi:
una fenomenologia dell’esperienza
spirituale nell’arte di James Turrell

Pontificia Universitas Gregoriana


Roma 2016 - 97/4
GREGORIANUM 97, 4 (2016) 761-776
Yvonne DOHNA SCHLOBITTEN

Imparare ad abbandonarsi a occhi chiusi:


una fenomenologia
dell’esperienza spirituale nell’arte di James Turrell

Nella gioiosa notte,


in segreto, senza esser veduta,
senza veder cosa,
né altra luce o guida avea
fuor quella che in cuor mi ardea.

E questa mi guidava,
più sicura del sole a mezzogiorno,
là dove mi aspettava
chi ben io conoscea,
in un luogo ove nessuno si vedea1.

La domanda sulla relazione fra arte e teologia riguarda originariamente,


nella sua complessità, il tema della Rivelazione cristiana ed è a questo ambito
che deve essere riferita. Può aiutare, per situarci in una corretta prospettiva di
analisi, la distinzione posta da Alex Stock2 che, anche nel suo intervento in
questa sede, precisa come spesso lo scopo dell’arte non riguardi soltanto la
comunicazione di un contenuto della Bibbia o della fede attraverso linguaggi
diversi, bensì come l’arte stessa possa essere di ispirazione per la teologia.
Non si tratta dunque di rivestire artisticamente un contenuto o di comunicare
un’informazione quanto di vivere attraverso l’arte un’esperienza religiosa.

———––
1
GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Monte Carmelo, poesia iniziale, strofe n. 3 e 4, Roma
2010.
2
A. STOCK, Keine Kunst. Aspekte der Bildtheologie, Paderborn – München –Wien –
Zürich 1996; ID, Bilderfragen. Theologische Gesichtspunkte, Paderborn – München –Wien –
Zürich 2003.
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Considerando questo secondo approccio — spesso dimenticato — vorrei


analizzare la valenza religiosa dell’arte di James Turrell partendo da una
precisa domanda: «In che modo e in che senso l’esperienza estetica suscitata
dall’arte di Turrell può costituire un’esperienza religiosa?»3.
L’ambito della mia indagine sarà dunque costituito da una particolare espe-
rienza che andremo a descrivere: un’esperienza estetica e — vorrei dimo-
strare — religiosa insieme.

I. L’ARTE COME LUOGO DI ESPERIENZA RELIGIOSA

Scrivendo sull’arte di Turrell, Didi-Huberman4 descrive l’esperienza este-


tica dell’artista con un riferimento alla favola di Samuel Beckett5: «Si entra
nel colore, è come un vapore, denso, come quando entriamo nell’opera di
Turner. Tuttavia in James Turrell il movimento sembra quello opposto: vedia-
mo un rettangolo che brilla, con un contorno aggressivo, come una massa
senza ombra (tav. 15). Ci si chiede: perché questo colore? È un trompe-l’oeil?
Poi entriamo in un altro colore, che diventa sempre più confuso. Non capia-
mo. Si vede una superficie ma non c’è la luce che dovrebbe formare la
superficie; allora non c’è una superficie? Ma da dove viene il colore? L’unica
———––
3
Bibliografia di base: R. ANDREWS, Building with Light, in James Turrell: The Wolfsburg
Project, Berlin 2010, 150-68; G. BÖHME, «The Phenomenology of Light», in James Turrell,
Geometry of Light, Ostfildern 2009, 69-82; M. BRÜDERLIN, «The Innerworld of the
Outerworld of the Innerworld», in James Turrell, The Wolfsburg Project, Berlin 2010, 122-
149; M. BRÜDERLIN, ed., Pending details by Monday Dec 8 (p. 45); C. ROSE, «Looking at
Light, a discussion with artist James Turrell, who’s installations examine “perception, light,
color, and space, with a special focus on the role of site-specificity”», 1 luglio 2013,
https://www. youtube.com/watch?v=_bvg6kaWIeo and https://www.youtube.com/ watch?
v=1-gmHA7KbcU; M. GOVAN, «Conversations with Contemporary Artists: James Turrell
with Michael Govan», The Solomon R. Guggenheim Foundation (SRGF), 2013,
https://youtu.be/ox00pFnKS7g?list=PLWt9nvDxzGOqj3soD4-bRvIqoWF9cN_wd; A. DE
LIMA GREENE, As It Is, Infinite, in James Turrell: a Restrospective, Munich 2013, 114-129;
M. GOVAN, «Inner Light: the Radical Reality of James Turrell», in James Turrell: a
Retrospective, Munich 2013, 12-35; L. HERBERT, «Spirit and Light and the Immensity
Within», in James Turrell: Spirit and Light, Contemporary Arts Museum, Houston, 1998, 10-
23; M. BRÜDERLIN, «James Turrell. The Wolfsburg Project», Kunstmuseum Wolfsburg 2009,
https://www.youtube.com/ watch?v= QWekIcZaKns; C.Y. KIM, «Entering the New
Landscapes», in James Turrell: A Retrospective, Munich 2013, 248-261; D. KUSPIT,
«Concerning the Spiritual in Contemporary Art», in The Spiritual In Art In Abstract Painting,
1890-1985, New York 1986, 313-354.
4
Bibliografia su Didi-Huberman e lo sguardo in: WIEBKE-MARIE STOCK, Geschichte des
Blicks. Zu den Texten Georges Didi- Huberman, Berliner Arbeiten zur Erziehungs- und
Kulturwissenschaft 19, Berlin 2004.
5
S. BECKETT, Der Verwaiser, Le dépeupleur. The Lost Ones, Frankfurt a. M. 1989, 6-7;
G. DIDI-HUBERMAN, Der Mensch der in der Farbe ging, Zürich – Berlin 2009, 9 (orig. franc.,
L’homme qui marchait dans le couleur, Paris 2001).
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soluzione per uscire da questo senso di smarrimento è tendere la mano ma


l’uomo non ne è capace; tutto quello che egli sperimenta, questo vedere
sentendo o, meglio, il sapere attraverso il sentire, diventa sempre più confu-
so. Come un cieco, l’uomo prova a toccare, in uno stato dove non può più
definire i limiti della sua propria pelle. Un dramma ottico in una tensione tra
distinzione ottica e non-distinzione fisica. Sembra ripresentarsi un vecchio
paradosso, che si mostra quando le regole dell’architettura vogliono rappre-
sentare l’eterno»6.
Le domande poste da Didi-Huberman sul senso dell’esperienza da lui
descritta sono essenziali. Si chiede: «Quella di Turrell è un’opera icono-
grafica? Sì, perché c’è il simbolo della luce. No, perché la luce non ha un
significato concreto. È un’opera tecnologica? Sì, perché James Turrell usa
tecniche di precisione. No, perché non rappresenta o esalta la tecnologia,
anche se la rende significativa. È un’opera d’arte che riguarda, in senso ridu-
zionistico, il sistema della percezione? Sì, perché sta analizzando un ampio
campo di fenomeni della percezione. No, perché è priva di ogni ideologia
behavioristica e l’opera d’arte si presenta come un’opera della non-
riflessione».
Mentre tante interpretazioni su James Turrell si sono concentrate intorno
alla ricerca dei significati inerenti alla sua opera, dobbiamo forse chiederci
quale sia la logica interna dell’arte di James Turrell, per coglierne il senso.
Vorrei spiegarlo citando, con Didi-Huberman, la favola di Samuel Beckett,
The Lost Ones, che parte da un luogo «di abbandono». La figura principale è
———––
6
Mia traduzione e riassunto del testo di G. DIDI-HUBERMAN, Der Mann der in der Farbe
ging (cf. nt. 5), 28-29: «Der Mensch, der geht, tritt also ein. Er tritt zunächst in eine Art Nebel
ein, etwas wie ein seltsamer trockener Dampf, der sich mit der Zeit verändert und der in zehn
Minuten fast vergessen sein wird (All diese Momente der visuellen Phänomenologie sind mit
der Zeitlichkeit, die sie einschließen, ganz offensichtlich von den Photographien ausgesch-
lossen, die im Allgemeinen das Objekt gut sichtbar machen wollen, aber eben nur sichtbar.
Die Bemerkung gilt auch für die Pala d’oro, die byzantinischen Fenster und die gotischen
Glasfenster) Aber für einen Augenblick fühlt sich der Mensch, der geht, als würde er
verschwimmen, nach dem Bild jener verirrten, aufgelösten Körper in den Aquarellen Turners.
[…] Während vor ihm das genaue Gegenteil erscheint: ein scharlachrotes Rechteck (aber
stumpf scharlachrot), ein glühendes Rechteck (aber in seinem Glühen fixiert) mit
unwahrscheinlich scharfem Umriss. Ein völlig frontales Rechteck, eine farbige Masse, ohne
Schatten, ohne Nuance, das dem Auge jede Hoffnung nimmt, eine Abstufung von Ebenen
oder eine Variation der Struktur zu erkennen. «Reine» Farbe, sagt sich der Mensch. Aber rein
wovon? Und woraus gemacht? Dazu kann er im Augenblick nicht sagen. […] Ist es ein
trompe-l’oeil? Man muss näher treten oder den Blickwinkel wechseln: dann offenbart sich
zumeist ein trompe-l’oeil? Nur eine Handbreit entfernt ist der Mensch, der betrachtete, nicht
fähig, sich alles was er betrachtet, sehen zu fühlen, und noch weniger, sich es wissen zu
fühlen. Ihm bleibt nur seine Hand, um sich von der Angst zu befreien. So streckt er also seine
Hand aus, wie ein Blinder der Umrisse eines Gegenstandes suchen würde, doch seine Hand
zittert und schwebt in der rötlichen Luft, vor der Oberfläche. Ein neues Unwohlsein stellt sich
ein, wie in diesen Situationen, wo man die Grenzen der eigenen Haut nicht genau ausmachen
kann. Und die Hand wird suchen, ohne je irgendetwas zu finden».
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un «corpo che cerca sempre», insieme a un’altra figura di un uomo che misu-
ra lo spazio. Un uomo che cammina. Cammina sempre. In un monocromo.
Possiamo chiamarlo deserto. Cammina nel giallo. L’orizzonte non arriva mai.
Non c’è mai un limite. Sente e vede le cose ma sembra che non ci siano. Un
giallo costante fino alla disperazione, in cui si manifesta ciò che chiamiamo
assenza.
In questo stesso deserto, luogo centrale dell’Esodo e di molte altre espe-
rienze narrate dalla Bibbia, l’assenza sperimentata da questo «corpo che
cerca» diventa il luogo di culto. Il deserto è sicuramente il luogo più adatto
per percepire l’assenza come una realtà molto potente. Nell’Esodo, il deserto
è il luogo simbolico per costituire l’alleanza, il legame (Bund) tra Dio e
Mosè. L’Assenza, cioè il Dio che si ritira e lascia spazio al mondo, sta all’ini-
zio del dono della Legge. Questa Assenza non lascia l’uomo solo con se
stesso ma sorprendentemente accende una relazione: è una Assenza «viva»,
che prova rabbia, gelosia, interesse per il rapporto che la costituisce.
L’Assente nutre il popolo e il popolo continua così a procedere nel «colore
giallo», che diviene il deserto della Promessa, della speranza, della prova. Il
deserto diventa dunque metafora del desiderio che l’uomo ha di Dio e Dio
dell’uomo. Il Deserto è anche un luogo dove Dio lascia vedere a Mosè il
luogo del desiderio inesauribile: il roveto che brucia senza consumarsi.
Desiderio che coincide con un’assenza espressa radicalmente dall’indigenza
dello sguardo. È un vedere che rimanda essenzialmente a un non vedere.
Questa è, in primo luogo, l’esperienza visuale che appartiene all’esperienza
religiosa: l’esperienza di questo limite che esprime, tuttavia, un’inaudita
possibilità.
Possiamo dunque dire che l’opera di Turrell è radicalmente mistica? Didi-
Huberman risponde chiaramente di no. Allo stesso tempo l’opera di Turrell si
presenta come un esercizio di «svuotare le stanze». Turrell, infatti, ha iniziato
il suo lavoro in albergo, svuotando le stanze, per creare luoghi senza nomi e
non voleva nessun elemento di riconoscimento, senza ordine, senza regole,
senza offrire riferimenti per qualsiasi possibile visuale definita. I luoghi richia-
mano soltanto l’assenza. Didi-Huberman scrive che è illegittimo trasformare
gli Skyspaces di James Turrell (tav. 16) in una mitologia del cielo, in un
simbolismo iconografico o in un messaggio religioso di tipo sincretistico.
Sarebbe assurdo voler mettere insieme i Quaccheri americani, dove Turrell è
nato e vissuto nella sua infanzia, con il buddismo Zen, che Turrell ha speri-
mentato e la cattedrale gotica, che egli adora. Immaginare una relazione e una
confusione tra queste esperienze significherebbe — secondo Didi-Huberman
— tradire il significato del deserto che ci mostra l’arte di Turrell.
In questo senso, rimanendo legati a questo specifico deserto, Turrell può
essere considerato un costruttore di templi diversi, perché inventa nuovi
luoghi che giocano sulla tensione tra l’aperto e il limitato, tra il lontano e il
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vicino. Turrell crea così una sorta di piccole cattedrali in cui l’uomo si rico-
nosce, in cui cammina nel colore.
In questo senso, Didi-Huberman può scrivere che James Turrell ha creato
luoghi paradossali, dal doppio carattere, in cui ciò che si vede avanza nel
nascondimento, si mostra senza porsi sotto il dominio dello sguardo. L’espe-
rienza visuale dell’uomo che cerca Dio si pone dunque paradossalmente
come esperienza dell’assenza. Un’assenza che, scrive Didi-Huberman, fa
«quasi impazzire».
Il «deserto giallo» di James Turrell ci insegna, in definitiva, a uscire dalla
logica della rappresentazione, per partecipare a una particolare catastrofe
della rappresentazione stessa come esperienza del non-vedere, che tuttavia
costituisce l’autentica esperienza visuale. L’arte di Turrell mi sembra insegni
che l’esperienza originaria dell’uomo è quella di un certo nascondimento e
che, proprio in questo nascondimento, si possa raggiungere una particolare
visione. Egli stesso scrive che «siamo come in un sogno, quando proprio con
gli occhi chiusi abbiamo una visione totale. Visione completa senza occhi».
Intendiamo, in questo modo, il riferimento al sogno compiuto da Turrell,
scrive infatti Didi-Huberman:
because in a dream with the eyes closed we have full vision. So, but bringing it
into the day is not so easy […] So this bringing higher purposes [un senso più alto]
into the life during the day — sometimes they last for a short period. And so I’m
trying to extend that what’s always been interesting to try and achieve in life. But I
have noticed that if you address the higher purposes in people, that’s the part that
will ansie you. And that’s what art does. Art is made to address out higher
purposes; that’s why it’s part of our culture, that’s why we make this culture7.

———––
7
Nella tesi su James Turrell and the Poetry of perception, discussa alla John Cabot
University, Dipartimento di Storia dell’arte e Studio Art, la mia allieva Emelie Ask ha
trascritto e valutato le interviste di James Turrell. Si veda J. TURRELL, in «Conversations with
Contemporary Artists (cf. nt. 3): «Generally we use light to illuminate other things - and I’ve
always been interested in the thingness of light — almost seeing light as we see it in the
dreams — because in a lucid dream we see colors radiating of off objects and persons and this
color that suffuses the whole scene. And we don’t normally see light that way with the eyes
open. So, part of what I wanted was to make some kind of art that look like how we saw light
in a dream; because in a dream with the eyes closed we have full vision. Full vision without
eyes. So, but bringing it into the day is not so easy; it’s a little bit like when you wake up the
dream is leaving you from the moment you wake up. It’s like a New Year’s resolution; you
start off really strong in January 1st and then somewhere in February you kind of drift it off.
So this bringing higher purposes into the life during the day — sometimes they last for as
short period. And so I’m trying to extend that what’s always been interesting to try and
achieve in life. But I have noticed that if you address the higher purposes in people, that’s the
part that will answer you. And that’s what art does. Art is made to address our higher
purposes; that’s why it’s part of our culture, that’s why we make this culture».
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Il sogno, quando immaginiamo a occhi chiusi, in questo senso non è fuga


dalla realtà, bensì una visione più alta (higher purposes), più profonda, della
realtà. Proprio quando siamo con gli occhi chiusi. Didi-Huberman interpreta
il sogno come paradigma del dimenticare e non come allusione memoriale8.
Così, se Fr. Nicolas Steeves S.I. afferma, parlando dell’immaginazione,
che «non si può stare troppo a lungo davanti a un’opera d’arte. Dopo cinque
minuti, infatti, si deve chiudere gli occhi per entrare nella nostra immagi-
nazione»9, egli rivela tutta questa problematica relativa all’immagine, che
l’arte di Turrell vuole condurci a sperimentare.
Ma che cosa vuole dire vedere con gli occhi chiusi — che cosa vede questo
nuovo vedente?
Riferendomi anche agli scritti di Turrell, ritengo infine che l’esperienza
estetica tentata dalla sua arte abbia un importante carattere pedagogico, dato
dalla capacità di trasformare la persona, di farla uscire da sé, dal chiuso della
coscienza autocentrata, attraverso una radicale distruzione degli schemi e
delle chiusure costruite dalle certezze acquisite e dai percorsi conosciuti e
scontati che passivamente subiamo, per raggiungere una nuova condizione di
«passività attiva» in grado di aprire il nostro sguardo proprio assumendo la
condizione del non vedente, del cieco che cerca.
La trasformazione creativa, che chiamiamo esperienza, può venire soltanto
da questo momento di smarrimento, da un tempo in cui dobbiamo errare,
provocato da una rottura e un distacco dal modo di vivere e di pensare
precedentemente assunto, che costringe l’individuo a cambiare e a ricostruire
un nuovo equilibro.

II. L’ARTE E LA LITURGIA COME LUOGO DI TRASFORMAZIONE

Il luogo che l’arte di Turrell ci induce a percorrere, «svuotando» gli spazi


della nostra vita quotidiana per ritrovarci privi di orientamento, corrisponde
dunque al particolare carattere dell’esperienza che prende il nome di
eterotopia. La Bibbia conosce ed esprime questa originaria forma dell’espe-
———––
8
G. DIDI-HUBERMAN, Der Mann der in der Farbe ging (cf. nt. 5), 45: «Daher drängt sich
der Traum hier als Matrix und Paradigma (des Vergessens) auf und nicht als (erinnerte)
Anspielung oder Metapher. Hier geht es nie um Traumbilder. Es geht hier nur darum, ich
wiederhole es, diesem Ort die elementare absolute virtuelle Macht seiner Figurabilität ohne
“Figuren” zu geben».
9
Conferenza L’immaginazione è preghiera? di Nicolas Steeves S.J. presso la Pontificia
Università Gregoriana a Roma, novembre 2015. Sull’immaginazione sono interessanti gli
spunti sintetici in G. OSTO, «Immaginare per credere. Con e oltre Newman», La Rivista del
Clero Italiano 93 (2012) 632-644. Ringrazio inoltre l’autore per alcuni spunti sull’esperienza
estetica della quale si è occupato, in modo particolare dal punto di vista teologico, in
riferimento all’arte musicale: cf. G. OSTO, Un pentagramma teologico. Musica e teologia
nella Cantata 140 di J.S. Bach, prefazione di P. Sequeri, Padova 2010.
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rienza umana nei luoghi del deserto e dell’esodo. Luoghi di pellegrinaggio


inquieto, dove si è disposti a fare i conti con una certa assenza, che pretende il
crollo delle nostre sicurezze, che ci fa togliere i calzari davanti a un Dio che
non parla nel vento impetuoso, né nel fuoco o nel terremoto, ma nell’umile
«voce di silenzio», secondo l’esperienza del profeta Elia sul monte Oreb (cf.
1Re 19,12). L’eterotopia ci sembra dunque il luogo privilegiato dell’espe-
rienza religiosa. Se l’utopia è una speranza senza luogo, l’eterotopia, come la
intende Foucault, è una dis-locazione, un attraversamento, una soglia10.
Ogni cultura produce eterotopia. Nelle società tradizionali erano i luoghi
sacri, interdetti perché riservati agli individui in stato di passaggio — come
adolescenti, donne mestruate o partorienti, vecchi. Mentre le eterotopie
moderne sono luoghi estranianti, fino al concetto di non-luogo di Marc Augé.
Le eterotopie producono rotture nel tempo, le etero-cronie, che diventano il
tempo della festa. Il luogo sacro è sempre connesso alla festa, perché è legato
a una ierofania, a una rivelazione, che sconnette e segna una discontinuità, un
taglio nel tempo e nello spazio. Possiamo dirlo con Mircea Eliade, il quale
sostiene che, quando avviene una manifestazione del divino, si crea un’inter-
ruzione nel tempo e nello spazio e quest’ultimo diventa sacro in quanto abita-
to da una nuova presenza.
Possiamo anche rivolgerci all’antropologia di Turner, nella quale si pone
attenzione al limen — il momento liminale dell’iniziazione al sacro — come
soglia, frammezzo, sospensione e luogo di rigenerazione, ri-orientamento
spaziale.
In questa congiuntura teorica, si incontra il problema specificamente cri-
stiano di una santità spaziale di tipo nuovo: l’abitare di una dis-abitazione11.
Dal punto di vista cristiano, sono proprio l’esperienza liturgica e la riflessione
su di essa a essere il luogo privilegiato per approfondire il nesso necessario,
eppure problematico, fra la fede, lo spazio e la temporalità. Nella prospettiva
liturgica, lo spazio non si mostra come un contenitore. Tutto ciò ha anche una
diretta conseguenza per ciò che riguarda la funzione del linguaggio iconico
nell’edificio sacro, partendo dalla fondamentale questione se l’edificio sacro
sia per l’abitazione o per la rappresentazione.
L’atto di fede non avviene infatti nel chiuso della soggettività, bensì inne-
sta una dialettica fra l’interiore e l’oggettivo, l’esteriore e il comunitario. La
fede certamente non viene trasmessa, condivisa e approfondita solo attivando
la parola, ma anche attraverso il gesto, la musica, i profumi, il pasto, le
immagini, i colori.
———––
10
Non posso qui che rimandare al messaggio di Papa Francesco in Evangelii Gaudium
quando parla di uscire da se stessi, quando invita a una «chiesa in uscita». Un’arte come
quella che stiamo esaminando può essere utile proprio in questo senso come provocazione a
una conversione.
11
V. SANSON, ed., L’edifìcio cristiano, Architettura e liturgia, Padova 2004, 14; cf. R. TA-
GLIAFERRI, La violazione del mondo, Roma 1996.
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Ora, tutto questo rappresenta il contesto del rito. La fede, sotto il profilo
del rito, è azione. Essa è realtà dinamica, nella quale è dato di incontrare non
un Dio immobile, ma un Dio che opera e che salva. Come la Rivelazione ha
la forma di azioni e parole, così la fede, che si fonda sulla Rivelazione,
dev’essere essa stessa azione e parola, come avviene nella liturgia.
La liturgia, come azione, non può non interessare il corpo12. Lo spazio si
riferisce dunque all’azione del corpo. Scrive Giorgio Bonaccorso: «Lo spazio
è strettamente connesso tanto al corpo quanto all’azione. Esso, infatti, è esten-
sione del corpo (il corpo oggetto osservabile come spazio esteso) e percezio-
ne di tale estensione (il corpo soggetto che osserva il corpo esteso). Inoltre, lo
spazio implica, o può implicare, il movimento, che, se è intenzionato, si
chiama azione: il movimento e l’azione definiscono la possibilità e i limiti
dello spazio»13. Possiamo così distinguere, con Bonaccorso, in questo riferi-
mento allo spazio come azione del corpo, due modalità: il prossemico e il
cinesico. È dalla dimensione prossemica che, in primo luogo, dobbiamo
valutare l’organizzazione originale dello spazio liturgico. «L’orientamento
stesso del rito orienta il credente»14. Il senso ultimo delle cose, il principio o
arché è postulato dal rito, predisponendo le cose e le persone attorno a un
centro, cioè in modo prossemico15. Questo centro assume simbolicamente il
senso di centro del mondo, così come lo intende Eliade: «[...] conosciamo un
numero illimitato di “Centri”. Meglio ancora: ciascuno di questi “Centri” è
considerato, e addirittura letteralmente denominato, il “Centro del Mondo”.
Lo spazio in questione è uno spazio sacro [...]»16. Certamente non intendiamo
per centro il fulcro di uno spazio geometrico, ma un centro simbolico che si
mostra al modo di un «trovarsi al principio», nel suo valore di arché, dove si
svela il senso, il logos, di una civiltà. Ed è questo il significato del monu-
mento, cioè l’autodisvelarsi di una struttura di senso nella storia e nel tempo.
L’azione del corpo unisce e accompagna la dimensione prossemica alla
dimensione cinesica, ancora nel senso dell’indicare un verso, una direzione,
non necessariamente con lo spostamento del corpo, ma attraverso tutto ciò
che appartiene al gesto: dalle diverse posture ed espressioni a movimenti più
ampi, come la danza o la processione. Tutti gesti che innescano una tensione
spaziale che ha una modalità peculiare, in quanto formata da movimenti non
finalizzati a uno scopo, ma a un’apertura, a una possibile rivelazione, nell’at-
teggiamento dell’accoglienza e dell’ospitalità; atteggiamento che implica una
rottura con se stessi, una discontinuità.
Il punto fondamentale della gestualità liturgica è dunque l’abbandono dei
comportamenti ordinari, per creare quella modalità fondamentale del rito che
———––
12
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Cittadella 2006.
13
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 37.
14
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 37.
15
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 38.
16
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 39.
IMPARARE AD ABBANDONARSI A OCCHI CHIUSI 769

abbiamo chiamato liminale e — scrive ancora Bonaccorso — «che implica


una dinamica spaziale alternativa a quella degli altri contesti sociali. Il gesto
liturgico è la navigazione (seconda navigazione?) oltre i limiti della struttura
sociale istituita sull’utile (il mondo della tecnica) e sul doveroso (il mondo
della morale e della politica): il gesto liturgico è un gesto gratuito, non
(immediatamente) tecnico o morale, che crea lo spazio della libertà e del
dono».
La dimensione prossemica e cinesica determinano una particolare topo-
grafia dello spazio come luogo liturgico nel gioco della metonimia (dentro/
fuori) e della similarità (aperto/chiuso): «Il luogo liturgico o celebrativo (in
particolare il tempio) in quanto gioco fra metonimia e metafora, tra contiguità
e similarità, ha la valenza di uno spazio simbolico. In questo senso, il luogo
condivide la dinamica stessa del rito: essere dentro (rapporto metonimico)
allo spazio rituale come modo di essere aperto (rapporto metaforico) a Dio
nella sua manifestazione storica»17.
Lo spazio liturgico acquista dunque un’originale dimensione simbolica,
che determina lo specifico modo di abitarlo, come spazio utopico, eteropico e
teleotopico.
Lo spazio u-topico riguarda il modo di abitare l’inabitabile: «La prima
evidenza è che lo spazio è metafora della fede, a condizione di non possederla
entro un luogo definibile e tangibile: tale possesso, intatti, sarebbe il rinne-
gamento della fede stessa, che è fiducia in ciò (in colui) che non è dimo-
strabile, delimitabile, circoscrivibile»18. Possiamo definire lo spazio dell’a-
zione liturgica quel luogo che è sempre aperto al non-luogo19. In ciò vediamo
la dimensione simbolica che coniuga infatti gli opposti senza sopprimerli: il
non luogo non si presenta qui come una negazione ma svela il senso del
luogo.
Dimensione simbolica, che emerge anche dallo spazio sacro come spazio
eterotopico; luogo altro perché fa spazio all’altro secondo le tre modalità
dell’esperienza specificamente umana: la relazione interiore dell’altro in se
stesso, la relazione orizzontale con il volto dell’altro, la relazione verticale del
totalmente altro. È l’esperienza della differenza, che non riguarda l’esistenza
di qualcosa di estraneo rispetto alla quotidianità della vita ma di ciò che,
proprio perché altro, impedisce alla quotidianità di chiudersi in se stessa e di
morire alla speranza.
Infine, il luogo creato dall’azione liturgica si pone come spazio teleotopico,
nel momento in cui favorisce il confronto pieno di ogni individuo con se
stesso. E lo fa in quanto «l’uomo non è colui che, dall’esterno, decide del rito,
ma colui che, dall’interno, è deciso dal rito, o meglio da Dio attraverso il
———––
17
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 40.
18
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 42.
19
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 42.
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rito»20. Assistiamo qui al gioco topologico interno-esterno che corrisponde al


gioco antropologico dell’interiorità-esteriorità: l’uomo sta dentro al rito come
sta dentro all’interiorità; il rito è capace, dunque, in questo gioco interno-
esterno, dentro-fuori, interiore-esteriore, di mediare l’interiorità di chi lo
abita.

III. L’ARTE COME LUOGO DI CAMMINO SPIRITUALE

Dopo aver considerato la valenza eterotopica che emerge con forza


nell’arte di Turrell e aver messo in evidenza come sia strutturale sia all’arte in
generale sia alla stessa liturgia cristiana la necessaria capacità di suscitare un
processo di trasformazione della persona attraverso lo spazio e il tempo,
sottolineiamo la dinamica spirituale che viene attivata.
Guardando all’opposizione polare di Romano Guardini fra interiorità ed
esteriorità, possiamo dire che l’azione liturgica e la creazione artistica ci inse-
gnano che, per diventare autenticamente noi stessi, dobbiamo esteriorizzarci.
Possiamo indicare questa esperienza con il termine «attraversamento»,
oppure, come viene praticato dalla recente proposta teologico-pastorale del
Secondo Annuncio, come «esperienza dell’errare»21. Questa proposta è un
tentativo di evangelizzazione integrale rivolto a persone adulte, che al suo
interno annovera anche l’utilizzo di esperienze e forme artistiche in vista di
cogliere e suscitare delle condizioni antropologiche favorevoli all’annuncio e
all’accoglienza del vangelo.
Il termine «errare» significa procedere vagando, un procedere che implica
l’esperienza del crollo e della prova e che riflette il senso dell’esperienza
umana, la cui maturazione riguarda il riconoscimento di un possibilità carica
di rischi. In questo senso, l’adulto è l’uomo che cerca ciò di cui prima dice-
vamo. Questa esperienza dell’errare è potenzialmente un’esperienza di fede,
anzi possiede in se stessa la struttura trascendentale dell’atto di fede come
desiderio di Dio. Il percorso di fede nella Bibbia è continuamente rappre-
sentato da viaggi, salite sui monti, traversate di deserti e di mari, pellegri-
naggi, quali metafore dell’incontro con Dio.
Incontriamo Dio quando, in questo errare, ci accorgiamo che Egli riapre
cammini che sembravano già chiusi, che libera dall’Egitto, riapre cammini
nel deserto, dona udito, parola, vita.
In questo senso essere cercatori di Dio non significa cercare di raggiungere
l’obiettivo, piuttosto fare esperienza di non possedere affatto in modo defi-

———––
20
G. BONACCORSO, Il corpo di Dio (cf. nt. 12), 43.
21
Cf. E. BIEMMI, ed., Il secondo annuncio. La grazia di ricominciare, Bologna 2011; ID.,
ed., Il secondo annuncio. La mappa, Bologna 2013; ID., ed., Il secondo annuncio 2. Errare,
Bologna 2015.
IMPARARE AD ABBANDONARSI A OCCHI CHIUSI 771

nitivo se stessi e la vita. Tale disorientamento è analogo all’esperienza


estetica creata dall’arte di Turrell, che pone il fruitore nella situazione detta da
Kierkegaard di «timore e tremore»; situazione in cui si è finalmente disposti a
«togliersi i calzari» per ascoltare la «sottile voce di silenzio» nella quale Dio
si mostra (cf. 1Re 19,12). È proprio l’esperienza del sublime.
L’atto dell’errare appare, allora segnato costitutivamente dall’esperienza di
un attraversamento che comporta una trasformazione: individuare se stessi
significa primariamente gettarsi fuori, esteriorizzarsi.
In che senso l’arte potrebbe aiutarci a diventare noi stessi allontanandoci da
noi stessi (quasi per stabilire una nuova relazione con noi stessi)?
Mi sembra qui di riconoscere, nell’incontro con l’arte, il fondamentale atto
pedagogico che Joseph Ratzinger ha trovato leggendo il Giudizio finale di
Michelangelo: «Nel dolore di questo incontro in cui l’impuro e il malsano del
nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza». «Il suo sguardo, il
tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolo-
rosa “come attraverso il fuoco”». L’esperienza di fede si concretizza «attra-
verso un toccare degli oggetti stessi»22. Ratzinger parla di una «scossa», che
fa uscire da se stessi, e non somiglia affatto a una pacificazione, e scrive —
usando le parole del cubista Braque — «che solo le scienze devono dare
sicurezza, mentre l’arte deve ferire, deve creare inquietudine». Solo così
l’uomo può cambiare veramente, perché viene toccato dalla realtà, subendo
una ferita che lo cambia nel profondo; un processo che fa male, perché
significa lasciare andare qualche cosa che dava sicurezza. È in questa
trasformazione che dobbiamo, in un certo senso, allontanarci da noi stessi. La
pedagogia in Michelangelo è dunque «un soffrire per riconoscersi»; in questo
senso, Papa Benedetto XVI chiama il Giudizio Universale una «immagine
della responsabilità»23.
Ascoltando le parole di Ratzinger, noi possiamo affermare che l’esperienza
artistica non può ridursi a essere un mero luogo di insegnamento di un
contenuto, che secondo Benedetto XVI è sempre di seconda mano,24 neppure
solo e limitatamente l’espressione del dramma dell’uomo, ma riguarda prima-
riamente un esercizio pedagogico che coinvolge radicalmente l’uomo in un

———––
22
BENEDETTO XVI, Die Schönheit Gottes. Ecce Homo. Seht welch ein Mensch, St. Benno
2008, 24.
23
BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Spe Salvi, 30 novembre 2007, capitolo III. Il Giu-
dizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza, Sezione 41: «Nella confor-
mazione degli edifici sacri cristiani, che volevano rendere visibile la vastità storica e cosmica
della fede in Cristo, diventò abituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna
come re — l’immagine della speranza —, sul lato occidentale, invece, il Giudizio finale come
immagine della responsabilità per la nostra vita, una raffigurazione che guardava e
accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino verso la quotidianità».
24
Cf. R. GUARDINI, L’opera d’arte, Brescia 1994, e ID., Esperienza religiosa, fede, rivela-
zione, Brescia 1996.
772 YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN

cammino di guarigione, in un cammino di libertà, partendo dalla ferita causa-


ta dall’opera d’arte.
Interessante che Turrell, svuotando gli spazi, non voglia lo svuotamento
interiore. Potremmo forse individuare un movimento contrario al gesto
artistico compiuto da Rothko, che intende l’esperienza artistica come lo
svuotamento completo che fa perdere l’«io» per essere capace di rinascere;
eliminando tutti i riferimenti, sembra ricondurci a una condizione originaria,
primordiale, che sta all’origine di ogni esperienza umana. La pedagogia di
Turrell si definisce invece quando questi afferma: «I want a new viewer who
looks not “at” but “into”»25.
Vorremmo, in questa direzione, fare riferimento anche a un’altra pedago-
gia, quella di Romano Guadini e di Rudolf Schwarz, che allo stesso modo di
Turrell partono dall’affermazione che Dio abita l’assenza, per cui l’immagine
non deve tanto rendere presente l’invisibile quanto produrre l’interruzione
che permette l’erramento del cammino di fede. L’artista lavora su questa
«soglia». Tuttavia, nell’esperienza estetica di Turrell, tale percorso non è
compiuto solamente dall’immaginazione, bensì concretamente con il nostro
corpo, in modo sensoriale. Le sue opere d’arte sono state create per portare
l’osservatore dentro una sorta di struttura/spazio fisica:
But the idea, first of all, like the sky space […] why go inside to look out? […] I
like to bring the quality of the sky, or the ocean that we’re at the bottom of — I
like to bring it down so that it feels as though it comes right at the top of the space
you’re in. So it’s something you’re in direct contact with26.
Dunque, nell’arte di Turrell si riproduce il gioco fra interiore ed esteriore
che abbiamo già visto essere essenziale a uno spazio sacro.
Turrel, infatti, rimanda alla percezione di uno spazio che si trova, per così
dire, dietro il vedere dell’occhio. Il luogo esprime dunque un modo di vedere
che si trova dentro di noi. L’arte di Turrell vuole confrontarci con questo
vedere:

———––
25
Citato secondo C.E. ADCOCK – J. TURRELL, The Act of Light and Space, Berkeley – Los
Angeles, 1990, 36; G. DIDI- HUBERMANN, Der Mann der in der Farbe ging (cf. nt. 5), 40.
«Der Raum leert sich also, um ein Ort der Faltung und der Nähe, was den Blick selbst betrifft,
zu werden: a looking into, wie Turrell es ausdrückt, im Gegensatz zu jenem Blick, der nach
dem Objekt such a looking at».
26
J. TURRELL, in «Conversations with Contemporary Artists (cf. nt. 3): «But the idea, first
of all, like in the sky space — a very early example being here at PS1 — why go inside to
look out? I mean, you’re looking at the sky with even a fuller advantage point but I tend to
frame it in such a way that you can, first of all, the sky that looks to be out there all the time,
away from us, like the smog in LA is always over there — I like to bring the quality of the
sky, or the ocean that we’re at the bottom of — I like to bring it down so that it feels as
though it comes right at the top of the space you’re in. So it’s something you’re in direct
contact with».
IMPARARE AD ABBANDONARSI A OCCHI CHIUSI 773

[…] some of the qualities of light that I like are light — how you see light in the
dream — it’s just that you normally don’t see it like that with your eyes open. So I
wanted first of all an art that reminded you of that world […] This piece begins to
then enter that territory to work in that territory of behind the eyes seeing27.
Ma cosa ci è dato di vedere? Cosa vede questo nuovo vedente? Su questo
punto è importante quello che Kosky nel libro di Davide Zordan La promessa
immaginata descrive riguardo alla percezione della luce: «la luce non è tanto
qualche cosa che rivela, quanto rivelazione in se stessa»28. Le opere d’arte di
Turrell capovolgono l’abbandono della luce in cui tutti gli oggetti sono visti e
ci rivelano una luce che è essa stessa una rivelazione della luce.
James Turrell afferma:
[…] the thing that was important to me was just the fact that we’re looking at light.
And that light is accorded this thingness and that becomes this thing on the wall,
and that was the important thing to me. […] so it shared some of that simplicity of
how the form was but in terms its involvement it was really more to do with
perception or how perceive or how we award thingness29.

La luce nel fuoco crea uno stato meditativo di una contemplazione chiara.
Turrell fa riferimento a una particolare contemplazione «not thinking with
words»30.
Questo aspetto qualifica l’originalità dell’arte di Turrell e la rende insosti-
tuibile, quale espressione dell’esperienza estetica come carattere dominante
del nostro tempo, con la quale dunque non possiamo non confrontarci e dalla

———––
27
J. TURRELL, in «Conversations with Contemporary Artists (cf. nt. 3): «And this has to do
with, this seeing, is how we generate sight, and this idea that’s very much involved with the
seeing that happens with the eyes closed. I mean, we have a full vision at night in the dream,
fantastic lucidity of color and resolution and that’s with the eyes closed. And some of the
qualities of light that I like are light — how you see light in the dream — it’s just that you
normally don’t see it like that with your eyes open. So I wanted first of all an art that
reminded you of that world that we also have 7-8 hours a day, as well as then… this piece
begins to then enter that territory to work in that territory of behind the eyes-seeing».
28
J.L. KOSKY, «Vedere la luce: la contemplazione e le opere di James Turrell», in
D. ZORDAN, ed., La promessa immaginata, Bologna 2011, 295-314.
29
J. TURRELL, in «Conversations with Contemporary Artists (cf. nt. 3): «So you ask
yourself, if there’s no image, no object, there’s no focus, what do you have left? Not a whole
lot. So, basically the thing that was important to me was just the fact that we’re looking at
light. And that light is accorded this thingness and that becomes this thing on the wall, and
that was the important thing to me. And to look at how it is in relationship to, say, at that time
there was a lot of dealing especially in the East coast, with what was called Minimalist art.
This is not maximalist; it shared some of that simplicity of how the form was but in terms its
involvement it was really more to do with perception or how perceive or how we award
thingness».
30
J. TURRELL, in «Landmark talks: Lynn Herbert and James Turrell, CAM Houston»,
October 2013, https://www.youtube.com/watch?v=nsGxFiFsxY8.
774 YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN

quale dobbiamo necessariamente ri-partire per non estraniarci dallo spirito del
tempo e dalla quale dobbiamo partire.
L’essenza della sua percezione è descritta da Merleau-Ponty:
[…] we understand how our transcendental being and our empirical being are the
obverse and the reverse of one another […] But my perception of the world feels it
has an exterior; I feel at the surface of my visible being that my volubility dies
away, that I become flesh, and that at the extremity of this inertia that was me
there is something else, or rather an other who is not a thing31.
Il nuovo vedente pratica, attraverso le opere di Turrell, un esercizio peda-
gogico che lo conduce a re-imparare a vedere, nello stesso senso che inten-
deva addirittura un autore così borderline come Nietzsche, quando scriveva:
«Imparare a vedere, abituare l’occhio al riposo, alla pazienza, abituarlo a
lasciar venire le cose; rimettere il giudizio, imparare a ingannare e nascondere
il caso particolare. È questa la prima preparazione per educare lo spirito»32.
In sintesi, l’arte di Turrell, come lui stesso afferma, è «an exercise in blind
faith», un esercizio di fede cieca. Dopo questo percorso, si comprende bene la
citazione iniziale del nostro testo che, richiamando l’esperienza di San
Giovanni della Croce, ci ricorda come il credere cristiano sia in modo
paradossale un imparare ad aprire gli occhi, a vedere in modo diverso
(disorientamento-eterotopia), per arrivare alla fine a fidarci a occhi chiusi,
ciecamente (oltre ogni idolatria e rappresentazione, anche artistica), in quella
«fede della mezzanotte» che dice l’abbandono incondizionato, nel tempo e
nello spazio della nostra vita, al Signore che ci salva in ogni tempo e in ogni
luogo della storia. L’analisi di una proposta artistica, contemporanea e molto
particolare, come quella di Turrell, ha messo in luce come anche dei linguag-
gi molto diversi da quelli già sperimentati nella tradizione dell’arte cristiana
possano costituire un luogo di esperienza religiosa e di pedagogia alla fede
molto rilevanti nel contesto culturale attuale.

———––
31
M. MERLEAU PONTY, Phenomenology of Perception, Abingdon 2013, 33.
32
F. NIETZSCHE, Il crepuscolo degli idoli, Milano 1983, 108.
IMPARARE AD ABBANDONARSI A OCCHI CHIUSI 775

Pontificia Università Gregoriana Yvonne DOHNA SCHLOBITTEN


Facoltà di Storia e dei Beni Culturali della Chiesa
Piazza della Pilotta, 4
00187 Roma (Italia)
E-mail: dohna@unigre.it

RIASSUNTO

Riferendoci a James Turrell, dobbiamo chiederci come si estrinsechi l’analogia tra


l’esperienza estetica e l’esperienza religiosa. Didi-Huberman parla di «camminare nel
deserto» ovvero «camminare nell’assenza», in cui il vedere rimanda a un non-vedere.
Turrell invece parla del sogno, dove la visione avviene con gli occhi chiusi: un cieco
che cerca, una «passività attiva». In questo senso errare porta a una esperienza
estetica come trasformazione creativa. Turrell propone così una pedagogia del re-
imparare a vedere, nel senso di una fenomenologia dell’esperienza estetica come è
stata elaborata nell’opera di Merleau-Ponty, che sentiamo di poter definire a pieno
titolo un esercizio spirituale. Possiamo esprimere questa partecipazione sensibile allo
spazio come luogo liturgico. Bonaccorso parla dell’originale dimensione simbolica
che determina il modo specifico in cui possiamo abitare lo spazio stesso, in cui
ci confrontiamo con uno spazio utopico, eteropico e teleotopico, secondo le tre
modalità dell’esperienza specificamente umana: il rapporto interiore in se stessi,
il rapporto orizzontale con l’altro, il rapporto verticale del totalmente altro.
Guardando all’opposizione polare di Guardini tra interno ed esterno, possiamo dire
che l’artista lavora su questa «soglia», che è essenziale allo spazio sacro. In questo
senso possiamo parlare di un’esperienza estetica del sublime, che produce un
attraversamento inquieto e conduce a una trasformazione radicale dei rapporti fra
l’uomo e lo spazio.

Parole chiave: esperienza estetica, assenza, opposizione polare, sublime, Romano


Guardini

ABSTRACT

In reference to James Turrell, we must ask how one treats the analogy of aesthetic
and religious experiences. Didi-Huberman talks about «walking in the desert» - that
is «walking in the absence» in which seeing sends us to a non-seeing. Turrell, instead,
talks about dreams, in which vision appears with closed eyes like a blind man
searching — a sort of «active passivity». In this sense, erring leads to an aesthetic
experience as creative transformation. Thus, Turrell proposes a pedagogy of «re-
learning» the act of seeing in the sense of a phenomenology of experience as
elaborated by Merleau-Ponty, which we may define as a spiritual exercise in all
effects. We may express this sensory participation in space as a liturgical one.
Bonaccorso speaks of an original symbolic liturgical space as one that determines a
specific way in which we may inhabit space itself, wherein we encounter it as a
776 YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN

utopian, eteropic and teleotopic one. This is in accordance with the three unique
modes of human experience: the inner relationship to oneself, the horizontal
relationship with the other, and the vertical relationship of the totally other. At the
polar opposite is Romano Guardini between the inner and outer about which we may
say that the artist works within a threshold area which is essential for sacred space. In
this sense, we may talk about the aesthetic experience of the sublime, which creates a
restless crossing, leading in turn to a radical transformation of the relation between
human beings and space.

Keywords: aesthetic experience, absence, polar opposition, sublime, Romano


Guardini

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