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Nel ventre della parola/3 - La fuga del profeta e la convinzione di essere causa del dramma
incombente
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/03/2024
“Qualsiasi comunità in preda alla violenza o oppressa da qualche disastro si getta volentieri in
una caccia al ‘capro espiatorio’. Gli uomini vogliono convincersi che i loro mali dipendono da un
unico responsabile di cui sarà facile sbarazzarsi”
R. Girard, La violenza e il sacro, p.118
“Giona scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto,
s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore” (Giona 1,3). Giona sale sulla prima nave, e
scappa. Paga ‘il prezzo’ del trasporto, e poi si imbarca ‘con loro’. Nella Bibbia quando sono in
gioco la vita e la morte, spunta spesso il ‘prezzo di mercato’, e dove non ce lo aspetteremmo.
Come per Abramo nell’acquisto della terra per seppellire Sara (Gn 23), o in Geremia per il
campo di Anatot (Ger 32), due episodi chiave dove il riferimento al prezzo rafforza la solennità
estrema di quei gesti. Quando nella Scrittura troviamo un prezzo dobbiamo interpretarlo anche
come un segnale, un simbolo di qualcosa d’altro. Dicendoci che Giona pagò il prezzo del
biglietto per imbarcarsi, la Bibbia sta allora accrescendo la solennità spirituale di questo
momento decisivo della storia di Giona. Il Dio biblico ha imparato a ‘parlare economia’ perché
vuole parlarci di vita e di morte, vuole farsi capire da noi - anche in questi dettagli si nasconde la
bella laicità vera della Bibbia.
C’è poi quel ‘s’imbarcò con loro’. In quella fuga da Dio Giona trova, forse cerca, una compagnia
umana, come se la presenza di un gruppo di uomini potesse sostituire l’assenza del Signore;
come se il rumore delle voci di quei compagni di (s)ventura fosse capace di fargli dimenticare il
suono di un’altra voce che non aveva voluto ascoltare. Quando si fugge da sé stessi, si parte da
soli ma si arriva in compagnie, spesso improbabili, improvvisate e precarie preferite comunque
alla solitudine che ci rimanda un’eco che ci terrorizza: ci riempiamo di molte voci per scordarci
quella voce sola. Le compagnie sono, qualche volta, anche questo.
“Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare una tempesta così grande che la
nave stava per sfasciarsi. I marinai, impauriti, invocarono ciascuno il proprio dio e gettarono in
mare quanto avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel luogo più in basso
della nave, si era coricato e dormiva profondamente” (1,4-5). Ma … dopo l’‘invece’ di Giona
(1,3), ecco un’altra congiunzione avversativa narrativa e teologica. I marinai gettano in mare i
loro pesi, ma non sanno ancora che il vero peso sulla nave è Giona. Pregano i loro molti dei,
sono dunque pagani, “rappresentanti delle settanta nazioni della terra” (L. Ginzberg, Le
leggende degli ebrei, VI, p. 194). La nave sta per affondare, ma Giona, continuando la sua
discesa e la sua fuga, era finito nella parte più bassa. Lì, caduto in un sonno profondissimo, non
è svegliato dalla bufera. Non è il sonno buono di Adamo (2,2), né quello delle visioni e delle
profezie di Daniele. È invece il sonno diverso del depresso, qualcosa di simile al sonno di Elia
sotto la ginestra (1 Re 19,4), del sonno di chi si ubriaca per non pensare più alla vita, sperando,
forse, di non svegliarsi più. Da quel sonno non lo desta un angelo ma il grido di un uomo: “Gli si
avvicinò il capitano e gli disse: «Che cosa fai così addormentato? Àlzati, invoca il tuo Dio! Forse
Dio si darà pensiero di noi e non periremo»” (1,6). Il capitano usa lo stesso linguaggio che
aveva usato Dio nella chiamata di Giona - ‘alzati, proclama’ (1,1) - in ebraico: qûm, qāra’. Giona
non aveva risposto all’invito di YHWH, ma ora sembra rispondere all’invito di un uomo - quante
persone ricominciano a dialogare con un Dio che non capiscono più se sono raggiunte in una
stiva della terra dal grido dei poveri, e dentro quel grido di dolore tutto umano iniziano un nuovo
apprendistato della voce di Dio!
Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. Gli domandarono: «Spiegaci dunque chi sia la
causa di questa sciagura. Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale
popolo appartieni?»” (1,7-8). Tirare la sorte era nel mondo antico, Bibbia inclusa (ad es. Gs
7,17; At 1,26), un mezzo per capire, in alcuni contesti, la volontà divina.
Ma eccoci nel centro di questo primo capitolo: tra i marinai si insinua la logica del ‘capro
espiatorio’. In quella situazione di pericolo estremo e di imminenza della morte prende piede la
domanda tanto semplice quanto sbagliata: di chi è la colpa? La risorsa (illusoria) di ultima
istanza diventa l’individuazione di un colpevole cui addossare la colpa, e poi buttarlo fuori dalla
comunità per ristabilire la pace con la divinità e placarla. La vittima sacrificale deve essere
colpevole, e la comunità deve convincersi della sua colpevolezza affinché la sua espulsione sia
meritata - quanti riti di capro espiatori dentro ogni meritocrazia! Per René Girard il capro
espiatorio deve rispondere ad alcune caratteristiche: a) avere segni evidenti di diversità fisica o
morale (un difetto fisico o psichico, evidente diversità culturale, religiosa o etnica); b) essere un
elemento non essenziale per la sopravvivenza del gruppo, una persona ‘estrema’ (un re o un
marginale); c) il capro deve essere un membro del gruppo senza farne parte, senza essere un
elemento essenziale; d) infine, il capro espiatorio una volta sacrificato assume,
paradossalmente, qualità divine, poiché gli si attribuisce la salvezza della comunità. In questo
modo la scelta della vittima cade su qualcuno la cui morte non sarà vendicata e così la violenza
non diventerà ‘mimetica’.
Giona possiede tutte queste caratteristiche: è un diverso («Sono Ebreo e venero il Signore, Dio
del cielo, che ha fatto il mare e la terra»” (1,9)), è esterno al gruppo dei marinai, nessuno quindi
lo vendicherà, e alla fine placherà le acque. Manca solo la sua evidente colpevolezza: questa la
fornirà Giona stesso.
Il (lontano) riferimento biblico al meccanismo del capro espiatorio si trova nel Levitico (16,9-10),
in un brano dove compare una misteriosa arcaica divinità (‘Azezel’) a cui si offre il capro
espiatorio: “Il capro che è toccato in sorte ad Azazèl sarà posto vivo davanti al Signore, perché
si compia il rito espiatorio su di esso e sia mandato poi ad Azazèl nel deserto" (Lv 16,10).
Importante notare che anche in questo caso il capro da inviare nel deserto è scelto ‘gettando le
sorti’ (16,8) - come Giona.
Questi versetti sono costruiti attorno alla tensione innocenza-colpa: “Signore, fa' che noi non
periamo a causa della vita di quest’uomo e non imputarci il sangue innocente” (1,14). Per i
marinai che non hanno tutte le informazioni, Giona è un capro espiatorio imperfetto a causa
della sua dubbia colpevolezza - e per questo prima tentano di tornare a riva: “Quegli uomini
cercavano a forza di remi di raggiungere la spiaggia, ma non ci riuscivano” (1,13). Ma noi lettori
sappiamo, invece, che Giona non è innocente, e quindi nel libro il meccanismo del capro
espiatorio funziona perfettamente.
Ma ecco un’altra svolta: “Essi gli dissero: «Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare,
che è contro di noi?». Infatti il mare infuriava sempre più. Egli disse loro: «Prendetemi e
gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande
tempesta vi ha colto per causa mia»” (1,11-12).
Giona chiede di essere gettato in mare.
In questa stupenda scena troviamo echi importanti del Servo di YHWH del secondo Isaia (cap.
55), dove un innocente diventa vittima vicaria per il popolo. Ma in molti (e tra questi Gerolamo,
Commento a Giona, p. 58) vi hanno visto una prefigurazione del Cristo, un altro capro espiatorio
innocente - e come non farlo alla luce delle parole dei marinai rivolti a Dio: “Non imputarci il
sangue innocente” (1,14), che ritroveremo secoli dopo nel racconto della Passione (Mt 27,25)?
Interessante poi notare che Girard ci offre anche una lettura originale del misterioso ‘segno di
Giona’ che troviamo nei vangeli: “Cos’è il segno di Giona? Il riferimento alla balena di Matteo
non è molto illuminante, e bisogna preferirgli il silenzio di Luca… Il ‘segno di Giona’ designa,
ancora una volta, la vittima collettiva” (Il capro espiatorio, p. 186).
In questi pochi e densi versi si intrecciano più registri narrativi e teologici, tutti di grande
rilevanza da molte prospettive.
Al centro c’è l’esperienza di Giona. Sente di essere lui la causa di quella tempesta e di quella
morte prossima, perché l’associa alla sua disubbidienza a Dio - ‘Io so …’. Una esperienza,
quella di Giona, che può ripetersi tutte le volte che una persona crede che esista un legame tra
la sua disobbedienza spirituale-morale e un problema che accade accanto a sé (in una famiglia,
in una impresa, in una comunità…). Ciò che conta è la credenza soggettiva, non la verità
oggettiva di quella credenza. Una donna, un uomo ha commesso un errore, magari un peccato.
Si ritrova per questo in un posto sbagliato. Lì accade una disgrazia, un dolore collettivo. Inizia a
credere che quel dolore non ci sarebbe stato senza quel suo ‘no’ di ieri, e trova una evidente
relazione di causa-effetto. Finisce così in una grande sofferenza psicologico-spirituale, tra le più
grandi, e nella ricerca disperata di una soluzione può un giorno iniziare a pensare
ossessivamente che la sola soluzione vera è la sua uscita di scena. E se mentre quel nuovo
Giona vive questa ‘prova’ personale, parallelamente nei suoi confronti si innesca anche un
meccanismo collettivo di capro espiatorio, questa ‘tenaglia’ produce conseguenze molto gravi
se non interviene qualcuno o qualcosa a spezzare questo circuito di morte. Perché la logica
tremenda del capro espiatorio diventa perfetta quando riesce un duplice esercizio maligno: (1)
la comunità si convince della colpa della vittima e, elemento essenziale, (2) la vittima si
convince della propria colpevolezza e quindi, diversamente dagli animali, è lei stessa che
chiede di essere gettata nel mare. Come Giona: “Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare
placò la sua furia” (1,15). La prima titubanza dei marinai che cercano di evitare la morte di
Giona può essere anche letta come un ‘no’ della Bibbia alla legittimazione di simili tremendi
meccanismi sociali di morte, che vediamo ripetersi tutti i giorni.
Ci si salva da queste trappole mortali se non perdiamo, nella stiva del nostro cuore, la fede in
una innocenza più profonda e vera delle nostre colpe - o se qualcuno custodisce per noi questa
fede che abbiamo perso.
Nel ventre della parola/4 - Il grande pesce ci fa compiere l'esperienza di tornare piccoli come un
feto
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/03/2024
«Il Signore aveva creato il pesce che avrebbe ospitato Giona al tempo della creazione del
mondo. Era un animale così grande che al suo interno Giona stava comodo come in un’ampia
sinagoga: gli occhi fungevano da finestre e c’era anche un diamante luminoso come il sole a
mezzogiorno che permetteva al profeta di vedere tutto ciò che c’era nel mare fino ai fondali più
remoti»
L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, VI
Giona si era imbarcato verso Tarsis per fuggire “lontano dal Signore” (Giona 1,3). La sua è una
illusione di fuga: lo sa, ma fugge lo stesso. Come noi, quando pur sapendo che non c’è sulla
terra né in cielo un luogo dove possiamo rifugiarci per scappare dalla nostra vita, fuggiamo lo
stesso, ci illudiamo, sappiamo di illuderci eppure fuggiamo. Ma una volta salito sulla nave
sbagliata che avrebbe dovuto portarlo ‘lontano dal Signore’, Giona inizia a compiere una
missione simile a quella dalla quale sta fuggendo: opera una prima conversione di pagani, e lo
fa senza volerlo, perché la missione dalla quale stava fuggendo era proprio la conversione dei
pagani di Ninive. Non voleva convertire i pagani di Ninive ma converte i pagani della nave.
Infatti, all’inizio della tempesta il capitano chiamava Dio con il nome generico di ‘Elohim’ (gli dèi)
[“Àlzati, invoca il tuo Elohim! Forse Elohim si darà pensiero di noi e non periremo” (1,6)], ma
dopo che Giona si è dichiarato colpevole e quindi responsabile della grande tempesta, quei
marinai pagani iniziano a pregare Dio con il nome di YHWH: “Ebbero un grande timore di
YHWH, offrirono sacrifici a YHWH e gli fecero voti” (1,16).
Giona fugge dalla vocazione, ma durante quella fuga inizia a compierla. Quando osserviamo le
dinamiche delle vocazioni vere, religiose e laiche, ci accorgiamo che il paradosso di Giona è più
comune di quanto pensiamo. Si fugge da un convento, da una comunità, da un lavoro, da una
famiglia, ognuno scappa per una ragione diversa, ma tutti scappano perché non riescono a non
farlo. Si parte nella direzione opposta pur di non morire, e mentre si va per non fare quanto
dovremmo fare, ci si ritrova, senza volerlo né saperlo, a realizzare qualcosa di molto simile, se
non identico, a ciò da cui stavamo fuggendo. Avevamo lasciato tutto e partiti per seguire una
chiamata, e un giorno sentiamo di dover partire di nuovo ma nella direzione opposta. Ci
imbarchiamo verso Tarsis, ‘lontano dal Signore’, e in quel contro-viaggio ci ritroviamo finalmente
ad occuparci di poveri, di umanità, a prenderci cura di sofferenze di uomini e donne. Eravamo
fuggiti da una vita, ma quella stessa vita ci aspettava lungo un’altra strada, e non lo sapevamo.
Queste vocazioni compiute nella direzione opposta sono molto dolorose, ma hanno anche una
loro tipica bellezza legata alla gratuità. Nelle vocazioni che si compiono nelle strade ordinarie e
battute ci sono molte cose belle e buone ma può mancare la bellezza di questa gratuità, quella
che nasce dalla rinuncia al volontarismo, quella dove i frutti non arrivano perché li abbiamo
cercati e voluti: arrivano e basta, spesso nonostante noi. E chi si incontra con questa gratuità
sperimenta una leggerezza speciale, quella liberata dall’obbligo di riconoscenza, perché i frutti e
le conversioni accadono al di fuori del registro delle intenzioni: succedono e basta, tutto è
davvero solo grazia. Se la vita fosse soltanto lo sviluppo di uno spartito scritto da noi o da
qualcuno perché noi lo suonassimo, il mestiere del vivere sarebbe estremamente monotono e
noioso; e invece è bellissimo perché il bivio decisivo era un altro da quello che avevamo
sbagliato, l’appuntamento più importante era diverso da quello che avevamo perso, i frutti più
buoni e saporiti non erano quelli rimasti avvizziti sull’albero che avevamo abbandonato ma
quelli che nasceranno nella terra del non-ancora messa a maggese.
“Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del
pesce tre giorni e tre notti” (Giona 2,1). Ma … Ecco un’altra bellissima congiunzione avversativa
di questo libro, che questa volta non riguarda Giona ma Dio. I marinai hanno compiuto il loro rito
di ‘capro espiatorio’, hanno gettato Giona sul volto delle acque per alleggerire la nave dalla sola
vera zavorra che, a detta loro e di Giona, stava facendo affondare l’imbarcazione. Il lancio di
Giona placa la tempesta, l’equipaggio si convince della verità del loro nesso causale e
rafforzano le loro credenze sbagliate sulla vita e su Dio - la terra è piena di credenze errate alle
quali viene dato un crisma religioso. Ma Dio interviene a salvare Giona, disponendo che un
grande pesce lo inghiottisse, un inghiottimento che contiene una salvezza. Un grande pesce
che ha ispirato moltissima arte e molta letteratura, dalla Balena Moby Dick al Pesce-cane di
Pinocchio, un pesce che nella cultura popolare è diventato più famoso e familiare dello stesso
Giona.
Questi ‘tre giorni e tre notti’ hanno generato nei secoli innumerevoli letture allegoriche
rabbiniche (Midrash di Giona) e cristiane. Per Matteo (12,39) il ‘segno di Giona’ menzionato da
Gesù sono questi tre giorni e notti nel ventre del pesce, prefigurazione della sua morte e
resurrezione, e per Gregorio di Nissa questo episodio è "il segno più chiaro tra quelli profetici”
(Migne (PG) 46, 604). Un dettaglio. La parola ‘pesce’ compare al maschile (dag) nei versetti 1 e
11 del capitolo secondo, mentre nel versetto 2 lo troviamo al femminile (daga). I commentatori
antichi hanno cercato di interpretare nei modi più vari il cambiamento di genere del pesce che
troviamo nel testo ebraico. Ne aggiungo un’altra.
Quando il lettore biblico arriva alla scena di Giona gettato sulle acque in tempesta, e lì si
imbatte con un ‘grande pesce’, l’ambientazione lo porta a vedere in quel pesce un ulteriore
elemento di morte. Pensa immediatamente al Leviatan, il mostro marino che troviamo nei Salmi
(104,26), in Isaia (27,1) e in Giobbe (40,25). Il testo ebraico usa per ‘pesce’ il maschile dag solo
all’inizio e poi alla fine, quando quel mostro ‘vomita’ Giona sulla terra ferma. Ma quando Giona
dopo essere stato lasciato in pasto al mare si ritrova vivo nel ‘ventre’ del grande pesce, il
contesto cambia. Lì il pesce diventa buono, Giona fa l’esperienza di un grande pesce di
salvezza. Quel ventre diventa un luogo di vita, di salvezza, di approdo, di posizione fetale: ecco
il cambio di genere, dag diventa daga.
Per comprenderlo meglio, ci aiuta un versetto del Salmo 37: “La tua sorte aggomitola tutta
intorno a Dio” (37,5). Il verbo ebraico usato dal Salmo è galàl, che come ci ricorda Guido
Ceronetti (Il libro dei Salmi) rimanda ad un avvolgimento, un gomitolo, un arrotolamento,
richiama il bozzolo del baco, ‘la nube di zucchero filato attorno alla stecca’, il rannicchiarsi del
feto nel ventre materno. Giona, salvato dalla morte, forse per il suo autore fa la stessa
esperienza del salmista, l’esperienza del sentirsi dentro un gomitolo, delle viscere materne di
Dio, di un grembo di donna. Il significato e la forza metaforica del grembo dei maschi non sono
quelle del grembo delle madri. Infatti, le viscere, grembo, (rhm) sono alla base della parola
ebraica che noi traduciamo con misericordia rehem/rehamîm: “Si dimentica forse una mamma
del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?” (Isaia 49,15). I
vangeli useranno la parola greca equivalente (splanchnízesthai) anche per Gesù che si
commuove, per il buon samaritano o per il padre misericordioso del figliol prodigo, ma il modello
restano le viscere materne anche quando ad essere misericordiosi siamo noi maschi - e
qualche volta sappiamo esserlo. Quell’antico scrittore ebreo sapeva che il ventre che ingoia il
cibo non è il ventre che custodisce la vita, e per dirlo, forse, ha cambiato genere a quel grande
pesce; e noi non dobbiamo perdere il senso si quella lettera aggiunta (dag-daga), perché nei
dettagli si nasconde spesso una presenza di Elohim, non solo del demonio.
In questo ventre buono, caldo e materno, Giona fa una esperienza nuova: Giona prega. E lo fa
con uno dei salmi più belli della Bibbia, che si trova fuori dal Salterio, nascosto in un libretto
sottovalutato sotto il profilo spirituale ed etico. Mentre Giona fa l’esperienza del ventre materno,
lì sente un’altra presenza di Dio, e quindi prega. Precipitato negli abissi, toccato il fondo prima
della nave e poi della vita, salvato da un grembo buono Giona rimpara a pregare. E in questo
gesto ci svela qualcosa di prezioso su cosa è veramente la preghiera nella Bibbia.
Lì, in quel ventre buono, Giona diventa amico di molti salmisti, di Giobbe, di Isaia, di Cristo, e
dei tanti uomini e moltissime donne che hanno imparato a pregare dentro un ventre del grande
pesce della vita ritrovata dopo una morte - propria, di un figlio, di chi amiamo, di Dio. Giona era
fuggito dalla voce di Dio che gli dava un compito, un mandato, un’ambasciata, registri tutti
maschili, da un incontro con il pesce-Dag. Per ricominciare a pregare, Giona aveva dovuto
fuggire, aveva fatto l’esperienza soggettiva della colpa, fino a sentirsi responsabile della
sventura e della morte dell’equipaggio di una grande nave. E dopo la ‘grande città’ di Ninive, la
‘grande nave’ e la ‘grande tempesta’, viene mangiato da un ‘grande’ pesce-dāg; e dentro quel
grande ventre fa l’esperienza di tornare piccolo come un feto, si trova rannicchiato e
aggomitolato dentro un piccolo ventre materno che riconosce essere lo stesso ventre di Dio. È
dal piccolo ventre di Dio che può risorgere la preghiera. Quando la vita ci ha ridotti così piccoli
da passare attraverso la cruna di un ago, dopo aver incontrato il Signore degli eserciti,
l’onnipotente, l’essere perfettissimo creatore del cielo e della terra, può accadere che ci
rannicchiamo finalmente dentro un grembo, dentro un gomitolo. Torniamo piccoli, bambini, e
oltre la cruna scorgiamo un altro Regno. Nella vita si rimpara molte volte a pregare. Si inizia
recitando le preghiere che ci insegnano gli altri, e con queste preghiere buone dei genitori e
delle nonne andiamo avanti per molto tempo. Poi arrivano le preghiere della comunità, quelle
più ricche e colorate, e con queste andiamo avanti per molti altri anni. Finché un giorno
dimentichiamo la lingua di Dio e degli angeli. Ci scordiamo tutte le preghiere, e ci ritroviamo su
una nave che ci porta nel luogo sbagliato, e lo sappiamo bene. In quel viaggio pensavamo di
morire e invece siamo ancora vivi. Ci ritroviamo dentro un luogo diventato piccolissimo, e
scopriamo che non avevamo dimenticato tutte le preghiere: ce ne restava ancora una, quella
più semplice di quando eravamo piccoli. Con quella tessiamo il nostro bozzolo, e in quel
gomitolo riconosciamo il grembo materno di Dio. Quella di ieri non era la fine della preghiera,
era solo una morte che preparava la resurrezione del terzo giorno.
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Nel ventre della parola/5 - Comprendere ciò che Dio fa per noi e imparare di nuovo a pregare
di Luigino Bruni
La gratitudine spirituale è un bene capitale delle persone e delle comunità. All’inizio ci viene
trasmessa per osmosi dai genitori e dai nonni, e diventa quella postura esistenziale che porta
ad attribuire le componenti più importanti dei nostri doni e talenti alla generosità della vita, alla
provvidenza, a Dio. È un invito delicato e forte a tenere aperto nel tetto della casa dell’anima un
foro verso il cielo per poterlo indicare con la mano quando qualcuno ci loda per le nostre buone
azioni - ‘non io, ma Dio …’. È l’atteggiamento opposto a quello proposto oggi dalla meritocrazia,
che ci spinge invece a leggere i nostri successi (e gli insuccessi degli altri) come frutto esclusivo
dei nostri meriti (e dei loro demeriti) - l’ingratitudine di massa è la prima nota delle società
meritocratiche.
“Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio, e disse: «Nella mia angoscia ho invocato
il Signore ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia
voce. Mi hai gettato nell’abisso… Io dicevo: «Sono scacciato lontano dai tuoi occhi». … Ma tu
hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore, mio Dio... Ma io con voce di lode offrirò a te un
sacrificio e adempirò il voto che ho fatto; la salvezza viene dal Signore»” (Giona 2-10). Fatta
l’esperienza del grembo caldo di Dio che lo ha accolto e salvato, lì Giona prega. Il testo ci dona
una preghiera sotto forma di salmo, un genere letterario molto importante e amato nella Bibbia
(e anche al di fuori di essa). È composta sulla base di citazioni di molti Salmi (16, 69,88,89,120),
e vi ritroviamo la stessa bellezza e forza spirituale. L’autore immagina Giona orante dopo che è
stato già salvato, mentre ricorda e loda Dio per la salvezza ottenuta.
Dentro il grande pesce Giona rimpara a pregare - se era un profeta sapeva già pregare. Allora
in questo salmo possiamo trovare una grammatica dell’arte di ricominciare a pregare dopo una
grande prova che ci aveva tolto la fede o che ci aveva tolto la preghiera, o entrambe - sulla terra
ci sono fedi senza preghiere e preghiere senza fede, entrambe esperienze quasi sempre
pienamente umane, non meno spirituali e vere di molte preghiere di credenti.
Giona inizia a pregare perché riconosce Dio come la causa della sua salvezza dalle acque. Lo
riconosce come liberatore dai flutti marini e dall’inferno morale dove era caduto partendo in
direzione ostinata e contraria a quella buona. Riconosce Dio come liberatore, lo chiama quindi
con il suo primo nome biblico, perché il Dio della Bibbia è molte cose, ma prima e sopra tutto è
un liberatore da ogni forma di schiavitù, un donatore di libertà. Giona in quel grembo fa dunque
una esperienza di libertà donata. Nel repertorio delle libertà umane ce sono alcune che sono
frutto di auto-liberazione, esito di un cammino individuale faticoso e arduo che si conclude con
l’uscita dal baratro. Ma ce ne sono altre, e sono le più numerose, dove la libertà è liberazione,
quando ad un certo punto, quasi sempre quando avevamo perso le ultime speranze, arriva una
mano, visibile o invisibile, che dall’altra parte delle acque abbassa per noi “il ponte levatoio” (J.
Taubes), per annunciarci che quella schiavitù è terminata. In quel ventre buono e femminile
Giona fa l’esperienza di questo secondo tipo di libertà-liberazione, e quindi ricomincia a pregare
- forse preghiamo poco perché non riusciamo più a vedere una mano dietro il sollevamento dei
ponti levatoi delle nostre prigioni. C’è Dio all’inizio della preghiera e della lode, lo sappiamo. Ma
se noi non riusciamo a riconoscere la presenza e l’azione di Dio in quell’atto di salvezza, non
scatta alcuna riconoscenza-gratitudine. Per ritrovare (o trovare) la fede e quindi ricominciare a
pregare non basta il fatto oggettivo della salvezza: c’è bisogno dell’esperienza soggettiva che ci
fa associare quel fatto ad una presenza spirituale. La fede è un bene relazionale: vedere una
presenza, riconoscerla, e infine chiamarla per nome: “Rabbunì”. Anche per questa ragione Dio
ha bisogno di noi e della nostra libertà, perché senza il nostro riconoscimento il logos non riesce
a farsi nostra carne. Mi piace immaginare la presenza di Dio nel mondo come qualcuno che
attende mite e in silenzio, spera e prega che prima o poi riusciamo a individuare la sua mano
dietro le nostre porte, e anche se non ci riusciamo, rimane lì, in un altro stabat: “Ecco, io sto alla
porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui
ed egli con me” (Ap 3,20).
Mentre (e siamo al secondo movimento della preghiera) Giona riconosce la mano di Dio-
YHWH in quella liberazione straordinaria, dal riconoscimento nasce la riconoscenza. Giona
diventa grato. Il riconoscimento è il padre, la riconoscenza-gratitudine è la figlia. La gratitudine è
una parola prima dell’esistenza, è impossibile crescere e vivere senza praticarla almeno un po’.
Ma la gratitudine di Giona è diversa: quel riconoscimento di salvezza gli genera la gratitudine
spirituale verso Dio. Ci sono molte persone grate, capaci di riconoscenza, senza vivere né
conoscere la gratitudine verso Dio, e questa mancanza non riduce il valore etico della loro
gratitudine umana. Affinché la gratitudine spirituale che all’inizio ci viene donata possa durare
nel tempo della vita adulta, c’è bisogno che diventi esperienza di salvezza durante una ‘grande
tempesta’, quando al termine di una lotta notturna l’angelo ci benedice e ci cambia nome - nel
combattimento di Giona ci sono molti suoi amici biblici, e tra questi Giacobbe-Israele. In
francese ‘riconoscimento’ e ‘riconoscenza’ sono la stessa parola: reconnaissance.
Importante poi è il versetto al centro del salmo di Giona: Mi hai gettato nell’abisso. Perché
Giona attribuisce a Dio il suo precipitare nell’abisso, perché lo rende responsabile anche della
sua sventura? Il testo finora ci ha detto esattamente il contrario: è Giona che aveva disubbidito
a Dio e invece di recarsi a Ninive si era imbarcato verso Tarsis, dove durante la tempesta venne
gettato in mare come ‘capro espiatorio’ sacrificato per salvare i marinai. Da dove gli nasce
questo brano di preghiera? Qualcuno ha voluto vederci un tono ironico - non condivido la lettura
del libro di Giobbe come testo ironico, per me è molto di più. Occorre provare a cercare altrove
una possibile spiegazione.
Se leggiamo Giona dalla prospettiva sapienziale dei Salmi e di Giobbe, capiamo che dentro
questo orizzonte spirituale nulla di quanto ci succede è fuori dalla volontà di Dio. Associare
YWHW anche alle disgrazie nostre e quelle degli altri, anche quelle assurde, è stato il ‘costo’
che l’umanesimo biblico ha dovuto sostenere per non dissociare Dio dalla storia umana e dalle
nostre storie quotidiane, facendone un dio innocuo e banale. Perché, per la Bibbia, se Dio non è
dietro-dentro a tutto non è dietro-dentro a nulla - Giobbe riesce a salvare la sua fede accusando
Dio per la sua sventura incolpevole. Allora se spingiamo fino in fondo questa tesi radicale e
affascinante, dobbiamo dire che Dio era anche dietro il no di Giona, senza negare che Giona
fosse veramente libero nel disubbidire. Giona ha scelto liberamente di non obbedire al comando
di YHWH: non è stato Dio a dirgli di andare a Tarsis e di imbarcarsi su quella nave, lo ha deciso
lui. Ma Giona-profeta sente, una volta salvato, che c’era una volontà più profonda della sua
libertà che aveva voluto quella disobbedienza. Giona fa dunque una esperienza simile, sebbene
simmetrica, a quella di Giuseppe con i suoi fratelli. Dopo che loro lo avevano venduto ai
mercanti ismaeliti, Giuseppe si ritrova vivo e potente, salva i suoi fratelli in Egitto, li riconosce, li
perdona e alla fine dice loro: “Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto
quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui” (Gn 45,5). Erano stati i suoi fratelli a venderlo; ma
Giuseppe sente che ad un livello più profondo quella ‘cacciata da casa’ era dentro un processo
d’amore più grande e che gli si svela in pienezza solo alla fine.
Non è raro che nella vita di chi segue onestamente una voce si ripeta questa esperienza di
Giona (e di Giuseppe). Si riceve una chiamata, si risponde, si parte, si comincia un cammino.
Un giorno, ognuno con una ragione diversa (e simile), sente che deve cambiare direzione. Parte
in senso contrario, si ritrova sulla nave sbagliata. Si scatena una tempesta, si sente la morte
vicina, ma nel fondo dell’abisso e dell’inferno una mano ci raccoglie e ci salva. Tra le tante cose
che capiamo in questa discesa negli inferi e ritorno, c’è anche la consapevolezza che in quel
partire libero c’era qualcuno o qualcosa che ci aveva cacciati - ‘Sono scacciato lontano dai tuoi
occhi’. Capiamo, realmente, che non eravamo partiti, fuggiti, scappati: eravamo stati cacciati
via. Un primo livello di analisi ci porta subito ad individuare i colpevoli di quella cacciata in
persone ed eventi precisi, e questa fase è dolorosa e difficile, generatrice di molta rabbia e
veleno. Ma se siamo capaci di spingerci fino in fondo, possiamo raggiungere un altro piano di
verità. In un altro giorno, magari in un grembo buono, ci accorgiamo che, senza saperlo né
volerlo, quelle persone che ci avevano cacciato mentre noi pensavamo di essere fuggiti
liberamente (ed era anche vero) stavano recitando una parte di un copione che qualcuno aveva
scritto per loro. Per trovare questo secondo piano del mondo non c’è un bisogno necessario
della fede, di credere che quel qualcuno sia Dio - è una ipotesi utile ma non assolutamente
necessaria (se così fosse, troppe persone sarebbero condannate ad una triste rabbia eterna).
Si esce da lunghe e dolorose prove dell’esistenza se e quando un giorno, un benedetto
luminoso giorno, riusciamo a riconoscere una mano buona dentro le vicende che ci hanno
complicato e qualche volta rovinato la vita. Una mano che sentiamo vera, oltre le auto-
consolazioni, vera come e più della nostra scelta di partire. E quella verità, finalmente, ci fa liberi
di un’altra libertà più grande. È tutta gratuità. Inizia la primavera più bella, qualche volta si
rimpara anche a pregare.