recente riproposto al pubblico in una nuova edizione, in concomitanza anche con l’uscita dell’omonimo film girato da Andréas Muschietti (che a dieci giorni dall’uscita ha già battuto diversi record ai botteghini). Una prima osservazione è d’obbligo. Che sia per una trovata commerciale o per altro, l’horror dello statunitense ritorna in libreria esattamente trent’anni dopo la prima pubblicazione: gli stessi anni, cioè, che nel romanzo King fa correre tra un’apparizione del clown Pennywise e l’altra. La serialità, oggigiorno, non è di certo una novità; ma questa ciclicità che sovrappone il piano letterale a quello della realtà è stata sicuramente un escamotage d’effetto, coinvolgente e perché no, anche un po’ inquietante. Rimane il fatto che IT continua ad affascinare e spaventare, scongiurando il rischio, sovraccaricato da anni di film e serie tv, di annoiare. Le ragioni di questo successo sono numerose. Non ultima una prospettiva politica del testo (le paure dei bambini personificate di volta in volta da IT possono essere visti come i grandi mali dell’America: l’integrazione, il razzismo, il femminismo, il sistema sanitario, l’accesso alla cultura ecc.; peraltro la vicenda di IT è spalmata in due tempi, proprio come due sono stati i mandati di Reagan…). È comunque difficile esaurire in poche righe la complessa rete tematica e narrativa che si dirama nelle 1300 pagine di IT. La storia è ormai nota: la cittadina di Derry è presa di mira da un clown assassino che ogni trent’anni rispunta fuori dalle fogne per quietare la sua fame di sangue. La vicenda di Pennywise si intreccia con quella di un gruppo di giovani adolescenti nel biennio ’57-‘58, scampati ognuno a suo modo dalle grinfie del mostro. Proprio il Club dei Perdenti, capeggiato da Bill e dalla sua sete di vendetta verso il clown che ha ucciso il fratellino, cercherà in tutti i modi di sconfiggere Pennywise: anche quando, trent’anni dopo, ormai uomini e donne in carriera con famiglie al seguito, il mostro tornerà a perseguitare la loro vecchia Derry. Ma IT non è solo un capolavoro di narrativa. La struttura è solidissima, il linguaggio semplice (ricco di similitudini molto efficaci), i colpi di scena si sprecano; l’uso dell’ellissi temporale è solo in apparenza abusato: se nei primi capitoli infatti può lasciare perplessi, scoraggiando la lettura, King dimostra un maestro nel riportare tutte le cose al loro posto, con una spettacolarità da far venire la pelle d’oca. Ma IT è questo e altro ancora: il testo ripercorre quasi un secolo di storia americana, i suoi problemi, le sue paure. Dal razzismo violento dei primi del Novecento fino all’omofobia degli anni Ottanta, dal femminismo al boom dei grandi romanzi di fantascienza. Insomma, c’è tanto in questo IT. Paure e complessi di giovani ragazzi, tanto cari alla narrativa di King (basti pensare, per dirne uno, a Stand by me), che poi si trasformano in paure e complessi di adulti borghesi e ben inseriti nella società. Il fatto è che un romanzo del genere deve tornare ciclicamente. Penso ai miei genitori e alla loro generazione. Quando uscì il libro avevano grossomodo tra i quindici e i vent’anni (più o meno coetanei dei protagonisti); ho chiesto loro che effetto fa sentirsi parte, trent’anni più tardi, di quello che a tutti gli effetti sembra essere uno scherzo metanarrativo. Su una cosa hanno concordato. «Le paure sono rimaste sempre le stesse; è solo che hanno cambiato forma».