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Il termine “forza elettromotrice” si referisce a un lavoro per unità di carica, e si misura in volt.

Se in un circuito
c’è una forza elettromotrice, allora esiste una forza elettrica che compie lavoro sulle cariche mobili. Quando un
circuito è collegato a un generatore DC, sulle cariche agisce una forza elettrostatica F. Su una piccola carica Δq,
per convenzione positiva scorre dal polo positivo al negativo, F compie il seguente lavoro:

W¿¿

La differenza di potenziale elettrico V ¿¿ -V ¿¿ tra il polo negativo e il polo positivo è


V ¿¿
n
Dato che il campo elettrostatico è conservativo, ∑ E i ∙ Δli non dipende dal percorso tra il polo positivo e il polo
i=l

negativo. La forza elettromotrice ⨍ em di un generatore ideale indica il lavoro per unità di carica che deve essere
speso, per unità di carica, affinché la carica fluisca da un polo all'altro del generatore.
Sappiamo che una forza elettromotrice può essere prodotta anche per induzione elettromagnetica, quando il
flusso di campo magnetico varia. Quindi, nonostante l’assenza di un generatore, su una carica Δq nel circuito
agisce una forza F i che compie lavoro, altrimenti la carica resterebbe in media ferma e non ci sarebbe corrente.
La forza F i è dovuta all’induzione elettromagnetica e per definizione di campo elettrico, corrisponde a un
F
campo elettrico indotto Ei = i . Chiamiamo Ei j il vettore che rappresenta il campo elettrico indotto sul j-esimo
Δq
degli n tratti infinitesimi del circuito, allora:
n
⨍ em =∑ Ei j ∙ Δ l j
j=1

Dato che il circuito è isolato, la sommatoria di questa formula esprime il lavoro per unità di carica compiuto in
un giro intero del circuito. Questa sommatoria però esprime anche la circuitazione Г ( Ei ) del campo elettrico, e
quindi ⨍ em =Г ( Ei )

Quindi, a una forza elettromotrice indotta corrisponde sempre un campo elettrico indotto, e dato che la
circuitazione è diversa da 0, il campo elettrico indotto non è conservativo, e quindi non è possibile definire un
potenziale.
Sapendo ciò, possiamo scrivere la legge di Faraday-Neumann come:
−dΦ(B)
⨍ em =Г ( E ) =
dt
Il segno – esprime la legge di Lenz. In questo modo, la legge di Faraday-Neumann collega direttamente il
campo elettrico e il campo magnetico, senza riferimenti a nessun circuito, il che è più accurato dal momento che
il campo è definito indipendentemente dal circuito.
Quindi un campo magnetico variabile dà origine a un campo elettrico indotto.
Quindi, un campo elettrico può essere generato da cariche elettriche (campo elettrostatico che è conservativo) e
da campi magnetici variabili (campo elettrico indotto che non è conservativo). Le linee del campo elettrico
indotto sono chiuse, quindi senza inizio né fine, invece di quello elettrostatico che va dal polo positivo a quello
negativo.
Prendiamo un condensatore piano ad armature circolari in un istante in cui nei fili ad esso collegati passa una
corrente di intensità i.

Per la legge di Ampere, Г ( B )=μ0 ∙ itot dove i tot è concatenata con la curva L. Per il calcolo di i tot si può scegliere
una superficie piana S1, compresa tra le armature, che non è attraversata da corrente e quindi i tot è nulla; oppure
si può scegliere la superficie S2, una specie di sacchetto che ha lo stesso contorno di L ma interseca i due fili:
allora i tot =i. Perciò la legge di Ampere non è universale, e per ovviare a ciò Maxwell introduce la seguente
legge:
dΦ ( E )
Г ( B )=μ0 ∙[i tot + ε 0 ]
dt

che si chiama legge di Ampere-Maxwell, in cui il flusso Φ ( E ) è calcolato attraverso una qualsiasi superficie
racchiusa dalla linea scelta per la circuitazione Г ( B ), e in cui la corrente di spostamento è:

dΦ ( E )
i s=ε 0 ∙
dt

È necessario definire una corrente di spostamento nel momento in cui è necessario distinguerla dalla corrente di
conduzione che è quella che dovuta al normale flusso di cariche.
Nel condensatore dell’esempio, il campo elettrico E è presente solo dentro il sacchetto ed è perpendicolare alle
armature.
δ q
Sappiamo che se il condensatore è nel vuoto, E= = dove δ è la densità superficiale di carica
ε0 ε0 A
dell’armatura positiva. Da ciò deriva:
q q
Φ ( E )=EA= ∙ A=
ε0 A ε0

Detto ciò, sappiamo che la corrente di spostamento è


q
d( )
dΦ ( E ) ε0 dq
i s=ε 0 ∙ =ε 0 ∙ = =i.
dt dt dt
E quindi nello spazio compreso tra le armature di un condensatore, la corrente di spostamento è uguale alla
corrente di conduzione che scorre nel circuito di cui fa parte il condensatore, il che dimostra che la legge di
Ampere-Maxwell descrive la circuitazione del campo magnetico lungo la linea L senza ambiguità: se
consideriamo L come contorno della superficie S1, Г ( B )=μ0 ∙ [ itot +i s ] =μ 0 ∙ i tot perché per la superficie non passa
nessuna corrente di conduzione e la corrente di spostamento è i s=i ; se consideriamo L come contorno di una
superficie curva che interseca il circuito, Г ( B )=μ0 ∙ i perché in questo caso i tot è uguale a i e i s è nulla.

Come la corrente di conduzione, anche la corrente di spostamento è sorgente di un campo magnetico. Dato che
a sua volta la corrente di spostamento è dovuta alla variazione del campo elettrico, allora un campo elettrico
variabile genera un campo magnetico indotto.

Le equazioni di Maxwell
La prima delle equazioni di Maxwell è la legge di Faraday-Neumann:
−dΦ(B)
Г ( E)=
dt
che ci dice che il campo elettrodinamico non è conservativo e descrive l’induzione elettromagnetica, secondo
cui un campo magnetico variabile induce un campo elettrico.
La seconda è la legge Ampere-Maxwell:
Г ( B )=μ0 ¿

che ci dice che la corrente di spostamento contribuisce alla circuitazione del campo magnetico così come la
corrente di conduzione.
Gli altri due sono i teoremi di Gauss:
q
Φ ( E )=
ε0

Φ ( B )=0

Le equazioni di Maxwell fondano la teoria dell’elettromagnetismo. Quando il campo magnetico e elettrico sono
statici, nella descrizione del circuito campo elettrico e magnetico sono due entità distinte, descritte dalle formule
q
Φ ( E )= e Г ( E ) =0 per il campo elettrostatico (che si ha solo in presenza di cariche statiche) e Φ ( B )=0 e
ε0
Г ( B )=μ0 ∙ itot per il campo magnetico statico (che si ha solo in presenza solo di corrente continua). In generale
però, i due campi non sono statici e perciò devono essere studiati in concomitanza tra loro come un unico ente
chiamato campo elettromagnetico.

Le onde elettromagnetiche
Se una carica elettrica oscilla avanti e indietro, genera un campo elettrico variabile, perché la carica accelera di
continuo tra i due sistemi di oscillazione; genera un campo magnetico variabile perché l’oscillazione della
carica rappresenta una corrente alternata. La carica oscillante crea attorno a sé, ad esempio nel punto P1, un
campo elettrico variabile e uno magnetico variabile, che generano un campo magnetico variabile e uno elettrico
variabile in un altro punto P2, che creano un campo elettrico indotto e uno magnetico indotto in un punto P3, e
così via. In questo modo, il campo elettromagnetico si propaga anche nel vuoto e diventa a tal punto un’onda
elettromagnetica. Un’onda elettromagnetica trasporta energia e continua a propagarsi anche dopo che la carica
accelerata che l’ha prodotta smette di muoversi.
Maxwell dimostrò che le onde elettromagnetiche si propagano nel vuoto alla velocità
1
c=
√ ε0 ∙ μ 0
che è la velocità della luce. Si dimostrò quindi che la luce è un’onda elettromagnetica.

Lo spettro elettromagnetico
Lo spettro elettromagnetico è l’insieme delle frequenze o lunghezze d’onda delle onde elettromagnetiche.
Lo spettro elettromagnetico è diviso in intervalli che però non hanno confini ben definiti. La divisione di questo
spettro è determinata dalla frequenza delle onde ma anche dalla sorgente e dall’utilizzo.
I raggi gamma, i raggi X e gli ultravioletti sono radiazioni ionizzanti, perché capaci di strappare gli elettroni agli
atomi. Sono nocivi per gli esseri viventi, perché possono rompere i legami delle biomolecole.
Il resto dello spettro sono radiazioni non ionizzanti, che scaldano la materia che le assorbe. I danni alla salute
delle radiazioni non ionizzanti non sono scientificamente provati, ma la normativa italiana impone comunque
un limite di 6 N/C al campo elettrico effettivo di queste onde nelle aree abitative e nei luoghi di lavoro.
Le onde radio hanno lunghezza d’onda compresa tra 10 cm e 10 km e sono usate nelle telecomunicazioni. Le
loro sorgenti sono correnti che oscillano nelle antenne e quando raggiungono un’antenna ricevente, creano al
suo interno correnti indotte. Queste onde sono classificate in onde medie, con lunghezza d’onda di qualche
centinaio di metri, che raggirano edifici e piccole colline ma non montagne; onde corte, con lunghezza tra 200 e
10 m, che si trasportano informazioni su lunghe distanze e sono riflesse dalla ionosfera per rimbalzare su tutto il
pianeta. Per le trasmissioni televisive si usano onde con lunghezza nell’ordine del metro, che sono bloccate
anche da ostacoli piccoli e perciò necessitano di tanti ripetitori. Le onde radio fanno parte anche dello spettro di
onde che arrivano dallo spazio, che sono captate dai radiotelescopi.
Le microonde hanno lunghezza d’onda tra 1 m e 1 mm e sono usate nella telefonia mobile e come segnali radar.
Sono anche facilmente assorbibili dalle molecole d’acqua, per cui sono usate per scaldare gli alimenti perché si
allineano le molecole rispetto ai loro poli col campo elettrico e trasmettono le proprie oscillazioni alle molecole,
che si agitano e trasmettono energia alle molecole circostanti con gli urti.
La radiazione infrarossa ha lunghezza d’onda tra 1 mm e 700 nm, ed è il tipo di radiazione prevalente che i
corpi assorbono ed emettono a temperatura ambiente. I telescopi a infrarossi osservano questa porzione dello
spettro per determinare nubi e altri grandi agglomerati di materia che differiscono per temperatura dalla materia
circostante.
La radiazione visibile ha lunghezza d’onda compresa tra 750 nm (rosso) e 380 nm (violetto).
La radiazione ultravioletta ha lunghezze d’onda tra 400 nm e 10-8 m. Favorisce alcune reazioni chimiche come
la sintesi della melanina ma può essere anche dannosa.
I raggi X hanno lunghezza d’onda tra i 10-8 m e i 10-12 m e sono prodotti in speciali tubi a vuoto dall’urto di
elettroni ad alta energia contro bersagli metallici. Sono usati in medicina perché sono assorbiti di più dai tessuti
densi che da quelli molli creando un’immagine di contrasto che permette di vedere attraverso l’organismo. Se
assorbiti in quantità troppo elevate possono nuocere alla salute.
I raggi gamma hanno lunghezza d’onda minore ai 10-12 m e sono emessi sia da atomi spontaneamente
radioattivi che da sistemi artificiali come quelli di un acceleratore di particelle. Sono più penetranti dei raggi X
e richiedono diversi cm di piombo per essere bloccati. Sono pericolosi per i danni che possono provocare alle
cellule ma per questo vengono usate per il trattamento dei tumori o per la sterilizzazione degli strumenti
chirurgici.

La relatività
Abbiamo visto che la velocità luce è una costante che dipende da due costanti (la costante dielettrica e la
permeabilità magnetica). La velocità della luce non dipende dal sistema di riferimento scelto perché si propaga
sempre alla stessa velocità. Se una palla viene lanciata a 10 m/s da una macchina che va a 30 m/s, si muoverà a
40 m/s, invece la luce rimarrà costante indifferentemente dalla velocità iniziale della sua sorgente.
La velocità c della luce si definisce quindi un’invariante, ovvero una grandezza che non dipende dal sistema di
riferimento in cui è misurata.
A questo punto la meccanica classica si poneva in contraddizione con le teorie dell’elettromagnetismo, e per
provare a ovviare al problema si ipotizza l’esistenza di un etere luminifero. Nonostante le equazioni di Maxwell
non pongano condizioni per un mezzo di propagazione della luce, che quindi poteva propagarsi anche nel vuoto,
l’etere sarebbe quindi un mezzo presente ovunque nell’universo attraverso cui si propaga la luce. Ammettendo
l’esistenza dell’etere, le leggi dell’elettromagnetismo dovevano valere solo in un sistema di riferimento in cui
l’etere era in quiete, e solo in questo sistema di riferimento c sarebbe costante (rimanendo variabile nei sistemi
galileiani).

L’esperimento Michelson-Morley
I due scienziati ebbero l’idea di misurare la velocità della luce rispetto all’etere e poi rispetto alla Terra secondo
un’idea originariamente esposta da Maxwell stesso.
Usarono un interferometro, cioè un dispositivo che divide in due un fascio di luce viene diviso in due e compie
due cammini diversi, per poi essere risovrapposto in un unico fascio producendo interferenza. L’interferenza si
origina dal fatto che i due fasci sono uguali ma sfasati (hanno diversa fase iniziale) perché hanno percorso
cammini differenti.
Alla fine, entrambi i fasci arrivano sullo schermo S, su cui si forma una figura di interferenza costituita
dall’alternanza di frange chiare e scure.
Se l’etere esiste e il Sole è inerziale rispetto all’etere, e la Terra, che ruota attorno al sole con velocità v , ha
velocità v rispetto all’etere.
-Considerando la propagazione della luce in direzione parallela a v , secondo la relatività galileiana, la
velocità con cui la luce va da H ad A sarà (c−v ) e tornerà indietro con velocità ( c + v ).

Secondo la meccanica classica quindi, la velocità della


luce rispetto al laboratorio sarà quindi minore quando il
vento d’etere è contrario e maggiore quando il vento
d’etere è favorevole.
Nel sistema di riferimento del laboratorio l’etere ha
velocità −v e quindi scorre da A a H ostacolando la
luce all’andata ma sospingendola al ritorno. Quindi
secondo la meccanica classica, il tempo necessario alla
luce per percorrere avanti e indietro il braccio HA sarà:

l l l(c−v +c +v ) 2 lc 2l 1
Δ t 1= + = = = ∙
c−v c +v c 2−v 2 2 v2
c v2
c (1− 2
) 1− 2
c c

-Considerando la propagazione della luce in direzione perpendicolare a v , la velocità u della luce rispetto
alla Terra sarebbe la differenza vettoriale
della sua velocità c rispetto all’etere e
della velocità −v dell’etere rispetto alla
Terra.
Considerando 2 2 2
u =c −v
Il braccio HB sarà percorso con una velocità di modulo u in entrambi i versi e con lunghezza l . Quindi in questo
caso il tempo di andata e ritorno della luce è:
2l 2l 2l 1
Δ t 2= = = ∙
√ c −v
√ √
2 2
2 v 2 c v2
c (1− 2 ) 1− 2
c c
Nella figura di interferenza sullo schermo dell’interferometro, le frange assumerebbero una posizione che
dipende dalla differenza Δ t 1− Δ t 2, perché da essa dipende la differenza delle fasi.

( √ )
2l 1 1
Δ t 1− Δ t 2= 2

c v v2
1− 1− 2
c2 c

Ammesso che la velocità v del vento d’etere sia uguale a quella della velocità della Terra rispetto al Sole, il suo
2
v
valore è di circa 3∙10 m/s. perciò 2 è molto minore di 1 (circa 10-8 m/s). Dalla formula precedente si nota che
4
c
2 2
v v
se 2 =0, il numero tra parentesi è nullo e Δ t 1= Δ t 2. Ma secondo l’ipotesi di Michelson e Morley, 2 , seppur
c c
molto piccolo, era diverso da 0, e il loro interferometro era in grado di misurare questa differenza.
Montarono l’interferometro su una spessa lastra di granito e lo posero a galleggiare sul mercurio per schermarlo
dalle vibrazioni. Lo fecero poi ruotare di moto lento e uniforme attorno al centro, rilevando allo stesso tempo la
posizione di una frangia nella figura di interferenza.

Durante la variazione, la differenza Δ t 1− Δ t 2 sarebbe dovuta variare con continuità facendo variare la frangia.
Ma né in questo esperimento né nei successivi esperimenti simili la frangia si mosse, dimostrando di fatto
l’inesistenza dell’etere luminifero, e di conseguenza una soluzione all’incompatibilità tra meccanica classica ed
elettromagnetismo doveva essere ripensata da capo.

Il lavoro di Einstein
La contraddizione tra meccanica classica ed elettromagnetismo aveva portato la fisica classica a una crisi.
Albert Einstein propose di rifondare la fisica su due principi: la relatività ristretta, secondo cui le leggi e i
principi della fisica hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali; e il principio di invarianza
della velocità della luce, secondo cui la velocità c della luce nel vuoto è la stessa in tutti i sistemi di riferimento
inerziali indipendentemente dal moto del sistema o da quello della sorgente luminosa.
Il principio della relatività ristretta è introdotto per distinguerla da quello di relatività generale di Einstein. Per
Galileo le leggi della meccanica erano indipendenti dal sistema inerziale in cui si applicano, mentre Einstein
estende il concetto a tutta la fisica e non solo alla meccanica.
La simultaneità
Chiamati E1 ed E2 due eventi che hanno luogo in due punti P1 e P2, essi sono simultanei se i segnali luminosi
da essi prodotti giungono nello stesso istante in un punto M equidistante da P1 e P2 , perché la luce avendo
velocità costante impiega la stessa quantità di tempo a percorrere due distanze uguali.
Consideriamo un treno che si muove a grande velocità rispetto a un osservatore O1 fermo a terra. Un secondo
osservatore O2 si trova a bordo del treno ed entrambi sono a metà strada tra due punti A e B in cui, a terra,
esplodono due petardi (non si sa ancora se simultaneamente). Le due esplosioni lasciano segni di bruciatura sui
binari e sul treno: quindi O1 e O2 possono entrambi localizzare i punti A e B delle esplosioni e verificare che le
proprie posizioni, in cui si trovavano quando hanno visto la luce dei petardi, erano equidistanti dai due punti.
Supponiamo che i due fronti d'onda luminosi emessi dai petardi giungano a O1 assieme. Allora, poiché
l'osservatore a terra è equidistante da A e B, per lui le due esplosioni sono simultanee.
Inoltre, O1 può misurare che l'osservatore O2 si avvicina al fronte d'onda emesso nel punto B, che si trova verso
la testa del treno, e si allontana dal fronte d'onda emesso nel punto A, posto verso la coda. Così, dato che
entrambi i fronti d'onda si muovono a velocità c, O1 registra che il fronte d'onda da B arriva a O2 prima del
fronte d'onda da A.
La stessa cosa deve essere misurata da O2, perché non è possibile che l'arrivo o il mancato arrivo di un fronte
d'onda dipendano dal sistema di riferimento. Quindi O2 registra prima l'esplosione avvenuta in B e dopo
l'esplosione avvenuta in A: per lui le due esplosioni non sono simultanee.
Nei ragionamenti dei due osservatori non c'è niente di sbagliato, perché entrambi si attengono alla definizione
operativa di simultaneità. Inoltre, niente di speciale distingue il sistema di riferimento del treno da quello dei
binari: in maniera del tutto simmetrica, due eventi che sono simultanei per O 2 non lo sono per O1.
Dobbiamo quindi ammettere che la simultaneità è relativa: due eventi che risultano simultanei in un dato
sistema di riferimento non lo sono in un altro sistema di riferimento, in moto rispetto al primo.

La dilatazione dei tempi


Noi non vediamo mai un orologio come è ora, ma lo vediamo come era quando da esso partiva la luce che ci
entra negli occhi. Quindi, nella teoria che stiamo cominciando a studiare, è necessario stabilire un protocollo per
sincronizzare due orologi posti a una certa distanza tra loro.
Consideriamo due orologi identici e privi di difetti di costruzione, in quiete l'uno rispetto all'altro e separati da
una distanza D. Se a un certo istante il primo di questi orologi emette un lampo di luce, il lampo impiega un
tempo At = D/c per arrivare al secondo.
Perciò diciamo che due orologi, reciprocamente fermi e posti a distanza D, sono sincronizzati se il secondo di
essi, quando riceve il lampo di luce emesso dal primo a un istante t 0, segna il valore
D
t=t 0 +
c

Questa affermazione è in accordo con la definizione di simultaneità data prima. Infatti, quando il lampo di luce
emesso dal primo orologio arriva a metà tra il primo e il secondo, entrambi gli orologi segnano lo stesso orario.
Ciò equivale a dire che, se ognuno dei due orologi emette un lampo di luce in uno stesso istante, un osservatore
a metà strada, fermo rispetto agli orologi, riceve i due lampi simultaneamente.
Quindi, i due orologi sono sincronizzati perché indicano lo stesso orario «simultaneamente», nel senso proprio
del termine.

Supponiamo che un osservatore O2, su una piattaforma mobile, abbia un orologio collegato a una sorgente e a
un sensore di luce. A un certo istante la sorgente emette un lampo luminoso, verticalmente verso uno specchio
posto a distanza d.
Il lampo si riflette e torna verso il basso. Quando il sensore ne rileva l'arrivo, l'orologio si ferma e indica
l'intervallo di tempo Δt impiegato dalla luce nel percorso di andata e ritorno, che ha lunghezza 2 d :
2d
Δt =
c
Per questa misurazione all'osservatore O2 è sufficiente un solo orologio, perché nel suo sistema di riferimento
(la piattaforma) i due eventi che segnano l'inizio e la fine di Δt , cioè l'emissione del lampo di luce e la ricezione
dello stesso lampo dopo che si è riflesso, avvengono nel medesimo punto: quello in cui si trovano l'emettitore, il
sensore e anche l'orologio.
La piattaforma di O2 si muove verso destra con velocità v rispetto a O1, un'osservatrice che è ferma a terra e che,
con i propri strumenti di misura e nel proprio sistema di riferimento (il suolo terrestre), descrive lo stesso
fenomeno. Per O1, mentre il lampo di luce va dalla sorgente allo specchio e dallo specchio al sensore, la
piattaforma si muove verso destra. Perciò la luce percorre una spezzata, che prima sale e poi scende
obliquamente.

Nel sistema di riferimento di O1 sono disposti molti orologi, sincronizzati tra loro e identici a quello di O2. Per
registrare l'istante dell'evento iniziale (l'emissione della luce) e l'istante dell'evento finale (l'assorbimento della
luce), a O1 servono due di questi orologi: uno nel punto A di partenza del lampo luminoso e un altro nel punto C
di arrivo. L'intervallo di tempo Δt ' che per O1 separa i due eventi è la differenza tra le letture dei due orologi.
Rispetto a O1 il lampo di luce percorre
una spezzata ABC, nella quale i segmenti
AB e BC sono congruenti. Dalla figura
precedente osserviamo che AB è
l'ipotenusa di un triangolo rettangolo, di
cateti AH e HB.
Osserviamo inoltre che:
· AB è metà della distanza percorsa dalla luce nell'intervallo di tempo Δt ' ;
· AH è metà dello spostamento compiuto in Δt ' , con velocità v , dalla piattaforma rispetto a O1;
· HB è metà della distanza percorsa dalla luce in At, cioè nell'intervallo di tempo misurato da O 2, nel sistema di
riferimento in cui la luce va avanti e indietro in verticale.
Poiché la luce viaggia sempre alla stessa velocità c, valgono le formule:
1
AB= cΔt '
2
1 '
AH= vΔ t
2
1
BH = cΔt
2

Applicando il teorema di Pitagora: A B2=B H 2+ A H 2, che diventa:


1 2 2 1 2 2 1 2 '2
c Δt ' = c Δt + v Δt
4 4 4
2 2 2 2 2 '2
c Δ t ' =c Δ t + v Δ t

Δ t ' 2 ( c2 −v 2 )=c 2 Δt 2

( )
2
'2 v 2
Δt 1− 2
=Δ t
c

' Δt
Δt =

√ v2
1− 2
c
I due intervalli di tempo Δt e Δt ' , misurati in due sistemi di riferimento diversi per la durata dello stesso
fenomeno, sono differenti. Oltre alla simultaneità, abbiamo così scoperto che anche la durata dipende dal
sistema di riferimento, a conferma del fatto che nella fisica non esiste un tempo assoluto.
Dalla formula ricavata di ricava anche che se la velocità v superasse c , l’argomento della radice diventerebbe
negativo, e quindi la velocità c è un limite insuperabile.
1 1
v γ= =


v √ 1−β
2
Per semplificare i calcoli, introduciamo β= e il coefficiente di dilatazione 2
c 1− 2
c
γ è approssimabile a 1 per valori piccoli di v e tende a infinito per v che tende a c .

Quindi Δ t ' =γΔt

Nell'esempio che ci ha portati alla formula abbiamo studiato la propagazione di un lampo di luce, tra la sua
emissione e il suo assorbimento, in due sistemi di riferimento inerziali: il sistema S solidale con la piattaforma
(rispetto al quale, cioè, la piattaforma è ferma) e il sistema S' solidale con il suolo terrestre. In S il lampo è
emesso e assorbito in uno stesso punto, mentre in S' l'emissione e l'assorbimento avvengono in due punti
distinti.
L'intervallo di tempo Δt tra due eventi, misurato in un sistema di riferimento inerziale S in cui i due eventi
accadono in uno stesso punto, è detto intervallo di tempo proprio o, in breve, tempo proprio.
Poiché γ è maggiore di 1 per ogni valore di v diverso da zero, la formula descrive la cosiddetta dilatazione dei
tempi: l'intervallo di tempo Δt ' tra gli stessi eventi, misurato in un sistema di riferimento inerziale diverso da S,
cioè in un sistema S' in cui gli eventi accadono in due punti diversi, è sempre maggiore del tempo proprio Δt .
Immaginiamo che un'astronave vada da un pianeta a un altro, con velocità v costante rispetto a un sistema di
riferimento inerziale S'. Per l'astronauta, nel sistema di riferimento S solidale con l'astronave, l'evento della
partenza (il passaggio del primo pianeta davanti a sé) e quello dell'arrivo (il passaggio del secondo pianeta)
accadono nello stesso punto. Per lui, quindi, la durata del viaggio coincide con il tempo proprio ed è più breve.
Invece, per un osservatore fermo in S', che registra gli istanti di partenza e di arrivo con orologi sincronizzati, il
viaggio dura di più. Analogamente, l'intervallo di tempo tra un tic e un tac dell'orologio dell'astronauta è minore
per l'astronauta, rispetto al quale l'orologio è fermo, ed è maggiore per il secondo osservatore, rispetto al quale
lo stesso orologio è in movimento. Il secondo osservatore rileva che l'orologio in movimento dell'astronauta
scandisce il tempo con un ritmo più lento di quello degli orologi che sono fermi rispetto a lui.
Questo fenomeno, però, è reciproco. Se un astronauta passa davanti a noi muovendosi rapidamente, e noi
vediamo che il suo orologio va più lento, per lui è il nostro orologio a muoversi e ad andare più lento. Se così
non fosse, il principio di relatività ristretta sarebbe contraddetto.
La dilatazione relativistica dei tempi prevista dalla teoria di Einstein non vale solo per gli orologi, ma per tutti i
fenomeni naturali, compresi le reazioni chimiche e i processi biologici.
Immaginiamo che un astronauta, Bruno, parta all'età di 20 anni verso una stella, viaggiando a velocità v=0 , 95 c
rispetto alla Terra, e che il suo gemello, Carlo, resti a casa. Se, per raggiungere la stella e tornare indietro, Bruno
impiega un tempo proprio Δt =10anni, applicando troviamo che nel frattempo, sulla Terra, sono passati:
' 10
Δt = =32 anni.
√1−0 , 952
Quando i due gemelli si incontrano di nuovo, Bruno ha 30 anni e Carlo ne ha 52. Quindi Bruno, che ha vissuto
sull'astronave dove il tempo è trascorso più lentamente, è rimasto più giovane di Carlo.
La storia dei gemelli è conosciuta come «paradosso» perché in origine era citata per mettere in dubbio la teoria
della relatività. Il paradosso sta nel fatto che per Bruno è la Terra a viaggiare nello spazio alla velocità di 0 , 95 c
e quindi dovrebbe essere Carlo il gemello che resta più giovane: dato che alla fine Bruno e Carlo si incontrano,
uno dei due ragionamenti è corretto e l'altro è sbagliato.
Tuttavia, bisogna riconoscere che il problema non è simmetrico. Infatti, Carlo rimane sempre in un sistema
approssimativamente inerziale (la Terra), mentre Bruno accelera all'inizio del viaggio e, per tornare indietro,
arresta i motori, inverte la rotta e riparte. Perciò il moto di Bruno è soggetto ad accelerazioni e il suo sistema di
riferimento, almeno per una parte del moto, non è inerziale.
Tenendo conto degli effetti delle accelerazioni, è possibile prevedere che Carlo e Bruno, al ritorno di Bruno,
abbiano età differenti e che il gemello rimasto più giovane sia proprio l'astronauta Bruno. Il paradosso dei
gemelli è dunque scientificamente fondato, benché descriva una situazione sorprendente e contraria al senso
comune.
Nel 1971, con l'intento di verificare le previsioni relativistiche, i ricercatori statunitensi Joseph C. Hafele e
Richard E. Keating portarono in volo, su aeroplani di linea, degli orologi atomici al cesio. Al ritorno, dopo
viaggi di tre giorni, questi orologi indicavano sempre tempi diversi rispetto agli orologi «gemelli» rimasti sulla
Terra e le differenze osservate, di alcune decine di nanosecondi, erano in accordo con la teoria.

La contrazione delle lunghezze


Due osservatori in moto relativo non solo misurano intervalli di tempo diversi, ma sono anche in disaccordo
sulle misure di lunghezza.
Ritorniamo all'esempio del treno in corsa e indichiamo con v la sua velocità rispetto ai binari. Un osservatore
O1, ora fermo a terra, ha piantato due paletti lungo i binari e ha misurato la distanza Δx tra di essi.

Nel sistema di riferimento di O1 le coordinate x 1 e x 2 dei paletti, che sono gli estremi di un segmento parallelo
alla direzione del moto del treno, sono costanti nel tempo e tali che Δx=x 2−x 1.

Se Δt ' è l'intervallo di tempo che O1 misura, con i propri orologi sincronizzati, tra l'istante in cui un punto P del
treno passa per x 1 e quello in cui passa per x 2, vale la relazione
'
Δx=vΔ t
Qui usiamo il simbolo Δt ' , con l'apice, per sottolineare il fatto che l'intervallo di tempo misurato da O1 non è un
tempo proprio, poiché è compreso tra due eventi che accadono in punti distinti del sistema di riferimento.
Un secondo osservatore O2, a bordo del treno, vede passare davanti a sé prima un paletto e poi l'altro.
Per O2 il segmento che ha come estremi le posizioni dei paletti è in movimento. Egli, prima di tutto, deve
definire il significato di «lunghezza di un segmento in movimento». La definizione naturale è la seguente: in un
dato sistema di riferimento, la lunghezza di un segmento che si muove di moto uniforme nella direzione
longitudinale si ricava dalla misura del tempo necessario affinché passino per uno stesso punto i suoi due
estremi.

Quindi, la distanza Δ x ' misurata da O2, che vede i paletti muoversi con velocità −v è
'
Δ x =vΔt
Sappiamo che :
'
Δx=vΔ t =vγ ∆ t
∆x
v ∆t=
γ

E quindi:
' ∆x
Δ x =vΔt=
γ
Perciò:

Δx ='∆x
γ
v2
=Δx 1− 2
c √
La lunghezza Δx di un segmento misurata nel sistema di riferimento in cui il segmento è fermo è detta
lunghezza propria.
1
Quindi, poiché il fattore è sempre minore di 1, in un sistema di riferimento in cui lo stesso segmento si muove
γ
longitudinalmente, la sua lunghezza Δ x ' è minore della lunghezza propria.

In altre parole, quando un oggetto si muove rispetto all'osservatore, l'oggetto è più corto, lungo la direzione del
moto, di quando è fermo: per questa ragione il fenomeno descritto è chiamato contrazione delle lunghezze.
Analogamente alla dilatazione dei tempi, la contrazione delle lunghezze è simmetrica. Per un osservatore
qualsiasi, ogni altro osservatore in moto rispetto a lui ha un orologio più lento e un metro più corto. Come non
esiste il tempo assoluto della meccanica classica, scopriamo così che neanche esiste lo spazio assoluto.

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