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Intervista a IL FOGLIO 20-11-2023

“Non è nuovo quello che succede, solo che è più minaccioso”. È una vita che Anselm Kiefer
disegna, dipinge, fotografa, crea e raccoglie rovine, scava tunnel, carbonizza girasoli, impila torvi
prefabbricati metafisici e coltiva un’estetica arsa da paesaggio atemporale, in cui tutto è già
avvenuto o può ancora avvenire sotto la luce nera di qualche astro distante e della mente
artistica che osserva e rappresenta. Un punto d’equilibrio molto concettuale, quello trovato dal
pittore, e di imperituro magnetismo: Kiefer è uno dei più grandi artisti del mondo, se non il più
grande, e il suo rigore, totalmente impermeabile a qualunque civetteria creativa, suscita una
fascinazione enorme, come dimostrano anche le sue quotazioni. Le sue opere, sempre attualissime,
stanno però uscendo dalle iconografie tardo novecentesche per andare a sovrapporsi tali e quali a
certe immagini di rovine e tunnel di nuovo conio e antiche colpe tutt’a un tratto rinverdite.

L’artista tedesco, nato nel 1945 sotto le bombe di fine guerra e puntuale nel ricordare ai suoi
connazionali quello che con tanta efficienza andavano rimuovendo, il “latte nero” che hanno
bevuto, l’antisemitismo – da una poesia dell’adorato Paul Celan, quasi un co-autore, presente
anche questa volta – è passato a rappresentare, plasmare rocce, nei suoi ultimi lavori,
impressionanti per dimensioni e concetto, esposti nella galleria romana di Lorcan O’Neill,
sorprendente angolo di Roma dominato da un glorioso ninfeo tardobarocco e da alcuni ciuffetti di
piantine che si affacciano tra i sanpietrini, pregiato selvaticume lasciato a simulare quella
disinvoltura che nel resto della città è affidata alle vili erbacce. Nel piccolo cortile si avvicina una
comitiva di turisti, tutti annuiscono convinti quando la guida dice “Bernini”, chissà a che proposito,
nessuno nota l’imponente opera di Kiefer in cui quattordici santi avanzano raffigurati da tute un
po’ operaie e un po’ concentrazionarie, poco dopo un cancello che bisogna conoscere per saper
varcare. Poco più avanti una figura femminile – anche qui rappresentata da un abito vuoto, questa
volta dalle forme sognanti, da ballo, e dai colori bruciati – ha un poliedro trasparente al posto della
testa: una “Melancolia” ispirata a Dürer. Che l’estetica di Kiefer conviva magnificamente con quella
classica si era visto a Venezia a Palazzo Ducale l’anno scorso, quando i suoi enormi pannelli
avevano arricchito – strano contrasto o fusione – l’opulenta sala dello Scrutinio con opere che,
secondo le parole di Salvatore Settis, incitano l’osservatore a leggervi “il presagio della loro
distruzione”, come un solstizio, “un attimo fuggente, quello in cui il sole sembra arrestarsi”,
“voltandosi poi immediatamente”. In quelle esposte a Roma c’è una diversa dimensione narrativa,
una presenza umana che attraversa la storia e che ha lasciato tracce dietro di sé, al di là del mito,
come in quelle storie in cui il protagonista si risveglia tutt’a un tratto e si ritrova in mano qualcosa
di quello che pensava fosse solo un sogno.

“Ora sto lavorando al soffitto della mostra di Venezia, lì era dorato, ora faccio una cosa mia,
nella posizione di Michelangelo nella Cappella Sistina”, spiega Kiefer al Foglio mimando la
postura del mal di schiena dopo essere apparso, atletico ed elegantissimo in un completo verde
scuro come la foresta nera da cui viene, tra i suoi ultimi lavori, formazioni rocciose talmente
plastiche da sembrare quasi delle sculture, stagliate su cieli stellati quasi, verrebbe da azzardare,
sereni. “Ma io sono sempre gioioso!”, dice scherzando quando gli faccio notare che i tocchi
ciclamino o acquamarina sono una festa rispetto, per esempio, ai colori dell’enorme retrospettiva
del 2014 alla Royal Academy, dove si sentiva una forte tensione davanti all’idea di cedere alla
bellezza e dove i fiori (vivi), che pure lui dipinge in modo insuperabile, erano presenti solo nella
prima parte, dedicata ai lavori di tanto tempo fa. Ma le rocce non sono isole, non c’è utopia dietro,
se trovo che ci sia una vaga forma cranica dietro a una rappresentazione dell’Ararat con l’arca di
Noè incagliata a mezzacosta mi dice gentile “puoi vederci quello che vuoi”. Insieme a lui c’è la sua
assistente Waltraud Forelli, in entrambi si vede ormai il tratto parigino più che quello tedesco, e
Forelli, con una suoneria tipo allarme antiaereo, risponde con cortesia al telefono, traduce
lunghissime parole tedesche in francese e viceversa, sa cosa Kiefer ha letto la settimana scorsa e
ricorda senza indugiare il nome un bravo artista che faceva righe e cubi, morto giovane e citato con
trasporto da Kiefer a metà della nostra conversazione a proposito di chi si serve della tecnologia per
fare arte. “Blinky, Blinky Palermo!”, mi dicono, e io mi sento in colpa di non conoscerlo
(googlo dopo, mica male Blinky). Questa nuova ispirazione è effettivamente serena, viene da una
vacanza in Grecia, nelle Cicladi, da foto in cui la sua mente ha immaginato scene
veterotestamentarie o mitologiche su ogni roccia – “E se Prometeo fosse passato lì?”, e infatti c’è
una catena che pende, e Scilla e Cariddi e una formazione sinuosa che dà il titolo alla mostra, “La
coscienza delle pietre”, o forse è consapevolezza, con “consciousness” non si sa mai.

E le rovine, Kiefer, lei che le raccoglie, che cosa se ne fa di tutte quelle nuove che ci sono da una
parte e dall’altra? “Quelle sono sempre presenti nella storia, non c’è mai stato un periodo senza
guerra, ma certo che ora sono più vicine, in Ucraina”. Kiefer non accetta l’idea di essere stato
giovane in tempo di pace, per lui la guerra non è mai finita, la sua esperienza da tedesco alle prese
con l’oceanico rimosso del dopoguerra sembra diventato più un fatto personale che politico. Ama
Israele, racconta al Foglio delle mostre che ha fatto lì, “ho studiato molto la mistica, la cabala,
Gershom Scholem, ho provato un enorme dolore” per gli attentati del 7 ottobre, “al momento tutto è
più terrificante che mai anche perché è una matassa, connessa con il resto del mondo, sono molto
triste”. Sull’attualità non si lascia trascinare, rimane distante dalle polemiche che stanno spaccando
il settore dell’arte così come il resto del mondo, ma certo non è ottimista. “L’antisemitismo non è
mai stato soppresso, e a volte si nasconde dietro l’antisionismo, ma non si è mai fermato”,
osserva. “Anche in Germania c’è sempre stato, ma prima non osavano, mentre ora si
riaffaccia”, se ne parla, c’è meno vergogna, Alternative für Deutschland porta avanti un discorso
di intolleranza e rimozione e c’è chi vuole cambiare nome alla scuola Anne Frank perché è difficile
da spiegare ai bambini, per non turbarli. “Ma tanto i bambini sono tristi comunque, è la complessità
della vita”, racconta, rievocando la sua, di infanzia, quando per non rendere triste nessuno,
soprattutto una generazione di adulti colpevoli, di Shoah non si parlava proprio. Rilegge la sua
opera in maniera molto più personale che politica, “ho fatto quello per sapere cosa avrei fatto io
stesso cosa avrei fatto in quegli anni, quello che sono e quello che sarei stato. Non volevo
provocare, solo sapere cosa c’era in quel tempo, visto che a casa mia non se ne parlava mai. Mai di
Auschwitz, della Notte dei cristalli. C’era un grande oblio voluto, ho sempre percepito qualcosa che
era enorme ma di cui nessuno parlava e io volevo sapere”.

E quindi da lì le immagini in cui si fotografava con la divisa della Wehrmacht e un “Sieg Heil”
sfiatato, quasi intimista, fatto per capire quello che sarebbe stato se ci fosse stato lui, al posto di suo
padre. Scandalizzò tutti, inizialmente, questa rievocazione del gesto e del simbolo che serve a
portare a galla una verità, a strapparla all’oblio, personale e collettivo. “Mica voglio vedere
svastiche in giro, per carità”, aggiunge mentre cerco di portarlo sul terreno della cancel
culture, della memoria di ciò che è stato negativo, delle statue che vengono buttate giù o dei
quadri rimossi dai musei perché contengono immagini ormai ritenute poco accettabili. “Il
male del mondo è evidente, ricompare”, puoi abbattere tutte le statue del mondo e lui torna
sotto un’altra forma. Ma questo non significa che non si debba ricordare, anzi, i tedeschi ci
hanno messo tanto a rendersi conto di quello che era successo e non hanno simpatia per chi
glielo ricorda. “Nei tardi anni Settanta c’è stata una serie televisiva sull’Olocausto, è diventato
presente, ma fino ad allora non se ne parlava, solo allora è diventato più visibile”. A lui è piaciuto
molto “Opération 1005”, un documentario di Arte di un paio d’anni fa “ancora più duro, perché
quando l’Armata rossa è arrivata il Reich ha voluto cancellare le tracce e hanno tirato fuori i morti
ebrei dalla terra, hanno svuotato le tombe, la cosa peggiore è per quelli che erano nei campi di
concentramento, succedeva che la madre riconoscesse suo figlio in stato di decomposizione”. Non
ci sono scuse, “si può essere informati”.

E questo è il passato, su cui solo i negazionisti più impenitenti fingono indifferenza. Ma il presente,
i massacri di oggi, Kiefer? “Lo dico sempre, può succedere domani, succede sempre, non si ferma
mai”. E la memoria serve? “Non aiuta molto, lo rifanno. È terribile, ma continua”. Scuote la
testa quasi completamente rasata, lo sguardo in tralice da sotto gli occhiali, il volto squadrato
e intenso. “Non sono impressionato, lo sapevo già, non sono colpito, mi dispiace, ma non è
nuovo”. O almeno così è per un tedesco della sua generazione, che pure dalla Germania si sente
rifiutato, con qualche ragione: pure Die Welt ha ammesso che “solo noi non abbiamo ben capito che
cosa stesse facendo” mentre il resto del mondo lo celebra, è uno dei due artisti viventi a essere
esposto al Louvre, è anche nel Panthéon francese. “Mi aiuta” l’amore dell’Italia, perché in mezzo
all’Europa “c’è un bel problema” per lui, ossia il suo paese d’origine, dove anche il film di Wim
Wenders su di lui – “Anselm”, un successo ovunque – ha suscitato voci critiche, puntualizza Forelli,
“non solo di Anselm ma anche di Wenders, due personalità che hanno lasciato la Germania”. Kiefer
si preoccupa del suo amico: “Ha successo in Italia? In Giappone ‘Il cielo sopra Berlino’ è
piaciuto molto”. Certo è molto lirico, osserva. E quindi quanta politica c’è dietro i suoi
quadri? “Io sono informato, leggo molto e questo entra nei miei quadri, ma sta allo spettatore
ritrovarlo, non dico ‘è così o è colà’”.

Un’ispirazione che gli ha fatto produrre un’opera diffusa ma, per sua ammissione o per sua
ossessione, nessun capolavoro. “Per me è un flusso, è un lavoro che continua, ma non ho un
capolavoro perché non ho talento”. Sottolinea l’osservazione con uno sguardo e una vezzosa pausa
e prosegue: “Ho fatto una conferenza alla Tate su Van Gogh a cui mi sento molto vicino, perché non
aveva talento. Se non ci fossero stati i suoi ultimi anni non lo conosceremmo, ha dipinto decine di
quadri in un anno, una cosa enorme”. Non si può sopravvivere a una cosa così, spiega. E subito si
autoassolve: “Il talento non è necessario per essere un bravo artista, è la volontà, l’ispirazione,
quello che succede nella testa. Ci sono artisti che hanno talento come Picasso, ma non sono
bravi per via del talento, ce ne sono che hanno talento ma sono noiosi”. E quindi, Kiefer,
quando ha capito che non aveva talento? “All’inizio mi sentivo il migliore del mondo. Mio
padre ha collezionato tutto, a cinque anni ero un vero genio. Dai quattro agli otto anni
disegnavo tutto, scene della nostra casa, cose minacciose, la prigione vicino a casa, dove mio
padre mi diceva che mi avrebbe mandato”. L’immaginario nero di un bambino cresciuto in
mezzo al nero, terrorizzato da Hansel che fa toccare alla strega un rametto secco per convincerla di
non essere ingrassato abbastanza – nella mia versione era un osso di pollo, discutiamo – e pronto a
dipingere “le angosce infantili, tutto quello che mi circondava, i cinghiali, il giardino, ho fatto il mio
primo libro quando avevo nove anni. Erano storie illustrate, come quella di Genoveffa, una donna
che era sposata con un cavaliere, lui la lascia incinta per andare in guerra e il maestro della casa che
doveva occuparsi di lei la vuole sedurre. Lei dice di no e lui la caccia nella foresta insieme al
bambino, lì si nutrono di radici. È Freud. I miei diari sono 70 volumi”. Ma il suo senso estetico non
ha padri né madri, ogni volta che si torna sulla questione cita libri, l’importanza del diritto
costituzionale come fonte di ispirazione, una musa pensosa e cerebrale, il funzionamento della
società che i dittatori attaccano per primo, ciò che ci tiene insieme. Riprende i suoi vecchi lavori, ci
torna sopra, “i quadri non finiscono mai”, si procede per errore, a volte si sa quando è finito, a volte
si tira fuori dal magazzino un quadro di cinquant’anni fa e voilà, lo si ritocca ancora un po’. Quando
vengono venduti, ecco, lí non si può più pensare di inseguirli con un po’ di materiale per
modificarli, strati di pittura per dargli nuovo spessore.

Chissà se l’intelligenza artificiale sa quando fermarsi, quando un capolavoro è finito.


È preoccupato, Kiefer, dall’AI? “Per me è anti-arte ma questo non è negativo, di tanto in
tanto bisogna distruggere l’arte perché l’arte rinasca”. Insomma, ben venga un po’ di sfida,
un po’ di fiato sul collo per l’essere umano. “Non sono contrario ma non ho ancora visto
niente che mi abbia affascinato. Non proverò, me l’hanno proposto una volta ma non era molto
sorprendente, era un progetto virtuale”. Niente che possa avere spazio nel suo immenso luogo di
lavoro alle porte di Parigi, o in quello precedente, a Barjac, nel sud della Francia, o nella fabbrica di
mattoni che comprò in Germania con i suoi primi soldi, una costruzione enorme dove iniziare ad
accumulare e a creare, in cui gira in bicicletta con la stessa energica circolarità con cui crea la sua
lunga opera in cui nessun capolavoro ruba la scena alle altre e in cui la ripetizione non porta la noia,
ma dà sostanza a una lunga riflessione che ha il potere di generare ogni volta lo stesso silenzio, lo
stesso assorbimento in cui ci si chiede se quello che si ha davanti sia qualcosa o il nulla e se, nel
caso, il nulla possa essere rappresentato. Kiefer beve tè, ha davanti a sé una giornata lunga, quando
la sera lo ritroverò a Palazzo Colonna per una cena offerta dal gallerista, tra principesse romane e
qualche lampo di jet set internazionale, apparirà stanco, più distante, concentrato come un monaco,
un monaco di talento.
Crtistina Marconi

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