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Momenti sospesi
Due meditazioni
Quanti Einaudi
Momenti sospesi
Momenti sospesi
Era da poco iniziata la crisi da coronavirus quando la mia amica Caroline
Campbell, curatrice della Collezione di pittura italiana prima del 1500 della
National Gallery di Londra, mi ha scritto per dirmi che, un paio di giorni
dopo che il museo era stato costretto a chiudere i battenti al pubblico, si era
ritrovata a vagabondare nelle sale deserte. Non si era mai resa conto che
fosse un luogo cosí quieto e che gli uccelli, fuori, cinguettassero cosí
chiassosamente. «Le tende e gli avvolgibili erano abbassati. I quadri
pendevano alle pareti in un silenzio opprimente…» Ma ciò che piú la
turbava era il modo in cui quell’inedita atmosfera sembrava alterare il suo
rapporto coi quadri. «In quel giorno stranissimo, sono stata attratta da una
tela che non mi è mai interessata granché. So che il ritratto di Gainsborough
delle sue figlie che inseguono una farfalla ha un grande significato per tante
persone, ma non ne ha mai avuto molto per me. L’ho sempre trovato
stucchevole e sentimentale. Eppure in quel momento ne ero profondamente
attratta».
Nei giorni successivi allo scambio con Caroline, furono imposte ulteriori
restrizioni. Cominciai a sentire la mancanza della solita routine. Per gran
parte della mia vita, sono andato al museo all’incirca una volta a settimana
per sostare davanti a questa o quella tela per mezz’ora o piú. A Londra,
dove vivo per la maggior parte dell’anno, di solito vado alla National
Gallery; a New York, dove vivo per il resto del tempo, vado al Metropolitan
Museum of Art. Senza rendermene conto, a poco a poco ero arrivato a
organizzare le mie settimane intorno a tale abitudine. Ma questo, inutile
dirlo, è stato il meno; ben presto il coronavirus è arrivato a incidere
praticamente su ogni aspetto della vita. Ci ha incoraggiati a sospettare gli
uni degli altri. Ha messo in luce le ingiustizie della nostra società. I suoi
effetti sono sia mentali che fisici, nel senso che minaccia di aggredire il piú
fondamentale dei diritti umani, il respiro, come pure di costringere la nostra
cultura a pensare che la pandemia sia l’unica cosa alla quale vale la pena di
pensare. Somiglia molto a una vita sotto una dittatura, bisogna infatti
proteggere sia il proprio corpo che la propria immaginazione. Ho rifiutato
varie proposte di scriverne, cercando invece di concentrarmi sul mio lavoro.
Sentivo che mi stavo avvolgendo su me stesso. Il tempo stesso cominciava
a somigliare a un loop.
Eppure, per qualche motivo, ogni volta che anelavo a un ritorno alla
normalità, prendere l’autobus e andare alla National Gallery, l’immagine
piú vivida che avevo non veniva dalla memoria. Mi vedevo invece nei
panni di Caroline, mentre attraversavo il museo deserto per guardare la tela
di Gainsborough. Era come se, per una bizzarra convergenza mentale, senza
dubbio acuita dalla strana situazione che ci coinvolgeva tutti, Caroline e io
ci fossimo scambiati di posto. Riflettevo su qualcosa di cui avevamo già
discusso in precedenza, quando ci si poteva incontrare di persona, ovvero
sul fatto che un quadro non è mai finito, e deve continuare a svolgere bene
il suo compito molto tempo dopo che è stato appeso alla parete di un
museo, sul fatto che un quadro si affida a noi per essere completato. Ecco
perché, e su questo Caroline e io eravamo assolutamente d’accordo,
l’accesso gratuito ai musei è fondamentale. A ciò si affida non solo la nostra
cultura, ma anche l’arte. Ora che l’antico sistema di comunicazione non era
piú possibile, come potevano le tele del museo, appese nel buio, svolgere il
loro compito? La domanda si presentava con tutto l’armamentario di un
problema pratico. Cosa ne è dell’arte, e cosa ne è di noi, quando i musei
sono inaccessibili? Ci rendiamo conto che un dipinto può assumere un
grande significato per la nostra cultura, mentre un altro, di uguale pregio,
forse addirittura migliore, sbiadisce nella nostra attenzione? E ciò non è la
riprova che l’arte è in costante dialogo con la storia?
Nel 1936, ben addentro l’epoca nazista, Ruge pubblicò una serie cui
diede il titolo Nell’aria con i nostri piloti di combattimento, che includeva
fotografie celebrative della forza aerea tedesca. Qualche anno dopo, durante
la Seconda guerra mondiale, usò piú scopertamente la macchina fotografica
come strumento di propaganda: fotografò personale militare durante
incontri strategici, riprese mitraglieri e piloti in azione e documentò le facce
ottimiste di giovani reclute. Si direbbe che Ruge avesse accettato il governo
nazista e senza dubbio lo sostenne con il suo lavoro. Anche lui, come altri
reporter tedeschi dell’epoca, trasse vantaggio dall’esilio, l’incarcerazione e
l’uccisione di colleghi bravi. La sua opera successiva al 1933 esiste dunque
in un vuoto perturbante, contrassegnato dalla scomparsa forzata di altri, e il
suo lavoro precedente a tale data è pervaso da una forte sensazione di
presagio, come se sentisse la vicinanza dell’abisso e ne fosse oscuramente
attratto.
Sono tuttora stupito che l’opera di Willi Ruge, un artista che non
m’interessa in modo particolare, mi sia venuta in mente all’improvviso e
cosí vividamente nelle giornate strane e incerte che stiamo vivendo.
Non solo non sappiamo come e quando usciremo da tutto questo, non
sappiamo neppure quale mondo troveremo dall’altra parte. Siamo
stranamente convinti che nulla sarà piú lo stesso. È come se il presente ci
avesse risvegliati da un sogno. Tuttavia abbiamo la sensazione di essere
coinvolti in una sorta di esperimento esistenziale, proprio come le figlie del
pittore e Willi Ruge che precipita nell’aria. È un momento carico di
tentazioni opposte. Ripenseremo i nostri atteggiamenti verso la natura e il
consumo per volgere la nostra attenzione alla salute del pianeta e alle
violente disuguaglianze della nostra società? Terremo a mente la forza
irresistibile con cui ci è stato ricordato che siamo profondamente
interconnessi e dipendenti l’uno dall’altro? Che siamo non solo parte della
natura ma anche di un singolo organismo? Manterremo il gusto per la
gentilezza che abbiamo sperimentato? In altre parole, resteremo fedeli a una
versione di noi stessi in cui abbiamo intravisto la nostra parte migliore,
ovvero la generosità, lo spirito di sacrificio e la compassione? O
soccomberemo ai tetri richiami di quanti ribadiscono che la lezione di tutto
ciò è una sola, e che dovremmo temere ancora di piú gli stranieri, costruire
muri piú alti, e perseguire una risoluta politica d’intolleranza per la
differenza e la ragione? La storia paradossalmente dimostra che siamo
altrettanto bravi a imparare dal passato quanto a non esserne toccati.
V. S. Naipaul non aveva tutti i torti nel definire Conrad «uno scrittore a
cui manca una società» e a dire che la sua «esperienza era troppo sparsa»
per farne un esperto di un luogo particolare. Lo stesso, naturalmente, vale
per Edward Said. Con la differenza che Said aveva, se non una società, un
popolo e una nobile causa: due doti che possono aiutare un pensatore
conferendo forza morale alla sua opera, ma che non necessariamente si
rivelano utili o vantaggiose per un artista. In Conrad, anzi, l’assenza di
fiducia nella stabilità di qualunque luogo o posizione ha reso piú toccante
l’evocazione del disorientamento e dello straniamento.
Per Said, l’idea di orientalismo, quella raccolta di nozioni prescritte che
una cultura ha rispetto a un’altra, è un teatro, uno spazio dove esibirsi, una
«geografia immaginaria», come lui la chiamava. Erano questioni che Joseph
Conrad conosceva bene. L’inquietudine è palpabile nelle sue pagine, che
spesso mostrano una sete quasi maniacale di comprensione e comprensività.
Conrad temeva di essere frainteso, o di non essere capito affatto. Percepiva i
rischi insiti nell’omettere alcune cose. L’omissione, naturalmente, è il
privilegio degli iniziati. Se io e voi apparteniamo alla stessa cerchia, non
abbiamo bisogno di dire molto per capirci. «Proprio cosí», «certo», «in
effetti» potrebbero essere alcune delle nostre espressioni piú frequenti.
Quando invece non possiamo permetterci di dare per scontati troppi
dettagli, siamo al tempo stesso insospettiti e affascinati dalla possibilità di
diventare un «uomo incantato», come Conrad definisce Axel Heyst, il
protagonista del suo romanzo Vittoria. Chi è incantato è senz’altro in grado
di dare per scontate molte cose, come in effetti fa Heyst. Conrad e Said
erano entrambi convinti che il linguaggio racchiuda indizi e cultura;
sembravano condividere con Freud l’idea che una delle funzioni del
linguaggio sia metterci a nudo, indurci a dire un po’ piú di quello che
crediamo di aver detto, e che i presupposti e le congetture rivelano
invariabilmente di piú su chi parla che non sull’argomento trattato.
Quando Said scrive che il ruolo principale di un critico è la
comprensione, e che Conrad aveva il dono di esporre pienamente la sua
anima al «vasto panorama dell’esistenza», prende atto della contraddizione
tra critico e artista. Conrad, a quanto pare, era condannato a procedere senza
il prerequisito della comprensione. Come molti artisti, viaggiava senza il
pieno, consapevole controllo del suo itinerario. Said, invece, come molti
critici, doveva leggere attentamente la cartina e riesaminare i percorsi
seguiti, illuminandone l’orientamento. Orientalismo era lo studio di uno
schema storico preciso, ma nasceva anche da un desiderio di orientamento e
forse di riorientamento, su come percorrere il controverso spazio storico
occupato dal mondo arabo nella seconda metà del ventesimo secolo. Le due
figure, Conrad e Said, il romanziere e il critico, si muovevano in direzioni
opposte. Si sono incrociati nei luoghi piú curiosi. Osservandoli in questa
prospettiva, non possiamo fare a meno di considerarli due rappresentanti di
una stessa tradizione, onorevoli vagabondi – diffidenti verso identità e
professioni fisse – uomini decisi, vuoi per natura vuoi per gli inconsolabili
vuoti tra le loro origini e i luoghi in cui approdarono, a rimanere per sempre
ospiti.
Se – per usare una metafora di Eula Biss – ha senso avere timore delle acque profonde, ma è
difficile capire quanto si debba essere cauti in mezzo ai tanti pericoli inventati del mondo, esiste
allora un buon uso che possiamo fare della paura? Un uso che ci consenta di non essere
ingenuamente sprezzanti, senza però finire col credere agli inesistenti mostri della laguna nera? Se –
dice Marco Filoni – le paure non possono essere eliminate dall’equazione dell’esistenza, possiamo
fare in modo che il risultato di tale equazione non sia il terrore che paralizza? Se, come si chiede il
narratore in Margherite di Ascanio Celestini, «in lockdown» i tabaccai potevano restare aperti,
perché i fiorai invece no? Una questione di poco conto, apparentemente, ma che spalanca degli abissi
se il fioraio è quello vicino al cimitero, mettendoci di fronte a quanto siamo ancora piú disarmati e
soli davanti a un lutto, soprattutto se veniamo privati dei contatti con il prossimo e ci restano soltanto
le parole: né un abbraccio né un mazzo di fiori.
Come ci ha rivelato Antonella Lattanzi, esserci ritrovati da soli (o quasi) a dare forma al proprio
presente, e alla propria paura, ha significato anche dover sfoderare tutte le armi a nostra disposizione
per sopravvivere, scoprendo un senso di stupefacente libertà. Nel buio abbiamo visto le possibilità
scintillare piú brillanti. E ci siamo chiesti se non fosse il caso di mettere in discussione quel che
prima credevamo non si potesse discutere. La crisi sanitaria – scrive Hisham Matar – ci ha
certamente portati a essere sospettosi l’uno dell’altro; ma proprio per questo è stato necessario
inventarsi strategie per difendere oltre ai corpi anche l’immaginazione. Lo abbiamo dovuto fare per
non essere impreparati ad accogliere gli ospiti che in futuro torneranno ad arricchire le nostre vite.
I testi che compongono il primo «numero» dei Quanti Einaudi si fanno queste e altre domande.
Senza la presunzione di avere delle risposte certe, magari soltanto per far sorgere altri dubbi. Perché
come ha intuito Paolo Giordano, tra i piú acuti commentatori di questi mesi difficili, con un po’ di
lucidità in piú e un po’ di paura in meno arriveremo a riconoscere che una delle lezioni piú importanti
che dobbiamo sforzarci di imparare è il dubbio.
In un’epoca dominata dall’assertività, il dubbio è stato riportato al centro del discorso e, pur tra
mille urla di disturbo, gli scienziati, gli esperti (almeno quelli piú accorti) hanno cercato di
interpretare la realtà senza ricorrere a slogan; lo hanno fatto rischiando di apparire incerti, di
contraddirsi, di sbagliare, e hanno riscoperto per noi la categoria proibita del non-sapere.
La Speranza è rappresentata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova come una figura
alata che tende le braccia verso una coroncina: è sospesa tra due momenti, sempre in bilico, in un
equilibrio fragile e necessario. Ma è anche l’immagine di chi colma una distanza, di chi crea un
collegamento, dell’inquieto ma insopprimibile desiderio di lasciarsi toccare dalla Speranza stessa.
Questo è lo spirito anche dei Quanti Einaudi: restiamo in contatto.
La redazione dei Quanti
«Si parla tanto dei cambiamenti che saremo in grado o no di fare nel mondo post-
Covid che verrà. Bene, eccone uno particolarmente importante: mantenere viva questa
tensione verso ciò che non conosciamo. Esiste un modo di educare al non-sapere? Di
insegnarlo già ai bambini, sovvertendo il principio dominante che la conoscenza sia un
corpo statico di nozioni di cui appropriarsi pezzo a pezzo?»
«C’è una speranza? Le storie non sono fatte per rispondere a questa domanda. A
nessuna domanda. Le storie sono fatte per raccontare te. Quello che sai e non sai di te,
quello che vuoi e non vuoi essere».
«La paura isola chi ha paura. E sono arrivata a credere che la paura sia un atto di
crudeltà nei confronti di quelli di cui abbiamo paura».
«La felicità della gente a passeggio non mi fa nessun effetto. Mi colpisce di piú
vedere le persone che parlano asetticamente, senza passione e senza nemmeno cercare
di fingere un po’ di interesse. Le guardo e penso: statevene a casa. Perché andate in giro
a spargere la vostra rassegnazione per strada?»
tutto ciò è una sola, e che dovremmo temere ancora di piú gli stranieri e costruire
muri piú alti?»
I «momenti sospesi» sono quegli istanti in cui le conseguenze non sono ancora
scritte, e si trattiene il fiato in attesa di un cambiamento. Sono attimi che possono
durare mesi, come quelli che abbiamo vissuto durante l’emergenza per la pandemia,
o una vita intera, come per chi si ritrova ad abitare una terra da ospite, confinato sulla
soglia. Hisham Matar evoca questi peculiari momenti di passaggio attraverso le mani
di due bambine tese verso una farfalla, in un dipinto mai guardato con la giusta
attenzione, nell’incontro in sogno con un antico maestro. E ci mostra come in un
tempo congelato possano convivere i dubbi piú neri e gli auspici piú luminosi.
L’autore
Nato nel 1970 a New York da genitori libici, HISHAM MATAR è vissuto a Tripoli e
poi al Cairo prima di trasferirsi a Londra. Per Einaudi ha pubblicato Nessuno al
mondo, tradotto in ventinove lingue e finalista al Man Booker Prize, Anatomia di una
scomparsa, Il ritorno, vincitore del Premio Pulitzer 2017 per l’Autobiografia e del
Rathbones Folio Prize 2017, e Un punto di approdo.
Le traduttrici.
Nessuno al mondo
Anatomia di una scomparsa
Il ritorno
Un punto di approdo
Quanti Einaudi, nuova serie, 2
Titolo originale Visiting the Museum in My Mind
© 2020 Hisham Matar. Originally published in New York Times, May 15th 2020
Titolo originale The Guests
© 2019 Hisham Matar. Originally published in Granta #146, 2019
© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
© 2021. Foto The National Gallery, London / Scala, Firenze.
Foto © Willi Ruge / Ullstein Bild via Getty Images.
Progetto grafico: dieci04
Immagine di copertina: elaborazione da foto di Tanya Trofymchuk on Unsplash
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Copertina
Frontespizio
Quanti Einaudi
Momenti sospesi
Momenti sospesi
Gli ospiti
Gli altri Quanti. Speranze
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