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Hisham Matar

Momenti sospesi
Due meditazioni
Quanti Einaudi
Momenti sospesi
Momenti sospesi
Era da poco iniziata la crisi da coronavirus quando la mia amica Caroline
Campbell, curatrice della Collezione di pittura italiana prima del 1500 della
National Gallery di Londra, mi ha scritto per dirmi che, un paio di giorni
dopo che il museo era stato costretto a chiudere i battenti al pubblico, si era
ritrovata a vagabondare nelle sale deserte. Non si era mai resa conto che
fosse un luogo cosí quieto e che gli uccelli, fuori, cinguettassero cosí
chiassosamente. «Le tende e gli avvolgibili erano abbassati. I quadri
pendevano alle pareti in un silenzio opprimente…» Ma ciò che piú la
turbava era il modo in cui quell’inedita atmosfera sembrava alterare il suo
rapporto coi quadri. «In quel giorno stranissimo, sono stata attratta da una
tela che non mi è mai interessata granché. So che il ritratto di Gainsborough
delle sue figlie che inseguono una farfalla ha un grande significato per tante
persone, ma non ne ha mai avuto molto per me. L’ho sempre trovato
stucchevole e sentimentale. Eppure in quel momento ne ero profondamente
attratta».

Le figlie del pittore che inseguono una farfalla, dipinto da Thomas


Gainsborough nel 1756, è un quadro molto conosciuto. Uno di quelli che è
facile trascurare. «Ho cominciato a pensare, – scriveva Caroline, – che la
nostra vita passata potrebbe essere stata futile quanto inseguire le farfalle.
Avevo anche la bizzarra sensazione che le figlie di Gainsborough fossero
intrappolate, prigioniere dentro la cornice appesa sulla parete del museo, e
che solo il nostro sguardo potesse restituire loro la libertà. Ciò che sto
cercando di dire, credo, è che i quadri funzionano solo se c’è qualcuno che
li osserva. Altrimenti, sono appesi da qualche parte nel limbo, senza scopo e
un po’ sperduti».
Nemmeno io avevo mai prestato grande attenzione a Le figlie del pittore.
Ci sono passato accanto molte volte mentre mi dirigevo verso un altro
dipinto. Sono andato a guardarmelo in rete. C’è una strana e cauta sicurezza
nelle due sorelle. La farfalla invece è incerta, spinta quasi all’orlo della tela,
e sembra per metà libera e per metà in pericolo mortale. Le sorelle si
tengono per mano, ma sono abbastanza lontane per apparire allo stesso
tempo unite e distinte. Non è chiaro se la maggiore si stia apprestando a
colpire. In ogni caso, la sa piú lunga dell’altra e, nell’attimo in cui le
osserviamo, è intenzionata a mettere un po’ alla prova la sorella minore.
Hanno entrambe la sanguinaria curiosità dell’innocente. La farfalla è posata
su quello che sembra uno stelo spinoso. La mano della sorella piú piccola è
già protesa in quella direzione. Le sue dita delicate hanno una cupa
intenzionalità. Se dovesse mancarla, però, sarebbero le spine ciò che
afferrerebbe. Cosa che dalla sua faccia sembra ignorare. La sorella
maggiore, invece, lo intuisce e sembra incoraggiarla e allo stesso tempo
trattenerla. Si direbbe che agisca quasi solo per il proprio divertimento. E
all’improvviso, guardandole insieme, la forma delle loro figure, il
movimento degli abiti, sembrano le ali di una grossa farfalla, una farfalla in
movimento. Tutto intorno a loro è scuro. Gli alberi sono gravidi di oscure
premonizioni, e la poca luce nel cielo lontano è vecchia, fioca, morente. È
un dipinto sul volgere del tempo, sulla giovinezza e l’invecchiare, sulla
violenza degli innocenti, e sulle preoccupazioni di un padre, i suoi timori di
pericoli misteriosi e reali.

Nei giorni successivi allo scambio con Caroline, furono imposte ulteriori
restrizioni. Cominciai a sentire la mancanza della solita routine. Per gran
parte della mia vita, sono andato al museo all’incirca una volta a settimana
per sostare davanti a questa o quella tela per mezz’ora o piú. A Londra,
dove vivo per la maggior parte dell’anno, di solito vado alla National
Gallery; a New York, dove vivo per il resto del tempo, vado al Metropolitan
Museum of Art. Senza rendermene conto, a poco a poco ero arrivato a
organizzare le mie settimane intorno a tale abitudine. Ma questo, inutile
dirlo, è stato il meno; ben presto il coronavirus è arrivato a incidere
praticamente su ogni aspetto della vita. Ci ha incoraggiati a sospettare gli
uni degli altri. Ha messo in luce le ingiustizie della nostra società. I suoi
effetti sono sia mentali che fisici, nel senso che minaccia di aggredire il piú
fondamentale dei diritti umani, il respiro, come pure di costringere la nostra
cultura a pensare che la pandemia sia l’unica cosa alla quale vale la pena di
pensare. Somiglia molto a una vita sotto una dittatura, bisogna infatti
proteggere sia il proprio corpo che la propria immaginazione. Ho rifiutato
varie proposte di scriverne, cercando invece di concentrarmi sul mio lavoro.
Sentivo che mi stavo avvolgendo su me stesso. Il tempo stesso cominciava
a somigliare a un loop.
Eppure, per qualche motivo, ogni volta che anelavo a un ritorno alla
normalità, prendere l’autobus e andare alla National Gallery, l’immagine
piú vivida che avevo non veniva dalla memoria. Mi vedevo invece nei
panni di Caroline, mentre attraversavo il museo deserto per guardare la tela
di Gainsborough. Era come se, per una bizzarra convergenza mentale, senza
dubbio acuita dalla strana situazione che ci coinvolgeva tutti, Caroline e io
ci fossimo scambiati di posto. Riflettevo su qualcosa di cui avevamo già
discusso in precedenza, quando ci si poteva incontrare di persona, ovvero
sul fatto che un quadro non è mai finito, e deve continuare a svolgere bene
il suo compito molto tempo dopo che è stato appeso alla parete di un
museo, sul fatto che un quadro si affida a noi per essere completato. Ecco
perché, e su questo Caroline e io eravamo assolutamente d’accordo,
l’accesso gratuito ai musei è fondamentale. A ciò si affida non solo la nostra
cultura, ma anche l’arte. Ora che l’antico sistema di comunicazione non era
piú possibile, come potevano le tele del museo, appese nel buio, svolgere il
loro compito? La domanda si presentava con tutto l’armamentario di un
problema pratico. Cosa ne è dell’arte, e cosa ne è di noi, quando i musei
sono inaccessibili? Ci rendiamo conto che un dipinto può assumere un
grande significato per la nostra cultura, mentre un altro, di uguale pregio,
forse addirittura migliore, sbiadisce nella nostra attenzione? E ciò non è la
riprova che l’arte è in costante dialogo con la storia?

In quello stato di lugubre confusione, è affiorata dalla mia memoria,


come un oggetto smarrito, una serie di foto che avevo visto molti anni
prima e di cui mi ero del tutto dimenticato. A volte, di solito quando non ci
pensavo, mi tornavano in mente. Sono opera di un fotografo tedesco poco
conosciuto, Willi Ruge (1892-1961). Fotografo me stesso mentre mi lancio
col paracadute è una serie scattata mentre Ruge si lancia a testa in giú da un
aeromobile, come un razzo verso la terra. Furono scattate nel 1931, fra le
due guerre mondiali, in un’epoca presumibilmente simile agli alberi nella
tela di Gainsborough, gravida di oscure premonizioni.

Ruge era interessato alla velocità. Da ragazzo sognava di diventare un


pilota. Affinò la sua tecnica fotografica durante il primo conflitto mondiale,
quando era in servizio al fronte come mitragliere. Fu allora che nella sua
mente si creò la connessione tra fotografia e rischio. In seguito andò in
Argentina, dove fotografò corpi avvinti nel tango, e scattò numerose foto
disturbanti mentre girava intorno al muscoloso strattonare di un cavallo
selvaggio che i gauchos incatenavano a un albero, sotto l’abbacinante sole
di mezzogiorno, per riuscire a domarlo. Fece riprese aeree di solitarie piante
del deserto, ognuna dritta accanto alla sua ombra, in Sudan. Catturò, con
una messa a fuoco sorprendentemente perfetta, un fantino disarcionato dalla
sua cavalcatura durante una corsa a siepi negli anni Venti in Inghilterra.
Fece un indimenticabile ritratto del pilota della Royal Air Force, il tenente
colonnello Frederick F. Minchin, poco prima del decollo, in un tentativo di
attraversare l’Atlantico. Il velivolo scomparve. Il destino del pilota rimane
un mistero. La fotografia è perturbante perché il tenente colonnello Minchin
sembra ipnotizzato, guarda fisso qualcosa che resta appena fuori campo,
come se riconoscesse il suo destino senza tuttavia riuscire a sottrarvisi.
Ruge colse un’analoga espressione estatica in Rudolf Caracciola, grande
campione automobilistico dell’epoca. Ne catturò le immagini deformate
dalla velocità mentre sfrecciava dentro la sua auto, e scattò fotografie piú
pacate della signora Caracciola, mentre si sporgeva a guardare il marito con
un fremito d’orgoglio e paura dipinto in viso.

Nel 1936, ben addentro l’epoca nazista, Ruge pubblicò una serie cui
diede il titolo Nell’aria con i nostri piloti di combattimento, che includeva
fotografie celebrative della forza aerea tedesca. Qualche anno dopo, durante
la Seconda guerra mondiale, usò piú scopertamente la macchina fotografica
come strumento di propaganda: fotografò personale militare durante
incontri strategici, riprese mitraglieri e piloti in azione e documentò le facce
ottimiste di giovani reclute. Si direbbe che Ruge avesse accettato il governo
nazista e senza dubbio lo sostenne con il suo lavoro. Anche lui, come altri
reporter tedeschi dell’epoca, trasse vantaggio dall’esilio, l’incarcerazione e
l’uccisione di colleghi bravi. La sua opera successiva al 1933 esiste dunque
in un vuoto perturbante, contrassegnato dalla scomparsa forzata di altri, e il
suo lavoro precedente a tale data è pervaso da una forte sensazione di
presagio, come se sentisse la vicinanza dell’abisso e ne fosse oscuramente
attratto.

Un altro esempio è Fotografo me stesso durante un lancio col


paracadute. Qui è Ruge stesso a diventare protagonista del suo lavoro.
Voleva catturare la scena da diverse angolazioni. Lui, la figura in caduta,
aveva un apparecchio fotografico; un suo collega fotografava dall’aereo da
cui Ruge stava per gettarsi; un secondo collega si trovava su un altro aereo
che volava all’incirca alla stessa quota; e un terzo era a terra e coglieva,
come Ruge aveva fatto con i Caracciola, le reazioni della signora Ruge
mentre guardava il marito scendere dal cielo. In Foto di me stesso al
momento del lancio sembra che Ruge stia cadendo all’indietro, con la bocca
gonfia di vento e orribilmente aperta. In Ho deciso di lanciarmi a testa in
giú, scattata dall’altro velivolo, vediamo Ruge da una certa distanza. È
capovolto, le braccia e le gambe sono spalancate mentre nuota nell’aria
qualche metro al di sotto del suo aereo, e in basso, lontana, la terra piatta e
placida. Poi, in Nel frattempo, sul terreno, vediamo la moglie che si morde
letteralmente le mani. Ha un’espressione melodrammatica, come fosse
un’attrice. Pochi secondi dopo, prevale il panico. Ruge scatta una foto che
in seguito titolerà Con la testa penzoloni prima che il paracadute si apra.
Mostra il suo viso da sotto, con i lineamenti deformati dallo sforzo e la
mano destra che si allunga per stringere qualcosa. Un gesto che ricorda in
modo inquietante la mano della figlia piú piccola di Gainsborough, protesa
verso la farfalla.

Nello stesso anno in cui Ruge si buttava dall’aeromobile con una


macchina fotografica, Virginia Woolf, in Lettera a un giovane poeta,
scriveva: «Ma siamo nell’ottobre 1931, e da lungo tempo ormai la poesia ha
evitato il contatto con… – come possiamo chiamarla? – possiamo
concisamente e certo impropriamente chiamarla vita? E sarai cosí gentile da
comprendere ciò che voglio dire?» È una curiosa coincidenza che proprio
mentre Ruge stava realizzando Fotografo me stesso durante un lancio col
paracadute, che, in parte almeno, riguarda il contatto e la mancanza di
contatto, Woolf stesse riflettendo sullo stesso problema nella lingua e,
poiché lei lo vedeva, sul problema della poesia nell’epoca moderna. «E
sarai cosí gentile da comprendere ciò che voglio dire?» è senza dubbio la
silenziosa supplica di ogni opera d’arte. E davvero Ruge appeso a un
paracadute mi ricorda il mitico poeta che Woolf evoca nella sua Lettera,
«che danza come la mente gli comanda». Qui ci sono i suoi piedi, in scarpe
di cuoio allacciate, che pendono inermi al di sopra di un paesaggio urbano.
Gli edifici, gli alberi, le panchine laggiú sembrano un sogno distante, la
fantasia infantile di come potrebbe apparire una città. Al pari le altre foto
della serie, è una riflessione sulla prossimità, ma anche sull’approssimarsi:
come misurare la distanza fra due punti, e cosa significa attraversarla. Sono
foto sull’essere sospesi, e su ciò che tale condizione potrebbe rivelare e
contenere. Mostrano una giocosa ma anche inquieta reazione al nostro
rapporto con la Terra, alla nostra resistenza alla natura, e la fantasia, che è
anche una follia, di volersene staccare.

Sono tuttora stupito che l’opera di Willi Ruge, un artista che non
m’interessa in modo particolare, mi sia venuta in mente all’improvviso e
cosí vividamente nelle giornate strane e incerte che stiamo vivendo.
Non solo non sappiamo come e quando usciremo da tutto questo, non
sappiamo neppure quale mondo troveremo dall’altra parte. Siamo
stranamente convinti che nulla sarà piú lo stesso. È come se il presente ci
avesse risvegliati da un sogno. Tuttavia abbiamo la sensazione di essere
coinvolti in una sorta di esperimento esistenziale, proprio come le figlie del
pittore e Willi Ruge che precipita nell’aria. È un momento carico di
tentazioni opposte. Ripenseremo i nostri atteggiamenti verso la natura e il
consumo per volgere la nostra attenzione alla salute del pianeta e alle
violente disuguaglianze della nostra società? Terremo a mente la forza
irresistibile con cui ci è stato ricordato che siamo profondamente
interconnessi e dipendenti l’uno dall’altro? Che siamo non solo parte della
natura ma anche di un singolo organismo? Manterremo il gusto per la
gentilezza che abbiamo sperimentato? In altre parole, resteremo fedeli a una
versione di noi stessi in cui abbiamo intravisto la nostra parte migliore,
ovvero la generosità, lo spirito di sacrificio e la compassione? O
soccomberemo ai tetri richiami di quanti ribadiscono che la lezione di tutto
ciò è una sola, e che dovremmo temere ancora di piú gli stranieri, costruire
muri piú alti, e perseguire una risoluta politica d’intolleranza per la
differenza e la ragione? La storia paradossalmente dimostra che siamo
altrettanto bravi a imparare dal passato quanto a non esserne toccati.

Forse, com’è accaduto alla mia amica Caroline, le attuali circostanze


hanno modificato la mia attenzione. Credo che sia uno dei modi in cui
funziona l’arte; è lí per il nostro piacere, ma anche come strumento per
pensare. Ci aiuta a riflettere sul presente e sul posto che in esso occupiamo.
È ciò che ha indotto Caroline a fermarsi davanti alla tela di Gainsborough, e
anche ciò che mi ha ricordato gli scatti di un fotografo pressoché
dimenticato visti frettolosamente parecchi anni fa o in riproduzione. E da
questa prospettiva, tutt’a un tratto mi sembra che Le figlie del pittore che
inseguono una farfalla e Fotografo me stesso mentre mi lancio col
paracadute siano connessi. Probabilmente la diffidenza e lo stato sospeso di
pericolo e minaccia nella tela di Gainsborough mi hanno fatto ricordare le
foto di Ruge. L’uno e le altre parlano di un momento sospeso, di cui non si
conoscono gli esiti; un momento, in altre parole, non dissimile da quello in
cui oggi ci troviamo.

Traduzione di Anna Nadotti


Gli ospiti
Non saprei dire perché alcuni sogni svaniscono dalla memoria mentre
altri restano, e restano non solo nitidamente ma sono poi riportati alla mente
da certi indefinibili avvenimenti nelle ore di veglia. Dieci anni fa feci uno di
questi sogni. Edward Said era seduto per terra, sul tappeto azzurro che
ricordo cosí bene, nella nostra vecchia sala da pranzo. Era notte.
Appoggiava la schiena alla credenza che conteneva i piatti, i bicchieri e le
tazze da caffè, ma che invece nel sogno era piena di libri. Said aveva circa
trentacinque anni, piú o meno la mia età all’epoca del sogno. La pila di libri
sul pavimento accanto a lui gli arrivava al petto. Aveva un volume aperto in
grembo. Non avevo idea di cosa fosse. Non riconoscevo nessuno dei libri
nella pila, ma nel sogno non sembravano essere suoi. Sembravano invece
decisamente miei. E non sembrava sua nemmeno l’espressione del viso,
grata per quei libri, per il loro peso e il piacere che gli procuravano, e al
tempo stesso scoraggiata.
La sala da pranzo era quella del nostro appartamento al Cairo, dove la
mia famiglia aveva cercato rifugio dalla dittatura nel nostro paese, la Libia.
La nostra situazione non era certo insolita: il Cairo, come Londra, era una
città dove molti arabi andavano in esilio. Trent’anni prima, anche la
famiglia di Edward Said si era stabilita nella capitale egiziana. Nel 1948 lui
e i suoi familiari erano stati espulsi da Gerusalemme, la città dove Said era
nato e aveva trascorso la prima giovinezza, ed erano diventati dei rifugiati.
Per la mia famiglia quel temporaneo esilio si sarebbe prolungato fino a
coprire l’arco di una vita, ma in quei giorni al Cairo, e per molto tempo
ancora, continuammo a nutrire la realistica speranza di tornare in Libia nel
giro di un anno o due e riprendere la nostra vita a Tripoli. Suppongo però
che la situazione fosse diversa per la famiglia di Said. La loro era una
tragedia piú grande, frutto di un’occupazione straniera che, oltre
all’appropriazione delle terre e al furto delle risorse, pratiche coloniali
comuni, includeva un terzo elemento, la rivendicazione teologica su quella
terra. Un’occupazione che non lasciava quindi intravedere nessuna fine, e
che dovette sembrare, anche al giovane Said di quegli anni, un progetto a
lungo termine. Mi immagino Edward bambino che riflette, nelle ore
immobili della sua solitudine, nella sua vecchia camera da letto a
Gerusalemme, ora occupata da estranei, immagino le camere dei suoi
genitori e delle sue sorelle, e quelle delle case vicine di parenti e amici tra i
quali era cresciuto: una mappa di case rubate. Lo immagino mentre avverte,
in quel modo calmo e non sollecitato in cui percepiamo alcuni atti di
spoliazione, che il suo paese, e quindi anche lui, sta subendo una particolare
forma di violenza, un attacco che mira alla cancellazione.
Durante i primi anni della nostra nuova vita in Egitto, la mattina presto
aspettavo in strada l’autobus della scuola americana. Ogni volta che
appariva, grande, giallo e sproporzionato, sembrava del tutto implausibile.
La scuola si trovava nel sobborgo residenziale di Maadi. Con i suoi viali
larghi, gli alti eucalipti e le ville avvolte nei giardini, era la zona dove
statunitensi e britannici preferivano abitare. I miei compagni di scuola erano
quasi tutti figlie e figli di diplomatici, agenti e militari statunitensi.
Mostravano un singolare disinteresse per il Cairo, l’Egitto e tutto ciò che
era arabo. Era come se stessero trattenendo il fiato in attesa del momento in
cui sarebbero potuti tornare negli Stati Uniti. Perfino il pane dei panini che
mangiavamo ogni giorno arrivava dagli Stati Uniti. Mentre la mia scuola
voleva trasformarmi in uno statunitense, quella di Edward Said voleva fare
di lui un gentiluomo britannico. Il Victoria College, anche questo nel
quartiere di Maadi, poco distante dalla mia scuola, era stato, per dirla con
Said, «creato per istruire gli arabi e i levantini che avrebbero formato la
classe dirigente dopo il ritiro dei britannici». Fin dall’inizio, la vita e
l’istruzione di Said lo collocarono sulla linea di faglia tra la realtà del
dominio occidentale sulle terre arabe e il sogno arabo d’indipendenza e
sovranità.
Dopo la scuola americana al Cairo mi trasferii nel Regno Unito per finire
gli studi e iscrivermi all’università a Londra. È qui che, anni dopo, nel
2009, a distanza di qualche mese dal mio sogno su Said, ricevetti un invito
a tenere una conferenza alla Columbia University, proprio il luogo in cui
Edward Said, dopo aver conseguito il dottorato con una tesi su Joseph
Conrad, aveva ottenuto un posto nel Dipartimento di letteratura inglese e
comparata, e dove avrebbe trascorso tutta la sua carriera accademica, dal
1963 alla prematura scomparsa nel 2003. Tenni la conferenza e un anno
dopo accettai un posto al Barnard College, il college femminile di arti
liberali della Columbia University, dove ancora oggi insegno, trascorrendo
ogni autunno a Manhattan. E cosí per me quel sogno è sia parte di una
conversazione interiore, che all’epoca portavo avanti sul mio rapporto col
lavoro, sia una portentosa premonizione della vita semestrale che mi
aspettava nell’università di Said: una vita di letture, studio e insegnamento.

Forse non fu un caso se la mia immaginazione o il mio subconscio o


qualunque cosa determini i nostri sogni scelse Edward Said come
protagonista di quel sogno. In quel momento della mia vita ero in cerca di
libertà. Anelavo a un senso di espansione. E per me Said rappresentava,
allora come oggi, un pensatore dal repertorio insolitamente ampio. Essendo
cresciuto in un’epoca di controversie, in cui la cultura da cui provenivo e
quella in cui vivevo erano spesso presentate in termini di opposizione o di
scontro – sentimenti che trovo privi di verità, interesse o utilità –, l’opera di
Said offriva un’analisi di quel disagio oltre che un invito ad allargare il
quadro. Mostrava come preoccupazioni e curiosità potessero essere dettate
non da orientamenti culturali prestabiliti, ma dalle passioni e dalla
compassione di un umanista. La sua intelligenza e le sue passioni mi
diedero molta fiducia in me stesso. Insieme ad altri pensatori, poeti e artisti,
contribuí a convincermi che l’intera storia dell’arte e delle idee mi
apparteneva, realmente e direttamente. Nel suo approccio c’era un costante
elogio dello spirito di ricerca immaginativa, ed era pertanto un esplicito
affronto alle limitazioni poste dal pregiudizio e dalla mancanza di curiosità.
Ricordo molto bene la prima volta che lessi Orientalismo. Ebbe su di me
un effetto piú psicologico che intellettuale. Portava alla luce l’intrico di
tattiche usate da una cultura per dominarne un’altra, mostrando come i miti
fossero parte integrante del piano, oscuri fantasmi che parevano, al ragazzo
che ero, impossibili da afferrare, e come ogni tentativo fallito di afferrarli
potesse scatenare l’accusa di follia, superstizione o, peggio, esagerazione.
Said rivelava un regime fondato su un complesso sistema di distorsioni e lo
faceva con tale implacabile tenacia e chiarezza da lasciarmi profondamente
scosso. Mi faceva letteralmente battere il cuore.
All’epoca studiavo ancora all’università e leggevo solo occasionalmente
autori come Said. Nella stessa sezione della mia piccola libreria c’erano
Aristotele e Averroè, Schopenhauer, Spinoza e Kierkegaard. E a volte mi
procuravo la «London Review of Books», per la quale Said scriveva
regolarmente. Ma ciò che leggevo con piú assiduità e naturalezza erano
poesie e romanzi. Erano i luoghi in cui sperimentavo quell’inspiegabile
sensazione di riconoscimento che è il sentirsi ricordati, e m’imbattevo in
frammenti delle mie esperienze, echi della mia coscienza. La poesia e la
narrativa rappresentavano una mentalità, un luogo dove sentire e pensare.
Erano collegate alla mia personale volontà cognitiva.
Uno degli scrittori che all’epoca piú mi interessava, e al quale non ho
mai smesso di rivolgermi, era Joseph Conrad. La sua attrazione per i destini
disallineati, l’ineluttabile forza dei desideri umani, l’assenza di un resoconto
autorevole, le discrepanze tra la realtà e la mente umana, la natura del
tradimento, il bisogno di espiazione e, forse l’aspetto piú toccante – e lo
definirei un atteggiamento piú che un tema conradiano –, l’irrequietezza
indagatrice del linguaggio, che si avverte solo nelle profondità sotterranee
della prosa di Conrad ed è, a mio avviso, un sintomo del suo bisogno di
catturare a parole, atto effimero, i piú fugaci e fluidi adattamenti, le
quotidiane fragilità di una vita vissuta.
Sembrerà strano ma fu Joseph Conrad a farmi conoscere Edward Said e
non il contrario. La mia passione per Conrad mi condusse verso coloro che
aveva stregato, e Said, com’è noto, nutrí un incrollabile interesse per
l’opera di Conrad. La tesi di dottorato di Said, incentrata sullo studio delle
lettere e dei racconti di Conrad, diventò il suo primo libro, intitolato Joseph
Conrad e la finzione autobiografica. Nei quarant’anni successivi lo
studioso palestinese non smise mai di scrivere su Conrad. Anche nel suo
libro di memorie, Sempre nel posto sbagliato, Said proseguí l’obliqua
immersione nella vita e nel lavoro del romanziere, e nell’ambigua distanza
tra finzione e autobiografia. Per Said, Conrad era la nota di basso, il suo
cantus firmus, come amava dire, la struttura melodica di una sinfonia.
«Nessuno, – osserva Said, – ha rappresentato il destino dello spaesamento e
del disorientamento meglio di Conrad». Conrad era diventato per Said un
agente o un compagno segreto con cui avere il tipo di scambio che non
poteva avere con nessun altro. Le loro biografie avevano diversi punti in
comune: patria occupata, esilio dalla madrelingua, successo eccezionale nel
paese di adozione, che tuttavia non li protesse né li guarí del tutto dallo
straniamento e dallo sradicamento. Condividevano anche qualcosa di molto
piú intimo: traiettorie perfide, troppo complicate da riassumere a una
persona appena conosciuta, vite che rendono impossibile la brevità del
racconto di sé e che, di conseguenza, spingono a evitare l’argomento a piè
pari. Prendete, per esempio, la mia vita. Probabilmente siete già confusi
riguardo al mio luogo di origine esatto o ai posti dove ho vissuto. E se
dovessi impegnarmi a essere breve e chiaro – se dovessi, per esempio, dirvi
che sono nato a New York, a tre anni sono tornato in Libia con la mia
famiglia, quando ne avevo nove siamo andati in Kenya e poi in Egitto, a
quindici anni mi sono trasferito nel Regno Unito e negli ultimi otto anni ho
trascorso l’autunno a Manhattan – probabilmente susciterei altre domande
sulle cause di un simile itinerario. In altre parole, ci metteremmo un po’
prima di arrivare al punto. E anche in quel caso, rimarrei stranamente
frammentato, o provvisorio, proprio come suppongo che Conrad e Said, per
ragioni diverse, abbiano vissuto il loro posto nel mondo.

V. S. Naipaul non aveva tutti i torti nel definire Conrad «uno scrittore a
cui manca una società» e a dire che la sua «esperienza era troppo sparsa»
per farne un esperto di un luogo particolare. Lo stesso, naturalmente, vale
per Edward Said. Con la differenza che Said aveva, se non una società, un
popolo e una nobile causa: due doti che possono aiutare un pensatore
conferendo forza morale alla sua opera, ma che non necessariamente si
rivelano utili o vantaggiose per un artista. In Conrad, anzi, l’assenza di
fiducia nella stabilità di qualunque luogo o posizione ha reso piú toccante
l’evocazione del disorientamento e dello straniamento.
Per Said, l’idea di orientalismo, quella raccolta di nozioni prescritte che
una cultura ha rispetto a un’altra, è un teatro, uno spazio dove esibirsi, una
«geografia immaginaria», come lui la chiamava. Erano questioni che Joseph
Conrad conosceva bene. L’inquietudine è palpabile nelle sue pagine, che
spesso mostrano una sete quasi maniacale di comprensione e comprensività.
Conrad temeva di essere frainteso, o di non essere capito affatto. Percepiva i
rischi insiti nell’omettere alcune cose. L’omissione, naturalmente, è il
privilegio degli iniziati. Se io e voi apparteniamo alla stessa cerchia, non
abbiamo bisogno di dire molto per capirci. «Proprio cosí», «certo», «in
effetti» potrebbero essere alcune delle nostre espressioni piú frequenti.
Quando invece non possiamo permetterci di dare per scontati troppi
dettagli, siamo al tempo stesso insospettiti e affascinati dalla possibilità di
diventare un «uomo incantato», come Conrad definisce Axel Heyst, il
protagonista del suo romanzo Vittoria. Chi è incantato è senz’altro in grado
di dare per scontate molte cose, come in effetti fa Heyst. Conrad e Said
erano entrambi convinti che il linguaggio racchiuda indizi e cultura;
sembravano condividere con Freud l’idea che una delle funzioni del
linguaggio sia metterci a nudo, indurci a dire un po’ piú di quello che
crediamo di aver detto, e che i presupposti e le congetture rivelano
invariabilmente di piú su chi parla che non sull’argomento trattato.
Quando Said scrive che il ruolo principale di un critico è la
comprensione, e che Conrad aveva il dono di esporre pienamente la sua
anima al «vasto panorama dell’esistenza», prende atto della contraddizione
tra critico e artista. Conrad, a quanto pare, era condannato a procedere senza
il prerequisito della comprensione. Come molti artisti, viaggiava senza il
pieno, consapevole controllo del suo itinerario. Said, invece, come molti
critici, doveva leggere attentamente la cartina e riesaminare i percorsi
seguiti, illuminandone l’orientamento. Orientalismo era lo studio di uno
schema storico preciso, ma nasceva anche da un desiderio di orientamento e
forse di riorientamento, su come percorrere il controverso spazio storico
occupato dal mondo arabo nella seconda metà del ventesimo secolo. Le due
figure, Conrad e Said, il romanziere e il critico, si muovevano in direzioni
opposte. Si sono incrociati nei luoghi piú curiosi. Osservandoli in questa
prospettiva, non possiamo fare a meno di considerarli due rappresentanti di
una stessa tradizione, onorevoli vagabondi – diffidenti verso identità e
professioni fisse – uomini decisi, vuoi per natura vuoi per gli inconsolabili
vuoti tra le loro origini e i luoghi in cui approdarono, a rimanere per sempre
ospiti.

Quando penso a Conrad non penso al mare, al Congo né al Siam, ma


penso a Londra, la città che ho eletto a casa fin da quando ci arrivai da solo,
adolescente. Ricordo bene quel primo giorno. Mi misi alla ricerca di un
posto dove vivere. Il tempo a mia disposizione era limitato. Avevo
diciassette anni e stavo per cominciare l’università. L’estate volgeva al
termine e il sole splendeva. Feci qualcosa che non avevo mai fatto prima.
Camminando lungo Bayswater Road, tirai fuori la camicia dai pantaloni e
cominciai a sbottonarla fino a restare a petto nudo, con il tessuto che
svolazzava all’indietro. Qualcosa nell’accettazione e nell’indifferenza della
città, i suoi tanti segreti nascosti nelle pieghe delle strade, le sue promesse
di possibilità, mi faceva sentire spavaldo e spericolato. Eravamo a metà
degli anni Ottanta. Londra era un centro della vita intellettuale araba. Era
qui che si rifugiavano poeti e romanzieri quando la vita diventava troppo
restrittiva o pericolosa in patria, e qui era fiorito il giornalismo arabo, libero
dalla censura e senza troppi rischi personali. Un paio di giornalisti arabi
erano stati assassinati a Londra, ma restava un fatto isolato. Per questo
Conrad, ai miei occhi di diciassettenne, era solo uno dei tanti scrittori che vi
avevano trovato rifugio, e si era anche reso conto che Londra era una città
di confidenze, una città interessata alla segretezza e alla discrezione, una
città con una predilezione per le variazioni e le sfumature presenti nei
codici parlati e in quelli non detti, una città di iniziati e quindi attenta a chi è
previsto dal copione e chi no. Londra è cosí da molto tempo. Dev’essere
sembrata cosí negli anni Ottanta dell’Ottocento, un secolo prima del mio
arrivo, quando il giovane marinaio polacco Joseph Conrad entrò per la
prima volta nella capitale. Anche lui ne fu stregato. La città conquistò la sua
fiducia. Gli sembrò stranamente in sintonia con il suo temperamento, che
tendeva all’implicito, al gesto appena abbozzato. Aveva circa venticinque
anni e già mostrava scarso entusiasmo per le affermazioni esplicite, o forse
per qualunque tipo di affermazione. Aveva già vissuto molte cose. Aveva
perso il padre nella lotta per l’indipendenza polacca, era stato strappato alla
sua patria, aveva trascorso anni in mare e aveva provato, almeno una volta,
a togliersi la vita. Oltre al russo e alla sua madrelingua, il polacco, aveva
imparato almeno altre due lingue, il francese e l’inglese. Tutto ciò prima di
arrivare a Londra, una città che, dopo tanto girovagare, gli era sembrata,
come avrebbe scritto in seguito, «una città mostruosa» che, «nella sua
potenza creata dall’uomo», era «come indifferente ai cipigli e ai sorrisi del
paradiso». «C’era sufficiente spazio per ambientare qualunque storia, –
scrive Conrad, – sufficiente profondità per ogni passione, sufficiente varietà
per ogni ambiente e sufficiente oscurità per seppellire cinque milioni di
vite». Londra era un posto ideale dove nascondersi, o almeno cosí sembrò
al giovane Conrad e ai suoi fantasmi, perché non dimentichiamo che era
arrivato con i suoi fantasmi: quelli del padre e della madre, il sogno della
sovranità nazionale e tutte le sue identità del passato, dall’aristocratico
polacco al marinaio di una nave mercantile prima francese poi britannica,
fino al trafficante e poi al rispettabile capitano noto per la sua abilità e la
sua rettitudine. A trentacinque anni, Conrad aveva abbandonato il mare per
dedicarsi alla letteratura. Ambientò un solo romanzo a Londra, L’agente
segreto, ma visse e scrisse nella sua casa nel Kent, non lontano dalla
capitale, fino alla fine della sua vita. La sua produzione fu notevole. A
giudicare dalle opere complete sul mio scaffale, riunite in circa ventiquattro
volumi, Conrad scriveva in media una pagina compiuta di narrativa al
giorno, escluse le domeniche. Se consideriamo anche il resto della prosa e
le numerose lettere, scriveva tra le mille e le duemila parole al giorno.
Edward Said aveva una produzione simile, ma a differenza del romanziere
non fu mai davvero afflitto, come disse in un’intervista, dal blocco dello
scrittore, dal dubbio o dalla depressione. È curioso che Said abbia scelto
proprio questi tre disturbi, perché furono i demoni che piú tormentarono
Joseph Conrad nel corso della vita, con particolare virulenza nei tre decenni
in cui scrisse. Ma forse rispettarono entrambi una tabella di marcia cosí
esigente spinti da un’analoga irrequietezza. Era come se operassero
entrambi da un centro di riverbero, e ciò avesse in qualche modo a che fare
con il fatto che non potevano rivendicare la lingua né i luoghi che avevano
deciso di abitare.
Chiunque abbia vissuto in Inghilterra e abbia provato a farne la sua casa,
come sto facendo io da trent’anni, sa bene che diventare inglesi è
impossibile. Un’impossibilità al tempo stesso crudele e allettante,
soprattutto, credo, per una sensibilità come quella di Conrad. Immagino che
in alcuni momenti lo facesse infuriare. Qui poteva vivere, prendere la
nazionalità, alterare la letteratura, ma senza mai essere assimilato.
Immagino peraltro che possa sembrare un’agevolazione, una specie unica di
libertà, non dover mai essere riconoscenti a un luogo.
Verso le ultime fasi della stesura di quello che sarebbe diventato il suo
romanzo piú ambizioso, Nostromo, Conrad scrisse, sulla stessa carta
esageratamente sottile che prediligeva per la narrativa, una lettera a un
conoscente polacco. La scrisse in inglese, raccontando alcuni particolari
della sua educazione, la sua breve vita polacca, i suoi giorni in mare e la sua
trasformazione in un romanziere inglese. «Tanto in mare quanto a terra, –
spiegava, – il mio punto di vista è inglese, ma non bisognerebbe trarne la
conclusione che sono diventato un inglese. Non è cosí. Homo duplex nel
mio caso ha piú di un significato».
La doppiezza e la duplicità preoccupavano Conrad. Scriveva come se si
fosse convinto di poter collocare tutta l’assenza in un unico luogo. In
L’agente segreto, il suo romanzo londinese, la copertura del protagonista
Adolf Verloc salta. La spia non può piú nascondere la verità alla moglie
Winnie. La donna, di fronte alla vera identità del marito e alle tragiche
conseguenze delle sue azioni, è inconsolabile. Eppure non fa domande. Non
protesta né indaga. Sa che le risposte portano con sé la consolazione dello
scontro e la speranza di una risoluzione. Winnie rifiuta di ingaggiare
battaglia. Diventa impenetrabile come una roccia, arida come una pagina
bianca, e questo tormenta Verloc. Non sa cosa fare. Il suo errore principale,
pensa, è aver vissuto quasi sempre una doppia vita, aver creduto di poter
essere amato per quello che era. Cosa bisogna fare per essere amati per
quello che siamo? Quali sono gli ostacoli? E cosa succede quando non
siamo amati per quello che siamo? Quali sono le cose giuste per le quali
dovremmo essere amati? Con che tipo di amore possiamo vivere? Sono
temi – il desiderio e la duplicità, l’appartenenza e lo straniamento – che
aleggiano su L’agente segreto e tornano nel racconto Amy Foster, che Said
considerava «il piú cupo dei racconti di Conrad».
È la storia di un uomo dell’Europa dell’Est che, per farsi una nuova vita
negli Stati Uniti, s’imbarca clandestinamente su una nave che naufraga sulla
costa meridionale dell’Inghilterra. Sembra essere l’unico sopravvissuto.
Stanco, con la barba e i capelli lunghi, incapace di parlare inglese, approda
in un villaggio del Kent. Gli abitanti del posto sono diffidenti e ostili.
L’uomo, però, si rade, impara qualche parola di inglese e le persone
cominciano a tollerarlo. Trova perfino l’amore e sposa la semplice Amy
Foster, la figlia del contadino. Hanno un figlio, con il quale lo straniero è un
po’ piú affettuoso di quanto usi da quelle parti, ma anche quegli eccessi
sono tollerati. Un giorno si ammala gravemente. Una violenta febbre lo
travolge. Comincia a vaneggiare nella sua lingua. Amy Foster non sopporta
le sue incomprensibili allucinazioni. Si chiede se il marito forestiero sia
posseduto dal diavolo. «In lei ormai non c’erano che l’istinto materno e
quell’inspiegabile paura», ci dice Conrad, subito prima che Amy Foster
prenda il bambino e abbandoni l’immigrato malato che, come Adolf Verloc
in L’agente segreto, ha creduto, sbagliando, di poter essere amato per quello
che era. È la storia di un uomo che non riesce a farsi capire ed è condannato
a un incessante bisogno di traduzione, esposto alla mutevolezza dei suoi
strumenti, inevitabilmente approssimativi. Ciò che dice in quelle febbrili
ultime ore non ci viene tradotto. Conrad non racconta cosa l’uomo sta
cercando di dire, come se dovessimo capire che nella bocca di ogni
naufrago sono racchiuse tutte le parole mai pronunciate, tutte le assenze
riunite in un unico luogo. Questo racconto colpí profondamente Said.
Conrad, scriveva: «Deve aver temuto di morire di una morte simile,
inconsolabile, solo, parlando una lingua che nessuno capiva». E mi chiedo
se anche Said non temesse la stessa fine. Spesso si rammaricava del fatto
che la storia dell’esproprio e dell’espulsione della sua famiglia dalla
Palestina, che poi è la storia della Palestina, non fosse stabile; che dovesse
ripeterla senza sosta, perché parte del progetto israeliano era e rimane la
deliberata distruzione della struttura narrativa che sostiene il popolo e la
storia della Palestina. Mentre le storie di altri popoli e di altre nazioni
potevano contare su alcuni presupposti, quella palestinese era, soprattutto
negli Stati Uniti di allora, un resoconto contestato. I palestinesi, in altre
parole, non possono pensare di essere amati o apprezzati per quello che
sono, e la loro disgrazia nazionale – vivere sotto occupazione – li espone al
rischio di non essere creduti. Per il semplice fatto di esistere, sono
intrappolati in un argomento controverso.

Un altro autore colpito dall’opera di Conrad, in particolare dal racconto


Amy Foster, fu il filosofo britannico Bertrand Russell. Avviò una
corrispondenza con il misterioso romanziere che viveva nel profondo Kent
(non lontano dai luoghi dove è ambientato Amy Foster) e, poco dopo
l’inizio dello scambio epistolare, prese un treno da Londra per andare a
trovare Conrad. Quando si incontrarono Russell rimase sbalordito dal fatto
che uno dei piú eloquenti scrittori in lingua inglese parlasse con un forte
accento d’Europa dell’Est. Secondo alcuni testimoni dell’epoca, con il
tempo l’accento di Conrad diventò sempre piú marcato e spigoloso, come
se vivendo in Inghilterra provasse il bisogno di segnalare la sua estraneità o
fosse spinto dalla nostalgia, perché sebbene non ne scriva mai è difficile
credere che non abbia mai provato l’ardente desiderio della sua lingua
madre. Conrad era cresciuto in un ambiente letterario. Suo padre aveva
tradotto Dickens e Shakespeare in polacco. Ma, al di là di questa prima
impressione, Russell rimase colpito dall’intero incontro. Ne scrisse, quasi in
preda all’estasi, subito dopo essersi congedato da Conrad, sul treno per
Londra, in una lettera indirizzata alla sua amante, Lady Ottoline Morrell.
Era stata proprio Morrell, una protettrice delle arti nota per il suo salotto
letterario, a mettere in contatto i due uomini. «Eccomi di ritorno dopo
Conrad, – esordisce nella lettera. – È stato meraviglioso. L’ho amato e
penso di essergli piaciuto. Ha parlato a lungo del suo lavoro, della sua vita e
dei suoi obiettivi, oltre che di altri scrittori». Era il 1913. Conrad aveva
cinquantacinque anni, Russell quarantuno. Entrambi si erano sentiti
intimiditi e imbarazzati. Poi Conrad aveva portato il suo ospite a fare una
passeggiata e, nei silenzi, Russell aveva sentito nascere una grande intimità
tra loro. Scrive: «Mi sono fatto coraggio e gli ho detto cosa trovo nei suoi
scritti – il modo in cui scava nelle cose fino a raggiungere il fondo, sotto i
fatti visibili. Mi è sembrato che pensasse che lo avevo capito. Mi sono
fermato e per un po’ ci siamo semplicemente guardati negli occhi, e poi ha
detto che aveva cominciato a desiderare di poter vivere alla superficie e
scrivere diversamente, che aveva cominciato ad avere paura. In quel
momento i suoi occhi esprimevano la sofferenza e il terrore interiori che
sembra combattere senza tregua. Ha detto che era stanco di scrivere e che
sentiva di aver fatto abbastanza, ma che doveva andare avanti e ripetere
ancora». Poi accadde qualcosa di strano. Conrad cominciò a parlare a
Russell di un argomento che non aveva quasi mai affrontato in
conversazioni o nei suoi lavori. Cominciò a parlare, a quel signore inglese
che conosceva appena, dell’argomento taciuto: la Polonia. E dopo aver
cominciato, non riuscí a fermarsi. Si abbandonò ai ricordi, e lo fece con
vivacità e tenerezza. Forse avrebbe voluto, come per magia, portare laggiú
il suo nuovo amico, accompagnarlo nei luoghi che per primi lo avevano
visto mettersi in viaggio. Quando rientrarono dalla passeggiata, Conrad
stava ancora parlando dello stesso argomento. Tirò fuori un vecchio album
di foto di famiglia degli anni Sessanta dell’Ottocento, che mostrava la vita a
Varsavia prima che la sua famiglia fosse mandata in frantumi dalla violenza
politica, dalla morte e dall’esilio. Seduto in treno, saldamente nel suo paese,
Russell scrisse che Conrad gli aveva detto come «tutto ciò sembrasse un
sogno, e come a volte pensasse che non avrebbe dovuto avere figli, perché
non avevano radici né tradizioni né affetti». Il desiderio di Conrad di vivere
alla superficie è doloroso e paradossale. La sua condizione di estraneo in un
certo senso lo mantenne alla superficie, mentre la sua opera s’immergeva
nelle profondità. Forse quello che confidò a Russell, in quella rara messa a
nudo, fu che avrebbe desiderato avere una natura diversa e che, come Jean
Rhys, altra scrittrice sradicata, o forse come ogni persona ragionevole,
dovendo scegliere avrebbe preferito essere felice piuttosto che scrivere.
Undici anni dopo morí, a casa sua, con accanto la moglie e un figlio.
Quando Virginia Woolf ricevette la notizia, scrisse un necrologio. Si apriva
con queste righe: «All’improvviso, senza darci il tempo di mettere insieme i
nostri pensieri né di preparare le nostre frasi, il nostro ospite ci ha lasciati; e
questo suo ritirarsi senza commiato né cerimonia è in linea con il suo
misterioso arrivo, molti anni addietro, per prendere alloggio in questo
paese». Woolf illustra un particolare e incrollabile limite dei britannici, per i
quali una persona può vivere con loro quarant’anni, scrivere una prosa
inglese tra le piú luminose mai scritte e rimanere comunque un ospite in
casa loro. Ma a dispetto del suo snobismo, che si rivela quando parla di altri
scrittori non inglesi come James Joyce, Woolf aveva colto con finezza un
aspetto di Conrad. Era stranamente deciso a rimanere un ospite. Forse la
scelta dell’Inghilterra come casa, e il «punto di vista» inglese di cui parlava
nella lettera all’amico polacco, erano in parte dovuti alla sua riluttanza ad
assimilarsi del tutto. Anche il fatto che Woolf evochi la questione del tempo
– «senza darci il tempo di mettere insieme i nostri pensieri» – è
significativo, perché una delle caratteristiche di un ospite è quella di non
riuscire quasi mai, per quanto si sforzi, ad arrivare o a partire in tempo.
L’ospite rimane concretamente soggetto a chi lo accoglie. E come il suo
accento sempre piú pronunciato, anche la prosa di Conrad risalta. È una
lingua tormentata dalla soggettività. È inglese ma non d’Inghilterra. È
bizzarro. Le sue frasi sono strane. Provengono dal paese Conrad, che
naturalmente non è un paese. Parte di ciò che ammiriamo in Conrad, e che
avrebbe potuto interessare Virginia Woolf, è che senza «cerimonie» Conrad
ha realizzato cose straordinarie dall’interno della sua estraneità, rimanendo
in quel territorio irrisolto e forse irrisolvibile dove il passato è sparso in
vecchie foto di famiglia, comunicabile solo attraverso mezzi ricordi che
probabilmente risultavano insignificanti a chi lo circondava, e dove il futuro
è una terra incerta e senza radici. Essere un ospite vuol dire sentirsi sospesi
tra ciò che è accaduto, ed è ora distante e avrà sempre bisogno di
traduzione, e la desolazione che si ha davanti, giorni che richiederanno
nuovi atti di rinuncia, dove la vita rischia di essere un progetto da definire e
costruire piú che da vivere. Gli ospiti si credono soli, si sentono sull’orlo di
qualcosa, pensano che non ci sia nessun altro come loro. «L’esilio è una
condizione gelosa, – ha scritto Edward Said. – Ciò che conquisti è
esattamente ciò che non desideri condividere». Non c’era nessun altro
polacco trapiantato in Inghilterra e diventato romanziere con cui Conrad
avrebbe potuto scambiare impressioni. Said era uno scrittore la cui stessa
esistenza contraddiceva l’affermazione della prima ministra israeliana
Golda Meir, che nel 1969, quando Said aveva trentatre anni, dichiarò che «i
palestinesi non esistono», dichiarazione accompagnata da una politica di
omicidi mirati di voci palestinesi, tra cui quelle degli scrittori. L’automobile
del romanziere Ghassan Kanafani fu fatta esplodere, uccidendo lui e la
giovane nipote. Un anno dopo le forze speciali israeliane uccisero anche il
poeta Kamal Nasser. Queste azioni suscitarono poche polemiche a New
York, dove Said viveva e scriveva. I palestinesi sembravano ridotti a ospiti
e fantasmi non solo in patria, ma anche sulla scena internazionale.
Il posto di un ospite è sulla soglia, lungo il confine. L’ospite si trova nel
punto di conversione, un luogo vertiginoso e annebbiante dove è facile
smarrirsi. Razumov, il protagonista del romanzo di Conrad Sotto gli occhi
dell’Occidente, riflette con crescente interesse sulla possibilità della propria
trasformazione. È «affascinato dal suo approccio, dalla sua logica
schiacciante», convinto che «il filo dei pensieri non sia mai falso», che «la
falsità risieda nel profondo delle necessità dell’esistenza, in timori segreti e
mezze ambizioni, nella segreta fiducia unita alla segreta diffidenza verso
noi stessi, nell’amore della speranza e nel terrore dei giorni incerti». Forse
essere un ospite è essere continuamente suscettibile di conversione.

Com’era successo a Conrad, anche Said prese un accento arabo sempre


piú marcato vivendo negli Stati Uniti. I luoghi dove i due uomini si
stabilirono influenzarono la traiettoria della loro scrittura. Se per esempio
Conrad fosse andato negli Stati Uniti, dov’era diretta la nave dello
sfortunato naufrago di Amy Foster, avrebbe scritto libri diversi. Avrebbe
potuto mettere fine al suo sradicamento, che so, a San Francisco e lí
scrivere libri sul mare e altri argomenti, ma anche sugli Stati Uniti. Non
riesco a immaginare Conrad che scrive Cuore di tenebra in California. E
credo che questo ci dica molte cose sia su Conrad e Cuore di tenebra sia
sull’Inghilterra, il paese dalla superficie scivolosa, dove è estremamente
difficile per un nuovo arrivato trovare un punto d’appoggio. Allo stesso
modo, è difficile immaginare Edward Said che insegna, per dire, a
Cambridge, dove Bertrand Russell insegnò per molti anni. Posso
immaginarlo che scrive da lí il suo libro su Conrad o il bellissimo
Beginnings, il saggio di critica letteraria che esamina le prime righe di
un’opera in prosa e le precise implicazioni di quegli atti semicoscienti.
Riesco perfino a immaginarmelo mentre scrive il suo libro di memorie,
Sempre nel posto sbagliato, che naturalmente sarebbe stato un libro diverso,
considerata la vita inglese che avrebbe vissuto. Ma è difficile immaginarlo
intento a scrivere Orientalismo o Covering Islam. Come i media e gli
esperti determinano la nostra visione del resto del mondo, l’eccellente
studio forense sulle distorsioni causali e le loro conseguenze politiche e
culturali, in cui analizza le strategie automatiche coercitive cui i mezzi
d’informazione occidentali ricorrono per parlare del mondo islamico.
Quello che voglio dire è che le strategie di politica estera e di politica dei
sentimenti con cui Edward Said si confrontò negli Stati Uniti, e forse ancora
piú intensamente a New York – dove le sue critiche contro Israele per le
violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani gli valsero numerose
minacce di morte e una bomba incendiaria contro il suo ufficio
all’università –, tutto ciò contribuí ad accentuare e a rendere piú rigoroso il
suo desiderio di smascherare l’ingiustizia e l’ipocrisia. Sia Conrad che Said
trovarono uno stimolo nei luoghi dove si erano stabiliti e che, in vario
modo, si mostravano indifferenti o ostili nei loro confronti.
E questo, credo, è il motivo profondo per cui Conrad e Said sono rimasti
vitali. Ognuno nutriva una speranza diversa: Conrad nelle possibilità
dell’arte, Said nel fatto che l’esperienza dell’esilio e dello sradicamento, la
condizione stessa dell’ospite, significa che i diseredati odierni saranno piú
adeguati alle esigenze del futuro, che l’immigrato e l’esule condannati a
quotidiani atti di traduzione – a tradurre sé stessi in costumi, modi e lingua
straniera, dovendo pertanto attraversare all’infinito la soglia tra intenzione
ed espressione, tra il sentimento celato e la sua forma esteriore – in un
domani saranno avvantaggiati dal loro fardello. Vorrei credere che sia vero,
ma non ne sono certo. Ciò che mi è chiaro è che, nonostante i loro diversi
atteggiamenti e sensibilità, e le differenze nella loro opera, sia Conrad sia
Said sembrano rivolgersi direttamente a dove ci troviamo oggi: le guerre, la
dimensione epica degli spostamenti e delle migrazioni di persone, e
l’ostilità verso gli immigrati, e la serena ammissione che viviamo in
un’epoca di grande frammentazione, come se vedessimo la superficie delle
cose spaccarsi. I pezzi che formeranno il futuro rimangono confusi e
inaffidabili. L’inaffidabilità pervade tutto ciò che hanno scritto Conrad e
Said. Ed è un grande scherzo della storia, almeno ai miei occhi di lettore
riconoscente, che questi due uomini, Joseph Conrad ed Edward Said, nati in
culture ed epoche diverse, si siano incontrati non solo nella lingua inglese
ma anche nei loro momenti piú intimi.

Traduzione di Francesca Spinelli


Gli altri Quanti
Speranze
Abbiamo avuto paura in questi mesi. Ancora ne abbiamo, ancora ne avremo: inutile negarlo.
Per questo partiamo dalle speranze.
La speranza è un continente, diceva Ernst Bloch nella sua opera-capolavoro Principio speranza,
un continente «abitato quanto quello piú civilizzato, e inesplorato quanto l’Antartide». Un territorio
ancora piú misterioso quando le speranze sono nuove perché nascono in reazione a paure nuove,
gemmano da eventi imprevisti (ma non imprevedibili) che, come la pandemia da Covid-19,
stravolgono le nostre vite.
Ecco perché, per iniziare la nuova serie dei Quanti Einaudi, abbiamo chiesto alle scrittrici e agli
scrittori di essere, ancora una volta, i primi cartografi di questa nuova geografia. Di mandarci i loro
dispacci da un continente con cui abbiamo un enorme bisogno di entrare in contatto.

Le speranze sono di solito considerate sentimenti trasformativi, fondamentali in qualsiasi progetto


che si prefigga di rendere il mondo un posto migliore in cui vivere. Certo, diceva Camus, Elpis – per
i Greci «l’ultima dea», la personificazione della speranza – ha anche un volto oscuro: «al contrario di
quel che si crede, equivale alla rassegnazione. E vivere, è non rassegnarsi». Le speranze possono
essere infatti dei formidabili dispositivi di controllo, qualcosa di cui ci si accontenta, quando è il
potere a decidere ciò che devi sperare per poter essere felice, in modo da non farti mai nemmeno
immaginare quello che felice potrebbe renderti davvero. Eppure è impossibile pensare di condurre
una vita senza domani. Mai come nei mesi passati chiusi nelle nostre case ci siamo resi conto di
avere bisogno di una via d’uscita, di un orizzonte che ci permettesse di guardare oltre; e ci siamo
posti delle domande, che hanno riguardato quasi sempre la paura e, appunto, il suo antidoto: la
speranza.

Se – per usare una metafora di Eula Biss – ha senso avere timore delle acque profonde, ma è
difficile capire quanto si debba essere cauti in mezzo ai tanti pericoli inventati del mondo, esiste
allora un buon uso che possiamo fare della paura? Un uso che ci consenta di non essere
ingenuamente sprezzanti, senza però finire col credere agli inesistenti mostri della laguna nera? Se –
dice Marco Filoni – le paure non possono essere eliminate dall’equazione dell’esistenza, possiamo
fare in modo che il risultato di tale equazione non sia il terrore che paralizza? Se, come si chiede il
narratore in Margherite di Ascanio Celestini, «in lockdown» i tabaccai potevano restare aperti,
perché i fiorai invece no? Una questione di poco conto, apparentemente, ma che spalanca degli abissi
se il fioraio è quello vicino al cimitero, mettendoci di fronte a quanto siamo ancora piú disarmati e
soli davanti a un lutto, soprattutto se veniamo privati dei contatti con il prossimo e ci restano soltanto
le parole: né un abbraccio né un mazzo di fiori.
Come ci ha rivelato Antonella Lattanzi, esserci ritrovati da soli (o quasi) a dare forma al proprio
presente, e alla propria paura, ha significato anche dover sfoderare tutte le armi a nostra disposizione
per sopravvivere, scoprendo un senso di stupefacente libertà. Nel buio abbiamo visto le possibilità
scintillare piú brillanti. E ci siamo chiesti se non fosse il caso di mettere in discussione quel che
prima credevamo non si potesse discutere. La crisi sanitaria – scrive Hisham Matar – ci ha
certamente portati a essere sospettosi l’uno dell’altro; ma proprio per questo è stato necessario
inventarsi strategie per difendere oltre ai corpi anche l’immaginazione. Lo abbiamo dovuto fare per
non essere impreparati ad accogliere gli ospiti che in futuro torneranno ad arricchire le nostre vite.

I testi che compongono il primo «numero» dei Quanti Einaudi si fanno queste e altre domande.
Senza la presunzione di avere delle risposte certe, magari soltanto per far sorgere altri dubbi. Perché
come ha intuito Paolo Giordano, tra i piú acuti commentatori di questi mesi difficili, con un po’ di
lucidità in piú e un po’ di paura in meno arriveremo a riconoscere che una delle lezioni piú importanti
che dobbiamo sforzarci di imparare è il dubbio.
In un’epoca dominata dall’assertività, il dubbio è stato riportato al centro del discorso e, pur tra
mille urla di disturbo, gli scienziati, gli esperti (almeno quelli piú accorti) hanno cercato di
interpretare la realtà senza ricorrere a slogan; lo hanno fatto rischiando di apparire incerti, di
contraddirsi, di sbagliare, e hanno riscoperto per noi la categoria proibita del non-sapere.

La Speranza è rappresentata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova come una figura
alata che tende le braccia verso una coroncina: è sospesa tra due momenti, sempre in bilico, in un
equilibrio fragile e necessario. Ma è anche l’immagine di chi colma una distanza, di chi crea un
collegamento, dell’inquieto ma insopprimibile desiderio di lasciarsi toccare dalla Speranza stessa.
Questo è lo spirito anche dei Quanti Einaudi: restiamo in contatto.
La redazione dei Quanti
«Si parla tanto dei cambiamenti che saremo in grado o no di fare nel mondo post-
Covid che verrà. Bene, eccone uno particolarmente importante: mantenere viva questa
tensione verso ciò che non conosciamo. Esiste un modo di educare al non-sapere? Di
insegnarlo già ai bambini, sovvertendo il principio dominante che la conoscenza sia un
corpo statico di nozioni di cui appropriarsi pezzo a pezzo?»

Paolo Giordano, Le cose che non voglio dimenticare

«C’è una speranza? Le storie non sono fatte per rispondere a questa domanda. A
nessuna domanda. Le storie sono fatte per raccontare te. Quello che sai e non sai di te,
quello che vuoi e non vuoi essere».

Antonella Lattanzi, Salvarsi. Come uscire dall’Overlook Hotel

«La paura isola chi ha paura. E sono arrivata a credere che la paura sia un atto di
crudeltà nei confronti di quelli di cui abbiamo paura».

Eula Biss, Terra di nessuno

«La felicità della gente a passeggio non mi fa nessun effetto. Mi colpisce di piú
vedere le persone che parlano asetticamente, senza passione e senza nemmeno cercare
di fingere un po’ di interesse. Le guardo e penso: statevene a casa. Perché andate in giro
a spargere la vostra rassegnazione per strada?»

Ascanio Celestini, I parassiti. Tre vite ai tempi del contagio


«Ecco perché non bisogna provare vergogna della paura. Se deleghiamo la nostra
paura non faremo altro che rinunciare alla nostra libertà – fra le altre anche a quella di
avere paura – in favore di una nuova paura, il terrore».

Marco Filoni, Il calcolo della paura


Il libro

«S IAMO STRANAMENTE CONVINTI CHE NULLA SARÀ PIÚ LO

Ripenseremo i nostri atteggiamenti verso la natura e il consumo? O


soccomberemo ai tetri richiami di quanti ribadiscono che la lezione di
STESSO.

tutto ciò è una sola, e che dovremmo temere ancora di piú gli stranieri e costruire
muri piú alti?»
I «momenti sospesi» sono quegli istanti in cui le conseguenze non sono ancora
scritte, e si trattiene il fiato in attesa di un cambiamento. Sono attimi che possono
durare mesi, come quelli che abbiamo vissuto durante l’emergenza per la pandemia,
o una vita intera, come per chi si ritrova ad abitare una terra da ospite, confinato sulla
soglia. Hisham Matar evoca questi peculiari momenti di passaggio attraverso le mani
di due bambine tese verso una farfalla, in un dipinto mai guardato con la giusta
attenzione, nell’incontro in sogno con un antico maestro. E ci mostra come in un
tempo congelato possano convivere i dubbi piú neri e gli auspici piú luminosi.
L’autore

Nato nel 1970 a New York da genitori libici, HISHAM MATAR è vissuto a Tripoli e
poi al Cairo prima di trasferirsi a Londra. Per Einaudi ha pubblicato Nessuno al
mondo, tradotto in ventinove lingue e finalista al Man Booker Prize, Anatomia di una
scomparsa, Il ritorno, vincitore del Premio Pulitzer 2017 per l’Autobiografia e del
Rathbones Folio Prize 2017, e Un punto di approdo.

Le traduttrici.

ANNA NADOTTI è traduttrice dall’inglese e critica letteraria. Collabora con


numerose testate e con la Scuola Holden. Fra gli autori da lei tradotti, oltre a Hisham
Matar, A. S. Byatt, Amitav Ghosh, Anita Desai, Rachel Cusk, Tash Aw, Maaza
Mengiste e Virginia Woolf.

FRANCESCA SPINELLI è una giornalista e traduttrice dal francese e dall’inglese


nata nel 1980. Tra gli autori tradotti, Honoré de Balzac, Ismail Kadaré e
Chimamanda Ngozi Adichie. Vive a Bruxelles e collabora con «Internazionale» e
altre testate europee.
Dello stesso autore

Nessuno al mondo
Anatomia di una scomparsa
Il ritorno
Un punto di approdo
Quanti Einaudi, nuova serie, 2
Titolo originale Visiting the Museum in My Mind
© 2020 Hisham Matar. Originally published in New York Times, May 15th 2020
Titolo originale The Guests
© 2019 Hisham Matar. Originally published in Granta #146, 2019
© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
© 2021. Foto The National Gallery, London / Scala, Firenze.
Foto © Willi Ruge / Ullstein Bild via Getty Images.
Progetto grafico: dieci04
Immagine di copertina: elaborazione da foto di Tanya Trofymchuk on Unsplash

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Ebook ISBN 9788858436783


Indice

Copertina
Frontespizio
Quanti Einaudi
Momenti sospesi
Momenti sospesi
Gli ospiti
Gli altri Quanti. Speranze
Il libro
L’autore
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Copyright

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