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VERONICA RAIMO / 29.6.2021
Il razzismo in fotografia
Il mito del fotoreporter, gli automatismi, identity politics e
decolonizzazione dello sguardo: una conversazione.
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Q
“decadenza” e “pericolo”. A Tijuana tirai
fuori la macchina fotografica per ritrarre
delle prostitute giovanissime, palesemente
minorenni, ragazzine, che adescavano
clienti in strada sotto lo sguardo connivente
della polizia, nonché il nostro, ossia quello dei turisti. Nel mio ruolo improvvisato di
fotoreporter mi sentivo particolarmente audace perché avremmo potuto consegnare alla
rivista non solo le immagini dell’on the road per gli Stati Uniti, ma anche quello
spaccato di neorealismo messicano. Le cose andarono diversamente. Nel giro di qualche
minuto, fui avvicinata da un poliziotto che mi sequestrò la macchina fotografica. A dirla
tutta, cominciò anche a insinuare che avessimo dietro della droga (non avevamo niente),
poi l’insinuazione divenne un’accusa e il messaggio esplicito. Finimmo per dargli dei
soldi (mi sembra cento dollari), e ci lasciò stare, ma mi costrinse a cancellare le foto che
avevo fatto alle prostitute. Fu uno strano momento quello in cui io e un uomo in divisa
guardavamo insieme sullo schermo di una macchina digitale i corpi fotografati di quelle
ragazzine seminude per poi eliminarne l’esistenza.
Benché fosse un palese atto di corruzione da parte della polizia messicana, oggi devo
dire che sono felice di aver cancellato le foto. Che stavo cercando di fare? Ritrarre quelle
ragazze non faceva parte di alcun lavoro di denuncia o inchiesta (e anche in quel caso:
sarei stata legittimata a farlo?), corrispondeva piuttosto al desiderio narcisista di avere
delle immagini “forti”, e in un certo senso “più esotiche” da consegnare a un giornale.
Non mi ero minimamente posta né il problema di avere il consenso da parte dei soggetti
fotografati, né mi ero fatta domande su quale fosse in quel momento il mio “sguardo” su
quei corpi. In effetti non mi ero proprio fatta domande in generale.
Nel suo celebre saggio Davanti al dolore degli altri, Susan Sontag scrive:
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Ovviamente non mi sentivo una fotografa della Magnum, ma era chiaro che il mio
immaginario rispetto al reportage fotografico fosse costituito da quel tipo di narrazione.
È interessante, d’altro canto, notare come il saggio di Sontag, che si propone, in un certo
senso, di decolonizzare questa idea di racconto e sia un saggio relativamente recente
(2003), finisca per avere come riferimenti iconografici – sia in positivo che in negativo
– quasi esclusivamente fotografi che afferiscono a quell’immaginario. In un’altra parte
del libro Sontag scrive:
La perdita di questa percezione – per Sontag che cita uno studio della storica tedesca
Barbara Duden – sembra derivare più da un processo di secolarizzazione che da
un’esplicita volontà di non ricorrere a quell’iconografia.
Eppure se pensiamo alla foto di Samuel Aranda che ha vinto l’edizione 2012 del World
Press Photo ritroviamo un affresco della pietà mediato dalla raffigurazione di
Michelangelo. Nelle prime pagine del suo saggio Contro l’impegno, Walter Siti scrive:
“Un Prigione di Michelangelo può essere gradevole alla vista quanto uno splendido
copricapo di piume dei nativi americani: ma ha dentro più cose, più tecnica, più
filosofia, più coerenza, più cultura sedimentata”. A che serve un paragone del genere?
Perché mai una statua dovrebbe essere paragonata a un copricapo? E le “cose” in più
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che il Prigione di Michelangelo ha dentro, chi ce l’ha messe? Non sono forse date dai
codici di chi oggi guarda quella statua?
Nel suo saggio Decolonising The Camera: Photography in Racial Time, Mark Sealy fa
giustamente notare che per decolonizzare lo sguardo non basterà ampliare lo spettro di
chi fotografa, ma anche di chi interpreta: studiosi, accademici. Un critico d’arte del Mali
avrà riferimenti culturali, religiosi ed estetici diversi da uno statunitense, e quindi
troverà “dentro” le opere “altre cose”, un diverso tipo di “cultura sedimentata”.
Nei diversi saggi che compongono Contro l’impegno, Siti rivendica una complessità
della letteratura contro una letteratura ridotta a didascalismo e pedagogia. Nel secondo
capitolo, Siti accusa Saviano di aver messo la letteratura a servizio delle fotografie nel
libro In mare non esistono taxi, edito da Contrasto, relegandola a un ruolo ancillare. “Il
ragionamento di Saviano” spiega Siti, “si basa su un postulato tanto diffuso quanto
indimostrabile: che l’immagine sia più efficace delle parole, che ‘prenda più allo
stomaco’”. Per sfatare questo postulato indimostrabile, Siti mette a confronto una foto
“iconica”, riprodotta da Saviano, di un bambino “africano rannicchiato e morente
mentre un avvoltoio sta sinistramente aspettando che il cadavere sia disponibile” con un
breve racconto di Parise in Sillabario n.2, dove c’è un “altro bambino africano
accoccolato e intento ad arrostire, con fatica, un topo che poi mangerà”. Nel racconto, ci
dice Siti, c’è un momento “in cui passa uno sguardo di reciproca vergogna tra il bambino
e il reporter, e per tenere fede a quella vergogna Parise lima il suo stile fino a una
sobrietà nitida e disumana”. La conclusione è che: “non c’è immagine al mondo che
possa valere questa meditazione sul mestiere”. Be’, mi verrebbe da obiettare, ci sono un
mucchio di immagini che valgono quella meditazione sul mestiere, se solo non si
affidasse alla fotografia il ruolo di dover appunto “prendere allo stomaco”, di essere di
per sé un mezzo più “potente” perché in fondo “più semplice” e “più immediato”,
incapace della polisemia letteraria tanto cara a Siti. Quello di cui Siti accusa la
letteratura del neo-impegno rispetto a una letteratura più complessa è la stessa accusa
che si può rivolgere a tanta fotografia pensata per trasmettere un messaggio, con
l’aggravante che spesso questo messaggio viene trasmesso da fotografi appartenenti a
mondi privilegiati chiamati a raccontare il tormento dei vari “bambini africani”
rannicchiati, accoccolati e denutriti che se la vedono con avvoltoi o topi.
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In una breve analisi di Broomberg & Chanarin del 2008 sulle immagini che partecipano
al World Press Photo, i due artisti passano in rassegna una serie di cliché legati alla
rappresentazione tipica del fotogiornalismo, dove a parte le pietà michelangiolesche si
possono ritrovare: donne partorienti, bambini che giocano con pistole giocattolo, aghi
infilati nelle braccia di tossici, riflessi nelle pozzanghere, ragazzini palestinesi che tirano
pietre, ecc.
[N.d.A. Ho preferito lasciare ogni definizione legata all’appartenenza etnica così come
mi è stata proposta dalle intervistate. Uniformare richiede una norma redazionale e
grammaticale che è di per sé problematica].
Ferri: Il colonialismo fotografico è stato una pratica molto forte anche nei grandi
maestri, prendi Eugene Smith. L’idea di andare in un’altra cultura e trarne delle sintesi
sociologiche e antropologiche oggi è messa in discussione. Le nuove generazioni di
fotografi sono anche più colte e consapevoli di un tempo. Non hanno più bisogno
dell’aura che ha circondato la figura del fotoreporter fino agli anni ’80 e ’90, dove c’era
sempre una certa smania di azione: “andare, fare, andare, fare, vedere”, un senso di
avventura. La sfida non è più così “muscolare” se per arrivare in un posto ti basta
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prendere un low cost e vedere come va. E spesso non è più l’azione in sé che ti interessa.
È decaduto quello che è stato un pilastro, nonché “l’incipit” di ogni lavoro di reportage.
Mi ricordo che da un certo punto in poi, negli anni ’90, ricevevo telefonate dai fotografi,
arrivati sul posto, che erano frustrati perché “non stava succedendo niente”. L’assenza
di azione. Ma oggi è questo a essere interessante, se prima il vuoto sembrava pericoloso,
adesso è visto come un terreno fertile, il “vuoto” ti permette di entrare in un luogo e
conoscerlo, esplorarlo piano, assumerti la responsabilità del racconto.
Medde: La figura del giornalista d’assalto che va tre mesi in Africa a fotografare i
bambini per le ONG e o a fare reportage per smuovere le coscienze dei bianchi sta
finalmente tramontando in molti ambienti. Oggi sappiamo anche che quell’idea eroica
di fotoreporter poteva essere una “costruzione”. Pensa a Robert Capa. Il suo vero nome
era Endre Ernö Friedmann. È stata la sua compagna, Gerda Taro, anche lei fotografa, a
inventare un nome e un’identità fittizia funzionale alla carriera di Capa. Un nome che
fosse immediatamente riconoscibile, con una pronuncia facile per una rivista come Life.
In fondo era un caso di subalternità nei confronti della cultura americana, e ancora oggi
dobbiamo vedercela con questa subalternità.
Ferri: Se ragioniamo come venti, trent’anni fa, “una bella storia fotografica” non basta
più. Io oggi voglio sapere come, chi l’ha realizzata, quali erano le intenzioni, qual è il
grado di consapevolezza con cui si è avvicinato al racconto. Il produttore diventa
importante quanto il manufatto.
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Medde: Nell’ambito del fotogiornalismo che diventa artistico, questo discorso si unisce
a come viene percepito all’interno delle istituzioni museali. Chi è che beneficia di una
determinata storia? La persona da cui quella storia viene, la sua comunità o un pubblico
di fruitori costituto da bianchi occidentali?
Ferri: Molto fotogiornalismo degli anni ’80 e ’90 è oggetto di rivisitazione dal punto di
vista artistico. Mi sembra ci sia una necessità di rileggere “la fotografia del reale” in una
prospettiva più artistica, o anche un fermarsi a riflettere su ciò che si è fatto nella
propria carriera, come dire: hai visto l’orrore e ora provi farne una rilettura diversa. Se
la strada era il teatro dove mettere in scena la rappresentazione – e ci sono voluti anni
per chiamarla rappresentazione e non testimonianza – è pur vero che certe immagini
avevano un valore di documentazione che perde forza in un tipo di
“istituzionalizzazione” diversa. A volte mi sembra una forzatura: non sempre la
“decontestualizzazione” a uso museale funziona, altre volte è interessante, penso alla
rivisitazione che si sta facendo dell’opera di autrici come Letizia Battaglia o Lisetta
Carmi. Si (ri)costruiscono percorsi e periodi storici, si valorizza un approccio, si scava e
si traduce nell’immaginario della memoria.
Medde: Oggi è molto più evidente il carattere politico delle nostre scelte, ci sono
comunità demografiche che hanno accesso per la prima volta a certi discorsi. Stiamo
capendo che non possiamo parlare di tutto solo perché abbiamo il talento per farlo, o
comunque stiamo capendo che non sempre sia la scelta migliore. Io cerco di adattare la
mia professionalità e di tirarmi indietro se sento di non avere l’autorità morale e
intellettuale rispetto a qualcosa. Nessuno ne è esente, i sistemi in cui siamo cresciuti
hanno a che fare sempre con un privilegio, in una dialettica tra dominanza e
subalternità, ma se non cominciamo a rendercene conto sarà impossibile fare una
diagnosi onesta. È stato anche il limite del femminismo quando non ha fatto i conti con
l’intersezionalità.
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famiglia e ne ha raccontato la storia con un’empatia che non sarebbe mai stata possibile
da parte di una persona fuori della comunità. Se devo pensare a un lavoro più artistico,
più visuale, trovo bellissimo quello che ha fatto Carrie Mae Weems con Kitchen Table.
Affricot: Se nasci in un contesto che ti ha sempre nutrito con un solo colore, con un
pensiero che diventa sistema, è molto difficile decolonizzare lo sguardo. Non è solo un
discorso di colonizzatore/colonizzatrice e colonizzato/colonizzata, di Occidente ed ex-
colonie, di padrone/padrona e subalterno/subalterna. È un discorso lungo e complesso
legato al locus sociale – e di privilegio quindi – di certi gruppi rispetto ad altri, come
scrive la filosofa brasiliana Djamila Ribeiro. Le arti visive, audiovisive e performative
rappresentano lo strumento più potente per attuare un processo di “decolonizzazione”
dello sguardo. Ma non è semplice perché anche quando offri il tuo spazio, bianco, con
tutte le migliori intenzioni, quello spazio non è neutro, è radicato in un pensiero-
sistema.
Nonino: L’insularismo può essere un rischio, ma siamo talmente tanto lontani da una
reale uguaglianza nella rappresentazione, che ora mi sembra un falso problema.
Raccontava in un’intervista Campbell Addy – uno che ha fondato la Nii Agency e ha
ampliato lo spettro di diversity nelle immagini stock di Getty – di aver ricevuto mail in
cui gli si chiedeva se fosse in grado di fotografare anche modelle bianche. Il progetto
Black nonsense, di Tyler Mitchell e Jeremy O. Harris, ispirato ai dadaisti, va in questa
direzione: si vuole rivendicare il fatto di essere artisti e artiste black senza per forza un
intento pedagogico o da attivisti. Che poi è un problema che abbiamo ancora nella
questione di genere, se sei una donna la tua arte non è mai arte e basta, ma deve essere
etichettata come femminista per legittimarsi.
Affricot: Cosa intendiamo per comunità? A chi ci riferiamo quando parliamo di “una
comunità”? Se procediamo per categorizzazioni, la comunità bianca ha sempre
raccontato se stessa e il resto, definendo e imponendo una norma, ma mai definendosi
come una comunità.
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Negli ultimi anni in Africa e nella diaspora africana sono sorte tantissime pubblicazioni,
indipendenti e non, di cui abbiamo parlato su GRIOT: “The New Black Vanguard.
Photography Between Art and Fashion”, “Supreme Models. Iconic Black Women who
Revolutionized Fashion”, e “Ìrìn Jourmal”, per citarne alcune. Protagonista è il soggetto
Nero, che però troviamo anche dietro la lente e nel ruolo di curatela. Ecco, è qui forse
che per la norma si crea un cortocircuito, che si inizia a parlare di “rischio” e
“comunità”, perché il soggetto subalterno diventa attivo e occupa uno spazio che fino a
poco tempo prima era stato occupato dalla norma, che non aveva mai interrogato la sua
posizione.
Torniamo allo spinoso discorso di cui sopra, legato alla decolonizzazione, al locus
sociale, allo spazio non neutro: Chi definisce chi e cosa? Chi detta i tempi, i processi, i
contenuti, la qualità, lo stile?
Ticozzi: Ora il World Press Photo insiste molto su programmi legati all’inclusione e la
diversity. Ma rimane comunque un’istituzione di una capitale occidentale. Io credo che
questo immaginario si stia esaurendo e non saremo più noi a dover rispondere a queste
domande. Per me la questione dello stile e di un determinato sguardo resta importante,
per cui apprezzo una come Dana Lixenberg, olandese, bianchissima, che fa un lavoro
lungo e complesso sulla periferia di Los Angeles, ma il punto è proprio ampliare la
possibilità di questo sguardo “esterno”, così come di un lavoro personale sul linguaggio
fotografico, affinché lo stile non diventi sinonimo di privilegio.
Medde: Parlando della mia esperienza, io sono sarda, fino agli anni ’80, ‘90 sembrava
ancora simpatico chiamarmi “sardignola”, che è un termine offensivo perché è il nome
di un asino. Oggi uno se lo sogna di chiamarmi così – ed è nulla rispetto a quanto
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Che fare in questi casi? Ovviamente non si possono distruggere le opere del passato, ma
forse sarebbe bastata una ricontestualizzazione, prendersi quel momento in più di
riflessione su quelle due immagini ravvicinate.
Ticozzi: Quando lavoravo a La Repubblica, a un certo punto ci siamo resi conto che nel
momento in cui accadeva qualcosa erano sempre gli stessi a essere chiamati e
intervistati, ovvero se si trattava di politica e attualità: uomini, bianchi, non
particolarmente giovani. I nostri strumenti, le nostre rubriche, non erano aggiornati. Ci
siamo detti: proviamo ad allargare la cerchia dei contatti. Con la fotografia è la stessa
cosa: ci vuole uno sforzo di volontà per evitare di appaltare i lavori sempre agli stessi
nomi. E in Italia, di sicuro, esistono ancora dei condizionamenti legati al genere.
Durante il lockdown, a parte pochissimi esempi di reportage, tutto quello che è vita
pubblica è stato fatto da uomini, tutto quello che è più intimo da donne.
Nonino: Il Black Issue del 2008 di Franca Sozzani è stato una pietra miliare nella
storia di Vogue, un numero rivoluzionario che ha creato enorme scalpore in America,
tanto che Condé Nast Italia ha dovuto ristamparlo al volo per soddisfare la richiesta:
una cosa che non succede praticamente mai con un mensile. Era un numero
completamente dedicato alla bellezza nera. Non era mai successo prima. Non sono
mancate le polemiche, perché comunque il fotografo coinvolto era Steven Meisel,
bianco, e perché si temeva che concentrare la questione tutta in un numero significasse
rappresentare un’eccezione senza integrare poi la pratica nella normalità. Ma dal 2008 a
oggi, nel mondo della moda, le cose sono cambiate drasticamente, il modello
aspirazionale di bellezza caucasico, giovanissimo, magrissimo e middle class non è più
l’unico riferimento. Lo spiega bene Antwaun Sargent in The New Black Vanguard, un
lavoro tra arte e moda che mette insieme un corpus iconografico dove la blackness è
rappresentata in maniera altrettanto universale che la whiteness.
Ticozzi: Per anni abbiamo usato le immagini di stock per rappresentare determinati
concetti: “famiglia”, “lavoro”, “amicizia”, “allegria”, pensando che quell’immaginario
fosse neutrale. Qui è ben sintetizzato il dibattito.
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Su Getty ora esiste, ad esempio, il filtro “etnico” per scegliere l’immagine che ti serve. Si
pensa che in rete siamo liberi di cercare quello che ci pare, ma non è vero. Sono le
agenzie che impostano gli standard di immaginario, che cercano una medietà per
vendere di più, e questa mediazione è data da multinazionali. Esiste questo lavoro molto
interessante di Taryn Simon e Aaron Swarzt, Image Atlas, che fa vedere quanto
cambiano le immagini che ti compaiono nei motori di ricerca su un dato argomento a
seconda del Paese da cui le cerchi e del suo Pil. Oppure pensa alla gaffe di Orban quando
per la sua campagna sulla famiglia tradizionale sceglie un’immagine stock in cui ci sono
gli stessi attori del famoso meme del “distracted boyfriend”. È ovvio che quell’immagine
non sia più “neutra”.
Ferri: Alexandra Bell gioca proprio con l’utilizzo dei codici condivisi smascherandone
gli automatismi. Il suo è un lavoro estremamente interessante e intelligente di
rielaborazione di articoli dove manipola e smonta gli stereotipi usati dai media nel
raccontare gli omicidi.
Ticozzi: In Episode 3 del progetto Enjoy Poverty, Renzo Martens parte da questo
paradosso: nelle regioni più povere del Congo, la “povertà” esportata è una delle
principali ricchezze del Paese. I fotografi ingaggiati dalle ONG per raccontare la povertà
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Ticozzi: Sono cambiati i circuiti e le possibilità di accesso: prima dovevi far vedere
fisicamente il tuo portfolio a qualcuno, oggi i photo editor scoprono tanti fotografi e
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fotografe tramite internet. Ma c’è anche un’altra questione, perché oggi a un ragazzo di
seconda generazione di Buccinasco, per dire, dovrebbe interessare pubblicare sui
giornali mainstream? Il mondo dell’autorappresentazione autoriale viaggia su altri
canali. Il mainstream è vecchio.
Nonino: Negli ultimi cinque anni, sicuramente anche grazie ai social media, i
cambiamenti rispetto al potere della rappresentazione e a chi può detenerlo sono
avvenuti in modo molto rapido. Restituire le immagini di qualcun altro, raccontarne la
storia, sono atti che portano con sé un potere enorme, con tutte le conseguenze del caso.
Non solo tutti dovrebbero potersi sentire rappresentati, ma tutti dovrebbero potersi
raccontare. E questa è una delle lotte più importanti della nostra generazione.
SOCIETÀ
YARI CARBONETTI
Decostruire il maschile
LINGUAGGI
SOFIA TORRE
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LINGUAGGI
TOMMASO GHEZZI
Nadir Taricone
SCIENZE
FEDERICA SGORBISSA
SOCIETÀ
IVAN CAROZZI
SOCIETÀ
IVAN CAROZZI
La comparsa Domizlaff
ARGOMENTI
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