Sei sulla pagina 1di 18

Lolita 1962

Lolita: al di là del bene e del male (1962)

"Con una risata cattiva [lo "spirito libero"] capovolge le cose


che trova velate, risparmiate da un qualche pudore: vuol
provare come esse appaiano quando siano messe a testa in
giù. Per capriccio, per puro capriccio, egli rivolge adesso il
suo favore a quanto finora è stato in cattiva fama: s'aggira,
curioso e tentatore, intorno alle cose più proibite."
(Nietzsche, Umano troppo umano)

Per la prima volta Kubrick supera il limite: Lolita è un film perverso nel quale il grande autore gioca a scacchi
con la censura e vince. Si avventurerà altre due volte in campi estremi, con A Clockwork Orange e Eyes Wide
Shut, spingendosi in zone proibite ed oscure. Mentre lo scandalo del film sui drughi di Alex sarà
eclatante, Lolita e Eyes sono film così imbarazzanti da annichilire la censura, inibire perfino i media, in
evidente difficoltà nel commentare tali pellicole. In questi due casi la maggior parte dei critici finisce con il
non commentare la sostanza del film, rifugiandosi in osservazioni formali e secondarie.
Lolita racconta un’ossessione erotica e lo fa con accenti ossessivi; il tono lieve serve a sviare la censura e il
puritanesimo americano, ma ogni attimo del film è invaso dalla morbosa passione del professor Humbert;
non si parla d’altro. Fin dalla sensuale immagine d’apertura (il piede di Lolita) il fascino della “ninfetta”
attraversa incontrastato la pellicola: esso costituisce il centro d’irradiazione di un incanto che si rivelerà
mortale per Humbert e Quilty, i due amanti-padroni, laddove l’ultima immagine della giovane la mostra
sposata e portatrice di una nuova vita.
Il professor Humbert, stregato fin dalla prima visione di Lolita nel giardino della casa materna, decide di
possederla ad ogni costo: sposa la ripugnante Charlotte pur di starle accanto e non appena quest’ultima,
sconvolta dalla verità, muore in un incidente, si precipita dall’ignara Lolita (in vacanza in un campeggio) e,
senza rivelarle la verità, la porta con sé in un albergo dove potrà finalmente farla sua. I toni lievi e ironici del
racconto non possono far dimenticare cosa sta accadendo: Humbert sfoga la propria voglia lungamente
repressa sulla ragazzina orfana. Come già notato non c’è amore nel cinema di Kubrick; al contrario ogni
forma popolare di sentimentalismo è irrisa (si veda l’accoglienza beffarda riservata da Humbert alla
dichiarazione d’amore per lettera di Charlotte come pure l'uso di un motivo zuccheroso, palesemente
ricalcato sul Secondo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov, per commentare le tre "sospirose"
scene di commiato tra Humbert e Lolita). L’impulso sessuale invece, nelle sue più svariate forme, si rivela
elemento ben altrimenti indagato dall’autore, impulso che genera sopraffazione e schiavitù, persecuzione e
vittimismo e che diviene il modo prevalente di rapportarsi tra uomo e donna in questo universo, stabilendo
così un suggestivo parallelo con il perenne “bellicoso” affrontarsi dei protagonisti maschili. In fondo Lolita,
che all’inizio civetta e gioca con Humbert (e in seguito con Quilty, con il quale probabilmente aveva
cominciato una relazione ancora prima di instaurare quella insincera e strumentale con il professore), si
scopre presto una vittima dell’ossessivo desiderio maschile: entrambi i suoi amanti limitano fortemente la
sua libertà, quando non pretendono da lei (è il caso di Quilty) morbose prestazioni collettive da immortalare
in filmetti domestici.
Solo apparentemente dunque Kubrick ha cambiato soggetto e registro rispetto ai suoi film degli anni
cinquanta; in realtà nell’indagare il rapporto maschio-femmina ritrova l’eterna, hobbesiana guerra di tutti
contro tutti, guerra peraltro anticipata nel comportamento ambiguo e opportunistico della protagonista
di Killer’s Kiss, nonché in quello infido della moglie del cassiere in The Killing. Così Humbert, catturata la
sua preda, la opprime con le sue esigenze sessuali; l’intera seconda parte del film ruota intorno al desiderio di
Humbert del quale tutti parlano e tutti sanno: non solo Lolita manifesta la propria crescente insofferenza
parlando di “mente sudicia”, “lurido mondo” ecc., ma anche le sue amiche sanno, Quilty sa (e continuamente
ricatta Humbert, ne alimenta il rimorso), i vicini di casa sanno (e porgono imbarazzate rimostranze); tutti
sono consapevoli della relazione pedofila che lega la giovane al suo patrigno ma preferiscono tacere o
limitarsi a delle allusioni come accadrà poi agli spettatori e ai critici. Infine Lolita riusce a scappare dalla
dorata reclusione in cui l’ha ingabbiata il professore, ma solamente per cadere in quella più scandalosa di
Quilty, nella quale perfino la mdp di Kubrick non osa penetrare se non nel delirante prologo/epilogo.
L'autore, nel trattare queste pulsioni sessuali "minoritarie" seppur esistenti e a modo loro "naturali", si
mostra freddo e obiettivo, evitando sia i toni compiaciuti (presenti massicciamente nel morboso testo di
Nabokov), sia i toni moralistici; Kubrick, nietzschiano Freigeist, osservatore imperturbabile, come altrove (A
Clockwork Orange) registra l'esistente come tale.
Lolita possiede una precisa geometria narrativa, marchio di fabbrica del suo geniale autore; una geometria
però lievemente nascosta, poiché eclissata dal naturale imporsi dell’insolita tematica sessuale. Il film, infatti,
racconta un duplice duello: quello tra una madre e una figlia e quello tra un professore di lettere e uno
scrittore di commedie. Il duello femminile occupa la prima parte e si conclude con la completa disfatta di
Charlotte; il secondo termina con l’accesso di follia di Humbert nell’ospedale. Il prologo, con il magistrale
scontro tra i due protagonisti (anticipazione narrativa voluta da Kubrick), entrambi stanchi e consumati dalle
loro ossessioni, espone subito la vera sostanza del film, lo scontro-duello tra uomini per il possesso dell'
"adorabile ninfetta". E ormai sappiamo che il duello esprime un elemento essenziale della lucida visione
kubrickiana del mondo: così la filosofia politica hobbesiana si trasforma in abbagliante poesia.
Charlotte e Lolita sono entrambe affascinate dal tenebroso Quilty come dimostra la sequenza della festa
iniziale, fatto sottolineato ancora da Kubrick in modo magistrale nella sequenza della lettera “amorosa” di
Charlotte: Humbert la legge e ride, steso sul letto di Lolita; la mdp però si sposta in modo imprevedibile nel
finale dell’episodio e svela un’immagine di Quilty appesa vicino al letto della ragazza: è ora Kubrick a ridere
del presuntuoso e scialbo professore che non capisce di essere una "seconda scelta" per entrambe le donne.
Charlotte non avrà il tempo di dirglielo, ma lo farà, nella dolorosa sequenza finale, Lolita con parole molto
simili a quelle con cui Alice Harford rivelera' la sua passione "militare" al povero, ignaro marito (Eyes).
D’altronde Humbert è uno studioso, un “critico”, rappresenta un atteggiamento passivo, “femminile”; al
contrario Quilty è un creatore di drammi e di personaggi (si vedano le sue sardoniche “interpretazioni” ai
danni di Humbert), è una figura attiva, “maschile” e quindi è naturale che le due donne guardino soprattutto
a lui, per poi accontentarsi del più disponibile Humbert. Allo stesso modo l’atteggiamento materno e sereno
di Lolita nei confronti del suo anonimo marito rivela che la giovane ha praticato ancora una tranquillizzante
“seconda scelta” dopo la sua tormentata “giovanile odissea”.
Lo scontro Charlotte-Lolita, assente in Nabokov, è raccontato con eleganti ellissi: Charlotte si precipita a
ballare con Quilty durante la festa, nonostante sia in corso il suo tentativo di seduzione di Humbert;
nell'accenno a un dentista (Ivor, definito zio di Quilty) dal quale la giovane si sta facendo "curare" possiamo
cogliere il primo accenno al già esistente legame tra Quilty e Lolita (Ivor e' probabilmente una delle sue molte
"interpretazioni"); Charlotte bisbiglia a Quilty probabili ricordi di una loro avventura sessuale (e con un
bisbiglio di Lolita a Humbert avrà in seguito inizio anche la loro: bisbigli volti soprattutto ad aggirare la
censura); per vendetta contro l' "invasione" di campo della madre nei confronti di Quilty, Lolita irrompe in
casa disturbando il tentativo di seduzione di Charlotte; il suo stesso civettare con Humbert è un semplice
gioco posto in atto contro la madre. Il povero Humbert si crede erroneamente il centro di tante attenzioni,
mentre egli viene solo usato nello scontro tra le due donne. Anche l'iniziale sequenza del drive in, la prima a
mostrare le due donne con Humbert, può essere letta in questa direzione: sullo schermo appare l'orrenda
creatura di Frankenstein di fronte a uno stupefatto Peter Cushing (dal film La maschera di
Frankenstein, Fisher 1957) ove il mostro sintetizza le due donne, entrambe intenzionate a sedurre il povero
Humbert. Charlotte si accorge subito, nel gioco delle mani, che Humbert preferisce la giovane figlia e
abilmente inserisce questo fatto nella sua strategia, citando in modo ammiccante Lolita nel finale della sua
lettera "amorosa", certa così di assicurarsi i favori del professore; dopo di che decide di “esiliare” la figlia in
un collegio, gettando Humbert nella più nera disperazione. La morte casuale di Charlotte salva il malcapitato
da un grigio avvenire e lo catapulta in un'esaltante odissea. D'altro canto anche Lolita mostra di sopportare a
malapena il pedante Humbert: piu' volte abbandona a meta', spazientita, un suo "sermone", decide di
rimanere con lui dopo la morte della madre definendolo comunque "meglio dell'orfanotrofio" e, ancora nel
finale, allorché gli rivela la verità intorno a lei e Quilty, è infastidita dalla lentezza con la quale il professore si
rende conto della verità.
Il secondo duello, quello tra Humbert e Quilty per il possesso di Lolita, costituisce l’anima profonda del film:
niente di più gratuito e inesatto è invece insistere (come ha scritto la maggior parte della critica) sul carattere
di doppio di Quilty rispetto a Humbert, laddove un abisso li divide; anzi l'intero film (in ciò assai differente
dal testo di Nabokov) nasce proprio dal loro perenne conflitto. Quest'ultimo si sviluppa secondo un preciso
disegno che mostra il più abile e spregiudicato Quilty rafforzarsi costantemente ai danni di un Humbert
progressivamente più debole, nonché malato e semifolle nelle ultime sequenze della loro accanita lotta (solo e
febbricitante nella stanza del motel; poi delirante nell’ospedale, privato della sua Lolita, sorretto dagli
infermieri in magnifiche immagini che anticipano quelle di Torrance sconfitto nel labirinto di neve). Quilty si
insinua nella vita familiare degli Haze, facendo leva sul senso di colpa di Humbert, nonché sul suo legittimo
timore dell'intervento della polizia (in ogni suo travestimento minaccia esplicitamente l'ingenuo professore);
infine quando capisce che Humbert è provato lo pedina sfrontatamente, contribuendo così ad accentuarne il
panico fino al crollo fisico. Ancora nel prologo/epilogo (quattro anni dopo la sconfitta di Humbert) lo scontro
finale mostra un catatonico Humbert (vestito con un cappotto listato a lutto) fanaticamente deciso a
eliminare il suo rivale, laddove Quilty appare distaccato e fino all'ultimo vitale e camaleontico: è indubbia la
sua superiorità, la sua maggior forza che consiste nel suo distacco passionale, nel suo aver "giocato" con
Lolita, la quale è stata solo una delle sue molte vittime. Quilty ha consumato il suo desiderio e poi ha saputo
dimenticare. Al contrario il rigido e debole Humbert è rimasto ossessivamente legato (per quattro anni) a
quel ricordo. Questa resa dei conti finale svolge la medesima funzione chiarificatrice assolta in Paths dal
dialogo conclusivo e rivelatore tra il generale Broulard e il colonnello Dax: in entrambi i casi si dispiega il
confronto tra forza e debolezza, tra il perfetto controllo di se' del commediografo Quilty rispetto al carattere
emotivo e appassionato del professor Humbert.
1776 (citato in Lolita), 4 luglio (la misteriosa fotografia finale di Shining): la fatidica data lega intimamente le
due opere, entrambe le quali raccontano, in modi alquanto differenti, il progressivo, desolato scivolare verso
una completa disfatta del loro protagonista, all'interno dello spietato e competitivo "nuovo mondo". Il
dinamico Quilty (pubblicizza le sigarette Drome ovvero Aeroporto), come l'Overlook Hotel (e più avanti il
sergente Hartman e la misteriosa festa in Eyes), alludono al sistema americano, alla sua potenza mondiale
basata su una pragmatica concezione delle cose e su un uso spietato della violenza. Lo stravagante scrittore e
i minacciosi fantasmi dell'Overlook Hotel vanno intesi come i rappresentanti di un sistema di potere
tendenzialmente invincibile poiche' animato dal puro gusto della competizione e dalla amorale brama di
dominio. Essi sembrano confermare l'affermazione di Prosper Mérimée secondo la quale "non c'è niente di
più comune che fare il male per il piacere di farlo" (Parigi, 1874). Il professor Humbert, la cui origine europea
è costantemente sottolineata nei dialoghi, come il debole Torrance, artista mancato, non potranno che essere
contagiati da quell'universo della violenza per poi soccombere. D'altronde, attraverso altri percorsi narrativi,
altrettanto criptici, Full Metal Jacket e Eyes racconteranno la medesima supremazia del sistema USA.
L'omicidio di Quilty è quindi il disperato gesto di ribellione di Humbert; allo stesso modo il grigio Torrance
ha invano cercato una strada di affermazione individuale mediante la scrittura: le vampiresche presenze
dell'Overlook non gli consentiranno vie di fuga. All'interno del mondo competitivo e potente nato il 4 luglio
1776 entrambi sono dei losers. Attraverso vicende assai private si affaccia una suggestiva analisi del sistema
politico “imperiale” americano ovvero il tema esplicito dell'opera seguente, Dr. Strangelove.
Un attento esame del magnifico prologo offre in tal senso molti spunti di riflessione. Quilty si muove in un
contesto che allude alla potenza del "nuovo mondo": vive in una sorta di castello-fortezza il cui interno
assomiglia a un magazzino di tesori ammassati nel disordine, probabili prede di guerra; si proclama Spartaco
ovvero un capo militare ribelle (e nella ribellione al vecchio mondo nasce, nel 1776, la repubblica americana);
continua a definire Humbert "capitano"; al pianoforte "improvvisa" l'incipit della polacca "Militare" di
Chopin e se ne appropria come di una sua composizione (ennesimo "tesoro trafugato") così come aveva
"rubato" Lolita a Humbert per semplice gioco competitivo, per il gusto di umiliare il professore-"vecchio
mondo"; sfida Humbert in nuove "partite" (ping-pong, boxe); infine gli offre i biglietti per le esecuzioni
capitali, altro spettacolo sanguinario segno di un universo spietato. Questo prologo illumina il duello di
complessi significati che vanno ben oltre la tematica "pedofila", assolutamente centrale invece in Nabokov:
certamente su quel terreno estremo si sfidano i duellanti, ma l'uno sa poi muoversi con spregiudicata libertà,
padrone delle proprie perversioni, l'altro, schiavo della sua ossessione erotica, e' "appesantito" dal retaggio di
antiche filosofie morali. In fondo Lolita è l'odissea di Humbert in un universo ignoto, odissea che inizia con il
suo aereo che sorvola la Downtown di Manhattan ed entra nel vivo allorché Charlotte comunica il suo
emblematico numero telefonico: 1-7-7-6; "come la dichiarazione d'indipendenza" risponde candidamente il
professore, pensando di essere spiritoso.
Attraverso il vitale commediografo Quilty e e il saccente studioso Humbert K racconta soprattutto lo scontro
tra l’attiva potenza americana e la decadente passività europea, delineando uno scontro tuttora in atto, dietro
le apparenze di una supposta amicizia e alleanza. La fedeltà di Kubrick al testo di origine è quindi assai vaga,
né potrebbe essere altrimenti in uno dei più grandi artisti del Novecento. Egli sceglie le proprie "fonti" in
stretta relazione alla sua tematica preferita, l'indagine del rapporto forte-debole, e vi apporta modifiche
sostanziali in tale direzione. Inutile dunque addentrarsi in accademiche analisi, qui come altrove, sulle
differenze tra romanzo e film, tra Nabokov e Kubrick. Nel delineare, opera dopo opera, un rigoroso mondo
iconico e concettuale, il cineasta americano è fedele solo a se stesso.

Ladri di biciclette

Dopo il discutibile Sciuscià De Sica gira il suo capolavoro, Ladri di biciclette (92 min; novembre 1948)
liberamente ispirato all'omonimo romanzo (1946) di Luigi Bartolini attraverso una sceneggiatura firmata con
Cesare Zavattini, Suso Cecchi D'Amico e altri. Il film ottiene un clamoroso successo e l'anno successivo viene
premiato con l'oscar (il secondo per il regista, dopo quello per Sciuscià del 1947) quale migliore film
straniero. La storia dell'attacchino Antonio Ricci il quale, derubato della bicicletta, teme di perdere il posto di
lavoro finalmente conquistato, si snoda lungo una galleria di episodi autonomi e interscambiabili nella
composizione interna della narrazione, fino al colpo di scena finale quando, in preda alla più cupa
disperazione, l'uomo a sua volta tenta, senza successo, di rubare una bicicletta ma viene subito fermato,
schiaffeggiato e umiliato di fronte al figlio. Interpretato da attori non professionisti costituisce uno dei rari
risultati artistici notevoli conseguiti secondo la tanto discussa poetica neorealistica, insomma la classica
eccezione che conferma la regola secondo la quale ad attori inadeguati e sequenze improvvisate conseguono
esiti prevalentemente amatoriali e goffi.
La pellicola configura una sorta di affresco della Roma postbellica, nella quale l'interesse e' tutto per gli
ambienti degradati e per le situazioni di atroce miseria. Ricci vive in un caseggiato corroso dall'umidità,
frequenta abitualmente il banco dei pegni e la casa di una chiaroveggente "santona", cerca nei mercatini
popolari la sua bici rubata, finisce in una mensa dei poveri gestita da borghesi bigotti, in una casa chiusa ed
infine nel rione malfamato del ladro, un disoccupato come lui. Il quadro è reso con un buon senso del ritmo e
un attento realismo nei dialoghi e nella scelta dei volti ma è l'idea di partenza a fare acqua. De Sica e Zavattini
costruiscono un melodramma desolato sopra un'inezia non condivisibile: Ricci, ormai titolare di un posto di
lavoro che può arrivare a fruttargli circa 24000 lire al mese (i conti li fa in trattoria; ricordiamo che nel 1948
spedire una lettera costava 15 lire e che la cifra sopracitata è paragonabile a circa un milione e mezzo di
vecchie lire o se si preferisce 750 euro) si dispera per una vecchia bicicletta mentre con lo stipendio ormai
sicuro dovrebbe essere facile farsi prestare le poche migliaia di lire (dell'epoca) necessarie per l'acquisto di
un'altra bici di terza mano, magari proprio in quei mercatini ove ne sono presenti centinaia certamente a
buon mercato (si ricordi che proprio perche' in disaccordo con la verosimiglianza del soggetto Sergio Amidei,
soggettista di Roma città aperta e Paisà, abbandonò la collaborazione alla sceneggiatura del film). La stessa
presenza quasi ossessiva di centinaia di biciclette nel film se da un lato è un'idea visiva notevole, volta ad
esasperare la disperazione del personaggio, da un punto di vista realistico ricorda invece che si era in
presenza di un oggetto estremamente comune e perciò facilmente reperibile con pochi denari. Costruire un
atto d'accusa alla società italiana su quella bicicletta è un passo falso dell'opera e ne sancisce le deboli
fondamenta (con buona pace di Bazin che parla di "sceneggiatura ...di un'abilità diabolica"...). Hitchcock
saggiamente ricordava che lo spettatore non dovrebbe mai chiedersi perche' un personaggio non agisce nel
modo piu' logico, perche' cio' distrae dalla narrazione ed anzi rende quest'ultima molto meno efficace se non
artificiosa e pretestuosa. E' curioso che il "neorealismo" debba prendere lezioni in questo caso da un maestro
dell'arte dell'intrattenimento puro, che non esitava a ribadire che un film non è "un pezzo di vita", ma
semmai è "un pezzo di torta". D'altronde la suddetta critica alla sceneggiatura è tutt'altro che secondaria visto
le pretese di realismo documentario e di denuncia sociale associate a questo genere di opere
cinematografiche del dopoguerra.
E' sintomatico che il lavoro di attacchino venga illustrato con l'affissione di un grande manifesto del
film Gilda (C. Vidor, 1946): non ci si nasconde che la "ricostruita" società italiana si muova all'interno di un
nuovo sistema economico strettamente legato a quello d'oltreoceano e perciò volto a privilegiare il consumo
di prodotti americani; così il sospirato lavoro di Antonio Ricci nasce dall'esigenza di rendere visibili sui muri
di Roma le seducenti merci USA. La "liberazione-conquista" europea da parte degli alleati significa
innanzitutto l'annessione di un enorme e prezioso mercato di centinaia di milioni di nuovi consumatori
e Ladri di biciclette, a suo modo, testimonia questo nuovo ordine mondiale in fieri.

Dall'inizio alla fine la pellicola desichiana comunica un monocorde sentimento di amarezza, soprattutto per
due motivi: la mimica eternamente corrucciata dei due protagonisti e la colonna sopnora di Cicognini basata
su un unico, intenso e malinconico motivo (spesso affidato al clarinetto) il quale stende un manto
ossessivamente mesto su quasi ogni sequenza (il commento sonoro, per quanto efficace, risulta pero'
terribilmente univoco e in definitiva troppo insistente). Intorno a loro la realtà italiana, ritratta con indubbio
talento visivo, restituisce immagini anche serene ma sfocate e lasciate ai margini (la gente dei mercati, il
pranzo con commento musicale in trattoria, il festoso popolo della partita) che non intaccano la lugubre (e si
è detto immotivata) ossessione di Ricci.
Si comincia con i miserabili caseggiati operai dove vivono i protagonisti e si piomba subito al Monte dei
pegni, luogo di una silenziosa pena ove le significative immagini (l'uomo che scala una montagna di lenzuola
impegnate) esprimono una realta' di tremenda miseria. La visita alla "santona", da molti associata alle
superstizioni della gente povera, è invece un tratto che accomuna classi sociali differenti e ha a che fare
soprattutto con la credulita' femminile piu' che con la consistenza del conto in banca. In ogni caso anche
questo ambiente emana angoscia e costernazione.
Il cineasta, in fondo, è indeciso tra il raccontare una storia individuale e il farne un mero pretesto per
dipingere un fondale; lo si può vedere ad esempio in una delle prime sequenze in cui l'attacchino è alle prese
con la sua "Gilda": la mdp lo ritrae di spalle, intento a incollare il suo manifesto, poi insieme a due ragazzini
che chiedono l'elemosina, infine di colpo essa abbandona il protagonista per seguire questi ultimi; in questo
caso l'interesse per il quadro sociale sopravanza e accantona con evidenza la vicenda primaria. A parte questo
significativo momento, l'intera pellicola appare fortemente "distratta" dai luoghi: i mercatini, la mensa dei
poveri, il rione malfamato ed il piazzale fuori lo stadio sono veri e propri coprotagonisti che si
impadroniscono del racconto e lo mettono tra parentesi.
Dopo aver subito il furto Ricci va a cercare aiuto alla polizia e al partito (presumibilmente una sezione
comunista): un poliziotto lo maltratta e praticamente lo caccia via mentre ogni energia delle forze dell'ordine
sembra essere impegnata per arginare i comizi delle sinistre (i celerini si stanno preparando per andare a
presidiarne uno) laddove al partito gli amici si dichiarano pronti a dargli una mano, cercando la famosa
bicicletta nei mercatini frequentati dai ladri. Il taglio ideologico traspare con forza: non è la realtà quella
mostrata dal regista, bensì un'equazione politica tale per cui la polizia è asservita agli interessi delle classi
benestanti mentre l'unica speranza per la gente misera proviene dagli ambienti comunisti. Ladri di
biciclette per qualche minuto diviene un testo di aperta propaganda politica (il neorealismo finalmente passa
dalla Resistenza alla Rivoluzione, come ben scrive questa volta Bazin) laddove nelle altre sequenze la
prevalente ottica ideologica antiborghese e' piu' sfumata ed inscritta negli eventi.
La sequenza del mercatino di piazza Vittorio illustra una realtà vivace dove trionfa la furbizia individuale e il
cinismo mentre a Porta Portese, sotto la pioggia, un gruppo di seminaristi non italiani si affianca ai Ricci ed
appare evidente lo sguardo di antipatia desichiano: ben vestiti e sereni, esprimendosi in tedesco, una lingua
odiata dopo l'occupazione nazista del 1943-44, essi rappresentano una realta' elitaria, lontana dai bisogni
reali dei poveri di cui altrove affermano di occuparsi. E' il primo di una serie di due affondi anticlericali con i
quali l'autore prende le distanze dal mondo cattolico per il quale aveva mostrato sincera simpatia ne I
bambini ci guardano (1943) e La porta del cielo (1945). Il lungo e caotico episodio della mensa dei poveri
costituisce una critica tagliente dell'ipocrisia cattolica: un gruppo di borghesi benestanti e bigotti passa la
mattina domenicale a sbarbare povera gente per poi obbligarli ad ascoltare rosari e prediche in cambio di un
piatto di minestra. Se il potere democristiano cerco' di ostacolare la circolazione della pellicola qualche
ragione ce l'aveva, quanto meno in riferimento a questa pittura offensiva degli ambienti religiosi. Non a caso
l'anticlericale Hollywood (senza temere di ripetersi dopo il riconoscimento a Sciuscià) premiò invece il film
con il massimo riconoscimento dell'ambita statuetta.
La critica antiborghese invece diviene culminante nell'episodio della trattoria dove il confronto tra Bruno
Ricci, un sano ragazzino proletario e lavoratore ed un ragazzino antipatico e impomatato, palese
rappresentante di una piccola borghesia “retriva”, vuole ricordare l'esistenza di un duro conflitto di classe. Né
possono esserci dubbi sull'atteggiamento "militante" del cineasta e del suo sguardo filmico. E' in definitiva un
momento assai modesto e stereotipato che conferma paradossalmente il racconto cinematografico
"neorealista" come luogo privilegiato dell'ideologia.
Dopo l'interludio sociale la storia torna al centro dell'interesse con lo scontro tra Ricci e il ladro finalmente
trovato. Quest'ultimo però si rivela uno sorta di doppio del protagonista (il quale sta a sua volta per
trasformarsi in ladro): è un disoccupato, un poveraccio che vive in una stamberga simile alla sua; inoltre è
anche malato di epilessia. Ricci lascia perdere e arriva al piazzale dello stadio.
Contagiato dalla frequentazione di tanta malavita egli diviene a sua volta un ladro nella piu' bella e
commovente sequenza del film: il tentato furto, lo sguardo attonito e amareggiato di Bruno, l'umiliazione del
padre, la musica di Cicognini a tutto volume, un tram che urta Ricci traumatizzato e in stato catatonico, tutto
e' perfetto in questo momento di alta poesia cinematografica, irripetibile per lo stesso autore. Dopo tanto
"documentarismo" ricompare finalmente, nel momento culminante e conclusivo, la migliore vena
melodrammatica desichiana.
Lo stile visivo del film privilegia i totali e i campi lunghi per due motivi: da un lato la realtà sociale in cui si
muove questa disgraziata umanita' viene resa nella sua complessità, dall'altro la modesta capacità espressiva
degli attori improvvisati sconsiglia un ampio uso di piani ravvicinati. Di questa pellicola eterogenea ed
episodica che annovera alti e bassi, rimangono nella memoria, oltre a questa magnifica sequenza conclusiva,
soprattutto gli scorci urbani di una Roma periferica e sconosciuta, costellata da edifici massicci, paesaggi ora
spazzati dalla pioggia, ora illuminati da un sole accecante che produce immagini fortemente contrastate.
Nonostante le molte, innegabili qualita' poetiche che animano a tratti il film, il giudizio complessivo
sull'opera deve essere oggi fortemente ridimensionato; Bazin, nel saggio De Sica le metteur en scéne, scriveva
che il vero merito del film " è di non tradire l'essenza delle cose, di lasciarle prima esistere per se stesse
liberamente...", parole tanto citate, tanto lodate e del tutto erronee. Ladri di biciclette rimane un film
fortemente ideologizzato e la sua realta' un'attenta selezione di scenari destinati a connettersi in un quadro
mistificante. Veramente l'esperto Bazin non se ne rendeva conto?

Nel secondo dopoguerra, in Italia a pezzi dopo un conflitto che aveva diviso e distrutto paese, il cinema ha
aiutato in maniera profonda la ricostruzione morale e materiale del nostro paese. Ladri di
biciclette di Vittorio De Sica contribuì forse più di qualunque altra opera artistica a mostrare al mondo
come l’Italia avesse affrontato con dignità la dura sconfitta subita. Il film uscì nel 1948 ed è considerato
tutt’ora una delle opere cinematografiche più importanti della storia del cinema e l’opera più conosciuta –
assieme a Roma città aperta (1954) – del neorealismo italiano.

Ladri di biciclette racconta la disavventura di Antonio Ricci un operaio costretto a ritrovare la propria
bicicletta rubata, per evitare il licenziamento. In questa avventura è accompagnato dal piccolo figlio Bruno.
Alla fine del film scoprendo l’impossibilità di ritrovarla tenta disperatamente di rubarne una venendo
fermato e rischiando l’arresto. Il lungometraggio si conclude con la commovente immagine dell’operaio e del
figlio che si tengono la mano per le strade di Roma.

Ladri di biciclette: il racconto di Bartolini


Il film prende spunto dal racconto di Luigi Bartolini Ladri di biciclette. Il racconto uscì sulla rivista “Città”
nel 1944 e poi venne pubblicato nel 1946 dall’editore Poli (vendendo solo sessanta copie) e nel 1948 da
Longanesi. Il racconto venne scoperto dallo sceneggiatore Cesare Zavattini che propose quindi a De Sica di
lavorare per un film con lo stesso argomento. Tuttavia sin da subito era chiaro che il racconto di Bartolini
doveva essere uno spunto e non un vero e proprio soggetto. L’unica similitudine tra il libro e il film sta nel
titolo e nel fatto che entrambi trattino il furto di una bicicletta. Lo stesso De Sica ricordò che Zavattini gli
disse, proponendogli l’idea per il film “è uscito un libro di Luigi Bartolini, leggilo, c’è da prendere il titolo e
lo spunto”. Bartolini cederà i diritti per poter trarre dal libro un film a De Sica, non consapevole tuttavia che
la sua opera verrà completamente ignorata per la realizzazione del film. De Sica raccontò che Bartolini
“protesterà violentemente” dopo aver visto il film.

Ladri di biciclette: una storia semplice

La sceneggiatura di Ladri di biciclette è stata realizzata grazie al contributo, più o meno influente, di molte
persone (nei titoli di testa compaiono sette nomi). Tuttavia il contributo più importante è stato dato da De
Sica e Zavattini. La genialità della sceneggiatura sta nel modo semplice nel quale si affrontano tematiche
importantissime. Per cui partendo da una storia quotidiana e all’apparenza banale Zavattini e De Sica
arrivano ad affrontare problemi importanti della società Italiana del dopoguerra. In fondo che importanza ha
il furto di una bicicletta? Ben poco di solito, ma se questa bicicletta diventa essenziale per il mantenimento
della propria famiglia il furto diventa qualcos’altro. Questa idea sta alla base di altri film di De Sica, si pensi
per esempio ad Umberto D. De Sica dichiarerà:

Il mio scopo è rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca,
considerata dai più come materia consunta. (….)

Perché pensare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più
sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia?

Quello che colpisce nel film è che pur essendoci un’idea politica di fondo molto forte il film non sembra mai
una propaganda. I fatti accadono sopratutto per caso e non per la volontà di qualcuno. Proprio così, senza
veli ideologici, lo spettatore può comprendere come la realtà delle cose vada cambiata. Come notò il critico
francese Andrè Bazin:

Il film di propaganda cercherebbe di dimostrarci che l’operaio non può ritrovare la sua bicicletta e che è
necessariamente preso nel cerchio infernale della sua povertà. De Sica si limita mostrarci che l’operaio può
non ritrovare la sua bicicletta e perciò tornerà senza dubbio a essere disoccupato.

Ladri di biciclette: il bambino

L’idea di inserire il figlio dell’operaio fu di De Sica e ad essa si deve probabilmente la grandezza del film. Nel
racconto di Bartolini il bambino non è assolutamente presente. La presenza di questo nuovo personaggio
permette di dare maggiore impatto umano alla storia. La cosa incredibile è che in realtà il bambino non è
un’elemento essenziale per far proseguire la storia. Tuttavia la presenza del figlio che osserva e partecipa alla
disavventure del padre cambia la prospettiva del film. Non si tratta più solo di ritrovare la bicicletta per non
essere disoccupato ma anche per permettersi di mantenere il figlio e allo stesso tempo essere un esempio di
vita per il pargolo. La grande tragedia finale per il padre quindi è doppia. Da una parte la perdita del lavoro
che lo condannerà a far vivere di stenti la famiglia e sopratutto il fatto di non aver perso completamente la
propria dignità davanti agli occhi del figlio. Probabilmente per questa idea De Sica prese ispirazione dal
famoso film di Chaplin Il Monello (1921). Sempre Bazin scrisse:

Non sarebbe esagerato dire che Ladri di biciclette è la storia della camminata per le strade di Roma di un
padre e di suo figlio.

La ricerca dei luoghi e del cast


De Sica, sposando in pieno i concetti del neorealismo, decise di non girare nessuna scena in un teatro di posa
e di servirsi principalmente di attori non professionisti. La ricerca per le location del film sono state molto
accurate, tanto che nel film viene mostrata una zona di Roma ben poco accessibile ai turisti. Ben più difficile
fu la ricerca degli attori. Volendo De Sica avere a che fare con attori non professionisti trovarne di perfetti per
i ruoli fu molto difficile. Particolarmente arduo per De Sica fu trovare il bambino. Facendo i casting per i
bambini trovò ironicamente la persona adatta per fare l’operaio. Questa persona era Lamberto
Maggiorani, un operaio della Breda. Il bambino ancora non si trovava, a quel punto proprio mentre
stavano girando una delle prime scene con Maggiorani comparve quasi miracolosamente quello adatto per il
ruolo: Enzo Staiola. Questi piccoli aneddoti mostrano come la produzione del film dovette essere molto
avventurosa ma anche la testardaggine (ripagata) di De Sica nel voler ritrovare dei volti e dei corpi adatti per
i personaggi. Si noti cosa disse rispetto ai bambini che gli portavano ai provini:

o erano bellini, romantici, lisciati, o erano incapaci.

Quello che De Sica voleva era l’autenticità di un bambino che non si sarebbe probabilmente mai presentato a
quei provini. Insomma non uno ricco coperto di stracci ma uno venuto dalla strada per cui gli stracci non
fossero solo un costume di scena ma la realtà quotidiana.

Regia semplice e lampi di genio

Si diceva di De Sica che facesse recitare anche i sassi. Forse i sassi no, ma è ovvio che chi riesce a rendere
straordinaria l’interpretazione di un professore universitario di glottologia o un operaio della Breda, ha delle
“doti sciamaniche” non indifferenti. Queste straordinarie doti De Sica le deve ai sui anni passati a recitare
sulle tavole del palcoscenico, ma anche a una tendenza personale particolarmente spiccata. L’attore e regista
di fatti non smetteva di essere attore neanche dietro la cinepresa dove si dilettava a recitare le varie parti
presenti nel film per poter spiegare agli attori come fare. De Sica stesso ammise di curarsi in minor modo
degli aspetti tecnici quando svolgeva una regia per concentrasi sulla crescita degli attori. Per il regista l’uso
della telecamera non si doveva neanche notare. Non servivano orpelli tecnici nelle regie di De Sica ma solo il
necessario per mostrare al meglio i personaggi. Oltre a questo De Sica aveva delle intuizioni fulminati che gli
permisero di migliorare il film. Di una di queste fu testimone un altro grande regista italiano Sergio
Leone che ebbe modo di partecipare alla realizzazione del film come assistente e comparsa. Il regista
di C’era una volta in America disse:

Eravamo a Porta Portese per girare la sequenza in cui il padre del bambino vaga per trovare la bicicletta (…)
quando ad un tratto lui disse: ” Ah, qui mi piacerebbe vedere una compagine di dieci, quindici preti rossi,
quelli della propaganda Fides, è venuto a piovere e vorrei profittare di queste luci stupende”.

La fortuna del film

Il film uscì il 24 novembre 1948 e commercialmente fu un disastro. In Italia venne tolto quasi subito dalle
sale e per di più le persone che andarono a vederlo ne uscirono molto scontente. Il pubblico non era ancora
pronto per poter osservare in maniera critica la propria miseria. C’è da contare che per anni le persone in
Italia erano abituati a vedere produzioni cinematografiche molto più leggere proposte durante il fascismo.
Diversa sorte subì il film all’estero, in particolare in Francia, dove il film venne subito riconosciuto come un
capolavoro straordinario. L’importante cineasta francese René Clair abbracciò commosso De Sica dopo
una proiezione del film a Parigi. Ladri di biciclette vinse nel 1950 l’Oscar Onorario come miglior film
straniero e venne nominato per la migliore sceneggiatura. L’influenza che questo film ha avuto nei cineasti
nel corso della storia del cinema è stato gigantesco. Molti registi, attori e intellettuali considerarono, e
considerano tutt’ora, questo film come uno dei più importanti della storia del cinema. Billy Wilder disse
che il film era da vedere in piedi con il cappello in mano per rispetto al capolavoro che De Sica e Zavattini
avevano creato.
LA TERRA VISTA DALLA LUNA di Pier Paolo Pasolini
LA TERRA VISTA DALLA LUNA DI PIER PAOLO PASOLINI (ANNAMARIA NICCOLI) LA TERRA
VISTA DALLA LUNA È UN RACCONTO DI PIER PAOLO PASOLINI APPARTENENTE A UN LIBRO MAI
PUBBLICATO “IL BURO E LA BURA”, CHE DALLO STESSO REGISTA VENNE POI TRASFORMATO IN
UN CORTOMETRAGGIO INSERITO NEL FILM A EPISODI “LE STREGHE”, PRODOTTO DA DINO DE
LAURENTIIS, CUI L’ATTRICE PROTAGONISTA DI TUTTI GLI EPISODI DI VARI REGISTI È LA MOGLIE
SILVANA MANGANO. DEL CORTOMETRAGGIO DI PASOLINI COME PROTAGONISTI MASCHILI SI HA
NUOVAMENTE L’ACCOPPIATA TOTÒ E NINETTO DAVOLI. LA TERRA E LA LUNA APPARTIENE A UN
PROGETTO MAI REALIZZATO DEL REGISTA, UN FILM A EPISODI COMPOSTO DA DI QUATTRO
CORTOMETRAGGI: “COSA SONO LE NUVOLE?”, “LA TERRA VISTA DALLA LUNA”, “LE AVVENTURE DI
RE MAGIO RANDAGIO E IL SUO SCHIAVETTO SCHIAFFO” E “”MANDOLINI”. NEL 1966 IL
PRODUTTORE DE LAURENTTIIS DARÀ LA POSSIBILITÀ DI PARTECIPARE CON DUE SUOI EPISODI IN
DUE FILM: “LE STREGHE” E “CAPRICCIO ALL’ITALIANA”. PASOLINI ACCETTA L’OFFERTA FATTA
DAL NOTO PRODUTTORE, MA GLI ALTRI DUE EPISODI PROGETTATI NON VERRANNO MAI
REALIZZATI.
“LA TERRA VISTA DALLA LUNA” È DA ESSERE INTESO COME LA CONTINUAZIONE IDEALE DEL PIÙ
NOTO FILM DEL REGISTA, “UCCELLINI E UCCELLACCI”. IL FILM È UNA FAVOLA, ED È UN OMAGGIO
ALLE COMICHE DELL’ATTORE E REGISTA CHARLIE CHAPLIN. DI QUESTO LAVORO NON ESISTE LA
STESURA DELLA STESURA SCRITTA DELLA SCENEGGIATURA, LE VARIE SCENE SONO STATE
ILLUSTRATE IN FORMA DI FUMETTO DALLO STESSO REGISTA. LA FIABA, DAL SAPORE “AMARO” È
STATA REGISTRATA FRA LE BARACCHE DELLA PERIFERIA ROMANA, LUOGO PREFERITO DA
PASOLINI ED ERA L’ESATTA RAPPRESENTAZIONE DI UNA ITALIA STRAVOLTA DAL BOOM
ECONOMICO DEGLI ANNUI 50/60. I PERSONAGGI APPARTENENTI AL RACCONTO, SONO INSERITI
IN UN PAESAGGIO SURREALE, DOVE CI SI MUOVE FRA CAMPAGNE INCOLTE E DESOLATE,
CASETTE IN MATTONI POVERE O “CATAPECCHIE”. PASOLINI PRESENTA L’INIZIO DELLA FAVOLA
CON UNA DIDASCALIA:
“VISTO DALLA LUNA, QUESTO FILM CHE S’INTITOLA APPUNTO LA TERRA VISTA DALLA LUNA NON
È NIENTE E NON È STATO FATTO DA NESSUNO…MA POICHÈ SIAMO SULLA TERRA, SARÀ BENE
INFORMARE CHE SI TRATTA DI UNA FIABA SCRITTA E DIRETTA DA UN CERTO PIER PAOLO
PASOLINI”. LE PRIME SCENE INIZIANO IN UN CIMITERO DOVE”CIANCICATO MIAO” (TOTÒ) E SUO
FIGLIO “
BACIÙ” (NINETTO DAVOLI) PIANGONO SULLA TOMBA DELLA MOGLIE-MADRE, “CRISANTEMA”.
APPENA FINITO RECITARE LE PREGHIERE, MIAO E BACIÙ DECIDONO DI CERCARE UNA NUOVA
MADRE-DONNA. LA RICERCA DURA PIÙ DI UN ANNO. INCONTRERANNO UNA VEDOVA ISTERICA,
UNA PROSTITUTA, UN MANICHINO. DOPO TANTO CERCARE INCONTRERANNO, DAVANTI A UN
ALTARINO, UNA BELLISSIMA DONNA, DAI CAPELLI VERDI, CHE STA PREGANDO. A MIAO GLI
OCCHI S’ILLUMINANO, È LA DONNA DEI SUOI SOGNI! I DUE UOMINI, DOPO AVER POSTO TANTE
DOMANDE ALLA DONNA, SCOPRONO CHE È SORDOMUTA E CHE SI CHIAMA “ASSURDINA CAI”.
IMMEDIATAMENTE MIAO DECIDE DI SPOSARSI. I DUE UOMINI FELICI E BALDANZOSI,
ACCOMPAGNANO LA MOGLIE-MADRE ALLA SUA NUOVA DIMORA, UNA CATAPECCHIA.
QUELL’ABITAZIONE FATTA DI CANNE E FRASCHE DENTRO È PIENA ZEPPA DI CIANFRUSAGLIE,
SPARSE DISORDINATAMENTE, “MA NON CI SONO SCARAFAGGI!” ASSURDINA NON SI FA
PRENDERE DALLO SCONFORTO E IN MEN CHE NON SI DICA METTE ORINE IN QUELL’UMILE
CATAPECCHIA TRASFORMANDOLA IN UNA VERA BOMBONIERA. POCO TEMPO DOPO NELLA
BORGATA VERRÀ MESSA IN VENDITA LA CASA VOCINO A LORO, DI MATTONI. MIAO SOGNA
QUELLA CASA DA TEMPO, PUR SAPENDO CHE NON HA I SOLDI. PADRE E FIGLIO CONVINCONO
ASSURDINA D’INSCENARE UN TENTATIVO DI SUICIDIO AL COLOSSEO. I TRE PROTAGONISTI
SPERANO CHE LA SOCIETÀ GLI DIA UN AIUTO. SI RADUNANO SOTTO IL MONUMENTO CAPITOLINO
UN GRAN NUMERO DI PERSONE MENTRE LA DONNA INSCENA IL SUICIDIO. CON L’AIUTO DI DUE
COMPLICI DEL TRIO, DUE COMPLICI FRA IL PUBBLICO INIZIA LA COLLETTA. NEL FRATTEMPO,
NUOVAMENTE COMPARE UNA COPPPIETTA A PASSAGGIO, IN TENUTA SAHARIANA, CHE GIÀ È
STATA VISTA PER ALCUNI SECONDI DURANTE LA PRIMA PARTE DEL FILM. L’0INCAUTA E
DISATTENTA COPPIETTA DOPO AVER MANGIATO UNA BANANA BUTTA IN TERRA LA BUCCIA, LÌ
DOVE È ASSURDINA. LA MOGLIE DI MIAO NON SI ACCORGE DI QUESTO GESTO E PONE IL PIEDE
SULLA BUCCIA, CAUSANDONE COSÌ L’INVOLONTARIA CADUTA DAM MONUMENTO MORENDO SUL
COLPO. MESTAMENTE PADRE E FIGLIO RITORNANO AL CIMITERO PER PREGARE SULLA TOMBA DI
ASSURDINA. PIANGENTI RITORNANO ALLA CATAPECCHIA. NELL’APRIRE LA PORTA I DUE SI
TROVAVANO DAVANTI IL FANTASMA DELLA DONNA. I DUE FUGGONO NELLA CAMPAGNA IN
PREDA AL TERRORE; RIPRESO CORAGGIO RITORNANO A CASA, TROVANDOSI NUOVAMENTE
DAVANTI IL FANTASMA DI ASSURDINA. MIAO ACCERTATO CHE LA MOGLIE DEFUNTA PUÒ
CONTINUARE AD ASSISTERLO, DECIDONO TUTTI E TRE DI CONTINUARE A VIVERE INSIEME. IL
FILM SI CONCLUDE CON UN ULTIMA DIDASCALIA:
“MORALE: ESSERE MORTI O ESSERE VIVI È LA STESSA COSA”.
“LA TERRA VISTA DALLA LUNA” A PRIMA VISIONE DÀ L’IMPRESSIONE D’APPARTENERE
STILISTICAMENTE ALL’EPOCA DEL CINEMA MUTO DEGLI ANNI 20/30, PUR AVENDO SUONI E
COLORI. QUESTA PELLICOLA È LA PRIMA A COLORI DI PASOLINI. VENNE REGISTRATA IN UNA
SETTIMANA, MENTRE IL REGISTA ERA GIÀ IMPEGNATO IN UN ALTRO SUO FILM “EDIPO RE”. IL
REGISTA PRESENTA TRE PERSONAGGI CHE APPARENTEMENTE SEMBRANO ESSERE GUAI E
SERENI, MA SCOPRIAMO CHE INVECE TUTTA LA FAVOLA È “AMARA”. ESSA È UN’ANALISI FREDDA
E CINICA DELLA NASCENTE SOCIETÀ DEI CONSUMI, CHE GIÀ DAI TEMPI DEL REGISTA, SI
PRESENTA FRENETICA E CINICA, CUI ENTRO BREVE TEMPO PORTERÀ LA SOCIETÀ
ALL’ABBASSAMENTO CULTURALE E ALLA DIMINUZIONE DELLA COMUNICAZIONE FRA LE
PERSONE. PASOLINI È CERTO CHE ABBIAMO IMBOCCATO UNA STRADA , SENZA RITORNO, DELLA
SOCIETÀ INDIVIDUALISTA, SENZA CUORE E SENTIMENTO. IMPORTANTE È LA BATTUTA DI
CIANCICATO MIAO (TOTÒ): “LA VITA È UN SOGNO E GLI IDEALI STANNO QUA (SOTTO LA SUOLA
DELLE SCARPE)”. CON QUESTO CORTOMETRAGGIO SIAMO ALLE PRESE CON UNA NUOVA
COMICITÀ SURREALE, CHE VERRÀ PORTATA AVANTI SOLO DA POCHI ALTRI GRANDI MAESTRI DEL
CINEMA. IL VOLER PRESENTARE UN PAESAGGIO DI BORGATA E COMPLETAMENTE PRIVO DI
PRESENE UMANE IL REGISTA HA VOLUTO FAR INTENDERE ALLO SPETTATORE IN QUALE
DESERTO CULTURALE VIVE ORA L’UOMO; DA CIÒ QUESTA OPERA PASOLINIANA È TUTT’ORA
ATTUALE. IL PERSONAGGIO ASSURDINA HA UNA DOPPIA CHIAVE DI LETTURA. LA DONNA
MADRE-E MOGLIE BELLA E DOLCE; MA ANCHE IN CHIAVE MASCHILISTA, DONNA SERVIZIEVOLE,
BRAVA NELLE FACCENDE DI CASA E DI DONNA, CHE DEVE SOLO “SOTTOMETTERSI” ALL’UOMO E
CHE NON HA NULLA DA DIRE. QUINDI, ASSURDINA CHE SIA VIVA O MORTA NON IMPORTA ,
BASTA CHE SVOLGA I SUOI DOVERI DI MOGLI E MADRE.“MORALE: ESSERE MORTI O ESSERE VIVI
È LA STESSA COSA”, PENSIERO PASOLINIANO LASCIA NELLO SPETTATORE UNA SENSAZIONE
SGRADEVOLE: SI NASCE CON UN UNICO VERO OBIETTIVO NELLA VITA, CHE PORTA SOLO ALLA
MORTE E QUALSIASI SOLUZIONI SI CERCHI PER EVITARLA NESSUNO TROVERÀ MAI LA
SOLUZIONE.

Teorema

Teorema racconta l’irruzione della figura messianica all’interno di una famiglia borghese, con tutte le
conseguenze che questo evento comporta, a partire dalla distruzione, violenta, del suo equilibrio.
Tutti gli abitanti della casa si innamorano del giovane ospite, che ricambia quell’amore. Questo fatto scardina
in primo luogo quell’usanza che riconduce le relazioni personali, sentimentali e sessuali alla logica del
calcolo. Il messia, al contrario, viene come un dono, come qualcosa che si dà, che concede se stesso –
nell’opera di Pasolini, anche e soprattutto in senso fisico – gratuitamente, senza interesse; senza, cioè, essere
origine e parte di uno scambio e una mercificazione. Tale evento fa saltare un sistema di pensiero, un
modello di comportamento e uno stile di vita che sono indissolubilmente legati a una logica economica:
quella che designa come priorità, in ogni tipo di operazione, l’atto di produrre e generare un plusvalore, un
beneficio. Anche nella sfera sentimentale: l’amore deve essere sempre conveniente. In questo senso, la
venuta del messia in un contesto borghese non può che presentare un carattere prettamente rivoluzionario.
L’interpretazione pasoliniana recupera così una certa visione del messianismo che, nella dottrina cattolica
occidentale, è spesso rimasta in ombra. La nostra tradizione tende infatti a porre l’accento, nella parousía,
sul momento del giudizio, della valutazione del bilancio e della revisione dei conti. Cristo dovrebbe dunque
tornare per giudicare l’esistenza umana in termini di profitto o di perdita, di risultati ottenuti o mancati; per
approvare o sconfessare quanto prodotto dall’uomo durante la sua vita. Un punto di vista che spiega
l’altrimenti inspiegabile accordo tra Chiesa e capitalismo; inspiegabile se pensiamo che l’insegnamento
originario di Cristo, tale e come è riportato nei Vangeli, pareva indirizzare la vita sociale delle prime
comunità cristiane verso una forma di proto-comunismo. Tesi tante volte ripresa e sostenuta in epoca
medioevale e tante volte sconfessata e bollata come eresia. Il messia di Pasolini non viene come revisore, né
come giudice, ma come colui che, con il suo amore, rompe la logica del calcolo e che sospende il giudizio.

Terence Stamp in “Teorema” (1968)


C’è una parabola, nel Vangelo di Matteo, che mi è sempre parsa crudele; si tratta della parabola dei talenti. Il
padrone parte da casa e lascia tre servi ad amministrare i suoi beni. A uno affida cinque talenti, a un altro due
e a un altro uno, a ognuno secondo le sue capacità. Al ritorno dal suo viaggio, il padrone passa a riscuotere; i
primi due servi hanno investito il denaro e l’hanno raddoppiato, mentre il terzo ha nascosto il suo unico
talento in un campo, e al padrone non ha nulla di più da offrire di quanto gli avesse lasciato. Quest’ultimo
servo è punito, poiché «a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche
quello che ha». In questo senso, mi è sempre sembrata crudele: se ai servi è dato secondo le loro capacità,
non si capisce perché un servo che già aveva poco –a livello di capacità economiche- e che si era premurato di
non far perdere al padrone il proprio denaro, dovesse essere privato anche di quel poco che aveva, a
vantaggio di chi già aveva molto. Una parabola sull’imprenditorialità, apparentemente, che può essere letta
come un’istigazione al rischio dell’investimento e alla necessità di mantenere in attivo un sistema (finanziario
o di pensiero) che deve sempre tendere all’orizzonte del beneficio. Con il tempo, però, sono giunto alla
conclusione che questa parabola vada letta da un altro punto di vista, in aperta contraddizione con il
precedente. L’attività cui sono chiamati i servi e il rischio che sono invitati a correre non sono da intendersi
in senso letterale, ma come metafora dell’attività intellettuale, critica e, in ultima analisi, rivoluzionaria. I
talenti rappresenterebbero allora le capacità intellettuali e critiche di ognuno, le capacità di cui Dio dota
l’uomo; quelle stesse capacità che, messe a frutto, dovrebbero permettere all’uomo di intendere e interpretare
correttamente il progetto di Dio e preparare la venuta del messia. Il ritorno del Cristo, dunque, è
intimamente vincolato all’attività dell’uomo nel mondo durante la sua assenza. Il paradosso potrebbe
apparire kafkiano. Kafka probabilmente direbbe che sono i servi stessi a giustificare il comportamento del
padrone, nella misura in cui si sentono responsabili della sua dote. Così, il ritorno del padrone dipenderebbe
dal modo in cui i servi attendono quella venuta. Il padrone non torna a suo capriccio, ma può tornare solo
quando i servi hanno fatto fruttare i talenti che egli ha lasciato loro: quando, cioè, la dote si è concretizzata;
quando ciò che era in potenza ha espresso il suo potenziale. Perché il padrone in qualche modo era in quella
dote ed era quella dote: il padrone si era lasciato ai servi, e i servi – o meglio: i primi due servi- hanno fatto in
modo che lui tornasse a manifestarsi. Il messia torna solo per chi lo attende attivamente.
Lo stesso si dice, in fin dei conti, in Teorema, se interpretiamo l’opera come una panoramica sulla passività
della piccola borghesia. Per Pasolini, il borghese è colui che non ha mai dovuto lottare, perché abituato al
fatto che tutto gli è già dato; il borghese è abituato, cioè, a non fare, e verrebbe a essere quel terzo servo della
parabola che non sa far fruttare il suo talento. Per questo il borghese è totalmente estraneo all’evento
rivoluzionario e, non comprendendolo, non può che osteggiarlo. E per lo stesso motivo il borghese è incapace
di riconoscere quella stessa prerogativa di “sovversione dell’ordine prestabilito” che la venuta del messia
implica. Questo è il vero “riconoscimento” del messia: riconoscimento e accettazione della sua portata
rivoluzionaria, del suo dover fare (che qui coincide con il dover essere) una rivoluzione del sistema, sia esso
sociale o familiare. È in questo senso che Cristo afferma: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla
terra, ma una spada. Sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre» [Matteo, 10, 34-35].
Il quid della questione è il seguente: la venuta del messia sarà violenta e noi dobbiamo accettare di vivere
questa violenza, e favorirla; poiché non possiamo attendere passivamente una liberazione che ci riguarda.
Questa liberazione non può più darsi unicamente come atto trascendente, come volontà divina (altrimenti
cadremmo in una sorta di fatalismo idealista); ma si deve dare innanzitutto come atto contingente e
materiale: atto di ricerca intellettuale e spirituale da parte dell’uomo. Da qui la tesi marxista alla base del
teorema pasoliniano: gli umili – il proletariato, quando ancora esisteva, che qui è incarnato nella figura della
Serva – rivendicano così il loro ruolo e le loro funzioni umane e umanistiche davanti al divino. La venuta di
Cristo sulla terra, come uomo umile tra gli umili, ne è il massimo esempio; la parousía diviene a questo
punto quasi una parabola di se stessa.

Susanna Colussi e Laura Betti in “Teorema” (1968)


Sotto certi aspetti, questa è la medesima tesi che sostiene un altro marxista poco ortodosso – così come poco
ortodosso è il suo sguardo sulla religione – del secolo ventesimo: Walter Benjamin. Per il filosofo tedesco, di
origine e cultura ebraica, quell’attività permanente dell’uomo nei confronti della trascendenza divina si
espletava nell’esercizio costante della critica. Il messia non arriva per chi attende inoperoso che si apra quella
“piccola porta” attraverso cui dovrebbe entrare nella Storia. Ogni uomo è invece chiamato a ri-aprire la
storia, attraverso un procedimento dialettico che riattualizza costantemente il passato, proponendogli un
“appuntamento segreto” con il presente. E attraverso questa ri-apertura, che è una re-interpretazione in
opposizione all’interpretazione egemonica dei vincitori, dei potenti, della borghesia, deve creare le condizioni
perché la porta si spalanchi e il messia possa entrare in qualsiasi momento. Ogni uomo – e ancora il
paradosso potrebbe apparire kafkiano – deve essere colui che invita il messia, prima ancora di riceverlo. Solo
in questo senso la portata rivoluzionaria di un fatto come quello messianico si rivela una questione non solo
divina, ma anche umana; che non compete solo alla sfera dell’ideale (la vecchia tesi conservatrice hegeliana),
ma anche a quella materiale (la tesi del materialismo storico).
Se il pensiero borghese capitalista è estraneo all’evento messianico, è perché la borghesia non può
riconoscere il messia, dato che lo attende semplicemente come colui che viene a salvare tutti gli uomini, e
non come colui che viene affinché tutti gli uomini possano offrire a se stessi l’opportunità di salvarsi. La
borghesia, in primo luogo la borghesia cattolica del secolo ventesimo fino ad oggi, ha invece interpretato
l’evento messianico secondo il suo sistema di pensiero, che è un pensiero economico; non comprendendo che
quell’evento implica inevitabilmente la distruzione di quello stesso sistema in cui il borghese vive, e che
plasma la sua forma mentis. Per questo, per la borghesia, il messia non può arrivare: la sua mancata venuta
corrisponde al mancato esercizio di una critica attiva; l’attesa perenne della salvezza rimane tale, proprio
come perenne rimane il suo non saper lottare (contro le regole, contro le convenzioni, ma anche contro se
stessi e le proprie paure). Se questa attesa della manifestazione non è accompagnata dalla volontà di
riconoscimento, la manifestazione rimarrà dunque incompiuta. Questo spiega anche il progressivo
disinteresse per l’attività e la coscienza politica che si è andato a creare nelle socialdemocrazie occidentali
negli ultimi cinquant’anni. Anni in cui si assiste, appunto, a una graduale conversione del proletariato in
piccola borghesia; anni in cui il sistema capitalista ha offerto a buon mercato alle classi basse il sogno del
benessere economico proprio delle classi alte. Ma non è possibile accettare le condizioni di vita di una classe
senza accettarne anche il sistema di pensiero: da qui la rinuncia alla critica sociale e politica di questa nuova
piccola borghesia. Almeno fino a oggi, quando –sembra- si sta producendo un certo risveglio delle coscienze;
ma anche questo fatto è dovuto, in fin dei conti, a un mero fattore economico: la crisi finanziaria degli ultimi
anni sta restituendo la nuova falsa piccola borghesia alla sua collocazione originaria di classe bassa.
Questo è ciò che possiamo trarre dall’insegnamento di Pasolini, e da quello di Benjamin. La carica
rivoluzionaria è innanzitutto attività umana, intellettuale e materiale. Un insegnamento del passato che non
può che trovare il suo appuntamento –non più tanto segreto- con l’oggi. E che si rivela quindi, per la nostra
società e per i nostri tempi, più che mai attuale.

[info_box title=”Davide Carnevali” image=”” animate=””](Milano, 1981) è un autore e teorico italiano. Si


dottora in Teoria del Teatro presso la Universitat Autònoma de Barcelona, dopo un periodo di studi presso la
Freie Universität Berlin, con una tesi dal titolo Forma dramática y representación del mundo. La sua ricerca
si concentra sull’analisi di strutture drammatiche che si oppongono ai principi di coerenza derivati dalla
logica classica, nell’ambito della drammaturgia europea contemporanea. Sviluppa attività di docenza,
impartendo seminari di scrittura drammatica e teoria del teatro.
Dal 2013 è parte del Comitato di Drammaturgia del Teatre Nacional de Catalunya e collaboratore di IT –
Independent Theatre Festival di Milano. Inoltre è membro del consiglio di redazione della rivista catalana
«Pausa», e scrive per diverse riviste italiane e internazionali, occupandosi principalmente di teatro argentino,
catalano, spagnolo e tedesco. È traduttore dal catalano e dallo spagnolo all’italiano.
Come autore si forma con Laura Curino in Italia e con Carles Batlle presso la Sala Beckett di Barcellona;
amplia i suoi studi in Spagna e Germania, assistendo a seminari di Martin Crimp, Biljana Srbljanović, José
Sanchis Sinisterra, Hans-Thies Lehmann, John von Düffel, Simon Stephens, Martin Heckmanns.
Con Variazioni sul modello di Kraepelin si è aggiudicato nel 2009 il premio “Theatertext als Hörspiel” al
Theatertreffen di Berlino e il “Premio Marisa Fabbri” al Premio Riccione per il Teatro, e nel 2012 il “Prix de
les Journées de Lyon des auteurs”. Come fu che in Italia scoppiò la rivoluzione ma nessuno se ne accorse ha
ricevuto il “Premio Scintille” del Festival Asti Teatro 2010 e il “Premio Borrello alla nuova drammaturgia”
2011. La prima parte del Dittico dell’Europa, Sweet Home Europa, è stata presentata nell’edizione 2011 del
Festival Internazionale di Letteratura di Berlino e ha debuttato nel 2012 con una produzione del
Schauspielhaus Bochum, e in forma di radiodramma per la Deutschlandradio Kultur; nel 2015 è stato
allestito anche in Italia, prodotto dal Teatro di Roma. Nel 2013 è stato incluso tra i 35 autori più
rappresentativi della storia dello Stückemarkt Theatertreffen, che per l’occasione ha incaricato e
sovvenzionato la scrittura della seconda parte del Dittico, Lost Words. Nello stesso anno ha vinto il “Premio
Riccione per il Teatro” con Ritratto di donna araba che guarda il mare. Le sue opere sono state presentate
in diversi festival e stagioni teatrali internazionali, e sono tradotte in catalano, estone, francese, greco,
inglese, polacco, rumeno, russo, spagnolo, tedesco, ungherese

Ricotta

È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più
umili ed emarginati della società – tutte le comparse, i generici, i figuranti del “film nel film” la cui storia
viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei “morti di fame” in senso
letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l'”enorme mangiata” di ricotta rappresentata quasi a
conclusione del film e della vita stessa di Stracci. Ma compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del
produttore e del suo entourage. E viene anche “messa in scena” l'”integrazione sociale” cui sembra essere
pervenuto il regista “marxista” (interpretato da Orson Welles).

La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963): nelle numerose
pagine di questo sito se ne parla molto ampiamente. Ne seguì un processo nel quale, tra l’altro, il Procuratore
della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come “il cavallo di Troia della
rivoluzione proletaria nella città di Dio”.
Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli: le tre ripetizioni de “la
corona!”, lo spogliarello della generica che interpreta la Maddalena, la risata dell’attore generico che
interpreta Cristo; si sostituisce l’ordine “via i crocefissi!” con “fare l’altra scena!”, l’espressione “cornuti” con
“che peccato”, la frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con
“povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”!
Soltanto nel maggio 1964 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista
perché “il fatto non costituisce reato”.
Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate
dalla malafede. Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della
borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti.

Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista-
Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista:

Giornalista: “Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”
Regista: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
Giornalista: “Che cosa ne pensa della società italiana?”
Regista: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”
Giornalista: “Che cosa ne pensa della morte?”
Regista: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.”

Il regista-Orson Welles, dopo aver letto una poesia di Pasolini (Io sono una forza del passato…), tenendo tra
le mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride):

“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso
delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera
esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone
del suo giornale… Addio.”

In un breve scritto del 1961, infine, Pasolini così si espresse:

“Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni
cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che
sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più
senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi
storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale,
fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che
in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese
gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi
tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”.

ANGELA MOLTENI, www.pasolini.net

Citazioni tratte da AA.VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di


Laura Betti, Garzanti, Milano 1977.
***

La ricotta è un episodio del film RoGoPaG, prodotta da Alfredo Bini, il quale, deponendo al processo per
vilipendio contro la religione dello Stato, intentato dal P.M. Di Gennaro contro Pier Paolo Pasolini, disse:

“Il film è composto di quattro episodi. Il filo conduttore è costituito dai diversi aspetti di uno stesso
fenomeno, il condizionamento dell’uomo nel mondo moderno. Il primo regista, Rossellini, si occupava del
condizionamento dell’uomo nei suoi rapporti con la donna; il secondo, Gregoretti, si occupava del
condizionamento relativo alla tecnologia ; Godard prevedeva in un prossimo futuro piccolissimi fattori di
degenarazione che avrebbero portato alla fine del mondo senza scosse; Pasolini si occupava della maggior
parte degli uomini non ancora in tale stato di condizionamento”.

La ricotta è, quindi, una denuncia della decadenza morale dell’uomo contemporaneo. Pasolini si serve di uno
dei simboli del cristianesimo, la passione di Cristo, per rappresentare, attraverso l’immoralità della troupe di
quel set cinematografico, il vero Cristo: Stracci. Stracci ha una duplice funzione: rappresenta il
sottoproletario sacrificato al vuoto borghese, e rappresenta l’incarnazione reale e contemporanea del Cristo.
Stracci viene sacrificato, condannato a morte dalla ferocia di un mondo gretto e teso al consumo a tutti i
costi.
Dirà Pasolini di questo film:

“L’intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana,
ironica, cinica, incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei, che vengono letti
nell’azione del film […]. Le musiche tendono a creare un’atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti
in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti dalla volgarità del mondo circostante.
[…] Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i
personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell’uomo
moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all’atmosfera di
sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con
dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene
accadendo nel mondo moderno”.

Pasolini fa largo uso di riferimenti a pittura e letteratura. Le Deposizioni del Rosso Fiorentino e del
Pontormo vengono prese a esempi figurali; il Dies Irae accompagna molte scene del film; Orson Welles recita
una poesia dello stesso Pasolini. Il film è girato tra la via Appia Nuova e la via Appia Antica presso la sorgente
dell’Acqua Santa nell’autunno del 1963. Sullo sfondo le infinite distese dei palazzoni delle borgate romane, le
stesse borgate di Ragazzi di vita, di Tommasino, di Accattone, di Mamma Roma, la stessa umanità
antropologicamente identificata con i sottoproletari, ma un diverso approccio autobiografico e religioso. Quel
set rappresenta per Pasolini il tempio invaso dai mercanti.

Il film fu accolto con freddezza dalla critica, e la ragione va ricercata nelle parole di Moravia:

“La chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell’impreparazione culturale di molti critici, anche
nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. Diamine: il regista nell’intervista dichiara: ‘L’Italia ha il popolo
più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa’, ed ecco che scontenta così i partiti di destra come
quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: ‘L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un
mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista’, ed ecco scontentati tutti quanti. L’Italia del
passato, infatti era il paese dell’uomo, in tutta la sua umanità; l’Italia di oggi, invece, è soltanto il paese
dell’uomo medio”.

Per quanto riguarda la partecipazione di Orson Welles nella parte del regista-marxista del “film nel film”,
dice al proposito Carlo di Carlo, aiuto alla regia, insieme a Sergio Citti, dell’episodio:

“Riguardo La ricotta ricordo quel rapporto per me abbastanza assurdo con Welles. Pasolini lo volle a tutti i
costi – e giustamente – perché nessuno meglio del ‘mito’ Welles poteva eprimere e rappresentare il regista
(cioè il regista del film nel film). Welles accettò la parte solo per un fatto economico (non sapeva neanche chi
era Pasolini) chiese una cifra spropositata per un film così breve che fece rimanere in bilico la realizzazione
de La ricotta per molto tempo. Ma poi le sue condizioni vennero accettate. Orson Welles non sapeva mai
nulla quando arrivava sul set. Si informava poco prima di ogni ciak cosa si doveva girare, mi chiedeva le
battute tanto per sapere, a occhio e croce, di cosa si trattava, poi esigeva ‘il gobbo’. L’italiano lo masticava
abbastanza e avrebbe potuto tranquillamente imparare le battute. La scena più vistosamente eclatante della
sua partecipazione al film fu quando doveva recitare la poesia di Pier Paolo: ‘Io sono una forza del passato /
solo nella tradizione è il mio amore…’. Allora Welles sulla sedia da regista venne posto al centro di una
collinetta con gli occhiali abbassati tanto che potesse leggere (senza che lo si notasse perché favorito dal
controluce) l’enorme ‘gobbo’ che io gli tenevo a una distanza di quattro metri e sul quale avevo trascritto la
poesia”.

Che cosa sono le nuvole

Una delle opere in cui più evidente si delinea la declinazione della sacralità è il film Che cosa sono le nuvole?,
ispirata allegoria sulla vita, in cui l’autore abbandona l’approfondimento ideologico per accarezzare
soprattutto la dimensione poetica, attraverso la proposizione in chiave delicatamente surreale della tragedia
shakespeariana Otello: ne sono interpreti alcune marionette parlanti, metà uomini, metà pupazzi. Il vero
protagonista è Jago-Totò, che architetta alle spalle dell’ingenuo Otello il falso tradimento di Desdemona con
Cassio, vantandosi con il pubblico della propria perfidia.
All’ingresso dello strampalato teatro il titolo dello spettacolo del giorno Che cosa sono le nuvole? è
sovrapposto e messo in relazione con Las Meninas: la scelta di utilizzare il quadro di Velazquez raffigura
visivamente la visione di sacralità dell’autore.
Infatti Pasolini ci invita ad entrare dentro il quadro, mostrandoci il doppio livello della messa in scena: da
una parte la tragedia rappresentata dai pupi-personaggi, dall’altra la prospettiva secondo la quale lo
“spettatore” sarebbe solo osservatore falsamente privilegiato ma che in realtà non può vedere, né percepire i
dialoghi e i caratteri dei pupi/attori, non può entrare nelle pieghe recondite, in quelle sfumature segrete e
“irrazionali” del senso, non può calarsi nell’abisso della rappresentazione che si svolge. È come se Pasolini ci
invitasse a guardare il film e a leggere la sceneggiatura come si guarda Las Meninas, cioè trovando la “verità”
dell’inganno: il bene nel male, la realtà nella finzione, le cose importanti nelle futili. Pasolini nell’opera ci
propone continuamente doppi piani di lettura, a partire dall’idea del teatro nel cinema, dalla separazione
elementare tra il mondo della finzione e il mondo reale, fino ad arrivare alla riflessione sui significati
dell’esistenza umana e sui rapporti tra “apparire ed essere”, tra vita e morte.
Individuiamo, utilizzando la sceneggiatura del film, alcuni momenti in cui Pasolini esprime il suo anelito al
sacro.

“La Meninas” (1656) di Diego Velasquez


1.La nascita e la relazione.

Nella sceneggiatura la proposta del doppio piano è immediata ed esplicita, al contrario della versione
cinematografica in cui è solo intuita. All’inizio della rappresentazione il burattinaio si propone come voce
esterna e didattica, dall’alto: “Questa non è solo la commedia che si vede e che si sente; ma anche la
commedia che non si vede e non si sente. Questa non è solo la commedia di ciò che si sa, ma anche di ciò che
non si sa. Questa non è soltanto la commedia delle bugie che si dicono, ma anche della verità che non si
dice”. Sono parole misteriose che rimandano alla dimensione sacra del “nascosto, dell’incomprensibile,
dell’inaudito divino”. L’ascesi al numinoso può prendere avvio e si manifesta nella nascita del burattino:
l’inizio della sceneggiatura rappresenta una sorta di Genesi. Non conta il contesto in cui vieni alla luce, è
importante che la creatura si sovrapponga alla bellezza della creazione, se ne senta coinvolta, la duplichi, si
senta adeguata e coerente ad essa. Ogni nascita si porta dietro il mistero della creazione, la scintilla di un
collegamento con l’ignoto.
Successivamente, dallo sgabuzzino al ripostiglio, assistiamo a un salto di qualità: nello sgabuzzino è avvenuta
la nascita, nel ripostiglio, luogo in cui vengono conservati tutti i burattini, si impara la socializzazione, si
apprende che attorno a noi esiste un progetto comune, nel quale far maturare la consapevolezza del nostro
senso di appartenenza: “Il Burattinaio trascina paziente il nuovo burattino allegro nel ripostiglio dove, ai
loro fili luccicanti, sono appesi tutti gli altri burattini…Sono tutti appesi lì ai fili, immobili e ciondolanti, nel
silenzio segreto di quel ripostiglio…Otello il Moretto arde dal desiderio di parlare con qualcuno, di
esprimere qualcosa che ha dentro, che non sa cosa sia, ma lo rende espansivo come un cagnolino… Si
rivolge al più vicino, alla dolce faccia verde di Jago”.
Fondamentale per l’uomo e la sua evoluzione è la ricerca della conoscenza della realtà e di quanto è esterno a
noi. Otello, alter ego di Pasolini, mette in evidenza la gioia dell’essere nato ed esprime, convinto e felice, la
sacralità della vita: egli è puro e incontaminato, come la verità che è dentro di noi, come vedremo in seguito;
la felicità deve essere la condizione normale del genere umano: nella nebésnaia tiagà (l’attrazione celeste
della poetessa russa Marina Cvetaeva) si afferma che solo nell’entusiasmo l’uomo può scorgere Dio
esattamente perché Dio ha Creato il mondo nell’entusiasmo. La parola entusiasmo tra origine dalla radice
greca thus (in sanscrito dhus) da cui il verbo greco enthousiazein, cioè essere ispirato dall’avere un dio
dentro, da una forza divina irresistibile.

2.La lotta tra bene e male.

Ma la purezza della nascita e l’ingenua gioia lasciano presto il posto alla consapevolezza della presenza del
male nel mondo e la rassegnazione di trovarsi di fronte a una doppia dimensione:

“Nell’angoletto dietro le quinte dove si mettono gli attori in attesa che venga il loro turno di entrare nel
palcoscenico, Otello accoglie Jago con uno sconcertato sorriso di innocente offeso, che ancora non si capacita
della sua triste esperienza…”
Otello: Ammazza, Jago, io te credevo tanto bono, tanto onesto… Un pezzo di pane… e invece quanto sei
cattivo… Com’è?
Dall’istintiva gioia creaturale si precipita dunque in un momento in cui l’uomo non ricorda perché è sulla
terra, si scollega dalla propria anima, è costretto a recitare un altro ruolo e a essere così diverso da come
credeva: sembra spinto da una forza imperiosa che lo spinge a dire parole e a fare gesti che non condivide e
che anzi egli stesso respinge. Ben presto Otello, con l’aiuto di Jago, si rende conto di non vivere nella realtà,
nella sua realtà, ma in una rappresentazione di essa in cui tutti gli altri burattini, come lui, sono costretti a
svolgere azioni decise da qualcun altro per loro, dal grande burattinaio (i condizionamenti, la cattiva cultura,
i giudizi degli altri…) che dirige la rappresentazione. Noi siamo in un sogno dentro un sogno in cui viviamo
accettando il copione che ci viene affidato, e che non ci appartiene, per un’interpretazione esterna a noi.

3.La consapevolezza della lotta e la relatività della verità.

Tutto è finzione, apparenza, anti-sacro:

Otello: So’ un assassino! So’ un assassino! Chi se lo credeva! Io, io so’ un assassino, mannaggia!… Si rivolge
verso l’alto, al Burattinaio…
Otello: A sor Maè! Ma perché io credo a Jago? Perché so’ così stupido?
Burattinaio: Forse…è perché sei tu che vuoi ammazzare!
Otello: Come? Me piace ammazzare? E perché?
Burattinaio: Forse perché a Desdemona piace essere ammazzata…
Otello: Ah! E’ così? (ha una faccia sconvolta dal terrore e dalla meraviglia)
Burattinaio: Forse è così.
Otello (rivolgendosi a Jago) Ma allora qual è la verità? Quello che penso io de me, quello che pensa la gente
o quello che pensa quello là dentro…
Jago: Mah… Qualcuno dice che la verità non c’é… qualcuno dice che la verità è ’na media de tutte le verità
diverse che ce stanno…Ma tu non dà retta a nessuno de questi… Perché c’è la verità.
Otello: E qual è?
Jago: Senti qualcosa dentro di te? Concentrati bene! Senti qualcosa? Eh?
Otello (dopo essersi ben concentrato) Sì…sì sento qualcosa… che c’è…
Jago: Beh… Quella è la verità…Ma ssst, non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più…

La finzione è appunto ciò che si mostra dentro al teatro dei burattini, costretti a un ruolo, a una maschera.
Otello non vorrebbe uccidere Desdemona e non vorrebbe essere tradito da Jago, ma il burattinaio (colui che
tira le fila, che rappresenta l’ineluttabilità del destino, in altre parole colui il quale rappresenta i
condizionamenti cui siamo sottoposti) gli propone un’altra chiave interpretativa per dare un senso alla sua
domanda sul perché è diventato assassino, evidenziando un altro doppio piano della verità nascosta e della
verità-realtà. Forse il teatro stesso e l’arte in generale rivelano le verità nascoste, quelle che apparentemente
non si possono dire. La verità è fuori dal linguaggio, fuori dalla rappresentazione e va tenuta nascosta. Hanno
valore solo le cose che si vedono: la modernità ha quasi negato le cose nascoste, profonde, invisibili. La
psicoanalisi ci conferma che siamo il prodotto, il risultato di fattori contingenti, del nostro apparato
simbolico, di casualità complesse, del nostro sistema di vita, della nostra cultura, della nostra classe di
appartenenza, dei rapporti fra struttura e sovrastruttura. Ognuno recita a soggetto copioni non scritti da noi.
Shakespeare diceva che il mondo è un palcoscenico e noi siamo comparse. Persino i nostri desideri sono i
desideri del mondo, come ha ben sintetizzato il filosofo e antropologo René Girard, evidenziando la teoria del
“desiderio triangolare” e il “carattere mimetico del desiderio”: il desiderio non è una linea retta, soggetto-
oggetto, ma un triangolo soggetto-modello-oggetto: il desiderio presuppone la presenza dell’Altro, noi
desideriamo per imitazione del desiderio di un altro al punto che noi desideriamo meno l’oggetto di quanto
invidiamo la persona che lo possiede. Le nostre aspettative sono quelle degli altri, i nostri sogni non sono i
nostri. Così, la verità è concetto altrettanto relativo: essa è, appunto, fuori dal linguaggio, da ogni possibile
rappresentatività e rappresentazione di se stessa. Non deve essere nominata, deve essere tenuta nascosta: la
verità rimane concetto puro e astratto solo fino a quando dimora nella sacralità della nostra interiorità e si
contamina non appena si mostra, si fa parola al mondo.

Domenico Modugno in “Che cosa sono le nuvole?”


4.L’anima.

Alla fine dell’opera l’immondezzaio, novello Caronte, carica i corpi di Otello e Jago, uccisi dal pubblico, sullo
sgangherato camioncino per portarli in una discarica, insieme al resto della spazzatura e canta una canzone
in cui si evidenzia, ancora nella doppia polarità, un modello di comportamento per l’uomo alla ricerca del
senso della sacralità della sua esistenza.
Evidenziamo inoltre un’altra dualità: nel testo della canzone, scritta dallo stesso Pasolini e musicata da
Domenico Modugno, possiamo apprezzare lo splendido riferimento all’amore soffiato dal cielo: il vento come
simbolo e metafora dell’anima (l’ebraico ruah). Sia il vento che l’anima non si vedono ma si possono vedere i
loro frutti, le loro conseguenti azioni.
Il testo della canzone non compare nella sceneggiatura, ma è importante ricordare la penultima strofa per la
sua coerenza alla riflessione complessiva.

Il derubato che sorride


ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso
perciò io vi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta.

Pasolini è ispirato direttamente dallo stesso Shakespeare che scrive nell’Otello:

Quando non c’è più rimedio è inutile addolorarsi, perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato alla
speranza.
Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro per attirarsi nuovi mali.
Quando la fortuna toglie ciò che non può essere conservato, bisogna avere pazienza: essa muta in burla la sua
offesa.
Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro, ma chi piange per un dolore vano, ruba qualcosa a se stesso.
(Otello, atto primo, scena III)

L’invito dell’autore è chiaro: l’uomo deve abituarsi a mettere tutto nella corretta posizione, nel giusto ordine
gerarchico delle priorità, senza dimenticare mai il motivo del nostro passaggio sulla terra. Dobbiamo
abituarci alla sapienza della pazienza: solo questa può restituirci la solennità della nostra dimensione, la cui
comprensione può rendere irrilevante anche la stessa sottrazione di un nostro bene. Quando l’uomo riesce a
trasformare un fatto negativo in positivo (cfr. la “resilienza” di Beppe Fenoglio) e a non conferire importanza
a fatti comunque trascurabili se giudicati nella complessità cosmica, recupera, attraverso il vero significato
della sua esistenza, la comprensione della sua costitutiva sacralità.

5.Morire alla vita.

Nella faccia spaccata e gonfia di Otello gli occhi luccicano di ardente curiosità, di intrattenibile gioia. Anche
gli occhi di Jago guardano strabiliati e in estasi quello spettacolo mai visto del cielo e del mondo.
Otello: Iiiiih, che so’ quelle?
Jago: Sono…sono le nuvole…
Otello: E che so’ le nuvole?
Jago: Boh!
Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!
Jago: (ormai tutto in comica estasi) Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!
Le nuvole passano veloci nel gran cielo azzurro.

Totò-Jago e Ninetto-Otello in “Che cosa sono le nuvole?”


Sono le ultime, storiche, parole di Jago, ma anche dell’attore Totò, che morirà poche settimane dopo. Come
nel dipinto di Velazquez il lato nascosto dal quadro, ciò che nessuno “vedeva” o voleva vedere, è il mondo, qui
rappresentato da una discarica abusiva dove vengono portate le due marionette. Scivolando lungo la cascata
dei rifiuti, osservano un cielo con le nuvole di una bella giornata. Fuori dal “teatro-cubo” non sono più
marionette, ma essenze del mondo. E’ la morte delle marionette, della finzione, delle creature del pensiero,
che di solo dramma umano sanno nutrirsi, a rivelare improvvisamente la grandiosità dell’apparente assenza
di senso, di quell’unicità senza scopo che è l’attimo folgorante della vita. Ed è qui che ritroviamo, forse con
maggiore evidenza, la dicotomia vita-morte, come ben espresso dallo stesso Pasolini: “Quell’ideologia che fa
corpo con l’inesplicabile mistero della vita, di quella disperata vitalità che assume valore e significato solo
grazie al mistero del suo avere fine”.
In quest’ottica l’autore ritrae la vita come un viaggio senza senso e la morte come nascita, come recupero del
senso della vita. Vita nella vita attraverso il suo compiersi nella morte. La comprensione, la vera fascinazione
della vita avviene con la morte, che regala senso alla vita e alla successiva trilogia della fede: vita – morte –
resurrezione.
Cosa c’è di più sacro dell’azione di fidarsi e di affidarsi al mistero, al nostro istinto di umani destinati
all’eternità, di nutrire la consapevolezza di custodire dentro di noi già tutto, compreso il senso di
appartenenza a un’altra dimensione, quella dell’immortalità? Prova ulteriore per Pasolini, come abbiamo già
evidenziato, è il concetto di verità che nella sua astratta purezza appartiene al nostro intimo nel collegamento
con la nostra anima e che, quando la esteriorizziamo, svanisce di fronte alle contaminazioni del mondo
corrotto.
L’opera diventa quasi una via di fuga per l’autore. Forse che in quel silenzio, nella scena finale del film,
lontani dalla maledetta “struttura” (i simboli, il palco, il pubblico, l’apparato che ci circonda e penetra in noi),
si possa scorgere la nostra vera interiorità, ciò che non fa parte del mondo, in uno slancio di divina libertà?
Un assaggio mistico, nient’altro, un’intuizione che scompare nel momento stesso in cui nominiamo questa
verità sommersa, nel momento stesso in cui cerchiamo di dire cos’è, di formalizzarla con la parola.
Sappiamo dal film che dietro all’immagine del conducente si intravede il quadro di Velazquez Venere allo
specchio. La bellezza considerata come simbolo di creazione, da opporre alla morte: infatti il funerale dei due
burattini diventa il rovesciamento di un funerale: si perfeziona una seconda nascita di Otello e Jago che
“muoiono alla vita”. Ma è proprio lì che, abbandonati a se stessi, per la prima volta a contatto con la realtà,
tra i rifiuti (il mondo materiale) faranno un’importante scoperta; addolcendo il loro decesso, contemplano la
perfezione e la bellezza delle nuvole (il mondo ideale), misteri sconosciuti per la loro misera condizione di
marionette.
Ci imbattiamo ancora in un doppio piano di lettura: la sacralità del cielo rispetto alla volgarità
dell’immondizia. Per i due burattini essere gettati fuori dal teatro, dalla finzione, ha significato entrare nel
mondo della vita. Non più finzione, gelosia e cattiveria, ma solo la sacralità del Creato. La fine si ribalta in un
nuovo inizio e la realtà riconquista la sua dimensione sacrale con le nuvole, testimonianza del Creato.

[info_box title=”Daniele Gallo” image=”” animate=””] milanese (1954), corsista in giurisprudenza


all’Università Statale di Milano, ha maturato, anche attraverso esperienze seminariali, competenze certificate
nelle scienze criminologiche (con Gian Luigi Ponti), nelle tematiche relative alla sociologia e filosofia del
diritto (con Renato Treves) e in quelle della teoria generale del diritto. Laureato all’Università Statale di
Milano in scienze politiche, con tesi finale e master in sociologia del lavoro, giornalista e saggista, è dal 2009
direttore responsabile delle pubblicazioni Viator e di “Quaderni di ricerca spirituale”, nonché direttore
editoriale del Gruppo Editoriale Viator (Milano) che gestisce la casa editrice Servitium, dei frati Servi di
Maria di Sotto il Monte (Bg). Dal 2010 è docente di Lingua e letteratura italiana-teoria e tecnica della
traduzione letteraria presso la Scuola Universitaria Superiore per Mediatori Linguistici CIELS di Padova.
Tra i suoi saggi, Studio critico sulla funzione del sindacato in Eduard Bernstein (Edizioni Universitarie,
Milano 1991); Legge 903/1977: storia di una parità. Diritto e realtà (Edizioni Universitarie, Milano
1992); Totò, vita e arte di un genio (Gruppo Ed. Viator-Fondazione Ente dello spettacolo, Milano,
2008); Fare anima con le cose (Gruppo Editoriale Viator, 2009); Eduardo, la magia del teatro (Gruppo Ed.
Viator-Fondazione Ente dello spettacolo, Milano, 2010); Elementi di letteratura italiana: il
Neorealismo (Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2012; Elementi di teoria e tecnica della traduzione
letteraria (Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2012); Il crimine tra realtà e finzione. Due suggestioni
teatrali: Agatha Christie e Bertolt Brecht (Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2012); Tradurre e non tradire.
L’esempio biblico del vertere di Erri De Luca (Gruppo Ed. Viator, Milano, 2013); Pier Paolo Pasolini: sulle
tracce del Sacro (Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2014).

Potrebbero piacerti anche