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Addii

LUIGI MALERBA, UNO SCRITTORE CHE ERA ‘MOLTI ALTRI’

È morto a 81 anni il narratore emiliano, partecipe del Gruppo 63, uno degli autori
centrali del nostro secondo Novecento. Nella sua opera risulta di forte evidenza la
vena tragi-comica, che ‘non fa ridere in modo catartico, ma fa ridere in modo
bilioso’, ovvero obbliga alla riflessione (non moralistica, ma in più sensi politica).
Tra i suoi libri maggiori si ricordano “Il serpente”, “Salto mortale”, “Il pataffio”,
“Diario di un sognatore”. L’ultimo suo romanzo importante è probabilmente “Il
pianeta azzurro” (1986), vivace allegoria di uno Spirito del Male che ha attivamente
operato in Italia dagli anni Sessanta agli Ottanta del secolo scorso.

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di Mario Lunetta

Con nostra grande tristezza se n’è andato Luigi Malerba, nel sonno: lui che nel 1981 aveva
pubblicato quel Diario di un sognatore che è davvero un “libro bianco” nel senso letterale del
termine, una sequenza di lastre lattiginose su cui è impossibile, o comunque inane, tracciare perfino
l’ombra di un graffito. Una metafora del vuoto e del buio. La pronuncia impossibile dell’assenza:
dei nomi e del mondo. Magari, morendo, sognava di morire, l’amico Gigi. O sognava di morire in
tanti altri, per lui sempre più sconosciuti, se aveva rilasciato questa confessione in terza persona,
nell’ Autodizionario degli scrittori italiani di Felice Piemontese (1989): “Negli anni dell’infanzia e
anche dopo si è sentito ripetere una massima ambigua e vagamente minacciosa: cerca di essere te
stesso. Non si sa per quale malizia o malinconia ha cercato sempre di essere un altro, molti altri.
Così ha scritto racconti e romanzi in prima persona, ma si tratta di finzioni, niente altro che finzioni,
del tutto inutilizzabili per comporre la ‘voce’ di un’enciclopedia letteraria. Per inseguire qualche
barlume di verità bisognerebbe interpretare quelle finzioni, scavare a fondo in quelle pagine, ma è
un esercizio dispendioso e forse inutile. A volte teme di essere soltanto uno specchio che riflette
alcune cose che succedono nel mondo, ammesso che il mondo esista. Ma uno specchio non
conserva le immagini che riflette, non ne condivide né i difetti né le qualità, ha un’esistenza precaria
e variabile, o addirittura non esiste. Se le cose stanno così, forse nemmeno io esisto, pensa, e questa
sarebbe una vera disdetta per lui e per i suoi lettori”.
In effetti, pur essendo Malerba scrittore lontanissimo da ogni effetto catastrofistico e clamoroso,
una dimensione onirica e crudele abita le sue pagine fin da libri come Il serpente (1966) e Salto
mortale (1968), con esiti di efferata violenza e insensata indeterminazione. In realtà, la violenza
della scrittura malerbiana è quella che si coglie nelle cose, nel mondo, nei rapporti sociali: è, per
dirla in una formula, una violenza sistematica ovverosia del sistema in cui e di cui viviamo, e del
logos distorto col quale comunichiamo perlopiù pura ybris, appunto. Qualcosa che, figurativamente,
direi rimanda al gelo violento del cinema di Buster Keaton, per intenderci. Ed è, per insistere sul
pedale della sensorialità, una violenza che non si vede ma si sente, e che spande, in un mondo in
cui, come dice Malerba “non c’è niente da ridere”, sgomentato spaesamento. La sua, come càpita ai
migliori scrittori dell’epoca, è una scrittura del sospetto, dove nulla è mai definitivo e archiviabile
una volta per sempre. Qui sta la forza (spesso atrocemente stringente) della sua acida comicità. E a
me pare che, in area italiana, per dare anche alla virulenta gestualità malerbiana quello che le spetta,
sia Petrolini il solo comico (il più grande e il più tragico) che nel ’900 – proprio in virtù della sua
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cordialità al vetriolo e del suo assai allegorico realismo irrealistico, possa essere visto, per più di un
verso, come un antesignano dell’autore del Pataffio, e magari come un suo possibile “maestro”.
Ha osservato Giovanni Macchia che il mondo dei moralisti classici, da Machiavelli a La Bruyère, è
“un mondo nobile per eccellenza”, che li irrita perché non coincide con l’immobilità della loro
filosofia. C’è in loro, in fondo, più di un barlume di speranza in qualche modo “totalitaria” sulle
possibilità di salvare l’uomo, questa bestia riottosa. In Malerba, al contrario, non c’è speranza:
perché non c’è l’aspettativa di un altro mondo. C’è solo una raggelata disperazione, come mancanza
di ogni ulteriorità miglioristica; cosicché il tragico (che è la vita, questa vita così com’è) permette
un unico spiraglio di passeggero sollievo, quello del gag. Ecco perché è tragico, il comico di
Malerba. Ecco perché non fa ridere in modo catartico, ma fa ridere in modo bilioso. Ecco perché
obbliga alla riflessione (non moralistica, ma – mi si passi il termine – politica) compiuta dalla parte
giusta: che è, paradossalmente, quella del paradosso: dal momento che il mondo, se lo si guarda
secondo un’ottica realistico-mimetica, non rivela tutta la sua crudele demenza, anzi la nasconde e la
mistifica. Il vecchio razionalismo classico non è capace di smascherarlo: occorre un’altra logica,
meno frontale, e al contrario sguincia, sbilenca, votata senza misericordia allo piazzamento
continuo del lettore, alla sua messa in crisi critica, all’annientamento delle sue aspettative di
entertainment che non paga dazio.
Più che in un certo senso, direi che la scrittura di Malerba è quanto di peggio possa esistere per un
lettore masochista, e quanto di meglio per un lettore attivamente materialista. Ed è, in tutti i casi,
una scrittura ostile: anche quando esibisca, con deliberato gusto della perfidia e dell’ipocrisia (in
senso etimologico, ça va sans dire), tratti e attitudini neutrali e come svagati, da naif perduto nel
tumultuoso geroglifico della vita contemporanea, con tutti i suoi contraddittori segnali, le sue
pericolosissime sofisticatezze. Così, in quello sberleffo sessualsarcastico che è Il protagonista
(1973), nel quale – a somiglianza del moraviano Io e lui, uscito appena due anni prima – è
prim’attore il Membro maschile: ma, al dilà del divertimento goliardico e dei gags di sbracata
inventività, il libro si rivela come portatore di una cifra di alienazione e di morte, un meccanismo
compatto carico di irrisione e di beffarda violenza – ; ne Le rose imperiali (1975); nel truce,
sgangherato e esilarante Il pataffio (1978); nei racconti maligni e spesso assolutamente folgoranti di
Testa d’argento (1989). Ma probabilmente il libro nel quale questa prassi si esercita con una
ricchezza più ubiqua e acuminata di sempre nel suo continuo, quasi inafferrabile trasformismo
stilistico, è Il pianeta azzurro (1986), che a me pare l’ultimo libro importante di Malerba, prima di
un appannamento che ha inizio con Il fuoco greco (1990) e arriva fino al recente Fantasmi romani.
Cos’è che rende questo romanzo dal titolo molto lirico e astrale tanto intrigante e perspicuo? Certo,
la non comune quantità, e si direbbe “serie” di elementi culturali esplicitamente convocati dentro il
suo largo ed elastico ring, oppure soltanto allusi e sfiorati; e ancora, la sapienza con cui il gioco del
plot (anzi, dei diversi plot) viene svolto; e l’inclinazione, “celeste” e quasi distratta, ma nondimeno
acutissima, con cui il mondo viene osservato in quanto immane fabbrica di odio e di orrore; e
l’intelligenza spesso sorprendente delle osservazioni e delle digressioni apparentemente incongrue;
e magari altre qualità e caratteri che anche in questo caso riconfermano Malerba come uno degli
autori centrali del nostro secondo Novecento, e che elencare non comunicherebbe al lettore né un
grande aiuto né un piccolo brivido di choc critico. E allora? Allora cos’è che fa di questo libro, in
cui il ribollire del magma sembra sempre controllato da un geologo infallibile, un luogo in cui
esperienza e stile si fondono tanto efficacemente? Essenzialmente due fatti, credo: 1) la mobilità del
punto di vista, che si decentra senza tregua, e gioca sulla contraddizione e sulla costante smentita
delle sue premesse; 2) la densità accumulativa della lingua: una lingua sorniona e dimessa, talora
“innocente” al limite del dettato “ingenuo” e provvisorio; costruita, per dirla col Sanguineti di
Postkarten, sul principio di chi intende per stile il “non avere stile”.
Il pianeta azzurro è naturalmente la nostra terra, ora come non mai – dantescamente – aiuola che ci
fa tanto feroci, e che Malerba fa girare su una spirale di pura negatività. L’allegoria di uno Spirito
del Male inteso tutt’altro che spiritualisticamente si concentra nel romanzo in un Personaggio che
più “persona” (nell’originario senso di maschera) non potrebbe essere: davvero costipato
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contenitore di tutte le infamie, le doppiezze e le malvagità, e al tempo stesso manovratore, ispiratore


e mandante dei maggiori crimini politico-malavitosi che dagli anni Sessanta ai tardi Ottanta hanno
insanguinato il paese, dalla “strategia della tensione” al terrorismo “rosso” e “nero” al crimine
organizzato nelle sue connessioni col potere. Che in questo viscido e satanico produttore e gestore
di vari poteri occulti siano riconoscibili i tratti di ben noti uomini politici e di altrettanto noti
mestatori, è ancora secondario. Che certe logge massoniche segrete e certe parti politiche vengano
chiamate in causa con toni ben più diretti e pesanti della semplice allusione, può significare ancora
poco sul piano della riuscita letteraria del Pianeta azzurro. Un romanzo non è un reportage o un
servizio giornalistico. Ciò che conta è l’uso che del materiale offerto dalla cronaca riesce a
realizzare la scrittura. Bene: qui la scrittura di Malerba si libera con estrema sicurezza delle varie
“zavorre” dell’attualità cronistica per diventare macchina produttrice di sarcasmo e di negazione su
una “trama” che potrà apparire perfino eccessivamente documentaristica, perfino troppo
puntigliosamente mimetica. È un’illusione: la più consistente, direi, di questo libro preciso e
sfuggente, la cui inafferrabile equivocità agisce prima di tutto sul piano della struttura. Malerba non
smentisce la sua vocazione sperimentale, e allestisce così una spècola linguistica-strutturale plurima
e mobilissima.
“Sono sempre stato convinto che il romanzo tradizionale è una comoda invenzione dentro la quale i
fatti vengono collocati sempre al posto e al momento giusto per la comodità dei lettori, ma che ogni
schema prefabbricato è falso e falsifica anche i fatti che vi si svolgono dentro”. Così Malerba, a pag.
341 del Pianeta, verso le battute conclusive del libro. Il gioco di specchi deformanti del suo
ipotetico romanzo-verità costruito su un doppio e altrettanto ipotetico romanzo-falsità, risulta così,
alla fine, un magistrale arbitrio letterario che non nasconde il suo potenziale di grossa macchina
bellica, di testudo lenta eppure implacabile (magari fino al rischio spavaldamente sportivo di certe
zone di ripetitività, di certi spezzoni superflui, di certe ridondanze), apprestata anche contro chi
crede che per narrare sia sufficiente raccontare la vita con un’esatta dose di buona educazione
mimetica più una miscela (moderata) di pathos e di ipocrisia (non solo stilistica).

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