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Le favole dell’idiota - Cinema di registi, tecnici, musicisti e propagandisti

Il titolo rimanda alla frase proferita da Macbeth nel monologo del V’atto, scena V, in seguito all’annuncio della morte
di sua moglie: “La vita non è che un'ombra che cammina, un povero attore, che si pavoneggia e s'infiamma sul
palcoscenico per un’ora, e poi non si sente più parlare. È un racconto, raccontato da un idiota, pieno di suono e furore,
non significa nulla”. Siamo di fronte allo smascheramento di una vita priva di senso, che serve al drammaturgo per
riflettere quanto sia ordinaria ed effimera la vita dell’uomo in rapporto all’immensità del tempo e dello spazio. Così
come Macbeth si interrogava sul senso dell’esistenza, qui si riflette sul senso di alcuni aspetti del cinema tedesco di
Weimar (Repubblica Weimar 1918-1933) degli anni ’20, dall’espressionismo alla Nuova Oggettività, fino alla tabula
rasa fatta dal nazismo nel 1933.

ESPRESSIONISMO. MAGHI E DOPPI, MANDRAGORE, BAMBOLE-AUTOMI (DE BENEDICTIS) Il più rilevante indirizzo
artistico tedesco nei primi decenni del ‘900 è l’espressionismo. Tra le varie arti, il cinema ebbe la prerogativa di
raccogliere quasi tutte le caratteristiche all’interno dei suoi set, in forma di inquadratura, come ad esempio il “primo
piano”, la scenografia, l’oggettistica, il corpo dell’attore. Il corpo dell’attore va inserito col suo contorno “naturale” in
uno spazio dominato dalla deformazione artificiale delle tecniche espressioniste: fondali di case sghembe, viuzze a
zig-zag, lampioni come fiori rotti, gigantismo di alcuni edifici ottenuto con l’effetto “Schufftan” (dal nome di un
direttore di fotografia). L'esempio più evidente dell'utilizzo di tale metodo nel cinema espressionista tedesco è
costituito dall'imponente e moderna città che dà il nome al film Metropolis (1927), film muto capolavoro di Fritz Lang.

Si è talvolta indicato questo rapporto tra corpo dell’attore e ambiente del film espressionista come una contraddizione
che giunge al grottesco. Fondamentale in questo cinema sono: il trucco molto invasivo, fatto di crema bianco-cerea e
tinteggio scuro sotto gli occhi, la smorfia sofferente o il ghigno aggressivo, e il corpo che si rivela nella sua essenzialità
languida o guizzante. Corpo dell’attore dunque non come contraddizione espressiva, ma come conflitto tra entità
fisico-animale e spazio alterato al massimo.

Film anticipatore è “Lo studente di Praga” (1913), Stellan Rye. Interpretato da Paul Wegener nella parte di uno
studente squattrinato che vende la propria immagine nello specchio del mago Scapinelli in cambio di soldi e donne.
Ma quell’immagine lo perseguita fino ad indurlo a sparargli, e così ad uccidere sé stesso. Nel racconto i temi romantici
e decadenti e la vicenda del “doppio” si mischiano ad elementi espressionisti, come l’angoscia soffocante ed un
destino di ribellione. Basilare risulta la figura di Scapinelli che apre la cine-serie di “maghi” dai poteri illusionistici, che
inducono fragili personaggi a compiere azioni criminali per imporre un dominio in una situazione specifica o in un
contesto nazionale e mondiale.

Lo spazio de “Lo studente di Praga” non è ancora scenograficamente espressionista, senza distorsioni o trucchi
particolari, se non l’effetto “fantasma” per la compresenza del protagonista e del suo doppio. Paul Wegener ha la
possibilità di giocare un ruolo duplice, la vittima e il carnefice, in una linea di eventi conclusa nella morte tragica.
All’inizio, quando da studente fa il patto col demoniaco Scapinelli, è scanzonato e irridente, poi sempre più disperato
per i delitti che l’altro, il doppio, commette al suo posto. Il mostro è cinematograficamente il primo di una lunga serie a
cui un quindicennio dopo si ascrive il Frankenstein, 1931, di James Whale. Tratto dominante è una generale
immobilità, non umana, meccanica, che si anima di furia oppure di una traccia di sentimento. Altro film pioneristico
determinato dal rapporto tra un creatore e un mostro è “Homunculus”, 1916, di Otto Rippert. Qui il mago è uno
scienziato che dà vita ad un androide di forma umana e ingegno diabolico, il quale organizza un vasto piano di
dominio, fino a causare la propria distruzione per volere divino.

L’interprete è il danese Olaf Fonss, di aspetto imponente e serioso. La somiglianza con Mussolini è forte, dalla
stempiatura al cipiglio da superuomo. Di vicenda simile a quella di Homunculus esistono più versioni al femminile, a
partire da “La mandragora”, 1918, di Eugen Illés, fino ad un’altra “Alraune”, 1928, di Henryk Galeen. Alraune, nome
che fa riferimento alla fatata mandragora, è una donna artificiale creata da uno scienziato che la ottiene inseminando
una prostituta con lo sperma di un criminale impiccato. La ragazza cresce ignorando cosa siano i buoni sentimenti e
quando sa da dove viene si vendica sullo scienziato. Il tema della fabbricazione di un corpo artefatto, meccanico e
robotico è ironizzato dalla finezza di Ernst Lubitsch con “La bambola di carne”, 1919, dove un ricco misogino sposa
una bambola metallica sostituita però, a sua insaputa, dalla figlia del costruttore che infine lo farà ricredere sulle
donne e innamorare.
La protagonista, Ossi Oswalda, nella maliziosa equivocità di finto automa e ragazza in carne diventa il mix perfetto di
astrazione e concretezza. In una scena, seduta ad un ricevimento accanto al fidanzato che la crede un automa, sta in
posizione di bambola con la faccia fissa e mani avanti; quando lui non vede, arraffa cibo da un vassoio e s’ingozza
tornando immobile al volgersi sospettoso di lui. È equivalente, al femminile, della gag chapliniana di un anno prima,
in “Vita da cani”, 1918, dove Charlot ruba e mangia ciambelle bloccandosi quando il venditore si gira a guardarlo.

POLA NEGRI. CON LUBITSCH DA BERLINO A HOLLYWOOD (DE BENEDICTIS) Un altro film muto in cui la donna è
camuffata dietro un aggeggio misterioso è “Gli occhi della mummia”, con l’attrice polacca Pola Negri del 1918,
lanciata da Ernst Lubitsch, a soli 17 anni. Un pittore la scopre dentro il bendaggio di una mummia in Egitto e se
innamora; la porta in Germania, dove diventa sua modella, e dove sono inseguiti da un malvagio sacerdote egizio che
però non impedirà la felice conclusione nuziale. Dunque Ossi Oswalda come robot, Pola Negri come mummia. Gli
intensi occhi scuri di Pola isolati nella struttura imbalsamata, anticipano il carattere esotico che il regista vorrà dare alla
ragazza: uno charme zingaresco-orientale con risvolti drammatici. Con Lubitsch gira due film: il primo è quello che
compare in “Sangue gitano”, 1918, dove Pola si distingue per dinamismo esotico-spagnolistico. Un secondo sta ne
“Lo scoiattolo”, 1921, dove la ventenne Pola, contrabbandiera montanara duetta amorosamente con l’aristocratico
soldato. Nonostante Lubitsch ci tenga molto, il film non ha successo.

Con Madame du Barry, 1919, Lubitsch aveva affidato a Pola il ruolo di una donnicciola che sceglie l’amante tirando a
sorte, diviene la favorita di Luigi XV ammassando potere e capitali, ma rimettendoci la testa al tempo della rivoluzione.
Il regista trova l’equilibrio fra dramma, frivolezza in stile ancien régime e gran spettacolo in costume. Pola rivela buone
doti nella progressione d’ansia che le procura la stretta dell’ingranaggio fino alla ghigliottina. Fin troppo seria è invece
la parte di una prostituta interpretata da Pola nell’ultimo film tedesco di Lubitsch, “La fiamma dell’amore”, 1923. Poi
va in America e percorre il cine-spettacolo hollywoodiano, in ruoli di nobile spagnola e italiana, zingara, parigina.
Recita, nel nuovo mondo, ancora per il maestro berlinese in “La zarina”, 1924, mettendo insieme lo stile americano
con le stigmate del mondo moderno, dalle automobili alla moda tra neobarocco e art déco, allestisce una brillante
commedia sentimentale e un implicito apologo su Hollywood come fabbrica di quelle commedie.

GABINETTO DI FOLLIA. WERNER KRAUSS E CONRAD VEIDT (DE BENEDICTIS) Troviamo, in quel cinema di primo ‘900,
una duplice linea di tipi. Da una parte il demiurgo-scienziato, una specie di mago o manipolatore di coscienza;
dall’altra, l’esecutore-sicario, che viene dotato di abilità disumana per obbedire al comando del primo e che esibisce
parvenze mostruose. I due ruoli si incarnano in alcune delle opere più significative dell’epoca.

La più nota è “Il gabinetto del dottor Caligari”, 1920, di Robert Wiene. L'opera è considerata il simbolo del cinema
espressionista tedesco. Gioca moltissimo con il tema del doppio e la difficile distinzione tra allucinazione e realtà,
supportata da una scenografia allucinante e caratterizzata da forme zigzaganti. Un giovane narra ad un conoscente la
storia di un dottor Caligari, (Werner Krauss), responsabile di vari delitti mediante un sonnambulo, Cesare, da lui
comandato, e che finalmente fu rinchiuso in manicomio. Ma finito il flashback del racconto, lo spettatore scopre che il
narratore è il paziente di quello stesso manicomio di cui è direttore proprio il dottor Caligari. La struttura del doppio
sta qui nell’inversione tra l’elemento identico e quello contrario della realtà. Krauss-Caligari perfeziona l’elementare
mago Scarpinelli de “Lo studente di Praga” del 1913, con una corpulenta figura abbigliata in frac e cilindro, più gli
immancabili occhiali neri tondi.

Conrad Veidt, il Cesare sonnambulo agito dal Caligari di Krauss, è il contrario di questo. Snello, sguardo bruciante in
una fisionomia al limite della consunzione ascetica, opposta al modello imponente Wegener-Krauss. Ma Veidt è il
contrario pure come biografia e ideologia personale. All’instaurarsi dell’hitlerismo si trasferisce in Inghilterra e poi a
Hollywood dove partecipa a film di propaganda antinazista. L’aspetto curioso è che spesso attori tedeschi democratici,
esuli per la loro avversione al nazismo, se non perché ebrei, interpretarono in questi film la parte di malvagi tedeschi
nazisti. Nella Germania di Weimar (1918-1933), Veidt lavorò in particolare col regista viennese Richard Oswald, ma
anche con Friedrich Murnau. Da ricordare il ruolo di Ivan il Terribile ne “Il gabinetto delle figure di cera”, 1924, di Paul
Leni. In questo film la trama si organizza in tre racconti ideati da uno scrittore e commissionati dal proprietario del
gabinetto in questione, che vuole con essi dare spessore a tre personaggi raffigurati nelle figure di cera. Il terzo
episodio presenta lo scrittore, ingaggiato per scrivere le storie raccontate nella vicenda, preso in un incubo mentre si
appisola intento alla loro stesura. C’è dunque un elemento meta-narrativo in qualche modo allusivo al lavoro dello
“sceneggiatore” del film.
Nel racconto iniziale su un sultano che va troppo a donne la recitazione di Emil Jannings. Nel racconto centrale Veidt
impersona Ivan il Terribile che prova un piacere orgastico nel mostrare alle vittime l’ultimo granello di sabbia in una
clessidra al momento della loro morte. Poi si ritrova a girare e rigirare quello strumento per ritardare la propria morte.
L’episodio di chiusura su Jack lo Squartatore è interpretato da un flemmatico Krauss in cappotto, cappello e sciarpa
stile inglese. Forse Chaplin, in “Il grande dittatore”, 1940, nel far giocare il suo tiranno Hynkel, cioè Hitler, col
mappamondo ci ricorda la palpazione della clessidra da parte di Veidt. Conrad Veidt, sempre con Paul Leni, nel 1928 fu
in America il protagonista de “L’uomo che ride”, dal romanzo di Hugo: su un personaggio rapito e operato al labbro da
bambino, per indurgli una permanente smorfia di riso con cui chiedere l’elemosina, e che poi si scopre figlio di nobili.
Vi troviamo la variante psicologica della “umanizzazione” del mostro.

UN MISTERIOSO NEGOZIO DI BARBIERE. L’INCONTRO VALENTN-BRECHT (DE BENEDICTIS) Karl Valentin è l’esponente
più incisivo dell’arte del cabaret che tanto rilievo ebbe nella Germania di Weimar nel teatro e nel cinema. Esperto di
carpenteria, si costruiva da solo i set con un’abilità razionale incrinata da una carica di assurdità surreale, quasi
dadaista. Pare che si fabbricasse anche gli arnesi musicali con cui si esibì come uomo-banda. Il suo gergo, improntato
al dialetto bavarese, ai modi di dire e fare della città di Monaco, elaborava parole frananti nell’illogico, nel non-senso
sonoro.

Bertolt Brecht lo frequentò e scrisse di aver imparato molto da lui. Aggiunge che i bersagli di Valentin sono impiegati,
artigiani, musicisti di banda, che odiano il proprio lavoro e lo ridicolizzano. Valentin girò diversi cortometraggi muti
dove ritagliò sketch sulla sua concezione della gag di costruzione-distruzione. Ad esempio, in un corto del 1912, “La
nuova scrivania”, si mette al lavoro con sega e altri arnesi, e taglia qui e là fino a ridurre la scrivania piatta sul
pavimento, del tutto inutilizzabile.

Nel 1923, anno della “Vita di Edoardo secondo d’Inghilterra”, Brecht scrive e in parte dirige un film di circa mezz’ora,
“Misteri di un negozio di barbiere”. Valentin ha la parte di un bizzarro barbiere che col rasoio taglia ad un tratto una
testa barbuta, e la riattacca sul busto dopo che vi si è gingillata una sua stramba assistente. Questa compie altre
stravaganze, come infilarsi a riposare in una bara e poi tirare fuori lame ed una spada da duello. A duello infatti si
sfidano l’uomo con la testa riattaccata e un personaggio “positivo”. L’assistente, mentre il barbiere sonnecchia, con
una canna da pesca stacca di nuovo la testa del duellante aiutando l’altro a vincere. Il drammaturgo disse poi che si
trattava di uno “scherzo”.

ARTHUR ROBINSON E LOTTE REINIGER. OMBRE CINESI, SILHOUETTE DELLA PSICHE (DE BENEDICTIS)

1923, “Ombre ammonitrici”, Arthur Robinson, americano. Il film racconta di un artista delle ombre cinesi capitato in
una casa dove si è sviluppato il tipico triangolo; un uomo, una donna e un giovane amante di lei, più tre ospiti, davanti
ad uno schermo su cui, dopo averli ipnotizzati, proietta la vicenda del loro inconscio, delle pulsioni e desideri. In un
punto si vede su quello schermo il marito prendere delle lame e ordinare agli altri di ferire la moglie e legarla ad un
tavolo, desistendo poi. Tutto finisce bene: l’amante va via e la donna riabbraccia suo marito. Quello che si può definire
mago, demiurgo, scienziato pazzo, di questo cinema è qui il regista stesso dello spettacolo sullo schermo. I padroni di
casa, più gli ospiti e i servitori sono gli “attori” da lui agiti.

Un beffardo Alexander Granach interpreta il regista, cioè l’artista delle ombre cinesi, stringendo in mano un
candeliere con cui stacca delle ombre che si trasformano in una rappresentazione del profondo. Fritz Kortner è il
marito, impulsivo e irato; Ruth Weyher è la moglie, leggera, spaventata; Gustav von Wangenheim è l’amante. Gli attori
recitano i loro ruoli tradizionali, diretti da un regista che volge il perverso piano di dominio del mago-demiurgo-
scienziato al potere delle immagini. Correlazione di rilievo per “Ombre ammonitrici” può farsi con il capolavoro “Le
avventure del principe Achmed” della regista Lotte Reiniger, che passa dal bianco e nero ad un lavoro di immagini in
tanti colori ad esprimere emozioni e l’alternarsi di giorno e notte. I personaggi, gli animali, le cose sono tagliati in
cartone e piombo, fatti di pezzi separati da venticinque a cinquanta tenuti da sottili fili metallici. Tra i materiali ci sono
la sabbia e congegni di lastre che costituiscono lo sfondo per le figure. La Reiniger si servì anche di una macchina:
l’”apparato Fischinger”, consistente in un blocco di colorati strati di cera, tagliati a fette da una lama rotante
sincronizzata.

FRITZ LANG. I GIOCHI DELLA FORZA E DELLA FOLLIA (DE BENEDICTIS)

Nel primo grande successo di Fritz Lang, “Destino”, 1921, il regista della vicenda è propriamente il destino con la
mediazione della morte. La morte, impersonata da Bernhard Goetzke, offre alla fanciulla, interpretata da Lil Dagover,
la possibilità di riportare in vita il fidanzato deceduto; fallita la prova, le concede di morire e di varcare col suo amato i
confini della vita terrena.

Il film, come “Il gabinetto delle figure di cera”, è diviso in 3 episodi: storie di tre persone di epoca e luogo diversi, di
una delle quali la protagonista dovrebbe salvare la vita. In un gigantesco ambiente ardono le candele delle esistenze
degli umani, ed è qui che la morte propone alla donna il patto: in una tremula luce di fiammelle che si riflette sui due
volti. Quello di Goetzke è impenetrabile ma percorso da una vibrazione quasi pietosa. Più ambiguo, dalla fisionomia
cinica e bianca, il viso dell’attore svedese Bengt Ekerot, nel ruolo della morte nel “Il settimo sigillo”, 1957, Ingmar
Bergman, dove la funzione delle candele verrà presa da una scacchiera e lo spegnersi della fiammella dal cadere del
pezzo decisivo. Quanto a Lil Dagover, in Destino, il trucco non eccessivo serve la sua aria di ragazza semplice in
situazione estrema. Nell’ultima scena, quando giace accanto al suo amato, la morte si piega su di lei e la solleva
insieme all’altro avviandoli nell’aldilà. Si veda la stessa Dagover in “Il gabinetto del dottor Caligari”, 1920, quando il
sonnambulo Cesare, reso un criminale guidato da Caligari, si curva su di lei addormentata brandendo un pugnale. Nel
finale di “Nosferatu il vampiro” di Friedrich Murnau, un anno dopo Destino, lo zannuto protagonista si piega a
succhiare fino all’ultima goccia il sangue della giovane Ellen, finché la luce dell’alba lo annienta.

MABUSE Nel 1922, stesso anno di Nosferatu, un personaggio di Fritz Lang, il dottor Mabuse, si piega anche lui su una
donna addormentata che ha sequestrato e di cui cercherà inutilmente l’amore. Nel cinema di Lang si presenta al livello
più intenso il personaggio a cui possono legarsi le definizioni di mago, demiurgo, scienziato, ecc. l’attore Rudolf Klein-
Rogge impersona la figura cardine, cioè il Mabuse della dilogia composta da Il dottor Mabuse, 1922, e Il testamento
del dottor Mabuse, 1933. Dopo l’esilio americano, il regista gira in Germania est una terza puntata, “Il diabolico dottor
Mabuse”, 1960. Nel primo Mabuse, il protagonista gioca più ruoli, assume più aspetti per realizzare un intrigo
criminale che gli dia potere sulla finanza mondiale, economia e società. Klein-Rogge è il manipolatore di cervelli e
insieme è attore, svolge cioè un meta-ruolo. Ha qualche somiglianza con Krauss-Caligari. Ma lo spirito beffardo di
Krauss lascia qui il posto ad una megalomania folle e operativa. Invischiato nelle sue stesse allucinazioni, Mabuse
finisce in manicomio: dove, ne “Il testamento del dottor Mabuse” non smette di ordinare trame delittuose
condizionando ipnoticamente il direttore.

METROPOLIS Tra i due Mabuse, Lang chiama Klein-Rogge anche per la parte, in “Metropolis”, 1926, di Rottwang,
l’autentico modello dello scienziato pazzo. Della città oppressiva Rottwang ha costruito le macchine del lavoro
schiacciante, misurato da implacabili orologi, ed elabora il robot uomo-macchina. Si tratta del personaggio demiurgo e
della sua “creatura”, cioè l’esecutore di un suo piano di dominio. Secondo le indicazioni del capo degli industriali
Fredersen, Rottwang rapisce Maria, appassionata leader della rivendicazione operaia per attribuire le sue sembianze al
robot e predisporlo a discorsi che spingano gli operai ad una passività autodistruttiva. Maria, e il suo doppio, è
interpretata da Brigitte Helm. Il fascino della sua figura è dato dal meccanico nell’umano e, viceversa, dall’umano nel
meccanico. Nella scena del quartiere vizioso, chiamato Yoshiwara, la sua figura non magrissima esalta una carnalità
casalinga dentro il concetto di un automa programmato. Klein-Rogge/Rottwang è cupo e scrupoloso ma dentro cova
l’amore per la moglie deceduta dell’industriale Fredersen, che l’induce a programmare il robot perché aizzi gli operai a
distruggere le macchine del lavoro. Alla fine comunque muore precipitando dalla cima di una cattedrale e Maria,
rientrata in sé, sposa Freder, il figlio dell’industriale. Film notoriamente diviso tra la presentazione del luogo di lavoro,
dove si attua lo sfruttamento capitalista e una tranquilla soluzione interclassista.

M-IL MOSTRO DI DUSSELDORF di Fritz Lang 1931 L’attore era Peter Lorre, basso e grassottello, nella parte di un
violentatore omicida di bambine. “M”, l’iniziale di morder, assassino, è la traccia di gesso che un mendicante cieco gli
imprime sul cappotto: la malavita cittadina acciuffa così il mostro e lo condanna a morte, ma le forze dell’ordine
intervengono arrestando tutti. Il “mostro” è agito da qualcosa che lo tiranneggia: l’energia libidica perversa che
ciclicamente lo spinge a stuprare e uccidere. Su una donna-bambina, all’inizio, M-Lorre si china per convincerla a
seguirlo. Nel finale c’è il pezzo di bravura dell’interprete. Il mostro, giudicato in uno scantinato da una giuria della
malavita cittadina, si difende prima gridando contro la sua illegittimità, poi dichiarando la forza che lo preme alla
violenza e al delitto in un lungo discorso, lasciando senza parole gli strani giudici.

La confessione-autodifesa di Lorre in M, nel complesso dell’intera performance, è il punto più drammatico del cinema
sonoro tedesco, l’anno dopo il primo film sonoro, “L’angelo azzurro”, 1931, di Josef Von Sternberg, dove anche
Jannings alla fine si produce in una confessione della forza misteriosa che l’ha spinto a quel mortale tracollo. Ma quella
funesta energia dei sensi viene espressa da Jannings non in un lungo discorso come in M, bensì in un verso che il
capocomico di uno squallido cabaret lo costringe ad emettere.

I NIBELUNGHI 1924, film diviso in due parti:

1. “Sigfrido o La morte di Sigfrido”,

2. “La vendetta del Crimilde”

Costoso kolossal della produzione Ufa diretto da Fritz Lang e dedicato “al popolo tedesco”. La vicenda è quella
dell’epopea medievale, con l’eroe Sigfrido, figlio di Sigismondo re dei Nibelunghi, che per impalmare la bellissima
Crimilde, sorella di Gunther, re dei Burgundi, compie prove di valore: uccide il nano Alberico, custode del tesoro dei
Nibelunghi; trafigge a morte un drago possente; rivestito poi dell’elmo-maschera che rende invisibile, aiuta Gunther a
vincere e così a sposare Brunilde. Rivela però il trucco di quell’oggetto magico a Crimilde che a sua volta lo spiffera a
Brunilde, la quale chiede a Gunther la sua morte. Nella seconda parte Crimilde sposa Attila, re degli Unni, e invita a
corte i Burgundi per trasformare il banchetto in rissa e punire Hagen. Ci riesce in una carneficina generale, ma
Ildebrando la uccide per vendicare la fine degli Unni. In questo film-saga il potere è la forza eroica, e anche la bellezza,
che soggioga personalità e popoli: in un mescolamento di natura e società da cui scaturisce l’extra umano, il favoloso.
Si comprende il favore che il film raccolse presso le istituzioni hitleriane del cinema, giacché il regime mirava ad
investirsi di una potenza esorbitante i limiti storici.

Sigfrido è interpretato da Paul Richter. La spada di Sigfrido ha una rilevanza archetipica: per capire la tipologia delle
lame che c’è nel primo film “freudiano” “I misteri di un’anima” e in “Il mostro di Düsseldorf”. Ne “I nibelunghi” la
valenza della lama è “eroica”, negli altri due film è “criminosa”. Nelle scene clou de “I nibelunghi” la spada brilla al pari
che nelle immagini chiave di allucinazione nevrotica o psicotica in quei film. La corrente di forza che induce all’uso
eroico della spada è della stessa sostanza o mista con quella dei profondi istinti omicidi e sterminatori. L’epilogo della
saga si regge sul tema della vendetta messa in moto in una festa o banchetto, a cui partecipano famiglie, tribù, ceppi
etnici diversi, e durante il cui svolgimento si passa al massacro. In questo caos disruttivo Crimilde, che l’ha
programmato, inserisce lo sviluppo del piano di vendetta che prevede l’uccisione di Hagen mediante la spada di
Sigfrido. Qui l’atto più esemplare compiuto dall’eroe è l’uccisione del drago, il nemico evidente, non-umano, mostro.
Sigfrido cavalca lentamente in una foresta, i cui giganteschi tronchi paiono colonne di un edificio sacro. Ad una fonte si
abbevera un drago, che non sembra dare fastidio a nessuno, ma l’eroe smonta da cavallo e lo Infilza; il drago emette
fuoco e fumo mentre da un fianco perde sangue. Sigfrido ad un tratto comprende il linguaggio degli uccelli, che rivela
come bagnarsi in quel sangue renda invulnerabili. Egli lo fa, ma il drago nel morire scuote la coda provocando un
venticello che stacca da un albero una foglia che si posa sulla spalla di Sigfrido: in quel punto la protezione non varrà e
un’arma potrà uccidere l’eroe, come poi succede. La vendetta del drago coincide con l’implacabile nozione di destino
di questa fase del cinema langhiano.

MAX SCHRECK. MASSIMO TERRORE (DE BENEDICTIS) Emil Jannings, il principale attore in Germania sul confine tra
muto e sonoro, è uno dei due centrali interpreti maschili nella prima fase del regista Friedrich W. Murnau. L’altro
risponde al nome di Max Schreck: colui che dà vita nel 1922 a “Nosferatu il vampiro”. Il trucco del volto giunge ad un
vertice ultra-espressionista, in un film che di espressionista ha poco. Mentre la scena espressionista stride con la
sagoma naturale del corpo umano, qui è la figura insieme umana e supernaturale del vampiro a discordare con
l’ambiente. Il merito è la perfetta fusione tra Schreck e il riuscito “innesto” di una seconda pelle. Lui sotto quella pelle
si eclissa fino a sparire e sopravvivere da mero supporto.

L’immagine più famosa di Nosferatu è la sua ombra scheletrica, dal teschio oblungo e dalle unghie chilometriche, che
sale la scala per raggiungere la donna da addentare a sangue. Ombra a cui si aggiunge poco dopo il dissolversi del
vampiro per la luce dell’alba. Il significato tedesco di “Max Schreck” cioè “massimo terrore”, è parso evocare
precisamente la paura più comune e pervasiva: quella di svanire, non esserci più. Tale biografica sparizione ha
suscitato varie cine-leggende. Ad esempio, che sotto le spoglie del vampiro ci fosse lo stesso Murnau, o addirittura che
il regista fosse andato nei Carpazi ad ingaggiare un vampiro vero. L’aspetto di Schreck come conte Orlock-Nosferatu
(ovvero Dracula, ma la produzione non usò il nome per non pagare gli eredi dello scrittore Bram Stocker) è quello di un
vivente in stato di deformazione putrefattiva: il corpo stretto e allungato quasi per la costrizione nella bara. Il cranio a
forma di grosso uovo, con gli occhi tondi e scavati, le orecchie faunesche e i canini tra i denti corrosi. Tale figura è
mossa dalla necessità di succhiare sangue vitale una ragazza, Ellen, che si sacrifica per la salvezza altrui lasciandosi
aspirare il sangue tutta la notte. Fino all’alba, la cui luce provoca la dissoluzione del vampiro.

EMIL JANNINGS. CHICCHIRICHIII E HEIL HITLER! (DE BENEDITCTIS) “L’ultimo uomo” è un film del 1924 diretto
da Friedrich Wilhelm Murnau e interpretato da Emil Jannings.  Il film narra di un anziano portiere del Grand Hotel
Atlantic di Berlino, fiero della sgargiante divisa, spostato a lavorare dalla hall giù in basso nei bagni. Disperato, si
impossessa della divisa per il matrimonio della figlia, riportandola poi di notte in albergo dove risiede . La recitazione
tende con poche variazioni alla fissità; mentre gli assoggettati e le vittime esprimono poco più che automatismo,
oppure ansia e panico; così come le figure positive rispondono a cliché opposti a quelli dei mostri o malvagi. Sono le
pregiate prerogative del muto: che l’espressionismo accentua per definizione.

Emil Jannings è uno dei primi veri attori, uno che recita in una trafila di eventi non straordinari e a seconda di essi
muta espressione. Il suo corpo massiccio e il volto passano dall’orgoglio di indossare la divisa alla vergogna di ritrovarsi
nel sottoscala dei bagni, all’ansia di sottrarla, all’euforia del matrimonio della figlia. Va aggiunta la sua felicità nel
posticcio lieto fine allegato da Murnau per il cinema americano (che grazie a un’eredità ritorna all’albergo come ricco
cliente).

Nel 1926 in “Varieté” di Ewald André Dupont, Emil Jannings interpreta un artista di circo che lascia la moglie per una
ragazza disinvolta, l’attrice Lya de Putti, dal faccino sensuale, capelli alla maschietta e gambe snelle. La vediamo tradire
con un trapezista il suo omone; la corporatura di Jannings anche nell’ “L’angelo azzurro” sarà posta accanto ad una
ragazza minuta ma dominante. Alla fine il cornificato fa a pezzi l’altro circense e va a costituirsi alla polizia. Emil è
molto frenato, risparmia gesti, scatti e tic per esplodere appunto nella scena dell’ira omicida. Si direbbe che la
fisionomia estrema quasi fissata nella maschera dei personaggi espressionisti si concentri in lui nella passione del
furore che arriva all’assassinio. Jannings, che anche nel periodo hitleriano sarà l’attore simbolo e pure funzionario del
cinema di Goebbels, il capo dello spettacolo nazista, va ad incarnare una propulsione violenta. Nel 1926 Murnau,
prima di trasferirsi in America, gira il suo ultimo film tedesco, “Faust”, con Gosta Ekman.

La storia goethiana di Faust ha finito per essere l’archetipo delle vicende del cine-espressionismo sul patto col diavolo-
demiurgo, ma il regista la realizza al di fuori degli stilemi espressionisti. Jannings non usa gli stereotipi alla Caligari, ma
mette in evidenza anche grottesca e persino autoironica il proprio essere attore. Si veda la scena in cui Faust-Ekman lo
evoca in una notte di luna piena, alzando sulle braccia il libro delle formule magiche, col corpo in un alternarsi di cerchi
infuocati uguali a quelli che l’anno dopo, nel 1927, plasmeranno la trasformazione del robot di Metropolis nelle
fattezze del capopopolo operaia Maria. Faust compare nella bufera e tra i fulmini come un omaccione volgare seduto
accanto ad un focherello che si scappella più volte con un sorriso canzonatorio. Faust inizialmente ne ha disgusto. La
pietra su cui questo Mefisto-Jannings è seduto sembra la lastra tombale, conclusiva, della trafila dei demiurghi, maghi,
ecc., che ora l’attore mette a nudo.

La carriera di Jannings ha uno snodo, tra il decennio muto degli anni ’20 e quello sonoro degli anni ’30. Lo snodo, nel
1930, è propriamente il primo film tedesco sonoro “L’angelo azzurro”, grossa coproduzione Paramount girata a
Berlino da un ebreo viennese americanizzato, Josef von Sternberg. Da questo testo viene fuori il ritratto di un uomo
egocentrico, infantile e fragile. Jannings assilla il regista perché gli riservi tutta l’attenzione e mangi sempre con lui e lo
consoli quando è afflitto. Il primo giorno di riprese Jannings se ne esce con una dizione impostata sul registro più
aulico, aristocratico. Alla richiesta di Sternberg di normalizzare tono e lessico, lo accusa di tradire la sua stessa lingua. Il
film racconta di un professor Rat che perde la testa, la dignità e il lavoro, per una ballerina di varietà, riducendosi a fare
il clown nel teatrino di lei. Tornato con la troupe nella sua cittadina, è costretto a ridicolizzarsi in scena nel
travestimento di buffone; quando però vede che lei amoreggia con un giovane nel camerino irrompe e quasi la
strangola. Cacciato via, penetra affranto nella sua vecchia scuola morendo avvinghiato alla cattedra, col custode che
cerca di staccargli le dita da questa.

L’attore costruisce il suo capolavoro recitativo sull’equilibrio tra due elementi. Uno è la stilizzazione del personaggio,
cioè i suoi aspetti formalistici, compresa la caricatura del suo comportamento rigido, super-tradizionalista a scuola, il
suo imbarazzato contatto iniziale con la donna. L’altro elemento è l’umanità che emerge nella sofferenza fino allo
scoppio del tentato omicidio finale. Il momento in cui il formalismo del professore comincia a franare sta nella scena
del canto di Lola-Marlene Dietrich, quando viene fatto sedere in un palchetto e mostra smaccati segni di timidezza.
Jannings dà il meglio in questo film in virtù di una lotta con Sternberg. Questi ha una concezione del rapporto regista-
attore come di uno scultore col marmo grezzo: il regista è artista che crea mediante la fotografia e la luce, l’attore è
solo materiale da plasmare. Nel finale di questo capolavoro certi nodi vengono al pettine. Prima di tutto correliamo la
scena in cui Rat-Jannings è costretto a buffoneggiare davanti ai suoi concittadini con la scena dove, l’anno dopo, in Il
mostro di Düsseldorf di Fritz Lang, M-Lorre, stupratore omicida di bambine, palesa la sua perversione al pubblico che
lo processa. Anche per Rat-Jannings è in questione una forza, una corrente di tremenda energia che l’ha travolto.

E il maligno impresario, detto “mago Kiepert”, lo sottolinea rompendogli un uovo sulla testa e obbligandolo a intonare
“chicchirichiii”. Va notato come questo mago Kiepert costituisca anche una personificazione caricaturale, del mago
alla Caligari che comanda qualcosa ad una persona ridotta in suo potere. L’immagine di lui nel teatrino accanto al
povero Rat-Jannings ricorda quella in cui, nel gabinetto, Caligari presenta Cesare al pubblico interdetto. Il grido poi, il
“chicchirichiii” di Rat-Jannings, ripetuto, che stordisce gli spettatori, equivale all’acme della confessione di M-Lorre,
svelando oscure profondità del loro carattere e della società da cui emergono. Urlando il suo stridulo, Rat-Jannings
scorse Lola-Dietrich chiudersi nel camerino con un damerino del pubblico; accorre, sfonda la porta e si getta su lei
serrandole la gola. Quest’immagine si assimila a quelle, nel cinema di Weimar, riguardanti le aggressioni dei “Mostri”
nei confronti dei corpi femminili. Un biografo “autorizzato” dell’attrice, racconta che in quella scena Jannings stava
davvero per strangolare la Dietrich, finché Sternberg non gli diede l’alt. Dentro l’inquadratura si vede Marlene
scivolare via dalla presa di Jannings in uno stranito sgomento.

Non è escluso che Sternberg abbia voluto conservare questa ripresa per vari motivi. Jannings per la parte di Lola aveva
caldeggiato Lucie Mannheim, e detestava Marlene anche a causa dell’attenzione che il regista le riservava. Ma il suo
spirito di “vendetta” implicava una calata intima nel senso di umiliazione del personaggio di Rat: il qual era decaduto,
come il protagonista de L’ultimo uomo, da professore declamante in un tedesco glorioso, a squallido clown costretto a
gridare “chicchirichiii”.

ASTA NIELSEN. IL TIPO NORDICO PRIMA DELLA GARBO (DE BENEDICTIS) Il cinema tedesco delle origini importa vari
attori dai paesi scandinavi. La prima interprete di robusta personalità è la danese Asta Nielsen, esordiente nel cinema
del suo paese con “Afgrunden”, 1910, diretto da Urban Gad. Il breve film, melodramma passionale di ambiente
parigino, sfondò per una “danza del gaucho” di Asta, che struscia i fianchi su un giovane ritto e legato. Asta e Gad,
saranno anche marito e moglie per un certo periodo, si trasferiscono in Germania, dove associati all’imprenditore Paul
Davidson fondano una società di produzione che lancia l’attrice come la più “scintillante” stella del cinema
internazionale. La mora Nielsen non si presenta avvenente: viso allungato, labbra strette ma occhi magnetici, fisico
minuto e squadrato, mani espressive; il suo sex appeal si fonda su un’evidenza brusca, una malizia diretta e
autoironica, con un tratto di complice mascolinità.

Di carattere è tosta: figlia di povera gente, rimasta incinta giovane non ha voluto sposare il padre della sua bambina,
che tira su da sola studiando e praticando teatro. Per diversi anni fu la regina dell’eros sullo schermo. Un naturalismo
insomma senza fronzoli. Il 1911 e 1912 sono gli anni in cui la Nielsen si impone mediante le regie del marito Gad e la
fotografia di Guido Seeber. L’attrice si gestisce con intelligenza incrementando l’ironia nelle situazioni equivoche, come
del resto faceva da giovane in quelle erotiche. Il ruolo è su misura per quel suo lato mascolino, e Greta Garbo le si
ispirerà, finendo per somigliarle anche fisicamente. L’ultimo film importante della Nielsen è “Tragedia di prostitute”,
1927, Brino Rahn, in cui interpreta una stagionata prostituta che per amore ospita un giovane borghese scappato di
casa. Questo però si incapriccia di una più fresca collega di lei, che disperata Asta incarica il suo ex magnaccia di
uccidere. Avvenuto il delitto, lo sfruttatore è incarcerato, il ragazzo torna a casa della mamma e la protagonista finisce
suicida. L’attrice è impagabile nella gestione dei sentimenti prima controllati, poi impetuosi, pentiti e infine sboccanti
in un sobrio autosacrificio. Due anni prima la Nielsen era apparsa in un capolavoro muto, “La via senza gioia” o
“L’ammaliatrice”, 1925, Georg Pabst.

Nel film, c’è un passaggio di consegne; dalla matura danese Asta Nielsen alla giovane svedese Greta Garbo. Alla prima
è destinato un ruolo di donna matura in rapporto alla più giovane e bella; alla seconda questa interpretazione serve da
trampolino per l’America. Le donne interpretate da Asta e Greta patiscono la fame nella Vienna del primo dopoguerra,
finché un ricco americano non preleva Greta e se la porta oltreoceano. Le copie del film subirono tagli al fine di
valorizzare l’interpretazione della Garbo per cancellare scene “forti”. In una, visibile nella copia integrale, un gruppo di
donne povere fa la fila davanti una macelleria. Asta accompagna Greta, dove un macellaio offre un pezzo di carne in
cambio di altra carne. Il macellaio, che seziona un bel filetto e lo porge nel palmo, ha un doppio ghigno, di rigetto per
Asta e di lubrico per Greta, che però sviene evitando il baratto. Col sonoro Asta chiude la carriera, nonostante Hitler,
andato al potere, le chiedesse di tornare sul set per il progetto di un cinema nazionale-ariano. “La via senza gioia”,
all’esatta metà degli anni ’20, è dunque uno snodo di attrici, il passato di Asta Nielsen e il futuro di Greta.

PABST. LO SGUARDO FATALE DELLE RAGAZZE DI WEIMAR (DE BENEDICTIS)

Il regista George Wilhelm Pabst attraversa le suggestioni che s’intrecciano negli anni ’20 e all’inizio dei ’30 ancorandosi
ad un realismo fatto di attinenza ai luoghi, tempi e soprattutto alle presenze delle attrici: filmate come dei rilevatori di
tensioni verso la riuscita o il fallimento anche mortale di qualche impresa o della stessa vita quotidiana. Nell’esordio “Il
tesoro”, 1923, dove un giovane cerca un mitico tesoro per ottenere la fanciulla che ama, si nota subito la parca
impostazione degli attori, mossi nell’accuratezza dell’ambiente. Tra questi c’è una Lucie Mannheim, modesta
ragazzetta e Werner Krauss teso, angustiato, il contrario dell’istrionico Caligari che era stato tre anni prima. Con “I
misteri di un’anima”, 1926, Pabst propone un film insieme visionario e razionale. Un chimico, interpretato dal solito
Krauss, riceve la notizia che sta per arrivargli, da parte di un cugino viaggiatore in India, un pacco con una statuetta ed
una spada. Quel telegramma inaugura un disturbo psichico fatto di incubi notturni e fobie diurne, in cui il protagonista
viene eccitato dalle lame di coltelli, con le quali desidera far fuori la moglie.

A pranzo con lei e il cugino, persino ci prova, fuggendo poi dalla madre. Uno psichiatra lo prende in cura ed estrae il
dato psichico rimosso: una gelosia che viene da lontano e suscita visioni di lame, con in più il fatto di non avere figli;
ma con l’analisi si potrà guarire. Krauss è il nevrotico e al contempo osserva la propria nevrosi. Così i suoi incubi non li
vive soltanto ma assiste ad essi, attore-spettatore, come al cinema. In fondo è proprio un chimico: scompone gli
elementi per riconoscerli. Vediamo le astruserie e gli eccessi del cine-espressionismo esibiti in forma di sogni di un
nevrotico, la cui malattia depressiva è analizzata con sanante “realismo”. Un espressionismo oggettivato, cioè
analizzato da un realismo con pretesa di scienza. Si fece addirittura a Freud la proposta di collaborare alla
sceneggiatura perché ritennero che la psicoanalisi potesse dare qualcosa al cinema; lui rifiutò ma accettarono due suoi
illustri allievi. Il modo pabstiano di riprendere i sogni avrà, un futuro: dagli incubi dell’alcolizzato di “Giorni perduti” di
Billy Wilder a quelli del medico di “Io ti salverò” di Hitchcock.

EDITH JEANNE Ne “Il giglio nelle tenebre”, 1927, Pabst dirige l’attrice Edith Jeanne, nel ruolo dell’innamorata di un
giovane bolscevico e insidiata da un malvagio reazionario, nel vortice di eventi rivoluzionari che coinvolgono la Russia
ma anche la città di Parigi. A contrappeso della mora Jeanne, il regista inserisce la bionda Brigitte Helm che interpreta il
personaggio di una ragazza cieca, indotta a dismisure semi-espressioniste. Il miglior momento di questo volto, che nel
cinema non ha sfondato, è dato da un particolare “sguardo in macchina”: quando Edith e il giovane stanno davanti ad
un albergo parigino. Lui, in fuga, potrebbe rifugiarvisi, però la castità si oppone. Edith Jeanne nicchia, ma poi, in un
primo piano guarda nella mdp facendo quasi l’occhietto. Con un sorriso a cui la sua avvenenza algida toglie molta
malizia. Comunque i due giovani, entrati nell’hotel, si addormentano su due sedie separate.

BRIGITTE HELM Anche Brigitte Helm accenna a guardare nella mdp in un punto del pabstiano “Crisi”, 1928. L’assunto
psicologico è l’opposto del precedente. Brigitte è sposata con un avvocato sempre a lavoro; un’amica la porta in un
giro mondano, dove c’è un pittore che le ha disegnato il profilo. Brigitte ne è affascinata e infine divorzia dal marito:
ma all’uscita dal tribunale i due ex coniugi di abbracciano. La Helm guarda in mdp quando il marito è sgarbato con la
sua amica e col pittore, e dopo l’uscita di questi siede cupo sulla scrivania per lavorare. Lei esprime la sua
insoddisfazione e appunto fissa un attimo l’obiettivo. In “Il giglio nelle tenebre”, 1927, nello sguardo in macchina di
Edith Jeanne valeva la complicità per il primo atto d’amore di una coppia. Va ricordato che i primi “guardatori” in
macchina appartennero al cinema comico hollywoodiano, soprattutto Stan Laurel e Oliver Hardy. I quattro attori
parlano soprattutto con gli occhi, in una scenografia dal déco spoglio e rigoroso, quasi crudele. Il cinema muto tedesco
attinge così una sua compiutezza nella fase finale. La recitazione evolve a questi livelli. Dopodiché, col sonoro, (primo
sonoro: “L’angelo azzurro”, 1930), le tecniche interpretative vanno ripensate.
LOUISE BROOKS Si arriva così al dittico di film, entrambi del 1929, che Pabst gira con l’attrice divenuta più celebre in
chiusura dei tedeschi anni ’20, Louise Brooks: americana che dà il meglio della carriera a Berlino. “Il vaso di Pandora”
o “Lulù”, ispirato ad una pièce di Frank Wedekind, narra di una fulgida mora dai capelli a caschetto che distrugge una
famiglia provocando la morte del dottor Schon, invaghito di lei. Fuggita a Londra col figlio di Schon, più un vecchio
libertino ed una nobildonna lesbica, anch’essa stregata, dopo varie peripezie si dà alla prostituzione ma incappa in Jack
lo Squartatore che l’accoltella. Due preliminari osservazioni.

La prima riguarda la presenza del doppio, che nel lontano 1918 con “Lo studente di Praga” inaugurava un filone
essenziale del cine-espressionismo. Lulù, esemplarmente divisa in due entità al suo interno: la volontà di prendersi
uomini e beni, da una parte, e, dall’altra, un’innocenza quasi infantile. Entrambe riflesse nel volto di Louise Brooks:
fresco, luminoso, simpatico, che poi s’imbroncia in capricci isterici. La seconda osservazione attiene alla materia
omicida del corpo femminile, ad opera di un soggetto maschile criminoso che si volge ad agire su di esso. Quando Jack
trafigge Lulù il regista tocca in effetti l’acme del suo stile. Nella scena si succedono primi piani del volto, quasi amoroso
poi preoccupato, di Louise in braccio a Jack al lume di una candela; primi piani di Jack, prima calmo quasi innamorato,
poi con sguardo da ossesso. Il delitto avviene in piano riavvicinato, ma in ombra, nel lento venir meno di Louise. Pabst
organizza l’immagine de “Il vaso di Pandora” con la mdp in genere molto vicina a Louise Brooks: le sfumature del suo
volto costituiscono il paesaggio ora radioso ora annuvolato del contesto.

Nell’altro film dello stesso 1929, “Il diario di una donna perduta”, forse il capolavoro del regista, le inquadrature
appaiono più narrative, meno dirette all’estetizzazione della figura dell’attrice. In questo film, di indirizzo più “sociale”
che sensuale-panico come l’altro, si racconta della figlia di un ricco farmacista stuprata da un assistente del padre e
messa in un riformatorio da questo e dalla sua governante-sposa. Ne evade e diventa la più ambita ragazza di un
bordello; sposa poi un vecchio ricco, che finirà male, e diventa proprietaria del riformatorio dov’era rinchiusa, che
decide di governare mediante metodi improntati all’”amore”. Il riformatorio-lager è gestito da due premonitrici figure,
un uomo e una donna: una specie di kapò, morbosa punitrice lei e gigantesco beota dal cranio rasato lui. In questo
spazio il movimento robotico del mangiare la broda disgustosa e del lavoro forzato a cui le ragazze sono obbligate,
richiama quello che si riscontra in vari film comici di Ernst Lubitsch. Appena accennato è un patto semi-lesbico tra
Louise e un’amica.

LOUISE BROOKS RACCONTA

Louise Brooks, nata nel 1906 in Kansas nella famiglia di un colto ma incurante avvocato, a nove anni subì una violenza;
anni dopo lo rivelò alla madre, pianista dilettante, per sentirsi dire che se l’era voluta. Stupro che da adulta la rese
incapace di “vero amore” e insaziabile ricercatrice di uomini (stessa esperienza di Marilyn Monroe, senza padre e con
madre in manicomio, data in varie adozioni, fu violentata durante una di esse, cresciuta da ingenua mangiatrice
d’uomini, cercando il più grande di loro, il miglior sportivo, il più profondo intellettuale, il presidente degli USA, fino al
suicidio forse, a chiudere il circolo con la violenza da bambina). A diciannove anni Louise lavorò come ballerina a
Broadway (la conobbe Chaplin a NY, ed ebbe una breve storia con lei), poi a Hollywood, dove il suo ribellismo la rese
indigesta alle produzioni.

Riscoperta all’inizio degli anni ’50 dai critici francesi e americani cominciò a comparire in alcuni documentari e ad
occuparsi di storia e critica del cinema. Alcuni suoi testi furono poi raccolti nel volume del 1974 “Lulu in Hollywood”, il
cui mito sopravvisse alla morte solitaria, per un attacco di cuore, nel 1985. In “Lulu ad Hollywood”, Louise spiega il mix
di economia e cultura del cinema hollywoodiano alla metà degli anni ’20. Il potere passò alle mani dei produttori
audaci delle origini a quelle dei banchieri, col declino di alcune grandi attrici come Lillian Gish e il subentro di altre più
polivalenti, prima fra tutte Greta Garbo. A queste indagini la Brooks associa considerazioni di costume riguardanti
l’immane trasformazione dei comportamenti personali e collettivi dovuti alla società del cine-spettacolo, nei primi
decenni del ‘900. Vivaci osservazioni all’epoca del proibizionismo, dei “ruggenti” anni ’20, su personaggi di successo
poi caduti in disgrazia. Di Fitzgerald racconta come fosse ostracizzato per la mania di dire verità brutali anche sui
colleghi; sua moglie, la super nevrotica Zelda, definì una volta “falso” Hemingway, che non perdonò. Veniamo a sapere
inoltre come i ricchi dell’East Coast arruolassero stuoli di ragazze della provincia a provare la via dello spettacolo a NY,
poi magari a Hollywood. Nel suo libro riconsidera con acume la coppia di film girati da Pabst. Louise dice che Pabst
sapeva usare l’”odio” degli attori ai fini del film.
Fritz Kortner, nella parte del dottor Schon innamorato di lei e a cui spara senza volere, la odiava. Dopo ogni scena con
lei, correva a chiudersi nel camerino, da dove Pabst andava a tirarlo fuori per la scena successiva. Louise specifica che
quell’attore provava nei confronti di lei un misto di passione sensuale e desiderio di distruggerla; in una scena in cui
doveva strattonarla, le riempì di lividi le braccia. Pabst era attratto dall’”odio sessuale”. Con malizia professionale
scelse due attori belli e seducenti per il ruolo di Jack lo Squartatore, Gustav Griffith e Fritz Rasp. Pabst non aveva
reazioni prestabilite da applicare agli interpreti nelle varie scene. A lui interessava lo stimolo, a cui l’attore appunto
reagiva. Pabst conosceva il meccanismo di cause ed effetti, così girava in fretta, con poche prove.

Gli attori erano contrariati perché pretendevano le solite emozioni tra i personaggi. Kortner si sentiva lui la “vittima” e
interiormente giustificava in questo modo la sua aggressività. Pabst usava l’energia rabbiosa sua e degli altri, parlava
con ognuno di loro, mai a cast riunito. Non metteva in campo tecniche teatrali, cercava lo “choc liberatorio delle
emozioni impreviste”. Ancora un esempio da Lulù: per la scena in cui Kortner-Schon viene ucciso con un colpo di
pistola dalla protagonista, l’attore arrivò sul set compenetrato nel ruolo di chi perisce in quel modo; per non sbagliare,
assaggiò la crema al cioccolato che doveva uscirgli di bocca come un rivolo di sangue, ma Pabst ne fece altra cosa,
sfasandola espressivamente col montaggio delle inquadrature. E volle che dalla bocca di Louise uscisse una sola parola
“il sangue”. Louise-Lulù era dunque impressionata dal sangue piuttosto che dalla morte dell’amante per mano sua.

Il contatto con Louise passava anche per gli abiti di scena che lei indossava e che avrebbe voluto appariscenti come a
Hollywood, mentre lui la vestiva con tessuti attraverso cui gli attori maschi sentissero la carne. Per la scena della morte
di Lulù, Pabst prese il più bel tailleur della Brooks e l’insudiciò, lo strappò. Louise si sentiva contaminata come il suo
abito. Il regista le era sempre vicino, l’accompagnava anche a teatro e ai concerti, ma parlava poco; sul set le creava
una difesa, le suscitava un’emozione e così la calava nel ruolo. Pabst parlava poco ma una volta le profetizzò il futuro.
Era nervoso, aveva conosciuto dei nababbi americani con cui lei passava il tempo libero e che pensava la usassero,
impedendole di diventare un’attrice vera. Verso la fine della lavorazione de “Il diario di una donna perduta”,
tristemente seduti ad un tavolo, le sentenziò: “La tua vita è come quella di Lulù, e tu finirai nello stesso modo”. Al
momento, Louise non capì che intendesse dire. Anni dopo, alla fine della breve carriera qualcosa intuì. Quanto al
regista, va forse detto che rivelava una piega crudamente possessiva.

DUE SGUARDI FEMMINILI DALL’ OPERA DA TRE SOLDI

Dopo l’apogeo con la Brooks, all’inizio degli anni ’30 Pabst girò un paio di opere di impegno umanitario con interpreti
perlopiù maschili: “Westfront”, 1930, sulla Prima guerra mondiale, primo film sonoro del regista, e “La tragedia della
miniera”, 1931, sulla solidarietà tra minatori tedeschi e francesi in occasione di un disastro. La luminosità del volto
dell’interprete femminile, Carola Neher nelle vesti di Polly, evidenzia l’aspetto caricaturale degli altri e del protagonista
maschile, Rudolf Forster dalla faccia di falco nel ruolo di Mackie Messer. La vicenda di questa pièce di Brecht vede il
gangster Mackie Messer sposare Polly, la figlia del capo dei mendicanti che cerca di farlo imprigionare dal capo della
polizia, che però del bandito è un amico d’infanzia. Durante la latitanza di Mackie Messer, Polly lo sostituisce e
intreccia rapporto col mondo della finanza, finché il marito torna a lei nella propria carriera di fuorilegge. In questa
metafora del rapporto tra crimine e società capitalistico-borghese spicca l’apporto delle canzoni-ballate di Weill.
Carola Neher canta la Liebeslied in un falsetto tenero e fermo, cadenzato dalla parola “nein”. Canto che è
testimonianza della passione nata per Mackie Messer. Attrice prediletta di Brecht, la Neher doveva essere Polly
nell’allestimento berlinese, 1928, dell’”Opera da tre soldi”. Non poté parteciparvi a causa della morte del marito ed
entrò in cartellone dall’anno successivo.

L’altra donna della pabstiana “Opera da tre soldi” è Lotte Lenya, che canta “Jenny dei pirati”, dove una sguattera
sogna che verranno i pirati a distruggere la città dei ricchi borghesi e a incoronare lei regina. Come la Neher era pupilla
di Brecht, Lotte lo fu di Kurt Weill che la sposò e ne fece la propria interprete ufficiale. Fuggono da Hitler a Parigi, poi a
NY dove lui ha un buon successo con “Johnny Johnson”. La sua vena si spoliticizza, diviene più commerciale in
quell’Hollywood per cui pure lavora. Il paroliere naturalmente non è più Brecht. Lotte canta il repertorio e nei musical
di Kurt, che però nel 1950 è fulminato da un infarto a NY. Termina la carriera nel 1963 interpretando, in “A 007, dalla
Russia con amore”, un’attempata spia-killer. La caratteristica di Lotte in quel ruolo è di uccidere con una lama che le
spunta da una scarpa. Prova a farlo fuori, ma è fulminata da un colpo di pistola. L’ultimo suo sguardo filmico è di lato
mentre scivola con la schiena alla parete. Dopo altre particine, muore nel 1983 a NY.
LAVORO DA UOMINI. SOLDATI Nei film dei primissimi anni ’30, Pabst confermava la sua maestria nel saper ridurre il
pathos ad un’essenzialità descrittiva di situazioni storiche. Il suo film migliore è “Westfront. Un nodo è la sopraffazione
classista in cui Pabst cerca di rovesciare i “ruoli” di vittima e giustiziere. Il primo conflitto mondiale inscena tale
conflittualità come immagine di morte individuale e di massa. I protagonisti, cioè i militari, si svelano in una reciprocità
di aggressori e aggrediti. Westfront è l’opera in cui i suoi modi si esplicitano mettendosi a nudo. Si raccontano le
vicende di un gruppetto di combattenti tedeschi nell’ultimo anno della Prima guerra mondiale, 1918, da cui usciranno
morti o mutati di sostanza interiore. L’attore principale è Gustav Diessl che interpretava Jack lo Squartatore in Lulù. La
guerra, nell’immagine del regista, costituisce in fondo un Jack lo Squartatore universalizzato.

C’è un momento in cui l’allegria alcolica ed erotica di quei soldati viene interrotta dal ricominciare delle esplosioni;
Diessl guarda con cupa intensità nella mdp: sguardo che riepiloga quelli di alcune eroine dei precedenti film di Pabst.
Le fasi di battaglia sono costruite secondo una continua ritmicità delle mitragliatrici e dello scoppio di granate, un
andare-venire dei soldati dell’una e dell’altra parte. Tale scansione quasi da metronomo richiama la rigidità di battuta,
l’alternanza ordinata e oppressiva di certe scene. Una simile resa filmica nega il narrato delle prestigiose pellicole
americane sulla Prima guerra mondiale, in particolare il muto “La grande parata”, 1925 e soprattutto “All’ovest niente
di nuovo”. Se consideriamo un paio di film sovietici di quel periodo dedicati alla Prima guerra mondiale, si può dire
che, se nel cinema americano di guerra e contro la guerra, lo spettacolo dell’azione bellica è prioritario, in quello russo
domina la critica della speculazione capitalista sottesa allo scontro tra i popoli. Pabst, dal canto suo, mostra la guerra
come macchina totalizzante della violenza, equanime distruttrice dei contendenti.

L’inversione da colpevole a vittima delle figure interpretate dalla Brooks andava nel senso di una critica della società
tedesca, che nel 1933 giunge alla dittatura hitleriana e così all’abolizione di ogni critica. Al declino della filmografia di
Pabst concorre ovviamente la fine della labile democrazia di Weimar. Con lo strapparsi del tessuto culturale di cui si
alimentava il cinema tedesco, a Pabst viene meno il terreno sotto ai piedi. Non sa reinventarsi in esilio come i registi
emigrati negli Usa, Fritz Lang in testa. Due anni dopo Westfront, nel 1932, Ernst Lubitsch gira il pacifista “L’uomo che
ho ucciso”. Durante un assalto un fante francese capita in un carcere dove accoltella a morte un suo omologo tedesco;
nelle tasche gli trova documenti e lettere e alla fine della guerra, tormentato dal rimorso, va nella città in cui viveva
l’altro, spacciandosi presso i genitori e la fidanzata di lui per un amico francese prebellico. Dopo la prima ripulsa per
l’inevitabile rivelazione, essi l’accettano come figlio e la ragazza come marito. Il processo di fusione delle esistenze dei
due nemici avviene nell’arco di una narrazione articolata in toni patetici o melodrammatici. La fusione tra i gruppi
belligeranti, in Westfront di Pabst, è data da un’uniformazione che assembra i contrapposti destini in un blocco ritmico
di transito dalla vita alla morte. La violenza bellica vede in Westfront smussato il suo rilievo di shock in una pressione
costante, quasi piatta. Nel finale un amico di Karl-Gustav Diessl si sporge sula trincea mettendosi il coltello tra i denti,
ma è colpito allo stomaco e cade. Anche Karl viene gravemente ferito. Nell’ ospedale da campo a Gustav Diessl
vengono gli occhi da ossesso. Nel finale di Westfront siamo al nodo di crisi del dare e ricevere morte in guerra. La crisi
della disumanizzazione, che l’intera macchina del film di Pabst ha voluto rappresentare.

LUCE NELLO SGUARDO DI LENI RIEFENSTAHL Nel 1929 Wilhelm Pabst gira tre film: i due con l’americana Louise
Brooks, e il terzo “La tragedia di Pizzo Palù” con la tedesca Leni Riefenstahl. La storia narra del dottor Johannes,
amante temerario della montagna, il quale, persa la moglie in un’escursione sul “pizzo” del titolo, s’incaponisce a
scalare questo più volte. L’accompagna in un’occasione una coppia di sposi novelli, con l’uomo che esagera la
performance e si ferisce. Durante la tempesta, per metterlo in salvo, Johannes si spezza una gamba. Un asso
dell’aviazione tedesca individua la coppia dall’altro e una guida alpina la riporta alla base. La pellicola rientra nel filone
del “bergfilm”, cioè del cinema di montagna, di cui il principale esponente è Arnold Franck.

Autore de “La montagna sacra”. Ne “La tragedia di Pizzo Palù” troviamo Gustav Diessl nella parte dell’alpinista
vedovo, e Leni Riefenstahl in quella di fresca sposina. Sullo schermo domina il bianco delle cime innevate, più la
verticalità ascensionale da affrontare con chiodi e corda. Il valore del bergfilm sta nell’equilibrio tra i due elementi:
dinamica avventurosamente ludico-sportiva ed emblema del coraggio virile. Il nazismo sposta pesantemente la
bilancia verso tale emblema. La prodezza virile veste la divisa militare; mentre la società, liberata da comunisti, ebrei,
ecc., è riportata a valori di natura.

Ne “La tragedia di Pizzo Palù” lavorano come attori la Riefenstahl e l’ebreo Kurt Gerron. Bivio significativo dei due
interpreti che andranno in due opposte direzioni. La Riefenstahl diverrà la massima regista del nazismo. Gerron
prenderà la via dell’esule, attore e anche regista nei Paesi Bassi. L’ultima tappa sarà Auschwitz, dove verrà soppresso
con la moglie nella camera a gas, insieme a tutta la troupe del suo documentario. Tornando dalla tragedia reale alla
finzione de “La tragedia di Pizzo Palù”, riconosciamo un segno di Pabst in alcuni primissimi piani in cui una vecchia
guarda in mdp con misteriosa intesa. I primi piani d’obbligo sono per il volto non bello di Leni, legnosamente
inespressivo. Lo vediamo riprendere i sensi tra le braccia della guida alpina che ha recuperato lei e suo marito. Lui, il
salvatore, ha un viso dai grossi baffi, bruciato dal sole e dal gelo: lei si sveglia e guarda in mdp. Il bergfilm, cinema di
montagna, contribuisce a creare la luce pura, proveniente dall’alto e riflessa da neve e ghiaccio.

ASFALTO E CUCINA CALIFORNIANA (DE BENEDICTIS)

Nel 1929, stesso anno in cui esplode Louise Brooks nei due film di Pabst, un’altra americanina, Betty Amann, fa
esibizione di sé in “Asfalto”: il capolavoro di Joe May regista e produttore d’origine austriaca, considerato uno dei
padri del cinema tedesco, avendo cominciato la sua attività nel 1912. In realtà Betty era una tedescona alta, ben
formata. Viso squadrato dal caschetto non puramente liscio come in Louise, ma a frange ricciolute su fronte e
orecchie. Betty nel ruolo di Else in “Asfalto”, mira ad ammaliare un poliziotto, per salvarsi dall’imputazione di ladra.
Ladra che poi si innamora davvero, pagando il debito alla giustizia. La storia comincia come quella della Carmen, che
seduce un gendarme, ma scarta nel lieto fine ipotizzabile dopo una pena detentiva di lei, col poliziotto che l’aspetterà
per impalmarla.

All’inizio lui dirige il caotico traffico berlinese. A questa icona il regista arriva dopo l’immagine d’ouverture di operai
che spalmano asfalto sulla via, con scene di città sovrimpresse. Emblema d’ordine, dunque, il ragazzone in divisa che
muovendo le braccia disciplina il flusso delle auto. Avvisaglia di un rompersi dell’assetto regolato è però la macchina di
un’elegante signora che, tamponando il piedistallo del vigile, blocca quel flusso causando nervosi strombazzamenti,
finché sorridendo non sbroglia la situazione. Vediamo poi Else entrare in una gioielleria e rubare un diamante.
Scopertala, il poliziotto la porta in questura per la denuncia, ma nell’auto lei lo convince a far tappa nella propria casa
per prendere i documenti. Questa scena di seduzione è una delle più intriganti dell’epoca. Giunti a casa di lei, il regista
segue ad un tratto lo sguardo del poliziotto che la ritrova a letto. Il poliziotto va a casa e confessa, viene arrestato dal
padre, anch’egli poliziotto. Else, la ladra, lo scagiona testimoniando la legittima difesa e va in prigione al posto di lui.
“Asfalto” si può annoverare tra i cosiddetti “film di strada”, rilevante filone del cinema weimariano.

Un altro tra i più significativi, intitolato proprio “La strada”. 1923, Karl Grune. Vi troviamo un marito che, stanco della
minestra propinatagli dalla moglie, esce di casa e rischia di perdersi tra le tentazioni della città di notte. Incontra infatti
una prostituta, che però gli si trasforma in un’immagine di scheletro ripugnante. Il fuggitivo incappa poi in un’altra
donna, che vuole rovinarlo al gioco e attribuirgli un omicidio. Ma lui si salva e all’alba rientra a casa dove l’attende la
minestra di prima. “La strada” è forse l’esempio più diretto della tesi di Siegfried Kracauer sul ribellismo dell’uomo
comune tedesco che poi torna a casa, cioè a cuccia sotto padrone.

L’ULTIMA DOMENICA TRANQUILLA (DE BENEDICTIS)

Nell’anno del primo film sonoro tedesco, 1930, “L’angelo azzurro”, esce a Berlino un ultimo considerevole muto,
“Uomini di domenica”: tentativo riuscito di mettere insieme documentario e fiction. Principale esponente è Walter
Ruttmann, autore di “Berlino- Sinfonia di una grande città”, 1927. In questo film la corsa del treno che arriva in città è
ripresa e montata con un gioco di rotaie, cavi elettrici e paesaggio in rapidissima fuga e dunque in macchie di bianco e
nero. La giornata della metropoli è descritta in forma documentaristica, col movimento delle persone e delle cose,
soprattutto dei mezzi di trasporto. Il dinamismo urbano è protagonista ambientale in tanti film tedeschi degli anni ’20.
Nel 1927 in “Metropolis”, Fritz Lang mostra l’ultimo stadio della città riguardo al pulsare, terrestre ed aereo, della
circolazione di gente e auto. Quello metropolitano era paesaggio d’obbligo, e molti film americani, o anche europei,
cominciano e talvolta pure si chiudono con panoramiche sulla dimensione urbana. Berlino costituiva una delle
principali ambientazioni di questo tipo, data l’importanza nel cinema di Weimar delle dinamiche di potere tra
individuo e società intesa come collettività metropolitana.

Dopo l’apocalisse della Seconda guerra mondiale, il cinema tedesco che accennò a ricominciare fu detto “cinema
delle rovine”: le rovine proprio di Berlino, la cui documentazione più ragguardevole sta peraltro nell’ultimo film
neorealista di Rossellini, “Germania anno zero”, 1947. C’è insomma, negli anni ’20, un andare verso un’umanizzante
documentarismo che rispetta una vocazione cine-fotografica della “realtà fisica”, ma è anche un’esigenza politica di
non esimersi dal discorso sulla realtà sociale. E c’è, inoltre, un dirigersi verso modalità narrative di fiction.
Lo si vede nel prologo di “Asfalto” che dall’esibizione animata della grande città scivola negli eventi dei protagonisti. E
lo vediamo in “Uomini di domenica” dove il documentarismo non si limita ad introdurre la narrazione ma si alterna ad
essa. “Uomini di domenica” è il frutto di un gruppo di autori che all’avvento del nazismo partiranno dalla Germania,
perché di tendenza democratica e in quanto ebrei. La regia è di Edgar Ulmer, Fred Zinnemann, Robert Siodmak e il
fratello Curt. La storia, nell’arco di una domenica, narra la gita al lago Nikolassee, vicino Berlino, di un gruppo di
giovani: il buffo tassista Erwin, il bel commesso di un negozio e playboy Wolf che viene con Christl, la quale a sua volta
porta Brigitte.

Gli attori sono non professionisti e compaiono col proprio nome. È come un piccolo interno domestico ripreso con
luce e riflessi di tipo teatrale. La riuscita del film sta nell’integrazione tra la domenica dei protagonisti e quella degli
anziani, giovani e bambini impegnati negli svaghi sulla riva e in acqua. Un’espressiva opposizione si crea tra la folla
vacanziera e il vuoto di Berlino. Questa città è ripresa con lente panoramiche e carrellate in zone ricche e popolari con
negozi chiusi, giardini deserti o con pochi vecchi sulle panchine. Nel pomeriggio, stesi sulla sabbia dopo il picnic a base
di wurstel, Wolf flirta con le due ragazze suscitando un loro reciproco fastidio. Poi corre in una pineta con Christl con la
quale fa l’amore, dopo l’evidente domanda se è mai stata con un uomo e il lento negare del capo di lei. Infine, nel
flusso di gente che rientra in treno, il taxista e il commesso salutano le due accompagnatrici davanti al loro portone.
Christl domanda timidamente che cosa farà Wolf la prossima domenica, e questo, a cui poco importa di lei, risponde
vago. Erwin, prima di rientrare a casa, ricorda all’amico che tra sette giorni vedranno una partita di calcio.

Chiude il film, il giorno successivo, un flash su Wolf e Christl al rispettivo lavoro. Berlino ferve di attività, una scritta
ricorda che quattro milioni di persone attendono la prossima domenica. Lo scarto di lato della mdp nella scena
dell’”amore” in pineta, evita un’inquadratura inseribile in una lunga serie del cinema tedesco di Weimar, riguardante
la violenza di un soggetto maschile ai danni di un corpo femminile. In “Uomini di domenica” l’adesione degli attori a se
stessi, il recitare-essere se stessi, conclama il tentativo di un’essenzialità del film che mira a coincidere fiction e
documento, in un compimento dell’attitudine realista della Nuova Oggettività. Sei anni dopo, il francese Jean Renoir,
gira un film a suo modo sperimentale, “La scampagnata”, 1936, su un tema simile: una gita sulla Senna, e l’iniziazione
sessuale di una protagonista con un barcaiolo gigolò. Ne “La scampagnata” la ragazza, ormai adulta e maritata senza
amore con un altro uomo, torna in maniera rievocativa sul luogo del delitto, cioè sulle rive del fiume. Esperienza, del
ritorno, che fece anche una delle giovani di “Uomini di domenica”, Brigitte.

PHIL JUTZI. NUOVA OGGETTIVITA’, COMUNISMO, NAZISMO E MODI DI SUICIDIO (DE BENEDICTIS)

Film scaturito dalla temperie della Nuova Oggettività, “Il viaggio di mamma Krause verso la felicità”, 1929, di Phil Jutzi,
sulla realtà documentaria di Berlino nord avviene come in vari film di Hollywood: dal complesso urbano al particolare
privato, attraverso la finestra di una casa. Ci vengono presentati alti caseggiati, tra cui la mdp sembra cercare lo spazio
del cielo. Avviene poi un lungo avvicinamento aereo alla finestra del misero appartamento della vecchia protagonista.
Mamma Krause ci vive con due figli, un giovane e una ragazza, ed ha subaffittato una stanza ad un poco di buono che
sta lì con una prostituta e la figlioletta di questa. La ragazza, interpretata da Ilse Trautschold è fidanzata con un operaio
comunista simpatico e rigoroso. Ma si induce, per estrema povertà, ad un incontro di prostituzione con un ricco
vecchio. Quando, nell’appartamento di questo, sta per accedere alla proposta, la vediamo lanciarci uno sguardo
accorato. Non ce la fa Ilse ad amoreggiare, e così fugge all’ossessione del cinema di Weimar per le scene di violenza di
un “mostruoso” soggetto maschile su una vittima femminile. Corre a rifugiarsi in una manifestazione operaia, accanto
al fidanzato, e a cantare con gli altri “L’internazionale”.

La manifestazione è autentica: il regista vi ha inserito questo segmento di racconto, avvalorandola come una
purificazione nei confronti del vizio borghese che vorrebbe insudiciare giovani proletarie. Jutzi realizza una trilogia
super-impegnata composta, oltre che da questo “Mamma Krause”, da “Hunger in Waldenburg”, e “Berlin-
Aleksanderplatz. Trilogia che dovrebbe essere un manifesto del vincolo di estrema sinistra e Nuova Oggettività.
Dopodiché nel 1933 Jutzi aderisce al partito di Hitler e nel decennio seguente gira per i nazisti un gran numero di
cortometraggi propagandistici, fino al 1945 in cui muore cinquantenne. Il tema degli artisti socialisti, comunisti o
comunque di sinistra passati al nazismo è vasto e controverso: in Germania, nel cinema, ce ne furono diversi.
Tornando a “Il viaggio di mamma Krause verso la felicità”, se la figlia della protagonista evita in extremis la marchetta,
suo fratello si fa invece convincere dal ladro-magnaccia a rubare e finisce in prigione. Nello sfascio familiare, mamma
Krause non trova di meglio che aprire il gas e lasciarsi morire, svelando così la luttuosa ironia del titolo del film. Porta
con sé nell’altro mondo la dormiente figlioletta della prostituta. Prima però mette in salvo l’uccellino nella sua
gabbietta.

La figlia di mamma Krause, tornata a casa col fidanzato operaio inorridisce e poi va con questo a sfilare in un’altra
manifestazione tra i rudi pantaloni di operai e disoccupati. Il film è girato in una voluta incidenza di mdp mossa, quasi
oscillante, fondendo l’esterno documentale con l’interno della tragica fiction. Si può dire che qui, in “Mamma Krause”
è in gioco un amalgama piuttosto riuscito di esterno urbano berlinese con interno di misera abitazione. Per questo
cinema il nesso rivelatorio sta tra l’insieme della società e i drammi degli individui di cui si narra e dovrebbe emergere
nell’incastro di documentarietà e finzione. Nel film di Jutzi affiora anche una sorta di propensione autodistruttiva.
Esplicativo il particolare dell’uccisione della bambina col gas e del contemporaneo salvataggio dell’uccellino.

Il suicidio è uno degli exit favoriti del cinema di Weimar, a conclusione della sventurata parabola di vari personaggi.
In “Scala di servizio”, 1921 di Paul Leni e Leopold Jessner, una domestica non riceve lettere dal suo amato, perché un
frustrato postino invaghito di lei le sottrae e in seguito ammazza quel rivale con un’ascia. La domestica, licenziata dai
padroni per lo scandalo, sale sul tetto e si butta giù. Nel cortile gli inquilini scendono a spiare il corpo con curiosità
morbosa, senza reale interesse umano. L’elemento espressionista, in un ambito di melodramma realista, sta
soprattutto nella recitazione esasperata di Fritz Kortner nel ruolo del postino, che esibisce una psicosi compressa e
quindi sfogata in frenetici ma sistematici colpi d’accetta.

Sempre nel 1921, in “La rotaia” di Lupu Pick su sceneggiatura di Carl Mayer, un ligio addetto alla linea ferroviaria
riceve la visita di un altezzoso ispettore, che gli seduce la figlia inducendo la moglie a farsi stroncare dal gelo notturno
della neve. Lo ucciderà l’onesto impiegato. In “La notte di San Silvestro”, 1924 di Lupu Pick, c’è la classica situazione
casalinga di un uomo diviso tra moglie e madre, sotto lo stesso tetto. Situazione spesso di commedia satirica ma qui
emblematicamente tragica. Il protagonista, dopo squassanti litigi, altra soluzione non vede che, nella notte di San
Silvestro, appendersi ad una corda in un angolo della modesta abitazione. La quale confina con un lussuoso locale che
rappresenta il dato caotico metropolitano. Da qui accorrono elegantoni ubriachi a sbirciare il corpo penzolante,
accanto alle due donne distrutte dalla pena.

La parola “tragedia” sta direttamente nel titolo di un film in cui si ripete lo schema omicidio-suicidio: “Tragedia di
prostitute”, 1927, Bruno Rahn. Una non giovane prostituta si innamora di un ragazzotto di buona borghesia fuggito
dalla casa materna; gli dà affettuosa ospitalità ma lui pencola verso una fiorente collega di lei. Al che la protagonista
spinge il proprio ex magnaccia a sopprimere la rivale, salvo pentirsi e auto sopprimersi. Quanto al ragazzo, torna a casa
a lacrimare sul grembo della mamma.

Al contrario, “Nju, di chi è la colpa?”, 1924, Paul Czinner, il dramma entrava in una casa borghese, abitata da una
coppia con bambina, portatovi da un amico del marito che non esitava a intrecciare una relazione con la moglie.
Normale adulterio, in cui brilla l’interpretazione di Elisabeth Bergner contesta tra il grosso Emil Jannings e lo scavato
Conrad Veidt. Rifiutata infine da questo, la fedifraga si suicida in un giardinetto scenograficamente spoglio. Abbiamo
visto suicidi dettati da classici drammi personali. Quello di mamma Krause vorrebbe invece essere indizio di
un’invivibilità sociale delle classi povere tedesche. Dal terzo film, 1931, della trilogia di Phil Jutzi, “Berlin-
Aleksanderplatz”, Alfred Doblin, autore della sceneggiatura, toglie dati di cronaca, burocrazia, ufficialità statale e
assetto della società più bassa. Il regista sembra seguire i dettami dei colleghi hollywoodiani, maestri nel film d’azione.

In quel 1931 da parte di questi cineasti piuttosto di sinistra escono in Germania altri due film sulla malavita, intesa
anche come sottofondo della società borghese: “M- Il mostro di Düsseldorf” di Fritz Lang, e “L’opera da tre soldi” di
Wilhelm Pabst, dalla pièce di Brecht, in cui banditi e mendicanti infuriano nelle vie e nei luoghi di potere della città. La
storia di “Berlin-Aleksanderplatz” è nota: Franz Biberkopf, uscito dal carcere per tornare a fare il venditore ambulante,
conosce il bandito Reinhold che, non potendo sedurla, gli uccide la fidanzata Mieze. Biberkopf è impedito dal farsi
giustizia da sé e l’altro è condannato alla galera, mentre lui ridiverrà in effetti venditore ambulante. Notiamo come un
fulcro della vicenda sia, ancora una volta nel cinema di Weimar, la violenza omicida di un criminale ai danni di una
giovane donna. Qui, in Berlin-Aleksanderplatz, la ragazza Mieze, tenta di fuggire tra le piante di un bosco; l’assassino la
raggiunge ma l’obiettivo della mdp sale verso il cielo tra gli alberi. Significativamente, nel film drammatico forse più
noto del periodo nazista, “Io accuso”, 1941, di Wolfgang Liebeneiner, c’è un uomo che ammazza la moglie perché lei,
malata inguaribile, lo invita a farlo. La scena di quando lui parla al tribunale andrebbe confrontata con quella in cui il
protagonista di “M” si giustifica davanti al proprio tribunale per la “forza” di un istinto che lo spinge ad uccidere.
Quella forza è ora il nazismo al potere, che legalizza in sé la figura del mostro.
KHULE WAMPE. DI CHI È IL MONDO? (DE BENEDICTIS)

Un rispettabile contributo di Brecht al cinema è “Khule Wampe”, 1932, qualcosa come “Pancia piena” con sottotitolo
“Chi possederà il mondo?”, scritto da lui e diretto da Slatan Dudow. L’inizio mostra un ambiente abitativo proletario,
con muri alti che sembrano chiudere aria e cielo. C’è una corsa di biciclette, poi un giovane torna a casa, si toglie
l’orologio e si lascia cadere dalla finestra. Viene in mente quella specie di “suicidio” che i partiti della classe dei
lavoratori e disoccupati, espressi da tale cinema, compirono verso la fine della repubblica di Weimar, non sapendo
opporsi all’avvento del nazismo. Ancora un suicidio sarà commesso dall’adolescente, anche lui berlinese, protagonista
in “Germania anno zero”, 1947, Rossellini.

Suicidi, quelli dei due film tedeschi, per la pressione degli eventi che portano a Hitler; e quello del film neorealista per
l’influsso che nell’immediato dopoguerra l’hitlerismo ancora esercitava su alcuni strati della popolazione. Il ragazzo di
“Khule Wampe” si schianta mentre la madre sale le scale di casa. Certe immagini intendono offrire una visuale
criticamente realista di una condizione storico-sociale. Nella famiglia del suicida che, sfrattata, va a vivere in un
accampamento di povera gente chiamato appunto Khule Wampe, cioè “Pancia piena”, l’unica a lavorare come operaia
è l’altra figlia, Anni, incinta del fidanzato Fritz che non intende avere bambini e lascia esaurire il rapporto.

Tra le figure femminili del cinema weimariano Herta Thiele, cioè Anni, acquisisce un posto sicuro.
Nell’accampamento si realizzano situazioni di socialità come una lunga festa a base di canti e sbronze di birra. In un
punto il padre della ragazza legge un lungo articolo sui prezzi dei beni di consumo: un brano da manuale di Nuova
Oggettività che si rifaceva a documenti burocratici, pezzi di quotidiani, avvisi commerciali, resoconti di polizia, ecc.
Questa parte del film è connotata da canzoni di Brecht-Eisner abbinate a immagini di campagna, dove l’accampamento
è situato. Il tema implicito è la vita in natura che i rapporti di lavoro della società capitalistica oscurano. Le scene
ricordano il contesto vacanziero su un lago di “Uomini di domenica”: ma mentre qui la natura era una parentesi, in
Khule Wampe è l’utopia da recuperare con un’esistenza più piena. A tali inserti canoro-musicali fanno da
contrappunto, nella seconda metà del film, altri con immagini di ciminiere e fabbriche sempre col commento di
Brecht-Eisner. Annie, con un gruppo di compagni, prepara materiale propagandistico per alcune manifestazioni
sportive dei lavoratori comunisti. Seguono scene che mostrano l’attività sportiva di massa dei giovani delle
organizzazioni marxiste: corse in motocicletta, nuoto, canottaggio femminile… quest’ultimo in particolare esibisce uno
degli assunti principali del film: la bellezza del corpo, l’edonismo della forza fisica, nelle giovani figure atletiche.

Questo il prioritario rituale delle manifestazioni di “sinistra”, basate sulla potenza sviluppata del corpo. Così come la
destra, estremizzata dal nazismo hitleriano, la esibisce nelle sue sfilate paramilitari, ma con ben superiore capacità di
appeal di fronte ad un pubblico nazionale. Dopo le manifestazioni sportive vediamo la massa dei partecipanti e
spettatori tornare di sera in città. Su uno dei treni, con cui tra gli altri viaggiano Anni e Fritz, si sviluppa la scena tutta di
Brecht: in cui i borghesi e operai questionano sulla crisi finanziaria internazionale. Le posizioni sono ovviamente
opposte. Tale opposizione è anche tra le speranze dei giovani proletari e il vecchio mondo degli anziani borghesi. Un
ragazzo dice che i benestanti non hanno interesse a cambiare il mondo; chi allora ha interesse a farlo? Chiede uno; e
un’amica di Anni risponde: quelli a cui questo mondo non piace.

HERTA THIELE. ANGELICA DEPRAVAZIONE, MARXISMO E LESBISMO (DE BENEDICTIS)

Herta Thiele, protagonista di “Pancia piena” nel 1932, ebbe un successo scandalistico e di adesione di molto pubblico,
soprattutto femminile, per l’interpretazione di una ragazza adolescente, Manuela von Meinhardis in “Ragazze in
uniforme”, 1931, di Leontine Sagan. Manuela, entrata orfana in un collegio femminile, si innamora della sua
istruttrice. Ambiente in stile prussiano dove troviamo all’interno le fanciulle allineate ad intonare una canzone
patriottica sul fatto che “La figlia di un soldato non piange”. La loro divisa è a righe bianche e scure, richiamando le
casacche carcerarie. Al contrario l’esterno del collegio col suo assetto di statuaria militaresca è il dormitorio dove, negli
armadi, le ragazzine in sottoveste tengono romanzetti sentimentali e foto di divi, scherzando a far respirare una di loro
con un gran seno fino allo scoppio delle spalline. Le docenti-custodi, sorta di severe ufficialesse, passano in rassegna le
ragazze nell’atrio del collegio, sul pavimento a scacchi bianco e nero. Una delle docenti, Fräulein, interpretata da
Dorothea Wieck, appare avvenente e algida. Le ragazzine la idoleggiano, ne parlano alla protagonista, che la vede di
sera entrare nel dormitorio e passare dall’una all’altra spegnendo la lampada e mettendole a letto con un lieve bacio
sulla bocca. Alla vicina di letto Manuela dà solo un bacio in fronte.
Manuela ottiene bei voti con tutte le insegnanti ma non con lei. Finché il suo dichiararsi sbocca nell’accettazione
ambigua della Fräulein: in una scena dove questa l’abbraccia e la congeda con uno schiaffetto sul didietro. Il film
finirebbe con uno dei suicidi che sanciscono disperate condizioni di vita narrate in certi film di “sinistra”. Ma le
collegiali strappano la loro compagna alla ringhiera mettendola in salvo; mentre Fräulein rivendica la libertà di
sentimenti e affetti davanti alla direttrice. E il film si chiude su questa anziana donna che si avvia di spalle verso il fondo
buio del collegio. A vincere sarebbe la soluzione più umana, l’espressione d’amore, anche lesbico, di contro
all’antiumano ordinamento da caserma prussiana. In ogni caso il nazismo, andato al potere, si affrettò a soffocare il
successo del film, e poco dopo decise di rinchiudere nei lager l’omosessualità. Istruttivo resta il confronto con rilevanti
film “di collegio” americani di quegli anni, a cominciare dall’americano muto “Regina Kelly”, 1929, Erich von Stroheim.
In questo capolavoro incompleto e a suo tempo inedito, una ragazzetta ospite di un rigido collegio-orfanotrofio gestito
da suore supera dolorosi tabù innamorandosi di un principe vessato dalla consorte.

L’equivalente dello schiaffetto sul sedere è quando, durante una passeggiata in campagna del gruppo di collegiali
scortate dalle suore, la protagonista, emozionata davanti al principe a cavallo, si ritrova coi mutandoni d’epoca
scivolati alle caviglie sotto la veste-divisa e lui le raccoglie in punta di spada. Da quel momento l’amore arde fino al
duplice suicidio imposto dal loro mettersi contro le rigide convenzioni. L’attrice qui è Gloria Swanson, pure lei come
Herta Thiele calatasi già grandicella in un ruolo di minorenne; in qualche scena la vediamo accorata con occhi umidi
come la collega tedesca. Il glamour della ragazzina innamorata, anticipa l’icona della Lolita all’inizio della seconda metà
del ‘900.

Nel 1936 apparve in USA “La calunnia” di William Wyler, in cui un’alunna di un collegio femminile rovina due
insegnanti con maldicenze sulla loro vita intima. Nel film si aggira l’argomento del lesbismo. Tornando a Herta Thiele,
dopo “Pancia piena”, 1932, girò un altro film in chiave saffica con la regia di Dorothea Wieck, “Anna e Elisabetta”.
Subito lo proibì il nazismo, andato al potere nello stesso anno. Herta, invitata da Goebbels a entrare nello spirito
dell’hitlerismo, rispose che non era una banderuola e lui la fece escludere dal sindacato dei lavoratori cine-teatrali.
Così la Thiele nel 1937 si trasferì in Svizzera, dove trovò impiego come infermiera in una clinica psichiatrica. Finalmente
negli anni ’70 le concessero ruoli in alcune serie tv della Repubblica Democratica, senza eco alcuna nell’altra Germania.
Ma prima della morte nel 1984, la sua immagine fu riscoperta dalle femministe tedesche occidentali.

LENI RIEFENSTAHL, PROPAGANDISTA DEL DIAVOLO (DE BENEDICTIS)

Leni Riefenstahl, autrice di due basilari film-documentari girati durante il nazismo, pubblicò nel 1987 un’autobiografia,
“Memorien” da prendere con beneficio d’inventario come tutti gli scritti compromessi col nazismo. Da piccola, amava
la ginnastica ritmica e la natura, la vita in campagna. La famiglia frequentava un circolo in cui compariva Ferruccio
Busconi, musicista italiano di fama che le dedicò un pezzo. Leni esordisce da ballerina, anche se il padre non vuole. Per
compiacerlo si iscrive all’Accademia di pittura, meno scandalosa della danza, che continua a praticare giungendo al
successo nel 1923, quando diviene solista nel più celebre teatro tedesco di Reinhardt, ma si infortuna al ginocchio. La
prospettiva di carriera cambia: vede un bergfilm, “La montagna del destino”, che la elettrizza. Il regista la vuole per “La
montagna dell’amore”, 1926.

La vorrebbe anche per sé. Farà vari film con lei ma niente di più. Tutti se ne innamorano, registi, artisti, fino al fuhrer;
ma lei riesce a farla franca. Sul set de “La montagna dell’amore” impara l’importanza della luce artificiale: può
modificare un volto. Nel film gira anche delle inquadrature, preparandosi da regista. Ad un’estetica del brutto
dell’espressionismo il suo abbracciare il bergfilm contrappone la convenzione di un bello attinente al puro, naturale.
Dopo una serie di film sotto la regia di Arnold Frank, interpreta e dirige “La bella maledetta”, 1932. La storia narra di
una ragazza solitaria, Junta, che vive tra i boschi delle Dolomiti, ritenuta una specie di strega dai valligiani, e che
sembra acquisire la sua vitalità naturale dalla luce dei cristalli di una grotta la cui ubicazione conosce solo lei. Finché un
giorno è seguita e scoperta. Quando poi scopre che i valligiani hanno devastato il luogo per strapparne i cristalli, si
uccide lasciandosi cadere da una roccia nel vuoto. La luce, qui giunta all’acme di trasfigurare assume il compito di
purificazione e ricarica naturale. Quando, come regista, Leni riprenderà Hitler sul podio del discorso avrà anche
presente il tipo di estasi della grotta dei cristalli. L’attrice regista scrive nell’autobiografia di aver rappresentato in Junta
il proprio destino.

L’INCONTRO
Viaggiando per presentare il film nelle città tedesche, Leni si rese conto della crisi economico-sociale, a rimedio della
quale molti invocavano l’avvento di un certo Hitler. Va allora, sempre nel ’32, ad assistere ad un discorso di questi e
quando esordisce con “Popolo tedesco” lei patisce e gode. La Riefenstahl sostiene di aver separato in Hitler l’ideologia
dalla persona; non approvava il razzismo ma apprezzava il “socialismo” che avrebbe risolto il problema dei disoccupati.
Quando si incontrano, Hitler le dice d’aver apprezzato i suoi lavori, annunciandole di volerla come regista dei futuri
film-documentari del suo partito. Lei sostiene nell’autobiografia di avergli rimproverato i pregiudizi antiebraici.
Nell’autobiografia intende abolire la propria responsabilità; si descrive qua e là, in genere al cospetto di Hitler, come
trascinata, senza quasi volere.

E sembra il colmo per la futura regista del nazistissimo “Il trionfo della volontà”. Vero è che questo titolo lo scelse
Hitler e in effetti la volontà era la sua. Quello che Leni dice risponde al bisogno di scagionarsi, rientrando nella
categoria dell’”ipocrisia” tedesca post-nazista. Quando va a sentire il secondo discorso al Palasport berlinese, si dice
conquistata dall’insistere di lui sul “Bene collettivo” decidendo così di lavorare per la società. Aderire al nazismo
significava dunque lavorare per la società. Non sa nemmeno, Leni, che ci sono le elezioni fatidiche del 1933. Si
definisce apolitica, vorrebbe stare fuori dal “fascino” di lui ma finisce per ritrovarselo sempre davanti.

Dichiara di essere sconvolta quando sa delle persecuzioni degli ebrei. Dice finanche di no a Hitler che gli propone di
guidare la cinematografia tedesca insieme a Goebbels. Anche nell’impresa di curare la regia di documenti
propagandistici, si descrive trascinata dagli eventi, contro la sua volontà. Forse un po’ teme per la sua carriera di
attrice, magari anche regista.

L’IMMAGINE DI HITLER. I TRE FILM-DOCUMENTARI NORIMBERGHESI

Ogni anno, a partire dalla conquista del potere, si tenne a Norimberga il congresso del partito nazista. La Riefenstahl,
con mezzi giganteschi, girò tre film-documentari nel triennio iniziale.

Il primo “La vittoria della fede”; 1933, quando l’adunata ebbe per tema l’assunzione del potere. Il documentario fu
distrutto poco dopo in quanto vi compariva il gruppo paramilitare delle SA e il suo capo, Ernst Rohm, che aiutarono
Hitler ad imporsi ma furono eliminati per compiacere l’esercito che li vedeva aggressivi concorrenti. Leni fu di nuovo a
Norimberga per filmare il secondo raduno in “Il trionfo della volontà”, 1934, il film-documentario più noto del
terzetto. Gli alti ufficiali dell’esercito si lamentarono di esservi stati poco rappresentati. Hitler allora propose di girare
con loro qualche scena in studio e di inserirla nel filmato. La regista si oppose facendolo arrabbiare. Ma l’anno
successivo entrambi colsero l’occasione del terzo raduno a Norimberga, dedicato alla “libertà” del popolo intesa come
coscrizione militare, al fine di creare il più potente degli eserciti, per girare “Il giorno della libertà- La nostra
Wehrmacht”. Dopo la guerra Leni negò la realizzazione di questo terzo film: soprattutto per la coincidenza della
promulgazione, in quell’anno, delle leggi antisemite di Norimberga che poi portarono allo sterminio degli ebrei. Ma la
sbugiardò il ritrovamento di una copia nel 1971. In ballo è il rapporto di arte e propaganda. Leni sostiene di aver voluto
evitare il cine-giornalismo associato alla mera propaganda, ma ci sono fotografie che la mostrano allegra tra i soldati
tedeschi vincitori. Molti li aveva filmati adolescenti, in “Il trionfo della volontà”. C’è anche un’altra foto in cui assiste ad
una delle prime fucilazioni di ebrei in cui vediamo la sua faccia stravolta. Va specificato che un’espressione così
traumaticamente atteggiata non testimonia stigmate di “umiltà”. Mediante la Riefenstahl, Hitler voleva una
propaganda del proprio programma. Leni, così, non rispecchia soltanto ma contribuisce all’evento mentre si produce.

LA VITTORIA DELLA FEDE 1933

Attraverso il soggetto dei tre film-documentari norimberghesi si sviluppa un modello matrimoniale tra Hitler e la
Germania. Nel primo, lo schema narrativo presenta la città di Norimberga come scrigno tedesco di opere d’arte. I
carpentieri sono al lavoro per allestire lo stadio. Dopo una sfilata di SA intramezzata da scene di bambini che esultano,
avviene l’arrivo dei capi, degli ospiti stranieri e infine di Hitler, che percorre in piedi sull’auto il percorso fino al
municipio, con lo scampanio delle chiese e l’affacciarsi di lui al balcone. In un ambiente chiuso, il braccio destro di
Hitler, introduce i discorsi. Di giorno, nello stadio, scende con alcuni degli intimi una scalinata. In questa azione
scenicamente incisiva egli cerca l’andatura giusta, gli altri gli stanno dietro. Il campo-stadio è filmato nel tripudio di
bandiere, con panoramiche lente sulla folla di militari. Dopo il triplice grido “Sieg Heil” Hitler parla alla gioventù, quella
che un quinquennio dopo andrà alla Seconda guerra mondiale. Il fuhrer è teatrale, parla, a proposito dei ragazzini in
divisa, di “carne della nostra carne”. L’inno conclude la cerimonia, mentre l’impulso di potenza si esprime
nell’alzabandiera.
IL TRIONFO DELLA VOLONTA’ 1934 (DE BENEDICTIS)

Nel secondo e centrale film documentario norimberghese, “Il trionfo della volontà”, l’operazione della regista va nel
senso di un impulso affettivo circondante l’immagine del fuhrer. La “volontà” è quella di Hitler, che avrebbe potuto
chiamarla la “mia” volontà, come anni prima aveva intitolato Mein Kampf. Il possessivo è reso superfluo
dall’identificazione con la volontà del popolo tedesco che si è annullata nella sua. L’impulso affettivo deve sancirsi con
un congiungimento di lui e dell’identità popolare-nazionale tedesca, in una sorta di “matrimonio”. Hitler diceva
all’amante Eva Braun e a chi gli era vicino di non potersi sposare essendo già sposato con la Germania. Dalla Mercedes
decappottata in movimento il fuhrer prende il primo contatto con la folla festante; la ripresa è molto ravvicinata; è
pure colto il particolare del sole che gli brilla sulla mano allungata nel saluto. Lungo il percorso si alza a tempo una
selva di mani nel saluto nazista. La giornata si conclude con l’acclamazione popolare, a lume di torce, sotto la finestra
della sede di Hitler. Nel secondo giorno la città si risveglia sulle note di Wagner, con scene che riguardano soprattutto
la preparazione della massa all’incontro con lui. È ripreso l’immenso campeggio dei lavoratori-soldati, cioè il servizio
del lavoro del Reich. La Riefenstahl presenta primi piani di volti selezionati dalla folla, ma con l’intento di offrire un
campionario “razziale” sano, ridente, del tipo tedesco militarizzato.

Nel suo discorso Hitler esalta i meriti del “Servizio di lavoro” nella ricostruzione della Germania. Si tratta della
trasformazione dei lavoratori in soldati. Nella terza giornata, quel modello ariano si incarna nella “gioventù hitleriana”.
Il film rappresenta ora l’acquisizione dei giovani tedeschi da parte dell’organizzazione da cui dopo pochi anni usciranno
i soldati di Hitler per la guerra. Si motivano i primi piani di lieti ragazzini biondi. Hitler parla alla gioventù: che deve
essere pacifica e coraggiosa, abituarsi al sacrificio, ecc. il film alterna luce e ombre, giorno e notte, con panoramiche a
lungo andamento. Hitler fa un discorso notturno; un forte chiaroscuro avvolge il suo primo piano, in un luccicore che
tocca anche le bandiere. Il quarto giorno vede un alternarsi di simboli quali l’aquila, la svastica e la fiamma. La musica
è quella del wagneriano “Crepuscolo degli dei”. Hitler cammina in mezzo a due caporioni, tra due schiere di
centocinquantamila soldati. Raggiunge il fuoco commemorativo dei caduti della Prima guerra mondiale, cioè il culmine
dei morti da vendicare. Lo raggiunge con un passo diverso da quello del film precedente. Quando sta sul podio, la mdp
riprende sotto di lui una movimentazione simmetrica delle masse. Si svolge la prima vera notte di matrimonio, a cui si
è associato il permanente “funerale” del ricordo dei propri morti. Il fuhrer pronuncia l’ultimo discorso al “partito” in
una grande sala rettangolare. Il momento compie la congiunzione di lui con il popolo. Hess chiude il congresso
annunciando che il partito è Hitler, e questi è la Germania. Segue un finale con inno e in sovrapposizione la svastica
con la marcia dei convenuti, ripresi da giù in su.

IL GIORNO DELLA LIBERTA’-LA NOSTRA WEHRMACHT (DE BENEDICTIS)

La trilogia di Norimberga si chiude col suo ultimo prodotto, “Il giorno della libertà-La nostra Wehrmacht”, che annuncia
la trasformazione della collettività giovanile in una massa militarmente aggressiva, una macchina di conquista e
distruzione. Per i giovani automi in divisa militare fu coniata l’espressione di “ubbidienza cadaverica”. All’inizio
vediamo i giovani svegliarsi nell’accampamento, fare allegra toletta comune e prepararsi. Quando sono pronti, il forte
controluce li differenzia nelle sagome scure di rotelle del meccanismo bellico. Passano su un ponte, e sotto, a cavallo,
attraversano un fiume: con la Riefenstahl che gioca con la luce su acqua e centauri. Avviene quindi l’esercitazione di
guerra. Assistiamo all’efficienza dei fucili e dei mitragliatori, delle artiglierie, dell’aviazione e dei carri armati.
L’intravediamo sorridere compiaciuto sotto i baffetti, a labbra strette. In “Il giorno della libertà” egli fidelizza l’esercito,
rifondato come prodotto della congiunzione Hitler-Germania sancita in “Il trionfo della volontà”. In rapporto al patto di
sangue secondo cui i morti nazionalsocialisti vanno vendicati con una progressiva moltiplicazione dei nemici
“annientati”, il nuovo esercito acquisisce il carattere annientatore. I soldati non devono solo vincere le battaglie e la
guerra ma annientare il nemico.

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