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Interdisciplinarità di Giovanni Pico e compartecipazione di offesi ed

umiliati

Mi accingo ad elaborare uno scritto la cui complessità di contenuto -o


meglio di proposito- è tale per farlo successivamente figurare quale uno
dei capitoli di un altro mio testo che sto preparando il cui titolo è giusto
per l'appunto “Enunciazioni complesse”. Questo non dovrà intimorire il
lettore, ma è mia premura dichiarare innanzitutto l'ambizione del mio
intento che esula da personale hybris, quanto piuttosto si eleva ad appello
urgente ed irrinunciabile per l'epoca ed il tempo che viviamo.
E' altrettanta mia necessità di premessa esplicitare l'ammissione di una
indispensabile mancanza: il testo del De Ente et Uno di Giovanni Pico che
non mi è reso accessibile per indisponibilità di fonte, utenza o personale
possesso. Questo comporta l'impossibilità di approfondire con più
pregnanza d'argomenti un nesso sostanziale al tema trattato che cercherò
però di sostenere con altre mie pregresse riflessioni e corollario di citazioni
e fonti di altri autori contemplati nella dissertazione che qui ora introduco.

Fu l'anno 1486 in cui Giovanni Pico preparò le sue novecento tesi che
avrebbe dovuto esporre a Roma in un convegno filosofico universale il
giorno dell'Epifania, portando gli eruditi e sapienti suoi contemporanei a
dibattere sul sapere della civiltà umana raccolto sino a quel momento.
L'intento del mirandolano era quello di pervenire alla Concordia e alla
Pace (Universale), conciliando le scuole di pensiero in una pace filosofica
che coincidesse con la pace civile. Come meglio spiegava Eugenio Garin
nel 1963: “nel senso di quella che chiamava la pace o la concordia” che
“era rivolto a dimostrare sì l’universalità del vero nella molteplicità delle
sue espressioni, e l’integrabilità degli sforzi verso di esso, ma anche i limiti
delle varie posizioni, e quindi l’esigenza di oltrepassarle, rendendosi conto
dei conflitti dell’intelletto”.1
Così come Garin enuncia brillantemente le problematiche che sarebbero
scaturite dal progetto del filosofo, questi di esse ne diede l'incipit
affrontando con magniloquenza il tema del libero arbitrio nella Oratio de
Hominis Dignitate che sarebbe stato il discorso introduttivo del concilio
che mai vide la luce.
“In primo luogo ho proposto l’accordo tra Platone e Aristotele, a cui
molti credevano già prima di me, ma che nessuno aveva sufficientemente
dimostrato. Boezio, tra i latini, aveva promesso di farlo, ma non si trova

1 E. Garin, Le interpretazioni del pensiero di Giovanni Pico, cit., p. 8.

1
che abbia mai fatto quello che sempre si
propose di fare. Anche Simplicio, tra i greci, l’aveva detto, ma avesse mai
mantenuto quello che aveva promesso. E Agostino scrive che tra gli
accademici non erano pochi quelli che con le loro sottilissime
argomentazioni avevano cercato di dimostrare la stessa
cosa, ossia che la filosofia di Platone e
di Aristotele è la stessa. E Giovanni il Grammatico, pur
affermando che Platone differisce da Aristotele solo per coloro che non
capiscono quello che Platone dice, ha tuttavia lasciato ai posteri il compito
di dimostrarlo. Ho anche aggiunto numerose tesi
in cui sostengo che talune affermazioni di Scoto e di Tommaso, giudicate
discordanti, sono invece in accordo e
numerose altre in cui sostengo la stessa cosa per affermazioni simili di
Averroè e di Avicenna”.2 E che dire della maggioranza, l'anonimato delle
masse umane che non intendono di Pico, Averroè, Cusano o Aristotele, ma
il cui brusire è il vero substrato dei processi? Lo dico qui ora io subito.
Non si diede -né mai si darà- un Pico, un Leonardo, un Socrate od un
Platone, senza il pubblico riconoscimento che li elevi alla notorietà ed
infine li consacri al lógos della Storia. Quindi loro sono per acclamazione,
così come le masse sono plasmate sui loro precetti, campioni della Storia
delle idee. Prevale pur sempre una disparità di trattamento verso gli uni o
gli altri, ma se non per merito ed eccellenza dei primi, per nostro
disintendimento qui ora nel riconciliarli entrambi in un unico, più veritiero
dei singoli precetti dei primi e concreta efficacia dei brusii dei secondi. Gli
uni godono di spessore intellettuale, gli altri ci procurano il pane. Pico e
Leonardo sono stati possibili in uno scenario fertile che consentisse tali
individualità, codeste hanno incentivato lo sviluppo dello scenario. E così
come noi dobbiamo ammettere che il loro intelletto fu nutrito dal pane
prodotto dal volgo, così dobbiamo affermare che la loro sapienza si è spesa
per affrancare il popolo dall'ignoranza o alleggerire il suo corpo quando al
lavoro. Ma ci basterà questa rilevazione per concludere l'indagine sulla
verità? Se non noi, accetteranno i filosofi e i teologi che l'Uno è nella
materia -e lì solo-, nei corpi e nel pane, quanto le masse godranno della
massima dignità nelle speculazioni dei sapienti? Averroè ci ricorda
dell'importanza del piacere come Aristotele che lo scopo della vita è la
felicità. Se queste distinzioni linguistiche non sono che il medesimo
concetto, allo stesso modo noi accomuneremo loro sapienti al popolo in
quanto che l'esperienza del piacere o della felicità è la stessa per gli uni

2 G. Pico, Oratio 213-217, § 35.

2
quanto per gli altri, essendo entrambi corpi ed intelletti. Quindi il piacere
(che Aristotele disequivoca nella sapienza) o la felicità ricavati dalla
conoscenza quanto il piacere dei sensi e del corpo sono di entrambi, salvo
che per erudizione i sapienti rifuggono la sensualità e collocano il bene
sommo nella sapienza dell'anima, mentre gli ignoranti godono di una vita
tranquilla, poiché più semplice. Ma né Averroè né Aristotele posseggono la
conoscenza perfetta, così come il popolo non è limitato da una ignoranza
totale. Gli uni e gli altri esistono perché in relazione; se manca la relazione
manca l'identità o la significazione degli uni o degli altri. L'identità di
Averroè o di Aristotele si formula nel confronto con l'ignoranza del popolo
e così il contrario. Allo stesso modo il significato dei primi due, come di
tutti i sapienti, nasce dall'esigenza di risolvere i problemi dell'altro, o
questo trova il suo significato quando di tanto in tanto nascono tali illustri
personalità. Noi siamo tutti rivolti verso l'ammirazione del loro intelletto
quale emblema di cosa l'uomo possa aspirare ad essere, ma non dobbiamo
disdegnare il pane; se i sapienti fossero stati fornai non avrebbero avuto il
tempo e l'agio di elaborare la loro conoscenza, ma se al pane non dessimo
il condimento della conoscenza risulterebbe solo un nutrimento insipido e
senza conoscenza non avremmo nemmeno l'arte per produrlo. Perciò ora si
profila il problema di stabilire se la conoscenza della produzione del pane
venga prima del pane stesso, o se questo, garantendo prima il
sostentamento del corpo, ci consenta poi di elevare il nostro intelletto.
Quale insomma è causa dell'altro, quale risultato di un primo? Se la
conoscenza, del produrre il pane come di tutto il resto, venisse prima ciò
renderebbe ingiustificato il fatto che gli ignoranti siano più dei sapienti
(poiché ciò è generalmente condivisibile e le moltitudini vengono prima
del singolo), ma se questa viene dopo ci si deve domandare perché
produrre il pane per saziare il corpo, divenendo però poi affamati di
conoscenza. Come può la conoscenza non aver dissipato definitivamente
l'ignoranza, averla preventivata, o perché il pane, ossia la materia, è
indispensabile da mille e mille secoli nonostante la verità rivelata che non
basta in sé a sostituire completamente l'altro? Riferendosi ai materialisti,
qui è Averroè: “Analogamente, l'esistenza di un uomo da un altro uomo è
un processo infinito, poiché in casi simili l'esistenza dell'anteriore non è
condizione dell'esistenza del posteriore, anzi la corruzione di qualche
individuo è spesso condizione [del verificarsi del processo. NB: che
l'ignoranza del popolo produca la necessità dei sapienti]. Questo tipo di
causalità conduce, secondo i [filosofi], a una prima causa eterna, a una
“causa delle cause” in cui il movimento si arresta allorché si produce
l'effetto finale (poi Averroè evoca il Principio Primo secondo Aristotele).
3
[…] quando un artigiano produce, con strumenti differenti e in tempi
successivi, oggetti della sua arte l'uno all'altro conseguenti, e produce
questi strumenti attraverso altri strumenti e questi strumenti attraverso altri
strumenti ancora, il prodursi di questi strumenti l'uno dall'altro è qualcosa
di accidentale e nessuno di essi è condizione dell'esistenza del prodotto
[finale] tranne il primo strumento, quello diretto. Ora, il padre è necessario
per la venuta in esistenza del figlio allo stesso modo in cui lo strumento
che si trova in immediato contatto con il prodotto è necessario per la
venuta in esistenza del prodotto, e allo stesso modo in cui il [secondo]
strumento con cui viene costruito il primo sarà necessario per la sua
costruzione, ma non per la produzione del prodotto artigianale, se non
accidentalmente. Perciò forse, il deterioramento dello strumento
antecedente è condizione dell'esistenza del successivo: quando, cioè, il
posteriore viene costruito dalla materia dell'anteriore, come quando un
uomo viene all'essere da un uomo che è perito essendo diventato prima una
pianta, poi sperma o sangue mestruale”3. Quest'ultima sentenza che
anticipa di seicento anni Lavoisier, accomuna, un'ennesima volta, i sapienti
ed il volgo in una comune necessità: essere o avere cibo. Poiché i filosofi,
secondo Averroè, non riescono a giustificare i processi infiniti, ossia in
divenire, senza presupporre arbitrariamente una prima causa, così come i
teologi non possono spiegare la corruzione di un immateriale ed
immutabile, quindi eterno, Primo Principio nel decadimento nella materia
e nel cibo, diremo che si possa solo aggiungere o togliere qualcosa a
quanto è ugualmente eterno o in divenire. Questa necessità si erge a verità,
da sempre e per sempre senza distinzione di tempo o luogo, o per
conoscenza o per contingenza. “Ma perché -come dice Esiodo- indugio
tanto a parlare della quercia o della rupe?”4. Se l'albero o il sasso
vogliono alludere implicitamente all'indagine sulla causa prima, allora non
essendo un teologo non posso intraprendere una teologia negativa (poiché
Dio è descrivibile solo per negazione), se allo stesso modo non sono un
sapiente, ossia un filosofo, debbo rinunciare a godere dell'aporia. Per
questo seguiterò a parlare e poiché il parlare si fa con il linguaggio e le
parole ed essi sono il prodotto della poesia allora significa che io mi farò
poeta, ossia colui che produce linguaggio e parole (dal gr. ποίησις, der. di
ποιέω “fare, produrre”). E poiché è la metafora il linguaggio della poesia e

3 Averroè, L'Incoerenza dell'Incoerenza dei filosofi, quarto problema [266], pg. 279 UTET 1997
4 Porfirio in Vita di Plotino, XXII pg. 114 UTET 1997, evocando Esiodo nella sua Theogonia, 35.
Come esplica la nota: “Si tratta di una locuzione proverbiale presente già in Omero (cfr. Ilias,
XXII 126), di significato incerto, ma che dovrebbe riferirsi all'antichissima credenza secondo la
quale gli uomini sarebbero nati dalle querce e dalle rocce”.

4
il linguaggio è in sé metafora stessa allora io non potrò che trattare della
quercia o della rupe se non come metafore per conoscere la verità. Come
spiega Massimo Campanini (già curatore dell'edizione UTET su Averroè a
da cui sto prendendo spunto): “I linguaggi sono diversi, ma equipollenti
sul piano pratico. Il volgo e i filosofi [o i teologi] possono parlare di Dio e
del Paradiso in modi differenti (formulare su Dio e il Paradiso differenti
metafore), ma raggiungere lo stesso tipo di conoscenza grazie alla
funzionalità dello strumento linguistico. Ciò non vuol dire evidentemente
che la verità è linguaggio o che l’essere è linguaggio, ma vuol dire che
l’essere e la verità sono conosciuti solo sul piano linguistico”.5 C'è una
discrepanza tra la realtà e la parola, ossia questa non coincide con la prima,
ma la descrive in senso astrattivo proiettando sul piano dell'interlocuzione
dialettica -o il soliloquio interiore- una formula che afferri lo scenario, ma
in conclusione di esso ne può solo prendere atto senza totale controllo. La
stessa parola “realtà” non è nemmeno espressione della realtà, ma un punto
di intuizione deliberata sul concetto o la sostanza che essa vuole esprimere.
Sul piano dell'Assoluto, ossia della Realtà (o Realtà Ultima nell'Advaita
Vedanta), le parole non esistono, non servono, in quanto l'Assoluto o la
Realtà che siano si manifestano nella totalità degli eventi, delle azioni e
della somma dei pensieri elaborati da tutti gli esseri senzienti o possessori
di una autocoscienza. Ecco la ragione per capitolare nella teologia negativa
in seno alla teologia o sospendere il giudizio con l'aporia dei filosofi. Ciò
che resta è il quotidiano descritto popolarmente con “realtà”, ma se
l'equipollenza di cui parla Massimo Campanini è corretta come
spiegazione, qui si mette in luce tale equivoco linguistico per evitare un
errore non di forma, ma di sostanza per svelare un punto significativo dei
problemi umani nella vita. Anche della vita, infatti, se ne può dare una
descrizione linguistica, se ne può parlare, ma non la si può dirigere con la
sola parola, poiché, peraltro, la parola è sottoposta alla ragione ed alle sue
categorie, mentre la vita è una forza umorale ed irrazionale che si perpetua
per inerzia secondo le sue leggi che noi non conosceremo mai sino in
fondo, essendo relegati alla contingenza della nostra limitatezza cosmica
ed ai condizionamenti delle nostre stesse storture del ragionamento. Se
allora la speculazione filosofica o teologica, per quanto affilata nella sua
sagacia, non può sino in fondo, dobbiamo spendere il coraggio di un
azzardo sconfinando non tanto nella poesia, ma nel poetico, ossia in una
categoria ambigua di suggestione che la metafora convalida in quanto
sostanza equipollente di tutti i linguaggi, delle sintassi e grammatiche, di
5 Massimo Campanini, Conoscenza e metafora in Averroè, 49-Articolo-212-1-10-20080713.pdf,
pg.3/29

5
ordine tecnico, artistico o pragmatico nel vivere quotidiano. Sebbene il
poetico sia impreciso e non rimandi al rigore intellettivo, attiva
ugualmente in tutti la capacità intuitiva. Nessun ruolo sociale, intellettuale
o lavorativo, erige un rigore assoluto tra le categorie intellettuali od
emotive, ma proprio perché la realtà s'è detto essere onniperasiva, la
ricerca della verità attingerà da più ambiti nel filosofo, quanto nel teologo
o nell'uomo comune del popolo. In tutti loro la necessità del pane è pari a
quella degli affetti e del sentimento, perciò nulla più del poetico soddisfa
questa fame interiore. Va inoltre detto che la concezione comune (per leggi
di consuetudine) della poesia e del poetico è un'edulcorazione paradisiaca
che soddisfa la felicità della mente, quanto la rilassatezza del corpo e
quindi la durezza del realismo (frainteso nel quotidiano) cede il posto a
poesia e poetico quando essi intervengono rivelando peraltro un nostro
certo bisogno edonista. Se infatti anche potessimo riformulare
definitivamente realtà o quotidiano che siano con i mezzi della ragione,
della filosofia o della teologia, non ci asterremmo dal pennellarli con una
connotazione poetica. Non siamo disposti a rinunciare totalmente alla
poesia, alla follia delle muse, quanto alla forza della ragione, si dia essa o
per la strada della filosofia o della religione. Ciò ci esplica in quanto
animali simbolici, unificatori di piani dicotomici -apparentemente- quali
sono la ragione e la follia. Il simbolo è proprio ciò che contraddistingue la
forma mentis dell'essere umano rispetto alle altre creature ed in ragione di
questo abbiamo accumulato la ricorsività del pensiero e la stratificazione
della cultura, senza però superare la metacategoria in sé del simbolismo.
Σύμβολον in greco è “accostamento”, “segno di riconoscimento”,
“simbolo”, derivazione di συμβάλλω, cioè “mettere insieme, far
coincidere”, comparativo di σύν “insieme” e βάλλω “gettare”. Il suo
contrario è διάβολος, propriamente “calunniatore” (der. di διαβάλλω
“gettare attraverso, calunniare” da cui deriva ovviamente il diavolo. Si
noti però che il prefisso διά, δια- indica anche diversità o separazione6.
Entrando quindi nella linguistica giudaico-cristiana procuriamoci un nesso
tra diavolo e simbolo, ossia separazione, accostamento e unificazione, così
come il sasso e l'albero, la quercia, di cui parlavo pocanzi.
E' inevitabile riferire le nostre categorie di pensiero al substrato giudaico-
cristiano, essendo il cristianesimo, così come l'ebraismo, non solo una
religione, ma un intero sistema di civiltà del pensiero. Riecheggiano in noi
le antiche parabole bibliche, appunto come metafore, di un certo
insegnamento. Se si ha fede saranno episodi accaduti realmente, se non la

6 Tutte le etimologie da Enciclopedia Treccani.

6
si possiede pur sempre validi insegnamenti simbolici di una certa morale.
Il perno di tutte le questioni umane è definitivamente il Bene ed il Male
che l'uomo conobbe con la cacciata dal Paradiso Terrestre, avendo colto il
frutto proibito dall'albero della conoscenza. Sino a quel momento i proto-
genitori dell'umanità non conoscevano separazione di giudizio tra il bene
ed il male, rendendoli questo beati, alla luce di una incoscienza limbica
che poi si frantumò al sopraggiungere della autocoscienza e della
conoscenza. Da allora tutta l'umanità ebraicizzata o cristianizzata ha
tentato la riconciliazione verso quella perfetta unità in Dio dalla quale ci
siamo separati per hybris (tracotanza), indotta dal diavolo, dal serpente
tentatore, ma sicuramente in altre culture esistono miti analoghi, con
metafore o simbologie simili. L'albero è metafora della vita,
dell'innalzamento dell'uomo materiale verso il cielo, della proliferazione
della conoscenza e della virtù. Il sasso è una verità atavica, simbolo della
forza, base da cui partire7, oggetto che incontra lo strisciare del serpente,
ma anche sulla quale si eleva la casa di Dio, tra cristiani quanto tra ebrei
(Giacobbe). Tornando all'albero, se però questo nel cristianesimo una volta
evocato nella parabola biblica e traslato nel legno su cui fu crocefisso
Gesù Cristo si cristallizza in un simbolo contemplativo, nell'ebraismo
mantiene una funzione dinamica quale percorso attivo di elevazione
spirituale per gli iniziati alla Cabala. L'albero sefirotico (Albero della Vita
per alcuni) dei cabalisti è il simbolismo d'accesso alla conoscenza del
piano immateriale di Dio verso la manifestazione di Egli nel mondo
attraverso dieci Sĕfirōt (emanazioni di luce e strumenti) che dal piano più
elevato della prima sephirah Keter (cranio, volto, corona e Divino Nulla)
giunge sino alla base Malkuth, sfera della realtà materiale. Malkuth ha
numerosi appellativi tra cui la Regina, la Madre Inferiore, Porta del
Giardino dell'Eden, la Porta della Morte, ed è rappresentata come una
giovane donna seduta su di un trono e quindi è una regnante. Seppur il
riferimento di Malkuth sia la Iside velata degli egizi, sarà per noi facile
7 Matteo 16,13-20. “E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le
potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò
che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei
cieli”. Così sempre Matteo 21, 33-43: E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: La
pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal
Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi (Tehillim Sal 118/117,22-23)? Perciò io vi dico: a voi
sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca frutti”. Si rammenti che
quest'ultima parabola è esposta nell'ambito di vicende inerenti a contadini e nello scenario di
una vigna. Quindi la pietra, nel suo simbolismo, è accostata ad un albero, quale altrettanto
simbolo di vita, come nella prima parabola di innalzamento al cielo ed alla riunificazione al
divino. Si evidenzia pur sempre il significato delle parabole evangeliche da una traduzione su
base metaforica ed interpretativa.

7
intuire una netta corrispondenza con la Beata Vergine (un altro appellativo
di Malkuth è infatti anche la Vergine, o la Sposa [di Dio]) cristiana, che è
colei che schiaccia con il suo calcagno la testa al serpente. Se dare
analogia tra la parte anatomica del calcagno ad un sasso può apparire
forzato per alcuni, nessuno obietterà sull'evidenza delle altre
corrispondenze, aggiunto inoltre che è propria della dottrina cabalistica la
figura del Serpente che si attorciglia sui Sentieri quale simbolo
dell'iniziazione alla consapevolezza della propria “caduta”, mentre
Malkuth è l'inizio della risalita. “Il peccato di Adamo consisté
nell'interrompere il rapporto tra il regno e le altre piante”. Così scrive
Giovanni Pico della Mirandola nelle sue conclusioni cabalistiche8, e nella
Oratio: “E, per non limitarci ai nostri padri, consultiamo il patriarca
Giacobbe, la cui immagine risplende incisa nella sede della gloria. Ci
istruirà il padre sapientissimo, che dormiva nel mondo terreno e vegliava
in quello superiore. Ma ci insegnerà tramite una figura, giacché così tutto a
essi si accadeva che vi sono scale che si protendono dal fondo della terra al
sommo dei cieli, nelle quali si distingue una lunga serie di gradini, sulla
cui sommità siede il Signore, mentre gli angeli contemplanti vi salgono e
vi discendono in modo alterno. Ma se noi, volendo imitare la vita degli
angeli, dobbiamo fare lo stesso, vi chiedo: chi oserà toccare le scale del
Signore, o con piede impuro o con mani non monde? Secondo i misteri, è
vietato che chi è impuro tocchi ciò che è puro. Ma quali sono questi piedi?
Quali queste mani? Il piede dell’anima è senza dubbio quella sua parte più
vile che si appoggia alla materia come al suolo terreno; quella facoltà
(dico) che alimenta e nutre, fomite di libidine e maestra di mollezza
sensuale. E perché non chiamare mani dell’anima la sua parte irascibile, la
quale, militando a servizio del desiderio, per esso combatte e come
predatrice rapina sotto il sole e nell’arena pubblica quello che il desiderio
divora riposando all’ombra? Per non essere respinti da quelle scale come
profani e impuri, laviamo con la filosofia morale come nella corrente di un
fiume queste mani, questi piedi, cioè tutta la parte sensibile in cui hanno
sede le lusinghe corporee che trattengono l’anima, come si suol dire,
obtorto collo. Ma neppure questo basterà, se vorremo divenire compagni
degli angeli che percorrono salendo e discendendo la scala di Giacobbe,
salvo che non siamo ben preparati e istruiti a essere promossi debitamente
8 G. Pico, 47 Conclusioni Qabbalistiche secundum secretam doctrinam sapientum hebraeorum,
parte seconda, IV; pg. 61. In nota: “Pico scrive truncatio regni, ossia “separazione della sefirah
malkuth (che significa appunto “regno”) “a ceteris plantis”, cioè dal resto dell'albero sefirotico.
Il peccato originale insomma è inteso quabbalisticamente non come peccato di conoscenza, di
curiosità, quanto di violazione dell'unità del sapere che l'albero sefirotico poteva consentire”.
Paolo Edoardo Fornaciari, Mimesis i Cabiri 2003

8
di grado in grado, a non uscire mai dal percorso della scala e ad affrontare
i movimenti reciproci. E quando avremo raggiunto questo punto con l’arte
del discorso o del ragionamento, animati ormai dallo spirito cherubico,
cioè filosofando secondo i gradi della natura, tutto penetrando dal centro al
centro, ora discenderemo smembrando con violenza titanica l’uno nei
molti, come Osiride; ora saliremo radunando con forza apollinea i molti
nell’uno, come le membra di Osiride, finché riposando nel seno del Padre,
che è al sommo della scala, diventeremo perfetti nella felicità teologica” 9.
Ho riportato il lungo passo per intero per mostrare quanto sia evidente nel
filosofo mirandolano la cultura esoterica cabalistica nei suoi simbolismi
sefirotici intrecciati con l'ermetismo della scala philosophorum e la scala di
Giacobbe, oltre ovviamente ai misteri di Osiride, come appunto compagno
di Iside dalla quale trae ispirazione sia la Vergine Maria che la sephirah
Malkuth. Come è di Giacobbe la moked (pietra) di Israele è pure la scala
nel cui primo gradino c'è un drago del peccato che bisogna calpestare, cioè
ovviamente il serpente, il diavolo. Quando Pico scrive “il padre
sapientissimo, che dormiva nel mondo terreno” allude probabilmente a
Malkuth che è materia inanimata attivata da Yesod10, giovane e bellissimo
uomo, il cui simbolo sono i sandali, cioè l'indumento che consente di non
lordare il piede con la terra immonda. Yesod rappresenta la terza sfera del
ternario più basso delle Sĕfirōt e nella quale tutte le altre si riassumono per
essere accolte nel vuoto di Malkuth. Egli è la Verità. Yesod è anche
simbolo dell'energia sessuale e del desiderio (“libidine e mollezza
sensuale” nelle parole di Pico) che va posto in equilibrio. Così quindi
Malkuth è l'utero che accoglie il coraggio della Verità espresso da Ysod
(ma mediato dall'intelletto logico-razionale della sephirat Hod e
dall'emotività Netzach) e consente la scalata verso la riunificazione con
Dio, dopo aver vinto la “calunnia” del serpente. La parola ebraica che
rappresenta la conciliazione di cuore, cervello e fegato, ribaltandone le
lettere produce la parola “khelem” che significa “insultare” o
“svergognare”, quindi anche sia la calunnia del serpente, sia
l'accostamento alla sua stessa bassezza.
Adamo deve ricollocarsi alla sesta Sephirat, al centro dell'Albero della
Vita, nello stampo glorioso dell'Adam-Qadmon prima della Creazione,
archetipo dell'uomo perfetto e androgino, medium tra l'eterno ed il
divenire, il materiale e l'immateriale (“tutto penetrando dal centro al centro
[…] diventeremo perfetti nella felicità teologica” -Pico). Qui concludo la
riflessione sul cabalismo pichiano. Si sono riscontrati molti contenuti
9 G. Pico, Oratio 76-87 § 16
10 Si noti l'assonanza con Joshua e poi Gesù.

9
coincidenti tra le varie culture delle civiltà passate e il pieno sincretismo
della cultura umanistica di Giovanni Pico.
Giungendo ormai al termine voglio però prima soffermarmi sul filosofo
Baruch Spinoza. Sento la necessità di menzionarlo perché per il suo
pensiero può essere giustamente collocato tra i “dissidenti” della filosofia e
con Giovanni Pico e Averroè ha in comune il fatto di aver subito
l'allontanamento della propria comunità di appartenenza. Pico infatti fu
accusato di eresia e dovette riparare in Francia per non rischiare la morte,
Averroè fu condannato ed esiliato, Spinoza scomunicato dal collegio
rabbinico. Un certo detto dice “tanti nemici, tanto onore” e se questo può
essere condiviso, non ripaga però di un quiete in vita, né garantisce
matematicamente una fama postuma. Nonostante l'ordine di non avere
rapporti, parola o comunicazione con Spinoza, egli nutrì da dopo la
scomunica (avvenuta a ventiquattro anni, ossia un anno dopo l'età del Pico
alle sue accuse di eresia) un intenso rapporto con filosofi ed eruditi
dell'epoca, senza però godere di questo suo prestigio intellettuale, dovendo
infatti mantenersi sino alla morte come ottico. Fu proprio la polvere di
vetro a farlo ammalare ed infine uccidere. Ma sicuramente la polvere dei
dogmi e del potere temporale della religione (extra-cattolica) che si posava
abbondantemente sulle coscienze e gli intelletti dei contemporanei non gli
consentirono di professare liberamente il suo pensiero e di respirare. Il suo
immanentismo panteista non era tollerabile dal creazionismo giudaico-
cristiano, così come l'accettazione della limitatezza umana che lui stabiliva
simile a quella di Dio stesso, negando il libero arbitrio (in questo è
contrario a Pico), ma che riscattava con la volontà di pervenire alla
conoscenza mediante la ragione, la geometria e la matematica. Nell'attrito
tra la sua unicità della sostanza di Dio e il dualismo di Descartes noi
dobbiamo oggi scorgere la propulsione per la scienza moderna, l'incentivo
alla tecnica e lo sviluppo sulla conoscenza della biologia dell'uomo e delle
altre creature. Ciò che per secoli è rimasta speculazione o addirittura
oggetto di spregio, in Spinoza trova un motivo di interesse: il corpo fisico.
Da contenitore della verità, l'anima, il corpo diventa luogo degli affetti e
dei processi del Dio immanente ed il suo studio ed osservazione, in senso
pragmatista, ne esaltano la sacralità e la dignità. In questo, la dignità, è
invece vicino a Pico e così come a lui e ad Averroè trova un punto di
unione tramite Aristotele. Che poi oggi il pragmatismo abbia superato la
necessità di una dignità umana, quanto messo da parte il meglio che ogni
speculazione idealista possa dare, è un fatto che spetta a noi contemporanei
risanare, magari rileggendo Spinoza e capire che la nostra deriva
tecnocratica non è meno oscurantista di quel potere che censurò lui, come
10
gli altri due. Il pensiero libero è necessariamente scandaloso per sostanza,
ma è sempre calibrato da un sentimento di benevolenza se accetta di
riunire in sé ogni ispirazione umana, ogni afflato di conoscenza e libertà,
guardando oltre le differenze che si ergono tra noi di un'unica umanità solo
per ragioni di descrizione della Verità o linguistiche. Torno qui ora quindi
per terminare al valore poetico ed equipollente del linguaggio.
In questo scritto abbiamo trattato prevalentemente di alcuni autori in seno
alla cristianità, all'ebraismo ed all'islamismo. Tanti e tali sono già di per sé
gli intrecci tra le culture, le dottrine, i misteri iniziatici e le filosofie del
solo bacino europeo e mediorientale che non mi è parso opportuno
contemplare le altre civiltà come quella asiatica, americana, africana o di
altri luoghi del mondo. E' mia innanzitutto la priorità da qualche tempo di
sanare i conflitti entro i miei recinti culturali o quelli più prossimi che per
ragioni storiche si sono intersecati ai miei quali di europeo ed occidentale.
Intuisco spinozianamente la buona volontà dei migliori cuori e menti di
altri di tutto il mondo di pervenire a quella stesso progetto di Concordia e
Pace Universale a cui aspirava il mio antico concittadino Giovanni Pico.
L'attuazione di tale suo proposito non si è ancora data, ma come lui stesso
disse sarà compito dei posteri pervenire alla Concordia. Ecco quindi le
ragioni di questo mio scritto, che con umiltà rendo pubblico ai fini di un
dibattito, che mi auguro sia alzato non solo dai sapienti, ma anche dal
popolo, quale inedito compartecipe della riformulazione della civiltà
umana. I tempi e la parabola della Storia giunta ormai alla fine lo esigono.
Allo stesso modo è tramite queste mie poetiche parole la volontà di
ricordare che l'immanenza e manifestazione di Dio -comunque egli lo si
voglia chiamare- noi la dobbiamo riconoscere nelle vite di chi ancora non
ha parole per esprimere il suo pensiero, ma che con la sola presenza
testimonia il misterioso miracolo della vita: i bambini, di ogni tempo e
luogo. Siano essi metafora vivente del paradiso perduto, dell'unità col
divino che abbiamo abbandonato, dell'innocenza che noi peccatori
abbiamo calpestato. Amen

“La Pace è più importante della Verità” - François-Marie Arouet, Voltaire

Alessandro Vaccari, Mirandola 6 settembre 2022

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FONTI E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

-https://lunadinverno .it
http://www.sciacchitano.it/.../Riforma%20dell'intelletto...
- www.kabbalahpratica.it
- https://moked.it/blog/2018/11/14/pietra-2/
-Wikipedia;
- Enciclopedia Treccani;
- https://esplosioneceleste.it/simbolismo-scala
- file:///C:/Users/Utente/Desktop/Introduzione_Alla_Kabbalah.pdf
- https://core.ac.uk/download/pdf/41181305.pdf Modelli di episteme neoplatonica nella Firenze del
'400: le gnoseologie di G. Pico della Mirandola e Marsilio Ficino; dottorato di ricerca in filosofia e
antropologia del Dottorando Simone Fellina;
- “Itineraria Mentis in Pacem” Pax e Concordia nell’itinerario mistico di Giovanni Pico della
Mirandola; Corso di Laurea Specialistica in Filosofia e Forme del Sapere del Dottorando Marco
Matteoli;
- La poesia come politica di verità. Una lettura del commento di Averroè alla Poetica di Aristotele,
Francesca Forte;
-https://riviste.unimi.it/.../DoctorVir.../article/view/49/75 Conoscenza e metafora in Averroè,
Massimo Campanini;
- Averroè, UTET 1997;
- Plotino, UTET 1997;
- Antico e Nuovo Testamento;
- Princeps aliorum’ and his followers: Giovanni Pico della Mirandola on the ‘Astrological Tradition’
in the Disputationes adversus astrologiam divinatricem, da Renaissance Studies Vol. 32 No. 4 di
Ovanes Akopyan, University of Warwick/University of Innsbruck;
- Le interpretazioni del pensiero di Giovanni Pico, di Eugenio Garin dal Convegno Internazionale
tenutosi a Mirandola (MO, Italia) tra il 15 e il 18 settembre 1963;
-Giovanni Pico della Mirandola, Conclusioni Cabalistiche, a cura di Paolo Edoardo Fornaciari,
Mimesis i cabiri 1997, 2003;
- Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate;

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