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Sbobinatore: Adriana Cieri 11/10/2021

Sbobinatore: Antonio Calvio Immunologia, Lezione 02


Revisore: Valentina Filippi Prof. Stefano Salvioli

La registrazione inizia a lezione già cominciata.

[…] immune perché ho sviluppato una memoria immunologica. Quindi per fare questo si parte dal
presupposto che io debba avere un sistema immunitario competente e che funziona.
Viceversa, l’immunità passiva è una protezione immunologica che io ottengo senza dovermela
produrre, cioè che mi viene data dall’esterno. Quindi mi viene somministrato dall’esterno qualcosa
che mi dà una protezione di tipo immunologico. Che cosa sono? Di solito sono anticorpi preformati
presi o da un animale infettato o da un altro paziente a sua volta infettato, oppure li posso avere
anche prodotti in laboratorio. Se parliamo di animali o individui geneticamente identici potrei
pensare di trasferire anche dei linfociti. Solitamente si trasferiscono anticorpi. Questo tipo di
immunità passiva non ha memoria: una volta che gli anticorpi si sono esauriti, perché sono
molecole e quindi hanno una loro emivita, non ce ne sono più, quindi io questa protezione l’ho
persa. Se io non guarisco nel frattempo o se torno a incontrare di nuovo il patogeno sono di nuovo
esposto.
Questo perché si dovrebbe fare? Ci sono diversi casi: il primo caso è se un paziente è
immunodepresso, quindi non ha la possibilità di produrre i propri anticorpi. In questo caso io gli do
una protezione passiva dall’esterno fornendogli degli anticorpi umani provenienti da un donatore.
Ci sono persone che hanno bisogno di questo tipo di somministrazioni cronicamente e quindi di
tanto in tanto io devo dare una somministrazione di anticorpi provenienti dall’esterno perché queste
persone non sono in grado di produrseli da sole. Quindi io quando devo fare questa
somministrazione? Intanto devo sapere quanto dura l’emivita di una popolazione di anticorpi.

Gli anticorpi sono suddivisi in diverse classi e ogni classe ha un’emivita diversa. Però quelli che
durano di più sono anche gli anticorpi principali circolanti nel sangue che hanno un’emivita di 3-4
settimane. Quindi questo vuol dire che io più o meno una volta al mese devo somministrare una
certa quantità di anticorpi che si calcola sulla base del peso corporeo della persona, perché dovete
considerare che metà di questi anticorpi esce dal corrente circolatorio e va nei liquidi interstiziali.
Quindi bisogna basarsi sul peso corporeo e sulla concentrazione di anticorpi che io voglio che sia
ottenuta in questo paziente. Io faccio un calcolo, capisco quanti ne devo dare e faccio questa
somministrazione. Questi anticorpi vengono da un pool di donatori sani che vivono nello stesso
ambiente del paziente e che quindi sono esposti grossomodo agli stessi patogeni.

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Questo tipo di protezione è una protezione efficace? Così così, nel senso che io do un pool di
anticorpi che mi darà una copertura abbastanza generica poiché io non so quale sarà il patogeno che
colpirà il paziente, quindi gli do tanti anticorpi sperando che ci sia anche quello buono in mezzo.
Tutti gli anticorpi sono diversi, non basta prendere degli anticorpi per essere protetti da qualunque
cosa. Ci vuole l’anticorpo specifico e io non so se in questo pool c’è quello che mi serve, però è
meglio che niente. Quindi è una protezione che in un certo qual modo assomiglia ad una protezione
innata: io gliela do prima, senza sapere a che cosa andrà incontro questo paziente. La cosa è tornata
un po' in auge. Questo tipo di concetto di immunità passiva, a parte il discorso degli
immunodepressi, si faceva di più in passato quando non c’erano gli anticorpi monoclonali,
antibiotici e farmaci antibatterici e quindi per malattie particolarmente gravi e letali, tipo la difterite,
si utilizzava questo tipo di terapia con la somministrazione di un siero immune ottenuto da un
animale immunizzato contro la tossina difterica. In questo caso si utilizzava un siero di cavallo.
Questo tipo di pratica aveva anche una controindicazione [che vedremo quando faremo con la
professoressa Capri le immunopatologie]: aveva la possibilità di scatenare una reazione da
ipersensibilità. Dopo alcune somministrazioni di questo siero di cavallo il paziente mostrava una
infiammazione acuta con febbre e dolori articolari che era transitoria, il paziente poi guariva. Ma
questo è dovuto a che cosa? Al fatto che il siero di cavallo non è umano e quindi, al di là degli
anticorpi, ha degli antigeni, le proteine del siero di cavallo, che venivano riconosciute dal sistema
immunitario del paziente e quindi dopo un po' il paziente si immunizzava contro queste proteine.
Quindi quando veniva somministrato il siero di cavallo si formavano molti complessi fra l’antigene
delle proteine di cavallo e gli anticorpi del paziente. L’organismo non fa in tempo a degradare
propriamente questi immunocomplessi che quindi precipitano in siti anatomici impropri dove
danno origine ad una reazione infiammatoria locale e transitoria (poiché quando questi
immunocomplessi non ci sono più perché sono riuscito un po’ alla volta ad eliminarli, il paziente
non darà più questi sintomi). Questo è stato un modello sperimentale per capire un tipo particolare
di malattie da ipersensibilità che sono le ipersensibilità chiamate di tipo terzo o da
immunocomplessi. In questo caso era una malattia che è venuta per un trattamento medico. Adesso
non si fa più perché abbiamo il vaccino contro la difterite.

Il discorso dei pazienti immunodepressi non si fa praticamente più, tranne delle situazioni in acuto
che forse voi potete immaginare quali sono. Quando secondo voi potrei utilmente dare un’immunità
passiva e non posso fare diversamente? Qualcuno di voi va a fare trekking in montagna o
passeggiate nei boschi? Nei boschi ci sono le vipere. Se ti morde un animale velenoso hai tempo di
aspettare due settimane che il tuo organismo faccia un’immunità attiva nei confronti del veleno
della vipera? No! Devo dare una protezione. Che cosa è questa protezione? Altro non sono che
anticorpi contro le molecole del veleno della vipera e anche in questo caso si tratta di un’immunità
passiva. La faccio quando ho bisogno di una difesa immediata, non posso aspettare. Caso
gravissimo, per altro se vi capita non fatelo, aspettate di essere al pronto soccorso con qualcuno che
vi possa monitorare perché essendo un siero animale potrebbe essere che la persona che è stata
morsa dalla vipera ha una reazione anafilattica nei confronti delle proteine del cavallo e va in shock
anafilattico e muore per quello e non per il veleno della vipera. Quindi questi sieri animali sarebbe
meglio farli quando c’è un medico che ti può monitorare e, se vede che stai andando in shock
anafilattico, ti fa un’adrenalina e ti recupera. Quindi delle due è meglio pulire la ferita, farla
sanguinare, stringere a monte della ferita con un laccio o una corda o una cintura e correre dove c’è
un medico. Nell’adulto di solito prima di arrivare ad una situazione grave può passare qualche ora
quindi di solito si fa in tempo.

Covid-19

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Per il Covid-19 dall’anno scorso c’è stata una possibilità di trattarlo con il siero iperimmune di
pazienti guariti. Purtroppo uno dei medici che hanno fatto questo tipo di studio si è suicidato. È
stata fatta una raccolta di siero da pazienti guariti che quindi hanno gli anticorpi per il Covid-19.
Se noi li diamo ad un altro paziente in linea teorica dovrebbe dare un’immunità passiva. Il principio
è giusto, in alcuni casi ha funzionato.
Purtroppo però ci sono dei limiti molto consistenti a questo tipo di terapia:
1. Il primo è che si è visto che purtroppo non funziona su tutti, cioè ha un’efficacia solo se
viene dato nel momento giusto dell’infezione: se l’infezione è già avanzata l’effetto non è
particolarmente buono, cioè non funziona così tanto come ci si sarebbe aspettati;
2. Un altro problema è l’approvvigionamento: abbiamo bisogno di persone guarite che hanno
sviluppato gli anticorpi giusti, ne hanno fatti tanti e che sono desiderosi di donare. Quanti
sono quelli che rispondono a questa serie di caratteristiche? Di quanto siero ho bisogno per
curare una persona? Facciamo un calcolo e vediamo che da una trasfusione possiamo
ottenere una quantità di siero con cui faccio due somministrazioni. Qui stiamo parlando
della possibilità di curare decine di migliaia di persone. Quindi io dovrei trovare decine di
migliaia di guariti con gli anticorpi giusti che hanno voglia di donare e comunque da una
trasfusione faccio un massimo di due somministrazioni che vanno tutte allo stesso paziente.
Quindi c’è proprio un problema di disponibilità.
Quindi questa che era una buona idea dal punto di vista teorico, purtroppo dal punto di vista pratico
non si è rilevata una strada percorribile. E comunque c’è stato un ritorno di fiamma per questo tipo
di immunità passiva.

Come tutta la biologia, anche


l’immunologia è diversa tra gli
uomini e le donne. È chiaro che le
differenze non sono così
macroscopiche da dire che le
persone le curo in modo diverso;
grossomodo i meccanismi sono
simili, ma agiscono con intensità
diverse. Questo può rendere
ragione di come mai malattie
diverse colpiscono
prevalentemente un sesso piuttosto
che un altro e del fatto che ci sia
una sopravvivenza diversa
soprattutto in età avanzata tra
uomini e donne.

Nell’immagine in alto vengono elencate tutta una serie di differenze tra immunità innata e adattativa
fra uomini e donne dall’età infantile fino all’età adulta. Mi soffermo un attimo qui perché questo è
molto interessante: le reazioni infiammatorie, che sono basate di fatto sulla risposta immunitaria,
sono più alte nei maschi, mentre nelle femmine aumenta la IL-10 (interleuchina 10), una di quelle
citochine prodotte dai linfociti T. Si tratta di un messaggero che trasmette un segnale e in
particolare la IL-10 è nota per essere antinfiammatoria. Quindi l’infiammazione è più alta nel
maschio; IL-10 che invece è antinfiammatoria tende ad essere più alta nelle donne. Quindi
sembrerebbe che le donne, soprattutto in età anziana, abbiano un’intensità di risposte infiammatorie
inferiore rispetto ai maschi.

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Questo è importante perché [lo vedremo quando parleremo di immunosenescenza] tutte le malattie
età-associate non trasmissibili, quelle che vi elencavo la volta precedente (es. malattie
cardiovascolari, diabete di tipo 2, molti tumori, la sarcopenia, la depressione maggiore, l’artrosi)
hanno tutte una componente infiammatoria, compreso anche il Covid-19.
Il Covid-19 generalmente ci ammazza perché sono le nostre reazioni infiammatorie eccessive che
fanno un danno molto elevato a livello degli organi (cuore e polmoni sono gli organi principalmente
colpiti) e se io faccio un danno a livello di questi organi è chiaro che non va bene. Sapete quale è la
proporzione maschi/femmine tra i morti di Covid-19? Sono soprattutto gli uomini [a morire di
Covid-19]. Vedete che torna la cosa. Quindi una risposta violenta con una reazione infiammatoria
da un lato può fare bene se l’infiammazione è la risposta che io cerco e allora il maschio sarebbe
favorito nella sopravvivenza; ma se invece l’infiammazione può fare un danno e non è la risposta
migliore che io posso dare, allora le donne sono favorite, cioè chi fa meno infiammazione.

Complessivamente comunque l’infiammazione aumenta con l’età sia nei maschi che nelle donne.
Nelle donne rimane un po' più bassa ma comunque aumenta in tutti e due i sessi e questo fenomeno
è stato indicato nel nostro laboratorio con il temine ‘inflammaging’, che è una crasi tra due parole
inglesi (‘inflammation’ ed ‘aging’, che vuol dire ‘invecchiamento’). Questa parola l’abbiamo
proprio inventata nel nostro laboratorio e se voi guardate adesso in letteratura scientifica (PubMed o
altri motori di ricerca) e digitate la parola ‘inflammaging’ vedete che si aprono fuori un sacco di
lavori. Cioè il concetto è passato e adesso si considera che proprio l’infiammazione sia un motore
importante per lo sviluppo di tutte queste malattie età-associate e dell’invecchiamento in generale.
Questo per quanto riguarda le differenze uomo-donna riguardo le risposte immunitarie.

Le differenze uomo-donna ci sono per tutte le cose, anche per l’apoptosi. Le cellule hanno un
sesso, sono o XX o XY. Quindi abbiamo una cellula con un corredo maschile e una cellula con un
corredo femminile. Quindi se io prendo delle cellule da una donna e delle cellule da un uomo e poi
le guardo separate, in coltura, una volta che sono fuori dal corpo non ci pensi più al sesso. Ma in
verità c’è ancora perché quelle che vengono dalla donna sono XX e quelle che vengono dall’uomo
sono XY, quindi hanno corredi genetici diversi. Le cellule XY vanno più facilmente in apoptosi; le
cellule XX ci vanno di meno, sono più resistenti. Perché secondo voi ci dovrebbe essere questa
differenza? Ci dovrebbe essere il dosaggio genico, quindi uno dei due X dovrebbe essere stato
inattivato e quindi alla fine dovrebbero avere comunque un dosaggio di cromosomi identico. Perché
sono diverse? Perché in realtà il secondo cromosoma X non viene inattivato completamente, ci sono
delle zone che sfuggono all’inattivazione e quindi le cellule XX hanno in realtà per alcuni geni un
dosaggio doppio rispetto alle cellule XY. E non solo di geni, in realtà in queste zone ci sono altre
informazioni molto importanti che non sono solo geni, ma sono sequenze che codificano per RNA
non codificanti (RNA che non codificano per nessuna proteina, ma hanno una attività regolatoria).
Quindi se nelle zone che sfuggono all’inattivazione dell’X ci sono dei long non coding RNA o dei
micro RNA, la donna ne ha il doppio. Quindi la regolazione svolta da questi RNA, che è su
centinaia di geni, è molto diversa rispetto a quella dell’uomo. Quindi ci sono vari motivi per cui
cellule maschili e cellule femminili si comportano diversamente.

Domanda: C’è un’inversione nella tendenza a dare risposte infiammatorie nella pubertà e poi
nell’età adulta? Questi sono dati sperimentali. Sì, ci sono queste tendenze, però sono dati che
andranno poi confermati nel futuro da altri studi. Sì, ci sono momenti dell’età in cui queste tendenze
sembrano andare in una direzione e poi, in un periodo di età successivo, andare in un’altra direzione
opposta. Qual è la ragione? In molti casi è la presenza degli ormoni sessuali, quindi la donna fertile
ha una serie di ormoni che modificano anche le risposte immunitarie e poi quando perde questi
ormoni la situazione può cambiare. Comunque sono tutti dati che vanno poi ulteriormente indagati e
confermati.

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Il messaggio che volevo darvi con quella slide [vedi immagine precedente] è che ci sono delle
differenze uomo-donna che vanno considerate, quindi non è detto che la donna abbia delle risposte
uguali a quelle dell’uomo.

Cellule del sistema immunitario

Vediamo quali sono le cellule che compongono il nostro sistema immunitario. Innanzitutto da dove
vengono queste cellule?

Partiamo da cellule staminali emopoietiche che nella vita adulta sono localizzate nel midollo
rosso, il midollo osseo delle ossa piatte, e da qui si originano tutte le cellule del sistema
immunitario, oltre che le altre componenti del sangue, quindi globuli rossi e piastrine.

In fase fetale e peri-natale l’emopoiesi si svolge in altri organi che vicariano la funzione che poi
assumerà il midollo osseo e cioè strutture embrionali come il sacco vitellino e, durante i primi mesi
della vita del feto, l’emopoiesi avviene nel fegato e nella milza. Poi al momento della nascita e per
tutto il resto della vita questa funzione verrà svolta dalle cellule staminali che si trovano nel midollo
osseo e in particolare si manterrà nella vita adulta nelle ossa piatte, andando invece a diminuire fino
quasi ad azzerarsi in altre ossa lunghe come il femore e la tibia. Quindi questa è l’origine.

Avremo poi uno sviluppo molto complicato che riguarda


il processo di maturazione delle cellule della serie
bianca e quindi parliamo in questo caso di organi linfoidi
generativi o primari. L’organo generativo o primario per
eccellenza è il midollo osseo. C’è un altro organo che
viene considerato primario pur non essendo di fatto un
organo generativo: il timo. Il timo si trova dietro lo
sterno, sopra al cuore. In realtà i linfociti originano nel
midollo osseo e poi vanno a maturare nel timo, dove
prenderanno il nome di linfociti T. I linfociti T si
chiamano così perché svolgono una parte importante del
loro processo maturativo nel timo. Quindi midollo osseo e
timo sono considerati gli organi linfoidi primari.

Poi abbiamo una serie di organi e tessuti linfoidi chiamati


secondari. Qui troviamo solamente linfociti che hanno già

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compiuto il loro processo di maturazione, sono già cellule mature pronte per fare la loro funzione.
Sono linfonodi, milza e tessuti linfoidi associati alle mucose (non hanno una struttura anatomica
particolarmente riconoscibile, ma c’è un ammasso di cellule della serie bianca, in particolare di
linfociti, che si trovano generalmente associati alle mucose, come la mucosa intestinale e la mucosa
delle vie respiratorie).

In realtà cellule singole del sistema immunitario, non ammassate insieme, sono presenti in tutti i
tessuti di tutti gli organi. Quindi oltre a questa suddivisione che viene fatta per esigenze didattiche
tra organi linfoidi primari e secondari, ci sono anche molti linfociti e cellule che hanno un’attività di
tipo immunologico diffuse nei tessuti e nei parenchimi di tutti gli organi. Questa è una realtà che è
stata ed è tuttora sottostimata: noi non sappiamo di preciso quanti ce ne sono e che importanza
hanno, ma verosimilmente queste cellule residenti sono molto importanti. In molti organi troviamo
proprio dei linfociti. Per esempio nella mucosa intestinale, al di là delle Placche di Peyer che hanno
una struttura riconoscibile, ci sono anche dei linfociti T che sono inframezzati tra le cellule
dell’epitelio della mucosa.

Ma il gruppo di cellule più diffuso nei parenchimi dei nostri organi sono cellule ad attività
macrofagica, sono dei fagociti. I macrofagi in realtà possiamo suddividerli in due grandi gruppi:
1. quelli che derivano dai monociti circolanti;
2. quelli che invece sono già nei tessuti ed erano lì già da prima, sono residenti.
Ci sono macrofagi dappertutto, anche nel cervello. Sicuramente avrete sentito che il cervello e
anche altre zone sono zone di privilegio immunologico, cioè lì non possono avvenire delle reazioni
immunitarie perché il danno che potrebbero fare queste reazioni è superiore al vantaggio. Quindi
queste sono zone in qualche modo libere. Non è del tutto vero: i macrofagi ci sono, la microglia del
cervello sono proprio cellule di tipo macrofagico. Nel fegato troviamo le cellule di Kupffer che
sono dei macrofagi; ci sono macrofagi alveolari nei polmoni; ci sono i macrofagi del mesangio nel
rene. Qualsiasi tessuto ha la sua componente macrofagica. Perché? Perché ci serve e ci serve non
solo per mangiare qualche cosa che viene dall’esterno, per fare una prima linea di difesa, ma ci
serve soprattutto per eliminare le cellule morte del nostro organismo. Le cellule che muoiono non
possono rimanere lì, ci vuole una componente macrofagica.

Il professore tralascia l’emopoiesi che tanto abbiamo già visto ampiamente.

Nel midollo ci sono diversi tipi cellulari, non solo le cellule staminali: ci sono cellule della serie
bianca a diversi stadi di sviluppo, i linfociti e cellule mature; c’è una discreta quantità di

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plasmacellule, cioè di linfociti B maturi e attivati a produrre anticorpi. Le plasmacellule non le
trovate in circolo o nei tessuti, le ritrovate largamente in strutture come i linfonodi, quindi organi
linfoidi secondari, oppure in organi più complessi come la milza o il midollo osseo.

Primo concetto importante sulle risposte immunitarie: al contrario dei linfociti T che girano per il
nostro corpo e vanno a localizzarsi una volta che si sono attivati dentro al tessuto dove c’è la
necessità della loro presenza, quindi dove c’è un’infiammazione o un’infezione, i linfociti B no, se
ne stanno al sicuro nelle strutture linfoidi, non li trovate in circolo e non li trovate nei tessuti. Mi
riferisco ai linfociti B che sono stati attivati a plasmacellule che sono quelli che fanno l’azione
immunologica. Perché chi è che fa l’azione immunologica in questo caso? Sono gli anticorpi. Gli
anticorpi circolano, non c’è bisogno che circoli la cellula che li produce. La cellula che li produce,
ovvero la plasmacellula (il linfocita B attivato), sta fermo e non circola. Chi circola è il suo
prodotto, cioè gli anticorpi.

Questo è uno schema [vedi immagine in alto] riassuntivo di quello che avviene durante l’emopoiesi.
Vedete che partiamo da una cellula emopoietica staminale totipotente che si moltiplica. Quindi la
prima caratteristica di queste cellule è che hanno un potenziale proliferativo inalterato e possono
continuare a proliferare per tutta la vita della persona. Abbiamo visto che se voi prendete delle
cellule staminali da un centenario queste funzionano ancora e messe nell’ambiente giusto hanno lo
stesso potenziale proliferativo delle cellule di un giovane.
L’altra caratteristica fondamentale è che possono differenziare in tantissimi tipi cellulari diversi,
maturi. Quindi hanno la capacità di indirizzarsi a diventare tanti tipi cellulari diversi.
Si procede verso la multipotente. In questo caso abbiamo già perso la possibilità di fare alcuni tipi
cellulari. Ci indirizziamo verso l’emopoiesi, cioè non vado a fare dei neuroni o degli epatociti, ma
vado verso la direzione di fare cellule del sangue, quindi perdo un po' di totipotenza per acquisire
multipotenza.
Dopo c’è una ulteriore suddivisione in due stipiti: lo stipite mieloide (la M di CMP [vedi immagine
sopra] sta per mieloide) e lo stipite linfoide. Quindi abbiamo due principali vie verso cui può
indirizzarsi la cellula staminale. Il progenitore linfoide dà i linfociti; il progenitore mieloide tutto il
resto, compresi gli eritrociti e le piastrine. Quindi dal progenitore mieloide, tolti via eritrociti e
piastrine, vengono fuori tutti i granulociti (basofili, eosinofili e neutrofili), i monociti e la maggior
parte delle cellule dendritiche.

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Vedete che cellule dendritiche e monociti sono parenti tra di loro, vengono da un progenitore
comune. Mentre dall’altra parte abbiamo tutto quello che riguarda i linfociti (linfociti B, linfociti T,
linfociti NK che non sono né T né B).

Questa è una schematizzazione e come tutte le schematizzazioni non è mai del tutto corretta, in
realtà ci sono anche delle forme intermedie tra i linfociti T e i linfociti NK e poi ci sono altre
popolazioni ancora. La sigla ILC sta per ‘innate lymphoid cells’, cioè cellule linfoidi innate
(funzionalmente le mettiamo dentro all’immunità innata). Ce ne sono in realtà diversi tipi che si
stanno scoprendo. Come vi dicevo l’immunologia è ancora una materia abbastanza giovane. Ci
sono altre sottopopolazioni numericamente meno importanti di queste che stanno venendo fuori e
che per semplificare possiamo mettere dentro alle ILC. In realtà non è corretto, non è così, ma per
capirci diciamo che ci sono anche altre sottopopolazioni, tra cui anche queste ILC.

Ciò che guida questo tipo di differenziamento, di maturazione, è la presenza di una serie di fattori
maturativi, citochine prevalentemente, che vengono prodotte dalle cellule circostanti, le quali
aiutano la maturazione in un senso o nell’altro e queste citochine consegnano dei segnali ai
precursori. Grazie a questi segnali, i precursori attivano dei fattori di trascrizione che fanno in modo
che la cellula esprima determinati geni e non altri, facendola di fatto andare verso un
differenziamento di un tipo piuttosto che di un altro. Ne esistono diversi di questi fattori e che sono
importanti per la maturazione appunto. È chiaro che se questo processo di maturazione viene
interrotto da qualche parte perché c’è una carenza nella produzione di queste citochine oppure nei
loro recettori, oppure nel machinery molecolare che permette il differenziamento nella linea B
piuttosto che T, succederà che questo paziente non sarà in grado di portare a compimento la
maturazione di uno o più fattori. Avremo quindi una immunodeficienza primaria grave perché si
agisce molto a monte; più a monte si agisce e più grave sarà tale immunodeficienza. Queste
patologie vengono solitamente chiamate SCID (si legge ‘Schid’ in inglese): in italiano sarebbe
SCID, sigla che sta per: Severe combined immunodeficiency (immunodeficienza combinata grave).
Si definisce combinata perché molto spesso sono coinvolti più tipi cellulari, sia B che T, andando ad
intaccare sia il lineaggio B sia quello T, perciò si osserva come questa immunodeficienza sia
particolarmente grave. Di questo parleremo quando parleremo dell’immunopatologia.

Cellule della linea bianca

A questo punto, facendo finta di aver concluso il discorso sulla maturazione (qualcosa verrà
ripresa in futuro), possiamo vedere cosa rimane nel sangue periferico dopo tutto questo processo.
Salta fuori la presenza di una certa quantità di cellule della linea bianca o WBC (white blood
cells). Si parla di sangue periferico proprio perché è il posto più facile da esaminare.

Il professore fa un paragone con una barzelletta: è come la barzelletta del matto che cerca le chiavi sotto al
lampione.
Un signore chiede al matto: “Qua sotto cosa ci fa?”
E il matto risponde: “Sto cercando le chiavi”;
Il signore chiede: “Perché le cerca qua?”
E il matto risponde “Perché qui c’è la luce”

Quindi si cercano i linfociti nel sangue non perché il punto di interesse debba essere per forza il sangue,
poiché il problema potrebbe essere anche a livello dei tessuti, però dal sangue è il posto più facile per
prelevarli. Si interpretano poi i dati attraverso dei range di normalità, anche se tale normalità non è un valore
assoluto, bensì è solamente una media che si fa per avere una mappa geografica dove orientarsi. La
normalità è un concetto molto importante ed è un concetto che è stato pensato nell’800 in Inghilterra dove
stabilirono che la persona normale era il giovane maschio inglese di vent’anni. Questo dimostra come
appunto la normalità non è altro che una convenzione, giusto per dare un indice di comparizione. Questi
quindi sono i valori medi di una persona giovane, perché poi i bambini hanno valori diversi, le donne hanno

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valori diversi, le donne in menopausa ancora valori diversi e così via. Il numero medio di tutte le cellule della
linea bianca sono 7400 per microlitro, che corrisponde a un millimetro cubo. Quindi in media in un
millimetro cubo del nostro organismo ci sono 7400 cellule bianche e sono nettamente inferiori rispetto, ad
esempio, ai globuli rossi (5 milioni per microlitro). In base all’età e al sesso può variare il numero di globuli
bianchi.
I VALORI DI QUESTA TABELLA VANNO ASSOLUTAMENTE IMPARATI A MEMORIA!

Se facciamo una suddivisione vediamo come i granulociti neutrofili rappresentano la maggioranza, con un
valore di circa 4400 cellule per microlitro, ovvero il 40-60% del totale. Hanno un range di variabilità molto
ampio tra i 4500 e le 11000 cellule per microlitro. Oltre ai neutrofili, vi sono gli eosinofili e i basofili, cellule
granulate, capaci di essere colorate con coloranti basici o acidi. Gli eosinofili sono circa 200 per microlitro,
invece i basofili sono all’incirca 40. Oltre ad essere numericamente inferiori, questi granulociti hanno anche
funzioni diverse rispetto ai neutrofili (funzioni che si vedranno in futuro). Il range di variabilità ha come
minimo lo 0. Questo non vuol dire che potrebbero non esserci eosinofili o basofili all’interno dell’organismo,
bensì vuol dire che nel nostro campione potrebbero essere assenti, data la scarsa presenza all’interno
dell’organismo. Poi abbiamo l’altra popolazione costituita dai linfociti; ce ne sono 2500 circa per microlitro
e hanno un grandissimo range di variabilità dovuto alle differenze tra uomo e donna e tra giovane e anziano.
Di questi 2500 circa la maggior parte dei linfociti sono di tipo T. Infine abbiamo i monociti leggermente più
numerosi rispetto agli eosinofili, infatti il valore è di circa 300 monociti per microlitro. Questa è la formula
leucocitaria più semplice di tutte. Ora invece analizziamo più nel dettaglio.

Nomenclatura CD

Entriamo più nel dettaglio nelle caratteristiche principali delle cellule di cui andiamo a parlare e per
cominciare si osservi questa slide molto importante, perché su questo torneremo molte volte.

Da qui in avanti verranno nominate molte molecole che caratterizzano le cellule del sistema immunitario con
questo tipo di nomenclatura, che è la nomenclatura CD. È un tipo di classificazione delle molecole che nasce
proprio dall’immunologia e nasce dall’esigenza di classificare e identificare marcatori molecolari di cellule
del sistema immunitario; questa necessità è poi stata estesa a cellule che non fanno parte del sistema

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immunitario. La sigla CD significa Cluster Designation o Differentiation ed è una convenzione che è stata
adottata nel 1982 per indicare molecole. Invece che dare ognuno il proprio nome di fantasia alle molecole
scoperte, si è deciso di chiamare queste nuove molecole con la sigla CD seguita da un numero e in questo
modo non è possibile confondersi tra i vari nomi di fantasia. Quindi è una cosa accettata a livello
internazionale.

Il fulcro di questa nomenclatura è che si identificano molecole sulla base del fatto che vengono riconosciute
e quindi legate da anticorpi monoclonali (la sigla ‘Ab’ sta per anticorpi la ‘s’ è per indicare il plurale). Per
riconoscere una molecola o si utilizzano dei metodi chimici molto complicati per i quali servono quantità
enormi di campione purificato, oppure si utilizzano degli anticorpi, perché questi ultimi sono degli strumenti
fornitici dalla natura per identificare una struttura a livello molecolare, tutto con estrema precisione. Un
anticorpo è talmente preciso e talmente specifico che riesce ad identificare se una molecola chimica è in
conformazione -orto, -para o -meta. Il vantaggio è che non bisogna purificare il campione, lo svantaggio è
avere esattamente l’anticorpo che riconosce la molecola che sto cercando, quindi non posso utilizzare
anticorpi presi da un animale o dall’uomo perché lì ce ne sono tanti ma tutti diversi; io invece necessito di
una popolazione di anticorpi tutti uguali derivanti tutti da un unico linfocita B di partenza. Per questo si
chiamano monoclonali, perché vengono da un unico clone. Quindi si indicano con CD, seguito da un
numero, tutte quelle molecole che sono riconosciute da specifici anticorpi monoclonali a seconda della
molecola e ci si mette d’accordo sul numero che deve seguire la sigla CD. Questo aspetto è importantissimo
perché in particolare le cellule del sistema immunitario hanno una complessità che non si vede a livello
anatomico o morfologico, poiché a questo livello sono molto semplici, essendo piccole, bianche e rotonde. In
realtà la loro complessità è tutta a livello molecolare. Per vedere queste molecole, sono necessari gli
anticorpi poiché sulla membrana plasmatica c’è un antigene (in giallo in figura), il quale viene riconosciuto
specificamente dall’anticorpo (in blu nel disegno) con un legame molto forte. Se su questo anticorpo si lega
un fluorocromo, cioè una cellula fluorescente, allora la cellula stessa diventa fluorescente ed è così possibile
vederla. Eccitando con una luce adeguata il fluorocromo, se la cellula è marcata, la cellula diventa
fluorescente, quindi vuol dire che l’antigene c’è. Se l’antigene non c’è la cellula non è visibile.

Questa tecnica la si può utilizzare con la microscopia, oppure si possono utilizzare altri metodi che
permettono di avere un risultato elevato dal punto di vista numerico, come ad esempio la citometria a flusso.
A flusso perché non si guardano le cellule come nella microscopia dove le cellule sono spappolate sul
vetrino, ma nella citometria si ha un flusso dinamico di cellule, quindi queste ultime devono essere
disgregate e non organizzate in un tessuto; oppure, come nel caso del sistema immunitario, sono già cellule
singole che faccio attraversare da una corrente di un fluido e questa corrente viene attraversata da una luce
laser. Tutte le cellule che passano lì in mezzo vengono eccitate e se sono marcate mandano un segnale
positivo che viene captato da una serie di fotomoltiplicatori che ci sono intorno e quindi il segnale viene
amplificato e mandato a un computer, dove viene visualizzato su uno schermo. In questo modo si possono
analizzare decine di milioni di cellule in pochi secondi, perché appunto si ha un flusso laminare che permette
ciò. Con questa tecnica si può fare l’immunofenotipizzazione, cioè capire il fenotipo dal punto di vista
molecolare delle cellule del sistema immunitario presente nel mio campione, ad esempio un campione di
sangue. Quindi questa è una tecnica molto più approfondita che va più nel dettaglio, si vedono le
sottocorporazioni, si possono vedere se sono attivate o disattivate, se sono a riposo se sono in fase di
senescenza e altre cose.
Questa analisi la si può fare anche con più parametri alla volta. Ora per semplificare il tutto consideriamo un
solo marcatore, quando in realtà potremmo considerare anche più di un marcatore con più anticorpi, oppure

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anticorpi insieme ad altre sonde non anticorpali. Quindi si può fare un’analisi multi-parametrica: ovvero su
una stessa cellula posso vedere più parametri alla volta. Una cosa interessante che si può fare con la
citometria a flusso, oltre ad identificare le cellule come sono dal punto di vista fenotipico, è anche separarle e
quindi arricchire le popolazioni, separandole da tutto il resto, cioè posso dire allo strumento di spostare da
un’altra parte una determinata cellula positiva ad un determinato marcatore e isolarla. Questi i citometri
hanno anche la capacità di essere separatori cellulari.
Questo serve per fare degli esperimenti di ricerca, degli esami su una determinata popolazione cellulare, ma
può anche servire al clinico per isolare una popolazione che potrebbe trapiantare ad un paziente.
Le cellule staminali emopoietiche sono molecole CD+ perché esprimono CD34. Se si prende una
popolazione di cellule bianche nel sangue, di emopoietiche non ce n’è quasi nessuna perché sono nel
midollo, però qualcuna c’è; se poi le si fanno mobilizzare con opportuni fattori di crescita, ne vengono fuori
anche di più, quindi anziché fare un prelievo di midollo, potrei prendere le CD34 direttamente dal sangue del
paziente. Essendo poche, bisogna andare a beccare giusto le CD34 isolandole dal resto e così otterrò solo
CD34 che, una volta amplificate in vitro, potrò trapiantare direttamente. Questa è una delle applicazioni
importanti dei separatori cellulari.

Citochine

Molte si chiamano con la sigla IL, come l’IL-7, una citochina importante per la maturazione dei linfociti T.
Altre hanno la sigla CSF (colony stimulating factor) e sono fattori di crescita per le cellule in fase di
maturazione, quel processo che va dalla staminale totipotente fino ai vari lineaggi e in base alle lettere che ci
sono avanti alla capiamo a cosa servono. Ad esempio le G-CSF (granulocyte) servono a stimolare la crescita
dei granulociti; M-CSF (monocytes) servono a stimolare la crescita dei macrofagi; GM-CSF stimolano
entrambe le popolazioni. Vedremo che oltre a queste ci sono molte altre famiglie di citochine
importantissime perché hanno un effetto sulle cellule mature.

Timo

Il timo è un organo che sta dietro lo sterno, sopra il cuore, è un organo bilobato, i cui lobi sono suddivisi in
lobuli da trabecole. Abbiamo una parte corticale esterna e una parte midollare interna. La cosa importante da
ricordare è che qui ci sono dei linfociti T immaturi che arrivano dal midollo e compiono una fase importante
della loro maturazione per diventare linfociti T maturi, che sono quelli che si ritroveranno in periferia. Questi
linfociti T che si trovano nel timo sono accompagnati da altre cellule di tipo epiteliale, di tipo macrofagico,

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di tipo dendritico e cellule nutrici (o nurse) che aiutano la maturazione di questi timociti. La cosa importante
da sapere è che questi timociti in questa fase del loro sviluppo sono molto propensi ad andare in apoptosi. Se
si prende il timo di un animale e lo si spreme per estrarre timociti, è molto facile. Se questi timociti li si
mettono in coltura, più del 90% sono morti.

Durante questa frase sono estremamente sensibili all’apoptosi perché durante questa fase subiscono un
processo di selezione, durante il quale vengono selezionati solo i linfociti adatti a diventare linfociti maturi e
la maggior parte di questi linfociti non ha questa caratteristica e quindi non prosegue il processo di
maturazione. Questo è un processo fondamentale del sistema immunitario: quando nascono il processo che
porta alla formazione dell’antigene porta ad avere un recettore che spesso o non funziona o non è adatto e
potenzialmente potrebbe creare problemi autoimmuni. Questo processo di selezione, sia positiva che
negativa, dei linfociti T all’interno del timo avviene con il passaggio dei timociti attraverso il timo. Nel timo
sono presenti anche i cosiddetti corpuscoli di Hassal, gruppi di cellule in degenerazione, oltre ai vari vasi
sanguigni e linfatici. La cosa interessante è che questo è uno dei primi organi che va incontro a
degenerazione.

A sinistra l’immagine mostra il vetrino di un timo di un bambino di 5 anni, mentre a destra il timo di un
uomo di 54 anni. Si nota la netta differenza in termini di timociti, poiché nell’adulto c’è moltissimo tessuto
adiposo ottenuto dopo l’involuzione del timo. Questa degenerazione grassa avviene ancor prima della
pubertà, quindi il timo funziona maggiormente durante i primi anni di vita.

Durante questi primi anni si forma il repertorio dei linfociti T dell’organismo. Cosa succede dopo non è del
tutto chiaro: una parte continua a svolgere il suo compito, ma è solamente una minima parte, e adesso nelle
operazioni di cardiochirurgia pediatrica ai bambini spesso viene asportato (prima si asportava di default),
proprio perché essendo situato sopra al cuore può essere un problema. Questa asportazione fa notare una
diminuzione nel repertorio dei linfociti T, di fatto quindi non riescono a rispondere a tutti gli antigeni.

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Questo repertorio viene mantenuto nel corso della vita
per proliferazione a basso grado dei linfociti T maturi
che si sono formati, quindi non vengono più creati
linfociti T nuovi, ma quelli che ci sono già, ogni tanto
danno qualche ciclo di duplicazione, mantenendosi nel
corso della vita.
Quindi c’è una duplice situazione: da una parte la
proliferazione omeostatica che mantiene il repertorio e
dall’altro ci sono probabilmente delle piccole porzioni
di timo che continuano a funzionare e che permettono
il mantenimento dei linfociti T durante la vita, anche se
questa seconda situazione non è del tutto chiara.
Quindi l’output timico, ovvero la quantità di linfociti
che fuoriesce dal timo, diminuisce col tempo già prima della pubertà. Se si vede la quantità di linfociti che si
ha in circolo, a secondo del fenotipo, cioè se sono linfociti naive o memory, durante la vita ho un’inversione
di tendenza come si vede nel grafico (vedi immagine).

‘Naive’ è un termine francese che vuol dire ‘ingenuo’, quindi un linfocita T naive è un linfocita che non ha
mai incontrato il proprio antigene, quindi è un linfocita nuovo. Il linfocita memory invece è un linfocita che
ha già incontrato il proprio antigene ed è capace di ricordarselo e di attuare una risposta più velocemente. Col
tempo, i linfociti naive diminuiscono e contemporaneamente aumentano i memory, perché durante la vita
facciamo la cosiddetta immunovirografia e il nostro sistema immunitario ricorda ciò che ha incontrato. Non
bisogna pensare però che quindi un anziano ha il sistema immunitario migliore in assoluto: in realtà le cellule
che servono maggiormente sono le naive, perché le cellule memory servono esclusivamente contro il loro
determinato antigene e molto spesso succede che queste cellule memory danno grandissime quantità di cloni
specifici per un solo antigene e poi mancano invece linfociti capaci di difenderci dagli antigeni nuovi. In più,
queste cellule memory negli anziani non funzionano più, cioè non sono più in grado di attivarsi e sono dette
senescenti.

Linfonodi

I gruppi di linfonodi vengono trattati superficialmente perché il professore dà per scontato che siano stati
già trattati in anatomia.

Nei linfonodi abbiamo un’area midollare e una paracorticale, nella quale ci sono delle zone T dove si
radunano i linfociti T e ci sono delle zone B chiamate follicoli. Quindi, quando un linfocita arriva all’interno
di un linfonodo attraverso le venule che penetrano dall’ilo (queste venule sono particolari, infatti vengono
chiamate ‘venule ad endotelio alto’), fuoriescono e, se sono linfociti T vanno nelle zone T, se sono B vanno
nei follicoli. I gruppi di linfonodi sono importanti perché drenano la linfa da determinati distretti anatomici,
quindi se si sa da dove viene la linfa che passa per di là, si può sapere che cosa bisogna guardare. Nel caso
dei tumori questo è molto utile perché attraverso un processo di metastatizzazione le cellule tumorali
possono passare nei vasi linfatici e conoscendo il linfonodo più vicino al tumore primario, si può fare
un’estemporanea durante l’intervento chirurgico, prendendo il linfonodo più vicino al tumore e vedo se è già
metastatizzato.

Tessuti linfoidi associati

Il tessuto linfoide associato è caratterizzato da delle sigle. La sigla ALT (Associated Lymphoid Tissue) viene
preceduta da una lettera che indica a quale distretto anatomico è associato:
 MALT nelle mucose
 GALT nell’intestino (GUT in inglese)
 BALT nelle vie respiratorie
 SALT nell’epidermide

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E ce ne sono tanti altri tipi. Questi sono ammassi di linfociti ma non identificati come strutture
anatomiche ben determinate come i linfociti.
Il professore ci lascia con una domanda: Come fa un linfocita T e un linfocita B a sapere dove deve andare
e che devono dividersi in zone diverse? Questa è una caratteristica unica del nostro sistema immunitario e
infatti i linfociti sono le uniche cellule del nostro corpo a muoversi non in maniera passiva, ma in maniera
attiva perché sanno bene dove andare, ma come fanno?

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