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Cosa c’è da ricordare bene della malattia emolitica del neonato? Innanzitutto la fisiopatologia, che
è un problema che riguarda soltanto le donne Rh-, che non hanno l’antigene B grande. Quando
queste donne hanno una gravidanza con un feto B grande Rh positivo, durante la gravidanza non
ci rimette, ma al momento del parto c’è l’immunizzazione della madre, perché una quantità di
sangue del neonato passa nel torrente circolatorio della madre. La signora però risulta essere
immunizzata, questo vuol dire che nelle settimane successive a casa, il sistema immunitario che è
venuto a contatto con i leucociti del feto che hanno l’antigene B grande, innescano una risposta
immunitaria e se la tiene. Quindi se la signora non ha altri figli nessuno sa niente, non c’è nessuna
conseguenza, è una immunizzazione che la signora non sa neanche di avere. Se invece ci sono
delle altre gravidanze Rh positive, nel corso della gravidanza c’è il passaggio di materiale, quindi
cellule, sostanze triglicemiche dalla madre al feto e dal feto alla madre, e quindi anche globuli
rossi. Se il feto ha globuli rossi B grande il sistema immunocompetente della madre lo riconosce
come un estraneo di cui aveva già fatto conoscenza tempo prima e quindi elabora la risposta
immunitaria di memoria, che sono le IgG. Le IgG che passano attraverso la placenta. Nella peggiore
delle ipotesi c’è la produzione continua da parte della madre di IgG, finchè il feto non ce la fa più a
cercare di controbilanciare e si ha l’aumento di bilirubina, che arriva fino a 30 mg, il normale è
intorno a 1, che si va a depositare a livello cerebrale e questa situazione rappresenta la gravità più
estrema. Ci sono altre forme intermedie, in cui la bilirubina è lieve e quindi avremo un altro tipo
sempre anemico, ma la situazione si riequilibria più facilmente nel corso di un mese. In questa
patologia vi è una profilassi che prevede il fatto che bisogna evitare che i globuli rossi entrano a
contatto e l’unico modo è distruggerli. Quindi bisogna somministrare alla madre dopo il parto,
quindi dopo che è avvenuto il passaggio, circa 1800 mg di geni anti B, questo è un prodotto sicuro,
quindi non c’è rischio di trasmissione. Questi vanno a distruggere quegli anticorpi B positivi che
sono a livello della madre.
Il problema risiede nella donna già immunizzata che già presenta anti B. E’ importante la
titolazione, con quest’ultima andiamo a quantificare la presenza di un anticorpo in un campione di
plasma e questo ci serve per effettuare un monitoraggio continuo in circa un mese della quantità
di anti B della madre per cercare di capire insieme a un controllo ecografico che quindi ci da
informazioni adeguate riguardo lo sviluppo più o meno fisiologico del feto, per eventualmente
anticipare il parto. Altrimenti se noi vediamo che il titolo e quantità di anticorpi prodotto è
costante, e il feto si sviluppa normalmente, la donna partorisce normalmente. Se invece, si ha un
aumento improvviso o un calo improvviso degli anticorpi (che implica che l’anticorpo si sta
consumando quindi emolisi) ed eventualmente abbiamo anche dei segni negativi da parte
dell’ecografia, si anticipa il parto. Vi ricordo anche, questa ormai è una pratica normale, tutte le
volte che una donna Rh- in gravidanza, deve fare delle indagini invasive per motivi vari, per
esempio bisogna andare a prelevare sangue genito-urinario per qualsiasi cosa, siccome anche se le
quantità sono minime, ci possono essere degli extravasi, quindi globuli B positivi possono andare a
contatto con il sistema immunocompetente della donna, dopo ogni manovra cruenta il ginecologo
prescrive o somministra direttamente lui una somministrazione di anti T. In questo modo siamo
sicuri che eventuali globuli rossi, durante l’extravaso di sangue, vengono distrutti e non vanno ad
immunizzare la madre.
In questo modo però, per quello che mi dicono i colleghi che seguono questo problema a Roma,
negli ultimi anni non abbiamo più avuto casi di immunizzazione effettuando questa profilassi così
attenta, e abbiamo cominciato a capire che casi così vengono più che altro da altri Paesi, dove la
profilassi non è ancora eseguita in modo costante perché non è una questione di eccellenza
sanitaria in quanto l’anti T costa poco e si fa in qualsiasi parte del mondo. Il punto è
l’organizzazione: ossia dato che il parto non è un intervento di cardio-chirurgia, ma un evento
naturale, se non c’è una organizzazione ben precisa a livello infermieristico, l’anti T alle donne Rh-
non sarà disponibile. Quindi, la donna deve arrivare e il campione di sangue della donna deve
andare al laboratorio per verificare il gruppo sanguigno, bisogna verificare se il bambino è Rh+ o
Rh-, le infermiere devono essere disponibili e pronte durante il parto. Quindi è una questione
prettamente di organizzazione a livello sanitario.
Questo argomento studiatelo bene.
Cominciamo ora con un argomento un po’ complesso. Allora cominciamo subito dalla parte più
complessa che riguarda il laboratorio.
Vi ho accennato prima che se una donna è Rh- andiamo a studiare se ci sono anticorpi, vi ho
accennato che si semina nello stesso pozzetto della provetta, il siero e i globuli rossi. Ma non è così
semplice. Considerate che per riuscire ad identificare un anticorpo, è tutto considerare la prassi
immunoglobulinica di un anticorpo e poi devo scegliere il bersaglio giusto. Voi sapete benissimo
che l’anticorpo ha la capacità di riconoscere una sola struttura, come una chiave che riconosce una
sola serratura quindi basta una sola differenza e l’anticorpo non riconoscerà l’antigene.
Ricordiamoci intanto le classi, quindi di quali immunoglobuline sono formati gli anticorpi.
Innanzitutto abbiamo le IgM. Vi ricordo che le IgM sono grandi, hanno molti siti di attacco, quindi
questo vuol dire che se una IgM ha una specificità verso un antigene presente su un globulo rosso,
l’immunoglobulina aggancia 10 globuli rossi, quindi la reazione di agglutinazione è visibile sia a
occhio nudo sia con l’ausilio del ingranditore ottico.
I problemi li abbiamo quando l’anticorpo lega IgG, in quanto i siti d’attacco sono di meno, sono 2.
Noi sappiamo per esperienza, che anche se la reazione avviene, i due globuli rossi che fanno
l’agglutinazione non li vedo manco con il microscopio ottico. Per cui occorre, quando c’è di mezzo
una IgG, usare dei potenzianti, cioè delle sostanze che con varie modalità di azione, mi servono ad
amplificare questa reazione. I potenzianti è circa dagli anni ‘50 che si studiano, perché queste
metodiche sono quelle iniziali che poi sono rimaste sempre inalterate nell’immunopatologia, in cui
le tecniche non si sono evolute grandemente. Attualmente si va avanti con queste reazioni
dell’anticorpo che vengono evidenziati nella reazione di agglutinazione.
I potenzianti possono essere tanti, possono essere sostanze che diminuiscono il potenziale zeta
che c’è sulla superficie del globulo rosso, e serve a farli distanziare in modo che non si attacchino
in modo aspecifico, possono agire in tanti altri modi e tanto per intenderci, sono quelli che
vengono adoperati nella normale routine, a bordo delle macchine, che essenzialmente sono i
dispensatori. E perché vengono adoperati? Perché la reazione avviene più rapidamente, io posso
averla non dopo un’ora ma dopo venti min.
I potenzianti hanno un grosso difetto: a volte possono dare delle reazioni falsamente positive,
ossia che mi danno una agglutinazione che non è dovuta alla reazione antigene anticorpo, ma a dei
fattori per cui io vengo indotto in errore. Hanno anche altri difetti, per esempio, c’era un
poteziante che negli anni ’80 andava alla grande perché dava delle reazioni di agglutinazione dopo
5 min. Rircordate che i tempi normali di incubazione sono 60 o 30 min, questo cinque min, con un
picco però enorme di perdite e non riusciva ad identificare gli anticorpi anti Kell, quindi quelli più
importanti e quindi abbiamo dovuto metterlo da parte. Tutto questo per dirvi che alcuni
potenzianti possono dare dei falsi positivi e per ricordarvi che, per avere una reazione tra antigene
e anticorpo, dobbiamio avere un equilibrio tra l’antigene e l’anticorpo, infatti se c’è un eccesso di
uno o dell’altro, la reazione non avviene.
Questa è una cosa che noi verifichiamo in continuazione, perché quando c’è un eccesso di
antigene, quindi quando l’anticorpo è poco, allora noi non riusciamo ad evidenziare la presenza di
anticorpo. Quindi abbiamo delle situazioni in cui l’anticorpo è presente, ma in quantità
relativamente bassa, quindi quando noi adoperiamo le metodiche che usiamo ora, non riusciamo
ad avere una situazione di equilibrio, per cui diamo un falso negativo.
Tanto per fare un esempio e chiamarci nella realtà, quando noi andiamo a ricercare in un paziente
la presenza di anticorpi irregolari, dovuti a precedenti trasfusioni, e lo andiamo a trasfondere, se il
paziente ha l’anticorpo, ma ce ne ha molto poco, quindi irregolare, noi facciamo la reazione,
quindi il cross-match, ma ci viene negativa. Soltanto quando andiamo a trasfondere il paziente, e
quindi andiamo a controllare l’emocromo dopo qualche giorno, l’emoglobina è salita lievemente e
poi dopo non è salita più, quindi abbiamo una trasfusione inefficace. Probabilmente, perché il
nostro cross-match non è stato all’altezza delle nostre aspettative, l’anticorpo era a un livello
troppo basso e la metodica non ce l’ha fatta ad identificarlo. Questo è un punto fondamentale nel
nostro lavoro.
Riprendendo il discorso della specificità, un falso positivo è un problema, perché se mi chiedono
del sangue per un paziente che sta male, non lo si da perché si pensa che sia positivo e quindi ci sia
l’anticorpo, invece magari l’anticorpo non c’è. Molte volte dai reparti di terapia intensiva, siccome
il prelievo che ci arriva dagli altri reparti per fare i test trasfusionali, molte volte si contiene perché
sono pazienti intubati con cateteri venosi centrali. Quindi il paziente non viene bucato un’altra
volta per fare il campione trasfusionale, ma si tira il sangue dal catetere. Se l’aspirazione viene
condotta in modo adeguata, facendo uno scambio buono di 5-10 ml, il campione che arriva è
contaminato delle sostanze che noi stiamo infondendo al nostro paziente. Possono essere
sostanze innocue, come la soluzione fisiologica, ma possono essere sostanze che interferiscono nei
sistemi di vettura della macchina, e quindi possiamo avere dei falsi positivi. Purtroppo questa è
una realtà continua. Quindi il problema del falso positivo è un grosso problema, perché se io ho
dei test pre trasfusionali positivi, io non posso dare sangue al paziente. Il paziente però sta male,
ha bisogno della trasfusione di sangue, quindi bisogna fare in modo di utilizzare test che non diano
falsi positivi. Come prima cosa, mi faccio rimandare un altro campione di sangue, chiedendo ai
colleghi di non prelevare il campione di sangue dal catetere ma da una vena periferica, in questo
modo togliamo le interferenze. Poi non si mette il campione sulla macchina, ma si fa il test a mano.
E a mano come? Vedete, questa è una diapositiva vecchia, ormai risalente agli anni ’60, ma spiega
benissimo il principio del test di Coombs indiretto.
Considerate che quella IgG di colore bianco, sia una anti-Kell, quindi aggancia dei globuli rossi che
abbiano un antigene Kell in superficie, qui è disegnato un solo globulo rosso. Però serve qualcosa
che amplifichi e questa è un’altra IgG, quella scura, che ha come specificità la parte costante della
IgG umana. Quindi siccome anche questa IgG ha due siti di attacco, una IgG, in questo caso la anti
human IgG, aggancia in questo caso 2 anti-Kell. Ogni anti-Kell sarà agganciata a 2 globuli rossi,
quindi c’è il raddoppio: aumentano il numero di globuli rossi interessati alla reazione e io riesco a
vederla. Questo test è nato ai primi dell’800, ma in realtà per tutte altre esigenze: uno studioso
toscano lo aveva usato nell’ambito dell’anatomia patologica. Poi dopo negli anni ’50 è stato
utilizzato in modo massiccio e efficace da Coombs e quindi ora si chiama test di Coombs o test
dell’antiglobulina diretto. Come veniva fabbricato inizialmente questo anticorpo nero, ossia
questo anticorpo anti-IgG umane? Semplicemente inoculando il plasma umano nel coniglio, che è
un animale che produce molto facilmente anticorpi, il coniglio veniva sgozzato e dal plasma del
coniglio si avevano poi questi anticorpi anti-immunoglobuline umane. Questo inizialmente, adesso
sono prodotti in laboratorio e hanno una specificità e una potenza assolutamente standardizzata.
Questo è un anticorpo che si chiama siero di Coombs, è un anticorpo che ci permette di realizzare
dei test estremamente specifici.
In questa provetta consideriamo un campione di sangue con l’anticorpo per rifarci alla donna Rh-
che ha un feto che sta sviluppando malattie tipiche del neonato; pensiamo che in questa provetta
c’è un anti-B e una igG. A sinistra vedete dei globuli rossi B positivi. Si semina e si lascia incubare in
un supporto, l’incubazione è di mezz’ora o un’ora. Le IgG reagiscono meglio, quindi permettono
una reazione di agglutinazione migliore a 37 gradi. Nel caso della temperatura, le IgG quindi sono
messe ben a fuoco a 37 gradi.
Quindi le mettiamo a incubare e vedete che questi pezzoni neri si vanno ad agganciare ai globuli
rossi, quindi sono gli anticorpi che si sono attaccati ai globuli rossi. Ma sono IgG, quindi non ci
danno una agglutinazione visibile. Allora, dopo l’incubazione, tecnicamente c’è un passaggio molto
importante, ossia bisogna fare un lavaggio con soluzione fisiologica, per eliminare tutte le
invasività che potrebbero darci problemi nella reazione successiva. E disponendo di globuli rossi
che sono sul fondo della provetta, si aggiunge il siero di Coombs. Per cui se gli anticorpi sono fissati
al globulo rosso, questo siero di Coombs evidenzia la agglutinazione. Questo test di Coombs è
indiretto perché prevede una agglutinazione, quindi la metodica che noi usiamo è sempre quella
che di ricercare anticorpi nel siero di un paziente. Quindi questo è quello che uso per andare a
vedere la presenza di anti-B, è quello che uso per andare ad individuare in un paziente l’anti-Kell e
così via.
A sinistra vi è un’altra situazione, ossia che le cellule sono già ricoperte da anticorpi. Sempre per
rifarci alla malattia emolitica del neonato, queste sono cellule del neonato. Quando c’è il sospetto,
si prende un piccolo campioncino di sangue dal neonato e si mettono a incubare queste cellule
direttamente con il siero di Coombs. Perché se è vera l’ipotesi della malattia emolitica del neonato,
quei globuli rossi sono già ricoperti da anticorpi anti-B e quindi aggiungendo il siero di Coombs si
ha la reazione.
Mentre nell’ambito della radiologia, per esempio, vi sono tante metodiche diverse e moderne (per
esempio prima non si studiavano le tac che sono state una grande evoluzione tecnologica),
nell’immunopatologia no, siamo rimasti essenzialmente con il test di Coombs. Le varie applicazioni
di per esempio biologia molecolare non riscuotono grande interesse perché non applicabili a
medicina trasfusionale, ma sono più applicabili in campo di genetica. Ma per quanto riguarda la
medicina trasfusionale, queste metodiche si sono mantenute attuali e valide che per ora ci hanno
dato tutto quello che potevamo chiedere sulla ricerca e identificazione di anticorpi eritrocitari
irregolari.
L’unico dato chiaro è che aumentando la dose, aumentano i giorni di intervallo tra una trasfusione
e l’altra. questo significa che se io ho un paziente cronico che ne ha bisogno, se io trasfondo una
quantità doppia, lui tranquillamente potrà arrivare ad un livello di piastrine decente. E non posso
permettermi di perdere questo paziente. L’unico dato scientifico è che aumentando la dose,
aumenta l’intervallo.
Questa è la classica domanda sulla trasfusione piastrinica?
Dobbiamo tenere in considerazione fattori legati alle piastrine e fattori del paziente. Poi bisogna
considerare anche l’incompatibilità AB0, perché l’antigene a e b può essere anche sulle piastrine,
però è poco. Infatti da sempre le piastrine vengono date senza rispettare il gruppo AB0, perché gli
antigeni sulle piastrine ci stanno ma sono troppo pochi. Anche sistemi informatici che ci
permettono di avere una tracciabilità continua tra tutto quello che noi facciamo tra il donatore e il
ricevente. E poi abbiamo i fattori che dipendono dai pazienti: ci sono fattori immuni e non immuni.
I fattori immuni sono quelli meno importanti. L’immunizzazione è costituita da sistemi HLA: gli
antigeni sono ricchi di sistemi HLA, però il paziente può anche avere anticorpi con degli antigeni
del sistema HLA, che però sono incompatibili; oppure in presenza di anticorpi anti-HLA, li vado a
cercare tra mille difficoltà in un donatore incompatibile e le piastrine non andranno bene lo stesso.
Ancora più difficile è l’immunizzazione contro gli antigeni specifici delle isterine. Queste sono
situazioni che si possono verificare in pazienti affetti di anemia, con anticorpi contro antigeni
specifici e il tentativo di trasfondere geni compatibili non è sempre coronato dal successo. lo
stesso si ha per i sistemi AB0.
I fattori immuni invece sono quelli più grandi e più importanti.