Sei sulla pagina 1di 16

lOMoARcPSD|3590153

Cosa significa donare? - Marcel Hénaff - Mark Anspach

Antropologia culturale (Sapienza - Università di Roma)

StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)
lOMoARcPSD|3590153

COSA SIGNIFICA DONARE?

Benedetta Fabiet

DA PAG 34

IL DONO RITUALE NON È NÉ DI ORDINE ECONOMICO, NÉ MORALE O GIURIDICO

In questi 3 esempi la fa da padrone il riconoscimento pubblico ottenuto e accordato da questa tipologia di


scambi. Vi è però diversità rispetto allo scambio vantaggioso, alla generosità caritatevole e ai rapporti
contrattuali. Intanto, molti osservatori provarono a dare un’interpretazione economica a questi doni pur
senza riuscirci, presentandoli come una forma di baratto/commercio. Mlinowski specificò che, durante lo
scambio kula, ne avviene uno parallelo e di beni di prima necessità, chiamato gimwali, e quindi, totalmente
commerciale e diverso.

Questi scambi rituali non sono però nemmeno di natura morale, quindi simili ai doni caritatevoli, perché, se
lo fossero, resterebbero privati e discreti, mentre il gesto del dono cerimoniale DEVE essere pubblico.

Infine, il dono cerimoniale non è giuridico come un rapporto contrattuale. Un obbligo contrattuale è limitato
nel tempo, comporta impegni giuridici vincolanti ed eventuali sanzioni, inoltre i firmatari sono “parti” e non
soggetti nel loro essere proprio. Il dono invece è sentito come proprio solo nella misura in cui implica onore
e prestigio del donatore.

RICONOSCERE E ESSERE RICONOSCIUTI

Potremmo, incrociando Mauss con altre ricerche, giungere ad una classificazione di ben 8 variabili proprie
del dono cerimoniale: beni scambiati, procedure, livello di comunicazione (sempre pubblico), effetti attesi
e/o prodotti (inclusione/accettazione), tipo di scelta (sempre obbligatoria), modalità della relazione (sempre
reciproca), attitudine di scambio (rivalità generosa), natura dell’impegno (offerta di sé stesso nella cosa
donata).

Le altre due tipologie di dono (gratuito e solidale) condividono col dono cerimoniale giusto una/due
variabili. Tutti i dibattiti incentrati sul confronto tra i tre, si lasciano sfuggire un dettaglio differenziante
fondamentale: il riconoscimento. L’esempio chiarificatore ci deriva da una storia di Andrew Strathern,
antropologo britannico, che ha svolto ricerche in N. Guinea, e ne ha racchiuso i risultati in The Rope of
Moka. Secondo le leggende locali, ai piedi del monte Hagen c’era un villaggio dove si credeva che, gli
uomini, una volta morti, diventassero fantasmi pallidi e cannibali. Così, alla visita di un essere dalla pelle
bianca, un giorno, decisero di fargli un test dell’umanità. Loro donarono dei maiali e lo straniero conchiglie
preziose. Ecco! Il rituale degli opening gifts si riconferma come una procedura di riconoscimento ed
identificazione dell’altro, nonché di accettazione e poi onore.

L’importanza del riconoscimento nel dono cerimoniale è confermata dal fatto che gli uomini siano gli unici a
praticarlo, testimoniando col dono di qualcosa, che fa da simbolo, il dono di SÉ, lasciando che questa pratica
diventi riconoscimento personale prima ancora che materiale.

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

ASPETTI FONDAMENTALI DELL’ANTROPOLOGIA DEL DONO

1.RELAZIONE POLITICA

Il dono cerimoniale è innanzitutto un patto. L’alleanza esogamica è ciò che, più di tutto, la sancisce, perché
indica l’accordo fra gruppi sulla cosa più importante: la riproduzione della vita e il movimento delle
generazioni. Dire che c’è “alleanza” implica dire che c’è un riconoscimento fra noi e voi stipulato da una
convenzione basata su simboli derivati da quanto viene condiviso. Ogni incontro, ogni alleanza implica delle
regole; accettando di rientrarci, si accettano quelle regole. Pierce ce lo spiega nella sua teoria della relazione
triadica: A non dona solo O a B e B non riceve solo O da A, ma essi entrano in relazione secondo una legge:
la norma di scambio. C’è una relazione fra A e B attraverso la mediazione del bene O.

Donare implica sempre, come per tutti i verbi trivalenti (accordare, fornire, portare, cedere), un dare
qualcosa a qualcuno.

Il dono cerimoniale va oltre questo: è un impegno secondo la legge ed implica l’obbligo di restituire un
contro-dono. Inoltre, la cosa donata, attesta il SÉ del donatore. Chiamiamo questa relazione “politica”
perché differisce dal semplice legame sociale. La relazione, in questo caso, rappresenta la volontà di
alleanza pubblica, basata su regole e riconoscimento.

2.CONFLITTO

Non sarebbe corretto percepire gli opening gifts e i rituali di riconoscimento in genere come una
disposizione naturale al consenso. Sullo sfondo aleggia sempre una possibilità di conflitto in queste
procedure. Il dono è accettazione, ma anche affronto: possibilità di inserimento così come di conflitto.

Per questo diciamo che la procedura del dono cerimoniale acquista il suo senso solo a partire da un
possibile conflitto. Al rischio dell’uno corrisponde il rischio che l’altro si assume nel rispondere. Rischiare
diventa una testimonianza di fiducia. Entrare in gioco è replicare. Non farlo è mettersi fuori-gioco. I due
sentimenti morali che muovono quest’esigenza sono l’onore e il rispetto. Ecco che, sotto questa logica, il
dono cerimoniale diventa agonistico nel senso si pone come alternativa valida alla guerra, che rende il
possibile nemico, alleato.

3. RECIPROCITÀ

Essendoci un obbligo implicito di risposta nel dono cerimoniale, esso si caratterizza per una reciprocità
forte. Essa è -necessariamente- la risposta di un agente B all’azione di un agente A ed è determinata da una
successività nelle azioni e asimmetria alternata nelle posizioni ricoperte. Ma, tornando all’obbligo di
rispondere, perché esiste? Non è né una necessità, né un obbligo giuridico, né un’esigenza etica. Attraverso
la metafora del gioco con più concorrenti si comprende come il non rispondere equivalga a mettersi fuori-
gioco: un gioco sociale in cui il problema è accettare o no la possibilità di riconoscere l’altro e, nel caso, di
viverci insieme. Infatti, il dono cerimoniale è un patto sociale a tutti gli effetti, una convenzione.

Un altro interessante quesito da porsi è: cosa lega reciprocità e riconoscimento? Possiamo comprenderlo
attraverso la storia di Prajâpati: lui è terra, cielo, aria, fuoco. In una parola “tutto”, il primo uomo. Ma non sa
distinguere demoni da dei, così organizza un banchetto e si mette ad osservare: certe creature mangiano
con avidità ed egoismo, altre invece si imboccano a vicende. L’uomo comprende che i secondi sono gli dei
da imitare. Non c’è un motivo per cui lo facciano: non è carità, perché non sono in stato di bisogno; non è
un dono unilaterale, perché è reciproco; non è un gesto di solidarietà perché c’è cibo in abbondanza per
tutti. SI TRATTA DELLA DECISIONE DI FARE COMUNITÀ. Imboccandosi reciprocamente, si riconoscono e

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

aiutano dall’esterno ad essere riconosciuti. Apparentemente, il riconoscimento reciproco non aggiunge


nulla. In realtà inaugura una politeia e lo fa, perché è reciproco. L’altro da me è l’altro per me.

4. PUBBLICITÀ

Il dono cerimoniale concerne SEMPRE i gruppi anche se ha luogo tramite figure che rappresentano questi.
Questo carattere pubblico è inerente al rituale. Malinowski, infatti, classifica come cerimoniale un’azione
pubblica, compiuta osservando precise formalità, dall’importanza religiosa o magica o sociologica. Per
questo dono istituzionale è sinonimo di cerimoniale, ma non appartiene alla cosiddetta “socialità primaria”,
come il dono gratuito o solidale. Da questo punto di vista, il dono cerimoniale ci dà due lezioni:

1. Ogni incontro, ogni relazione sociale di qualsiasi tipo implica l’atto di riconoscersi reciprocamente,
rivelando, anche attraverso il dono cerimoniale, ciò che fonda la società;
2. Il dono cerimoniale costituisce l’emergere stesso dello spazio pubblico, come esperienza di alleanza
convenzionale ed effettiva fra gruppo e gruppo.

IL PROBLEMA DEL RICONOSCIMENTO PUBBLICO OGGI

Nelle società di tipo statale allora, come si esprime questo riconoscimento pubblico reciproco, assicurato,
nelle società tradizionali, dagli scambi rituali di doni? È assicurato dalla legge, dalle istituzioni politiche e
giuridiche, dai diritti e dalla lotta per questi. Il dono cerimoniale basato sullo scambio di beni, infatti, è
proprio di società arcaiche nelle quali l’autorità si confonde con i sistemi di parentela e le alleanze
matrimoniali. Con l’emergere, in un certo momento, di un’autorità che trascende i gruppi di parentela,
l’uomo si percepisce sempre come appartenente ad un clan, ma abitante di uno spazio più ampio: quello
della polis.

Essa si costituisce intorno al VII secolo, rafforzata dalla riforma oplitica, che rende uguali tutti i guerrieri.
Possono confrontarsi in assemblea attorno al meson, il centro vuoto, dove verrà messo il bottino una volta
conquistato e diviso in parti uguali. Questo il punto di partenza per codificare la città come spazio pubblico,
dotato di agorà, foto, templi, stadi, teatri e luoghi di deliberazione politica. Il termine “nomos”, da che era
un lotto di pascolo o terra dato ad ogni discendenza, prende il nome di legge condivisa, regola di tutti. È così
che le Erinni cedono il posto ad Atena e il dibattito comincia ad essere gestito dall’histor: giudice,
inquisitore, mediatore, che annulla ogni vassallaggio.

LE SFERE DI RICONOSCIMENTO

Ma se la legge rende abbastanza generico il concetto di riconoscimento pubblico reciproco, dove e come si
può ravvisare il suo carattere di reciprocità? Quest’ultima nella reciprocità fra cittadino e potere sovrano.

Nelle attività economiche  prima sfera di riconoscimento (PUBBLICA)

Nelle relazioni sociali quotidiane  seconda sfera di riconoscimento (COMUNE) vicinato, cortesia, favori,
comunità;

Nella vita personale (amore/amicizia)  terza sfera di riconoscimento (PRIVATA) nobile, anche unilaterale,
mette in circolo altra generosità, rispetto e riconoscimento verso qualsiasi essere umano.

Bisogna tuttavia, in ambito “sfere”, avere alcuni accorgimenti: innanzitutto, anche se è il Sé ad essere
inserito in esse, mai pensare il riconoscimento come autorealizzazione. O è reciproco o non è; bisogna
scegliere linguaggi ed espressioni adeguate per ogni sfera di riconoscimento, perché ciò che è valido in una,

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

può non esserlo in un’altra (es. un bravo scrittore non è per forza un bravo cittadino). I criteri di valutazione
nemmeno sono gli stessi; bisogna stare attenti a fenomeni che possono verificarsi fra sfere (es. si verifica
dominanza quando una sfera si impone sull’altra, come il politico sul religioso; o si verifica conversione
quando una sfera traduce i suoi valori in un’altra generando distorsione); il riconoscimento in una sfera può
implementare la stima di sé che può tradursi in un’altra sfera; la prima sfera possiede una priorità fondatrice
perché al suo interno si articolano le componenti nello spazio pubblico: politico, giuridico ed economico.

COSA SIGNIFICA RICAMBIARE? DONO E RECIPROCITÀ – MARK ANSPACH

Barbara Spinelli, alla Vigilia di Natale di qualche anno fa pubblicò un articolo intitolato: “Il dono è senza
perché”. Parla dello scambio dei doni e di come non sia poi così libero e spontaneo in quanto emerge un
certo senso di disagio nel momento in cui non è ricambiato. Ci sono doni speciali che, per quanto vengano
effettivamente compiuti, si annullano vicendevolmente per diversi motivi, rivelando una gioia più profonda
di quella contenuta nel semplice atto di donare: il dono aiuta nella conferma di qualcos’altro d più
importante. Come nel caso di Della e Jim ne “Il dono dei magi” di Henry, novellista statunitense di metà 800.
Lei vende i suoi capelli per comprare a lui una catena per il suo orologio e lui vende l’orologio per comprarle
dei fermagli. Il loro scambio è economicamente ed effettivamente poco saggio, ma “nello scambio di doni
c’è molto di più che non gli oggetti scambiati”.

Comunque, questa idea che la società sia orientata al profitto è tipicamente occidentale. Alle volte, per
giunta, “più è inutile, più regaliamo”. Come ci racconta Mauss relativamente agli scambi di doni nelle isole
Trobriand, gli oggetti scambiati non hanno valore utilitaristico, né tantomeno estetico, bensì simbolico.

Un'altra storia che può aiutarci a capire questo riguarda una storia apparsa tempo fa su un giornale italiano.
Antonio Fulvi intervistò il generale boliviano che catturò Che Guevara, il quale, al momento della cattura
indossava due Rolex d’acciaio al polso. I boliviani restituirono gli orologi e il cubano Fidel Castro, come
ringraziamento gliene mandò uno d’oro massiccio. Questo incarna ciò che Mauss chiama “lo spirito del
dono”, anche detto, “hau”, a sottolineare che nel dono è presente una forza misteriosa estranea al
mercanteggiare che implica comunque il ricevente a ridonare anche qualora non fosse costretto a farlo.

Purtroppo, esiste questo, come anche la grande importanza che l’economia di mercato riveste nelle nostre
società e che ci spinge ad assimilare ogni scambio a quello mercantile. Per Adam Smith, padre
dell’economia moderna, l’uomo ha una disposizione naturale a “trafficare, barattare e scambiare”, che lo
distingue dagli animali. Riflettiamo ora sul fatto che il dono talvolta possa essere più arricchente dello
scambio mercantile. Levi Strauss ci propone l’usanza in certe osterie del sud della Francia, di versare piccole
bottiglie dello stesso vino al commensale seduto di fianco nello stesso tavolo. Ad effetto domino, ognuno lo
verserà all’altro, con l’obbligo pacifico di relazionarsi e alla fine, tutti avranno la stessa quantità dello stesso
vino. In questo caso lo scambio di doni crea una relazione laddove non ce n’era di alcun tipo. Questa è una
prima differenza fra dono e scambio economico: uno implementa e fa germogliare la relazione, l’altro la
schiaccia. Uno innesca una reazione a catena, l’altro, effettuato il pagamento, libera da ogni vincolo. Strauss
ci presenta poi due modalità di scambio del dono: scambio generalizzato (A dona a B, che dona a F che dona
a X che, solo poi, donerà nuovamente ad A); questo genera un flusso inspiegabile e sinergetico. Scambio
diretto, si dona alla stessa persona da cui si è ricevuto un dono. Ma non sempre il cerchio si chiude. Esistono
infatti anche i doni di trasmissione di generazione in generazione, contraddistinti dalla loro fiducia verso il
futuro.

Non è un male che il dono sia ricambiato, non lo rende meno “dono”. Donare pretendendo di non essere
ricambiato è l’ennesima tendenza onnipotente e individualistica derivante dalla nostra società.

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

Se c’è qualcosa che però contraddistingue la nostra società da quelle tradizionali è la prevalenza di doni fatti
agli sconosciuti. In uno dei suoi reportage dall’America, Vittorio Zucconi ci racconta un’autentica storia di
Natale che rappresenta perfettamente l’essenza del dono, il suo mistero, lo scambio diretto e generalizzato,
che la generosità è qualcosa che non si improvvisa, che lo scambio di doni innesca una potente sinergia e
che il dono potente viene ripagato solo da sensazioni altrettanto potenti (storia di Larry, da barbone a
milionario).

Un esempio che, invece, intreccia alla perfezione sfera privata e pubblica, in quanto da un bisogno
contingentato, diventa esigenza e soddisfacimento di essa generalizzato, è quello di Barb e Ron. Ron non
può dare rene alla moglie malata che, grazie ad una associazione, lo ottiene da un signore, Matt. Ron,
colpito dal gesto dello sconosciuto, lo dona ad una signora, Angela. La madre di lei, ad un’altra persona.
Questa catena di altruismo è ciò che caratterizza il dono. “È stupendo far parte di una cosa più grande di
noi”.

PRENDEVANO TUTTO E DAVANO CIÒ CHE AVEVANO DI BUON GRADO…

DONI INTESI E MALINTESI NELLE ANTILLE

SCONOSCIUTI O ESTRANEI?

Gli antropologi hanno documentato, nella storia degli incontri fra culture diverse, la ricorsività ad una
circolazione di doni e controdoni che le alimentano, mischiano e fortificano. Il dono funge da mezzo per
dirigersi al di fuori delle comunità di riferimento. L’alterità viene, poi, o assorbita o esclusa. Uno può essere
indotto a credere che nelle società tradizionali si viva un connubio con la natura, con gli animali, fra uomini
stessi, universale, ma in realtà, Malinowski ci spiega che anche le tribù meno sviluppate sanno essere molto
selettive. Il kula delle volte può diventare addirittura pericoloso anche perché non tutti “donano” e
interpretano il dono alla stessa maniera. Non è neppure sicuro che lo capiscano. Gli abitanti di Trobriand
non stipulano alleanze né con gli Amphlett, che, la tradizione vuole che abbiano coda e ali, né con le donne
di Kaytalugi, lussuriose e violente. I Dobu abbassano le lance davanti ai Kiriwina solo quando questi sputano
radici di zenzero in segno di pace. Insomma, il “primo contatto” è sovente avvolto da un’aura
drammatizzante e paurosa. Un esempio di incontro fra sconosciuti, ricco di malintesi e sfumature, è quello
che comincia il 12 Ottobre 1492 a largo di un’isola dei Caraibi.

L’IDILLIO PROBLEMATICO: BERRETTI COLORATI, SONAGLI E ALTRE BAGATELLE

Il più archetipo incontro fra estranei è quello fra Colombo e gli spagnoli con gli indiani Lucayo, un
sottogruppo degli indiani Taino, avvenuto il 12 Ottobre 1492 nell’isola di Guanahani, subito ribattezzata San
Salvador. Il resoconto originale di questo incontro è andato perduto, quindi noi abbiamo un ibrido scritto da
diversi ghost writers in cui il prevalente è Las Casas. È proprio lui a presentarci un incontro idilliaco dove la
benevolenza degli ospitanti si incontra con il paternalismo degli ospitati. Forse l’obiettivo di Las Casas era
quello di liberare i compatrioti dai pregiudizi negativi nei confronti degli indiani. Si racconta infatti la
predisposizione al dono (sia dare che ricevere) degli indiani, si dice che gli spagnoli diano sonagli, berretti
rossi perline di vetro e gli indiani matasse di cotone, zagaglie ecc. Agli spagnoli sembrano persone
poverissime di ogni cosa.

Ma già il figlio dell’Ammiraglio (Ferdinando Colon), autore di una sua biografia, introduce nuovi dettagli, in
merito al valore delle cose scambiate che era nettamente superiore da parte degli indiani ai doni fatti invece
dagli spagnoli: ci si avvicina alla descrizione di uno scambio mercantile. Si avverte una disparità fortissima

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

fra le fogliette d’oro, la bambagia ben filata che gli indiani “regalano” e pezzi di ciotole rotte e bagattini di
Portogallo con cui rispondono gli spagnoli.

Un altro testimone di questa storia è un cronachista dell’epoca, Pietro Martire d’Anghiera, che lesse, alla
Corte di Spagna una copia originale del diario ed entrò in contatto con molti naviganti che condivisero il
viaggio con Colombo. Lui, sottolinea invece, l’atto di scappare che compiono i Lucayo all’arrivo degli
spagnoli, convinti a riaffacciarsi agli invasori solo quando loro, dopo aver rapito una donna Lucayo, nutritala
e vestitala preziosamente, la rispediscono a convincerli della loro benevolenza. A quel punto, i Lucayo
rispondono diversamente, cominciando a portare oro agli stranieri in cambio di paccottiglia e quindi
classificando il linguaggio del dono come efficace e significativo.

C’è però una questione da chiarire: il dono non è solo un oggetto che passa da una mano all’altra. È
accompagnato da gesti, sguardi, toni di voce che presuppongono una codifica. Nel suo viaggio, Colombo
portò con sé Luis de Torres, fluente in lingue ebraica, araba ed aramaica. Nonostante ciò, come nell’episodio
dell’isola di Tortuga, dichiara di non comprendere quasi nulla di ciò che il cacicco locale afferma, se non la
sua disponibilità a mettergli a disposizione la sua isola. Con cosa abbiamo a che fare allora? Falsificazioni?
Inganni? Autoinganni?

Una cosa è certa: la predisposizione al dono e la relativa facilità con cui queste popolazioni indigene sono
solite stabilire contatti sono note e confermate da sempre maggiori studi etno-storici. Il dono, nelle loro
società, ha soprattutto valore simbolico-cerimoniale, che può certo diventare commerciale e mercantile, ma
non senza aver prima guadagnato la fiducia del partner con un pegno “gratuito”. Sull’isola di Guanahani,
invece, si verificò più un frenetico aprirsi e chiudersi di mani che porgono e altre che afferrano, senza
riuscire a stabilire chi avesse dato cosa in cambio di cos’altro. L’unica eccezione sarà quella dei “doni
diplomatici” fra Colombo e i cacicchi dei poteri locali, chiamati presentes (regali). Sottecchi questi scambi di
facciata e istituzionali ne avvenivano molti altri fra marinai e nativi, senza far uso del linguaggio né lasciando
traccia, impossibilitando la comprensione della natura di quei doni, così come l’eventualità di
un’appropriazione indebita da parte dei colonizzatori. Non è difficile, grazie ai racconti, capire che la
sproporzione fra ciò che gli spagnoli danno e ciò che ricevono, somiglia più a una spoliazione abusiva. E ci
aiuta a capirlo già il termine con cui venivano descritte queste transazioni, ovvero “rescate” (in portoghese
“resgate”: uno scambio che aveva la parvenza del baratto, con il ricorso, eventualmente alla forza, in caso di
complicanze. Dopo diventerà sinonimo di “commerciare da una posizione più vantaggiosa con persone
incapaci di intendere il valore materiale delle cose scambiate”).

Ma per quali ragioni dona Colombo? Innanzitutto, per guadagnarsi la fiducia degli indigeni; poi per farsi
dare le coordinate per fonti d’acqua, terre emerse, oro che tanto bramava. Quindi, declassiamo Todorov,
che denuncia un quasi totale disinteresse di Colombo verso di loro. Quest’ultimo è convinto che la
propensione al dono dei Lucayo, fosse naturale, pacifica, filantropica, come il loro essere nudi, al contrario
degli spagnoli: avidi e senza freni. Dunque, il fenomeno del “dono indiano” indubbiamente lo avvicinerà ai
locali, creando occasioni di contatto con loro, ma, al tempo stesso, accentuerà la diversità culturale che
intercorre fra “noi e loro”.

BRAMOSIE DEL DARE, BRAMOSIE DEL PRENDERE

Tutta questa enfasi di Colombo sull’ “innocenza patrimoniale” degli indiani è direttamente connessa al ruolo
che ha deciso di assumere. Approfitta infatti di questa ingenuità per fingere una regolamentazione nelle
procedure donative così da evitare, almeno in apparenza, soprusi: impone ai suoi marinai di prendere solo
“pagando” ed egli stesso si impegna a praticare dei doni unilaterali senza possibilità di controdono.
Conosciamo però la distanza che sovente intercorre fra parole e fatti in Colombo. In effetti, egli prende con

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

ogni mezzo l’oro e tanto altro che serviranno a giustificare la sua spedizione con i reali di Spagna. Si
impossessa perfino di alcuni nativi: e per essere guidato nelle terre più prospere e per essere servito.

Ovviamente queste persone non erano consenzienti al loro asservimento e deportazione. C’è anche da dire
però che non fu tutto facile per Colombo e per i progetti sensazionali che aveva in mente, come la
cristianizzazione, il finanziamento di una nuova e definitiva crociata per la riconquista di Gerusalemme, la
sua personale ascesa in politica. Infatti, l’equipaggio dell’Ammiraglio non si dimostrò sempre entusiasta né i
nativi addomesticabili e docili. Ad esempio, gli abitanti dell’isola di Cariai restituiscono/abbandonano sul
lido i doni fatti dagli spagnoli perché ci tengono più a dare che a ricevere, più alla reciprocità che
all’esibizionismo unidirezionale. Alla fine, ciascuno rifiuta quello che l’altro vuole dare perché rifiuta il modo
con cui l’altro vuole dare. E Colombo, anziché attribuire questa divergenza ad una bella diversità culturale,
giudica sprezzantemente la ragione, secondo lui obnubilata, di questi individui. Non donano perché sono
generosi, bensì perché molto stupidi ed incapaci di comprendere il valore di ciò che possiedono. Questo fu il
movente dietro la sua idea, poi attuata, di potersi appropriare liberamente di ciò che, formalmente, non era
proprietà di nessuno. Per di più, si pensa che, a rafforzare questo pensiero sia il fatto che, per gli spagnoli,
chi è inabile alle merci, fosse destinato a diventare egli stesso una merce.

Aggiungiamo in ultimo che, comunque, Colombo spesso operò una distinzione fra popoli docili e indocili, da
manipolare all’occorrenza. Possiede una griglia conoscitiva delle popolazioni che incontra, ma non stenta a
rivisitarla o implementarla quando deve, come nel caso degli abitanti dell’Isola di Fernandina che non sono
completamente nudi e più avveduti nelle transazioni, qualificandosi come superiori ai loro simili. Non serve
aggiungere altro per comprendere come, per gli spagnoli il “dono insensato” cresce quanto più lo fa lo stato
di natura in cui vive chi lo pratica. L’attività di scambio è quindi il metro utilizzato dagli spagnoli per
classificare etno-culturalmente le popolazioni che incontrano e il loro grado di civiltà. Peccato che, nelle
Antille, ad Hispaniola, dove ci sono le abitazioni meglio costruite, gli scambi più fiorenti, gerarchie sociali
scandite e visibili, gli abitanti siano pacifici e totalmente nudi.

DONI AGLI UOMINI O DONI AGLI DEI?

Il 15 Ottobre, l’Ammiraglio, sul suo diario, racconta dell’incontro con un uomo in canoa che, dall’Isola di
Santa Maria passava alla Fernandina con, nell’imbarcazione, anche perline di vetro e blancas, che lasciarono
intuire a Colombo che i suoi “prodotti” erano entrati nel circuito locale degli scambi. Lo ospita sulla nave, lo
sfama, disseta e lo lascia dove desidera. Non per questo dobbiamo pensare che i Taino vivano in funzione
dell’arrivo e delle direttive degli europei, perché spesso si cade nell’errore di pensare che questi siano stati
popoli inattivi fino all’arrivo dei colonizzatori. Il figlio di Colombo, come altri, fa trasparire la presunta
assimilazione degli spagnoli, da parte dei Taino, a divinità: questo giustificherebbe e la bramosia di ricevere i
doni degli spagnoli e l’accontentarsi di pezzi di coccio in cambio di fogliette d’oro.

Se per un attimo questa interpretazione sembra riqualificare la ragione di questi nativi, immediatamente
dopo, la delegittima definitivamente: scambiare degli uomini per degli dèi è peggio che prendere delle
perline in cambio di puro cotone. Eppure, sembrava a Colombo, come ad altri, che lì nelle Antille non fosse
professata alcuna religione, in quanto non c’erano segni di culto (templi, statue, preghiere). Questo non
significa che i Taino, ci spiega Las Casas, non possano aver pensato ad una epifania fugace/transitoria dei
proprietari di quei beni, tenuti come reliquie, sotto la veste appunto di divinità mai manifestatesi prima.
Comunque, tutto questo ragionamento si riduce, nel diario di bordo, alla sola formula “li omini venuti dal
cielo” per indicare gli spagnoli e le loro elargizioni agli indiani che baciano loro mani e piedi. È da specificare
che non conosciamo se questo sia vero, in quanto Colombo traduce in lingua le battute degli e fra gli
indigeni, senza conoscere il loro codice linguistico, quindi, è probabile che siano riportate nel diario solo
proiezioni presunte della volontà dell’Ammiraglio, che non è nuovo a questi sistemi. Esistono altre
interessanti interpretazioni di questo episodio. Obeyesekere inquadra le vicende di Colombo come il

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

perpetrarsi di un ciclo di miti coloniali accomunati tutti dalla stessa tendenza a rappresentare i nativi come
irrazionali ed infantili, ignorando il loro essere dotati di “ragione pratica” rispetto a quella scolastica
medioevale che potevano possedere gli spagnoli del ‘500.

Poi, quell’enunciato “esseri venuti dal cielo”, potrebbe significare anche, dalla prospettiva dei Taino, che, in
prossimità del luogo da cui provenivano le navi spagnole, NORDEST, il mare sembrava effettivamente
congiungersi con il cielo.

Nell’ipotesi invece di Roget, i Taino ad un certo punto sarebbero arrivati alla conclusione che gli spagnoli
provengano in realtà da Coaybay (la terra dei morti) e abbiano agito dirottandoli continuamente verso altre
isole lontane, per spronarli ad accedere finalmente al loro nuovo mondo. Infatti, le cronache ci raccontano
di questi ospiti che non vengono mai trattenuti, ma sempre mandati da qualche altra parte.

Un’ulteriore testimonianza della concezione che i nativi avevano degli spagnoli ci proviene da Panè, monaco
eremita che seguì Colombo nel suo secondo viaggio e fu incaricato di studiare la religione degli abitanti di
Haiti. Nell’isola di Hispaniola raccolse una profezia: “Verranno uomini vestiti che ci domineranno e ci
uccideranno”. Prima credettero probabilmente che questo oracolo si riferisse ai cannibali; ora, invece, ai
cristiani. Colombo asserisce che l’assimilazione spagnoli-carib fosse in realtà riferita a membri dell’esercito
del Gran Khan che di tanto in tanto facevano incursioni nelle terre vicine per procacciarsi schiavi. Poi invece
sembrerà ricredersi sull’esistenza dei cannibali. La profetica sovrapposizione fra gli spagnoli e i carib sarà
interpretata in due modi principalmente: gli spagnoli massacratori come i veri cannibali; gli spagnoli che
riqualificano una mediazione fra popoli, prima compiuta esclusivamente proprio da questi carib.

LO HAU DEL CACICCO

Dal vicendevole scambio di doni possiamo trarre altre utili informazioni, soprattutto se guardiamo alle
Grandi Antille, dove entra in scena l’èlite locale dei cosiddetti cacicchi. L’arrivo dell’Ammiraglio ad Haiti è
prudente, in quanto ha già perso la Pinta e i fondali sono molto impervi. Questo approdo avviene per gradi
e mette in condizione i locali di familiarizzare già da subito con la presenza di ospiti. Quando, la mattina del
23 Dicembre si cominciano a vedere le navi in lontananza da nordest dell’isola, gli haitiani le raggiungono
anche a nuoto e cominciano a scambiarsi doni molto preziosi. Colombo impone che non si prenda senza
ridonare qualcosa. Questa interazione si svolge sotto gli occhi di Guacanagarì, uno dei cinque cacicchi che
governano l’isola. Assieme ai delegati del cacicco, arrivano anche i doni per l’Ammiraglio, fra cui un pezzo
unico: una cintura d’oro con attaccata una maschera con due grandi orecchie, naso e lingua in oro battuto:
la celebre guaiza. Non è l’unico incontro che Colombo e il cacicco avranno, sempre con le stesse modalità:
ingresso nel villaggio, sistemazione su poltrone pregiate, condivisione del pasto, infine scambio di doni. Il
cacicco fa indossare a Colombo la sua corona e altri due re gli regalano due piastre d’oro; lui risponde con
una preziosa collana di pietre rifulgenti, un anello d’argento e la sua cappa.

Questo è uno degli ultimi scambi documentati prima del disastro della Santa Maria, il 25 Dicembre che
costrinse l’ergersi di un fortino (Natividad) dove collocare momentaneamente gli spagnoli prima che
Colombo facesse ritorno a prenderli. È questa l’ultima occasione in cui l’Ammiraglio e il Cacicco Guacanagarì
hanno modo di sugellare la loro alleanza: all’Ammiraglio serve infatti non tornare a mani vuote, dunque
trovare il “suo” oro e la momentanea protezione del suo equipaggio. Al cacicco di Marien serve prova della
forza spagnola (infatti li fa esibire in una gara di tiro con le balestre) per guadagnare ancor più prestigio,
sfoggiando alleati invincibili, provenienti da terre misteriose e lontane.

La cosa affascinante è che, non essendo Colombo il Re degli spagnoli, né probabilmente neppure
Guacanagarì l’effettivo e unico signore di Marien, questo loro scambio orizzontale di doni, paradossalmente
riesce meglio e interessa anche beni molto personali, determinando un vero e proprio guaitiao, che, ad

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

Hispaniola, costituiva una relazione di amicizia fraterna fra pari. È necessario focalizzarsi sul dettaglio della
maschera guaizas donata all’Ammiraglio perché è culturalmente uno degli oggetti più complessi, ma al
tempo stesso più comuni, da ciò che traspare nei diari, della società Taino. Sono maschere con inserti d’oro
e metallici o di conchiglie, che, all’occorrenza possono essere indossate sul viso, ma molto più
comunemente, fanno da fibbia a cinture di cotone o costituiscono diademi, che portano gli spagnoli a
classificare la guaiza anche come “corona”. Presentano analogie con i cemì, statuette di spiriti potenti,
conservate però come reliquie. Invece le guaizas erano probabilmente oggetti di uso comune, anche se, nel
tempo, dagli archeologi, non sono state ritrovate. La loro traduzione è “la mia faccia”, “faccia del vivente”,
“spirito del vivente” e ricordano le maschere funerarie comuni in America Centrale. Per questo potrebbero
significare lo strato presente sotto la nostra carne quando, dopo la morte, ci decomponiamo e mostriamo la
nostra “vera” faccia. Quel che è invece certo su queste maschere è la loro varietà. Ad esempio, quella con
occhi lacrimanti era posseduta da chi, dotato di speciali poteri, interagiva con le forze della pioggia. Pur
essendo personificazioni di chi le possedeva, non era detto che non potessero essere scambiate: anzi, erano
forse la forma più alta di dono, in certe situazioni, anche risolutivo (nel Golfo de las flechas dopo una
scaramuccia, gli isolani donano una maschera agli spagnoli, ma poi improvvisamente li attaccano e si danno
alla fuga dopo la risposta animosa dell’equipaggio di Colombo. L’indomani gli autoctoni portano un’altra
maschera a Colombo che li sfama con pan di biscotto e miele. Colombo decide comunque di rapire, in
quell’incontro, alcuni uomini, insegnargli il castigliano e farsi aiutare nella ricerca dei tesori nascosti di quelle
terre).

All’inizio del secondo viaggio, Colombo riceve una guaiza da Guacanagarì, anche se le condizioni questa
volta sono diverse. Colombo ha con sé 17 navi, 1500 uomini e tutto l’occorrente per una colonizzazione
duratura. Nel novembre del 1493, approdato ad Hispaniola, Colombo scopre che la fortezza della Navidad è
stata spazzata via e i suoi occupanti uccisi, ma i corpi sono sparpagliati a distanze diverse. Anche qui,
all’arrivo di Colombo sull’isola, gli viene portata una maschera meravigliosa, a rinnovamento di quella leale
alleanza. Ma Colombo vuole saperne di più e, condotto dal cacicco, lo trova giacente in un letto con una
ferita di battaglia risalente al conflitto proprio con i rapitori e uccisori Caonabo di una regione vicina, che
hanno massacrato gli spagnoli, poi annegati nel tentativo di sottrarsi alle fiamme appiccate dagli invasori nel
fortino. L’Ammiraglio decide di prenderla per buona e avviene un ultimo scambio di doni, secondo i diari
ritrovati, non esattamente equo (Guacanagarì dà molto di più, in un atto di forse tacita sottomissione o
discolpa). Lo “hau” del Cacicco ha comunque la meglio sulle forze distruttive che parte dell’equipaggio di
Colombo vorrebbe infliggergli. Forse questo costituisce una mossa strategica da parte dell’Ammiraglio che
intendeva convincere i popoli vicini di possibili alleanze tolleranti ed eque. Con questa scelta, cominciano
invece le “campagne di pacificazione” che, in pochi anni, trasformarono l’isola in un immenso cimitero a
cielo aperto.

IL DONO ASTUTO

Eppure, l’egemonia spagnola non potrà considerarsi come il solo prodotto dell’imposizione della propria
forza armata. I sistemi di scambio indigeni, con cui gli spagnoli hanno familiarizzato, possono essere
manipolati e rappresentano ora una mossa strategica. I Caonabo, capro espiatorio dell’eccidio della
Natividad rappresentano per gli spagnoli il primo problema di eventuale resistenza organizzata. Per di più
ospitano un matunherì (cacicco principale/maggiore) che avrebbe potuto, investito del massimo potere
politico e spirituale, riunire le forze per contrastare gli invasori. All’accennarsi delle prime conflittualità
Colombo, sotto consiglio di un suo luogotenente, invia emissari ed interpreti locali a Caonabo con un “dono
speciale”, elaborato in seguito alla collaborazione, frutto di interscambio culturale, con alcuni locali del
posto, che assicuravano il successo di materiali lucenti sullo stupore del cacicco: una catena di ferro lucida e
brillante. Al cacicco viene detto che si tratta di gioielli inestimabili indossati dall’equivalente matunherì di
Castiglia nelle loro feste areyto. Per dare l’ennesima prova della buona fede degli spagnoli, in assoluta

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

corrispondenza con le credenze locali, il cacicco viene invitato a lavare quel dono per proteggersi,
purificarlo, evitare di entrare in contatto con sostanze eventualmente pericolose. Quella diventa l’occasione
per imprigionare il cacicco con la speranza di estorcergli segreti inconfessabili, ma Colombo capisce presto
che non è così. Indeciso fra liberarlo o trattenerlo, lo spedisce in Spagna, ma una tempesta farà naufragare
l’imbarcazione e presto i locali insorgono in una coalizione formata dai principali cacicchi dell’Isola, vinti
nella battaglia di Villa Real nel 1495. È in quel momento che gli spagnoli si accorgono della profonda rete di
alleanze che lega isolani e cacicchi, disposti perfino a bruciare i loro depositi di cibo pur di non consegnarlo
nelle mani degli invasori. La penuria di cibo miete vittime in entrambi gli “schieramenti” e ben presto
comincia a regnare il chaos. Gradualmente l’equilibrio eco-sistemico comincia ad essere violato, tanto che
gli indiani saranno costretti a rifugiarsi sulle montagne. Si avviarono le condizioni per il rapido declino
demografico, dovuto allo sterminio (armi/malattia/fame) subito dagli autoctoni per mano degli spagnoli,
che presto ripopoleranno quelle terre con altri deportati da isole caraibiche e terre africane, incuranti dello
sradicamento/confusione culturale che avrebbero provocato, nonché della reazione a catena innescata.

GIFTS GONE WRONG

Verso la fine del Quattrocento, gli spagnoli, sull’isola di Hispaniola, imposero a tutti gli isolani di età
superiore ai 14 anni di versare ogni tre mesi un campanello di ottone pieno d’oro. Pene serie erano inflitte
agli inadempienti, come il taglio netto di parti del corpo. Per l’Ammiraglio, la responsabilità del corso
catastrofico della colonizzazione di Hispaniola ricadeva sull’avidità dei nativi, che, come un’orda famelica, si
rovesciarono sull’isola nell’illusione di potersi arricchire subito e senza sforzi. Sempre al suo pensiero,
appartiene la convinzione che la scoperta dell’America sia stata un dono di Dio, da restituire, evangelizzando
queste terre. La bolla Inter Caetera con cui, nel 1493, Papa Alessandro VI legittima la spartizione delle terre
di nuova scoperta tra spagnoli e portoghesi, è testimone della commistione fra istanze spirituali e materiali
che determinò l’atteggiamento degli spagnoli nel Nuovo Mondo. Probabilmente, all’uscita da un Medioevo
dominato dalla religione assoluta, con l’ingresso nella modernità, la quale colloca il bene materiale al
vertice della scala dei suoi valori, si perse ad un tratto la retta via da seguire, quasi legittimando
quell’imperialismo cristiano perché finalmente portatore di verità, luce a quei selvaggi che, solo attraverso
la schiavitù, avrebbero compreso la libertà della vera fede; solo perdendo tutto sarebbero giunti al Tutto
effettivo e originario. Intanto però i missionari si trovavano a chiedere fondi per l’educazione religiosa dei
nativi ai comenderos, coloro che si arricchivano sfruttando il lavoro selvaggio di questi infigeni. Il tentativo di
mettere d’accordo ricerca di profitto e diffusione della fede, avvenne, ma si rese ben presto ampiamente
contestabile e non solo da Las Casas.

LO SCAMBIO INEGUALE

Gli scritti di Las Casas contribuiranno al diffondersi della cosiddetta leyenda negra che stigmatizza il modello
di colonialismo massacratore e devastatore spagnolo, dal quale Inghilterra, Francia e Olanda, a partire da
XVI, pretenderanno sempre di differenziarsi. Diciamo che però, anche queste altre nazioni tenderanno a
scambiare l’equivalente delle cosillas (trifling things e petiz presens de peu de valeur) con la stessa astuta
furbizia dei predecessori. Per il loro accontentarsi di minuzie in cambio di oro battuto e anche per l’infantile
fanciullezza con cui si presentavano agli occhi degli invasori, l’Europa trae rapidi profitti, ma anche l’idea di
un’indiscussa superiorità culturale. Ci spiega il monaco benedettino Benito, nel 1728, che gli indiani in
realtà, accettando doni di scarso valore, ma eguale bellezza, si comportarono come il resto del mondo:
focalizzandosi su ciò che gli mancava. Su ciò che, fra l’altro, neppure gli sarebbe stato utile, visto che con le
spille che gli spagnoli gli regalarono, avrebbero fatto ben poco, essendo nudi. Un'altra tesi però suffraga
questa: il dono non deve sempre essere utile o motivato e comunque, l’ingegno di questi popoli li portò a
riutilizzarlo. Le spille per pulire i denti o come ami da pesca; le asce europee, “defunzionalizzate” per ornare

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

sé stessi o le loro abitazioni. Insomma, quando hanno la possibilità di scegliere, gli indiani prediligono
inspiegabilmente il “superfluo assurdo”. Las Casas ci racconta di un episodio in cui, dopo aver raccolto una
quantità considerevole di oro, un indiano lo presenta agli spagnoli in cambio di un campanello d’ottone e
poi scappa come un forsennato, quasi credendosi lui il truffatore che ha dato meno di quanto dovesse.
Questo episodio ci aiuta a riflettere sul valore di cui si rivestono i beni materiali a seconda del contesto di
vita e del sistema di valori mutato da società a società. Infatti, quel campanello, secondo Las Casas, avrebbe
probabilmente sostituito durante le areytos quelli di legno, riempiti con sassolini, dal suono piuttosto
ovattato.

Dell’oro sappiamo che ne disponevano perlopiù i cacicchi per ornamento personale e domestico e che gli
spagnoli sono ossessionati dalla loro purezza, mentre i Taino preferiscono il guanìn, una lega di rame, oro e
argento che invece i conquistadores chiamano oro de baja ley. I guanìn sono più apprezzati perché la
combinazione di oro con rame conferisce all’oggetto una brillantezza rossiccia che richiama quella del sole in
certe ore del giorno. In più il giallo è assimilato al principio maschile; il rosso, che richiama il sangue
mestruale, a quello femminile (da qui deriva il suo scambio in occasioni matrimoniali); anche la percezione
olfattiva conta: sfregando, il guanìn produceva un olezzo simile a quello dei fiori tagua tagua, un tipo di
passiflora, che venivano considerati terapeutici e indicavano il luogo in cui erano stati trovati. Infatti, questo
materiale rappresenta una produzione locale dell’Isola di Hispaniola. Forse proviene dal Venezuela o dalle
piccole Antille. Di questa lega si parla molto nei miti di fondazione Taino risalenti alla figura del primo
cacicco, Guayahona: partito dall’Isola di Hispaniola per giungere a Guanìn, porta con sé tutte le donne che
abbandona lungo il tragitto sull’Isola di Matinino (nell’immaginario spagnolo presto diventata Isola delle
Amazzoni). Durante la traversata si imbatte in una donna, forse la sorella, con cui ha un rapporto incestuoso
e, prima di ripartire, questa gli dona orecchini di guanìn e altre pietre. A questo punto Guayahona viene
assunto in cielo dal Sole, trasformandosi in un corpo celeste, identificato poi presumibilmente col pianeta
Venere. Ecco un altro motivo per cui l’ottone è tanto ben accetto: viene probabilmente assimilato dai Taino
alla categoria di materiali guanìn. L’oro diventa ben presto anche una possibilità di mobilità sociale per i
Taino che erano, come in tutte le tribù tradizionali, vincolati alla loro posizione di nascita. Non appena si
accorgono che quello è l’oggetto di interesse si tenterà di monopolizzare gli scambi con gli spagnoli, a
partire da Guacaganarì.

Comunque, se i Taino avessero posseduto mezzi e tecniche estrattive adeguate, gli scambi sarebbero potuti
continuare per molto più tempo all’insegna di una reciproca, e non univoca, soddisfazione. I doni, intesi
nell’ottica di Colombo, non furono che alternativa alla forza. I campanelli d’ottone uno specchio per le
allodole in sostituzione tacita delle spade d’acciaio. Las Casas aveva invece una concezione diversa di dono,
come se si trattasse di pura armonia sociale. Per questo chiede una continuazione delle missioni di scoperta
dove spetta ancora al dono inaugurare una nuova storia di incontri e relazioni.

L’opinione di Las Casas fu anche influenzata dalle Leyas Nuevas, promulgate nel 1542 da Carlo V con lo
scopo di migliorare le condizioni degli indigeni dell'America spagnola, fondamentalmente attraverso la
revisione del sistema dell'encomienda. Non era facile però compiere questa inversione di tendenza.
Tuttavia, restava corretto sperare in una possibile riqualificazione e guadagno della fiducia, tralasciando ogni
giustificato pessimismo. Forse il sistema delle reducciones in Paraguay e altri paesi americani, più tardi,
rappresenta uno dei tentativi più prossimi di colonizzazione pacifica ed equa, alla ricerca di una fusione fra
doni del sistema autoctono e quelli del sistema cristiano.

DONARE NELL’ISLAM: DAL DONO CARITATEVOLE ALLE FONDAZIONI PIE

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

Nonostante la sadaqa islamica, il dono caritatevole, sia ivi molto diffuso, in Occidente è una forma di
relazione quasi sconosciuta. Ne conosciamo alcuni aspetti grazie a Guillaume Postel, spinto a conoscere
quei luoghi da un altro viaggiatore, Seraphin de Gozza che gli fa da apripista, anticipandogli cosa si troverà
davanti.

Peregrinando per Bosnia, Serbia e Turchia, racconta di un’accoglienza sorprendentemente calorosa e


gratuita ad opera di un uomo autoctono che lo invita anche a trascorrere la notte lì, certo che Dio lo avrà
ancor più in gloria: questo è il senso autentico della sadaqa: apertura a tutti senza condizioni. “Darai da
mangiare e rivolgerai l’augurio di pace a chi conosci e a chi non conosci”. Questo viaggio dischiude al
viaggiatore francese anche le diverse dimensioni della sadaqa: quella orizzontale (verso il prossimo) che
dischiude le porte di quella verticale (verso Dio). Deduciamo che, a dispetto di altri tipi di doni, la sadaqa è
mossa da una specifica intenzione religiosa. Visto, che, come si ripete in più punti del Corano “Dio ha creato
il mondo e lo ha donato all’uomo”, l’uomo, per gratitudine o per semplice paura, è chiamato ad onorarLo
nella dimensione verticale attraverso la preghiera; in quella orizzontale per mezzo del servizio a poveri e
bisognosi. Attraverso la mediazione dell’indigente si realizza così giustizia divina ed umana
contemporaneamente. L’essere-di-Dio, nella sadaqa, si realizza attraverso l’essere-per-altri. Un’altra storia
che ci aiuta a capire questo è quella dei giardinieri che si dimenticano di ringraziare per l’abbondante
raccolto datogli da Dio e corrono a raccoglierne i frutti, dimenticandosi di ringraziarlo; così trovano il
giardino devastato da una tempesta e si ricordano della loro ingratitudine e iniquità. Il disconoscimento
dell’ordine spirituale che dona il Creato, che resta comunque Suo, genera una repulsione del Creato stesso
verso l’uomo che non ha lodato il suo Creatore. Per concludere, diciamo che all’ostensione istrionica del
dono selvaggio, la religione del Corano preferisce la regola della discrezione. Questo, nel caso del dono ai
poveri, per preservare la loro dignità, praticando il dono “in segreto”, che non perde affatto di significato;
anzi, probabilmente restituisce ancor più un’idea di gratuità non conoscendone spesso il beneficiario.

LE PRATICHE DELLA SADAQA (DONO CARITATEVOLE)

La sadaqa trova applicazione e giustificazione nei due principali libri dell’Islam: il Corano e la Sunna. Questo
dono accompagna le società islamiche da secoli. Ciò che lo motiva è contenuto in un hadith: “Dispensa e
dona e non star lì a tenere il conto”. La sadaqa spesso si concentra nelle festività religiose; a cadenza
settimanale, principalmente il venerdì: l’ingresso nelle moschee si popola di poveri e la preghiera si tramuta
in carità. Ci sono anche delle feste, in particolare nel mese del Ramadan in cui vigono interventi di
solidarietà obbligatoria, come nel giorno di id al-fitr (fine digiuno, conclusa festa, tempo di visite e scambio
di doni). Nella forma di dono zakat l’autore non è libero di determinare come e cosa donerà. Nella sadaqa sì.
Si apparecchiano dunque lunghe tavolate per far beneficiare tutti del pasto con cui, al tramonto, si
interrompe il digiuno del Ramadan. L’altra importante festività religiosa è legata al pellegrinaggio alla Mecca
che ogni musulmano deve compiere. Il Dhu ‘l-Hijja, nell’ultimo mese dell’anno musulmano, ospita appunto
la grande festa di ‘id al-qurban, il decimo giorno. È una festa in ricordo di quando Dio chiese ad Abramo di
sacrificare suo figlio Isacco per provare la sua fedeltà. Possibilmente, a fine festa, va consumata carne di
montone. Questa è appunto un’altra occasione per manifestare pubblicamente la propria magnanimità e
generosità.

L’ELEMOSINA NELLA NOTA DI MARCEL MAUSS

La sadaqa si manifesta, come abbiamo già detto, in atti spontanei che rivelano affetto e cura, soprattutto
verso poveri e bisognosi. Mauss nota il legame fra questo “prendersi cura” e l’elemosina: gli darà infatti
lustro in una nota nel suo Saggio sul dono. Mauss colloca il luogo di nascita dell’elemosina nella “storia delle
idee morali dei Semiti”, quando “la vecchia morale del dono diventa principio di giustizia”. Precedentemente

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

ci sarebbero state infatti forme estreme di circolazione dei beni, dove la prodigalità (sperpero eccessivo di
denaro) si era spinta fino alla distruzione dei doni. Secondo Mauss, ancora, queste pratiche distruttive che
esistevano un tempo (es. sacrificio di uomini/animali) per assicurarsi la salvezza in una dimensione verticale,
hanno cessato di esistere quando, nella dimensione orizzontale, diritto e religione si sono evoluti,
trasformando il sacrificio in cura verso poveri e fanciulli.

DONARE AI POVERI: DALLA BENEFICIENZA AL CREDITO

In quest’ambito è importante che si parli anche del contributo del Cristianesimo, che si è mosso sul solco
tracciato dall’Ebraismo: una rivoluzione che si realizzò lentamente dal 300 al 600 a.C. e grazie alla quale la
cura dei poveri diventò una virtù pubblica. È connessa all’ascesa al potere del vescovo cristiano come guida
sempre più influente nella società tardo-romana e alla sua posizione non trascurabile di tutore e amante dei
poveri per eccellenza. Questo nuovo modo di donare comporta una trasformazione culturale e una nuova
interpretazione della povertà: si allarga il banchetto reale: accolti poveri, storpi, ciechi, zoppi.

C’è comunque un interrogativo che insidia: riconoscere il povero come tale, non equivale a relegarlo a quel
ruolo senza speranza di ascesa sociale? Già nel XII secolo, il pensatore Mosè Maimonide risponde a questa
domanda attingendo alla tradizione ebraica. Riferendosi al concedere prestiti ai poveri, il filosofo commenta
in merito al 197° Precetto che tratta appunto questo argomento, sostenendo come elargire prestiti ai poveri
equivalga al dar loro fiducia e sollevarli dai loro problemi. Questo precetto è largamente più significativo di
quello della beneficienza perché chi è bisognoso e si espone chiedendo aiuto, non si sente umiliato se viene
aiutato poco prima di esporsi e di cadere in un’effettiva miseria. Rispondere al bisogno del povero con un
prestito “è più grande e rigoroso” del fargli le elemosina perché si istituisce una relazione di fiducia che
invece può essere assente nella sola beneficienza, la quale si limita a dare, vedendo passivamente il
beneficiario, che invece, sotto prestito, riveste una posizione attiva. Il prestito è il punto di partenza e non
quello di arrivo, come nel caso della beneficienza. Il povero, attraverso il prestito, ha la possibilità di
integrarsi. Esso riduce anche le distanze, come dimostrano le attuali esperienze di microcredito: la cosa
importante da capire è che, se si investe nella dimensione sociale del dono, la fiducia in progetti come
quello del prestito, nutrirà una ricompensa di capitale sociale che potrà poi essere rinvestito. Per questo le
libere donazioni si estendono anche a beni comuni quali moschee, scuole, ospedali, come nella storia di
Tariq: pakistano da genitori americani che, morto nel 2005, per incidente stradale, vede donare la sua
eredità al college che frequentava. La famiglia Fisher destina la somma a studi di ragazzi islamici in
quell’università, con la speranza che cresca la filantropia fra popoli diversi e motiva il dono sostenendo la
tesi che nell’Islam esiste una tradizione del dono che agisce anche dopo la morte del donatore ed è
chiamata al-sadaqa al jariya. Così scopriamo l’importanza della sadaqa islamica, che oltre che concentrarsi
in festività musulmane, segna le tappe fondamentali dell’individuo, anche post-mortem.

IL WAQF (FONDAZIONE PIA)

Il grande pregio/difetto del dono informale della sadaqa è che, quasi sempre, non lascia traccia alcuna.
Tutt’altra visibilità ha invece l’atto di generosità massimo nelle società islamiche, che ha il compito di
migliorare le condizioni di vita della città, ergendo moschee, ospedali, scuole, ma anche strade, ponti e
acquedotti. Queste fondazioni caritatevoli si chiamano waqf/awqaf (pl.), ma sono conosciute anche come
habs o hubus. Fondare un waqf costituisce un’opera pia. Esso diventa anche un atto giuridico nei confronti
del beneficiario: infatti, crearne uno significa immobilizzare un bene e destinarlo a finalità caritative. Questo
gesto conduce direttamente a Dio nell’altra vita. Ovviamente, non si destina solo un bene materiale. Per
guadagnare la gloria di Dio occorre destinare una finalità ad esso. Accanto a questa forma di dono
comunitario ce n’è un’altra e riguarda l’atto donativo in cui il beneficiario è una o più persone appartenenti

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

ad una classe (poveri, schiavi, viaggiatori). Il waqf ha delle clausole. Nello studiare le fondazioni caritatevoli
di Nablus, in Palestina, Mahmoud Yazbak ha rilevato come nei waqf generazionali non venissero mai limitati
i diritti dei figli sul bene, mentre delle figlie sì, nel 20% dei casi: qualora si fossero maritate, li avrebbero
persi e riacquistati esclusivamente se vedove/divorziate. Questo dare accesso al bene anche alle donne
spiega due cose: la popolarità di questa forma “inclusiva” di dono; la tendenza a contrarre matrimoni
all’interno della famiglia per preservarlo. Un’altra motivazione che spinge il benefattore a donare è quella di
continuare ad affermare il proprio prestigio sociale: un esempio in tal senso può essere la grande mensa
allestita a Gerusalemme per ordine della moglie del sultano Suleiman nel 1552, per sfamare poveri, devoti,
deboli e bisognosi.

Accanto a queste opere civiche che hanno contribuito a fondare gli stati islamici moderni e ad assicurare un
accettabile welfare a queste società troviamo il waqf familiare (ahli o dhurri). Può accadere che, esaurita la
discendenza, i beni possano anche essere donati a comunità non islamiche. Purchè siano povere, seppur
d’un’altra religione. Questo restituisce immediatamente la grande flessibilità dell’istituzione del waqf e la
sua cieca generosità, orientata al bene a prescindere. Eppure, da questa inclusività sembrano escluse le
mogli dei fondatori del waqf. In realtà negli archivi di Nablus sono stati trovati dei documenti chiamati hiba
che corrispondono ad atti giuridici di donazione di proprietà senza obbligo di ritorno, appunto utilizzati dai
mariti per trasferire ricchezze alle mogli preservandole da un’eventuale avara discendenza. Un atto
compensativo, dunque. È comunque l’ennesima azione che ribadisce la disparità di genere e la scarsa
autonomia delle donne nella religione islamica col suo radicato sistema patriarcale.

IL WAQF COME STRUMENTO DI POTERE SOCIALE

Il waqf non è stato solo un motore di imponenti opere caritatevoli. I principali fondatori erano èlites
politiche ed economiche. C’è una controparte negativa e tutt’altro che caritatevole. Riprendendo l’esempio
della mensa di Gerusalemme, per sfamare quell’ingente quantità di poveri e pellegrini era necessario
depauperare i poveri contadini dei villaggi vicini dei loro prodotti agricoli. Emerge da ciò, una società
fortemente inegualitaria. Inoltre, il waqf venne usato negli anni anche per corrompere funzionari e
amministratori locali e creare una sinergica rete di collaboratori di governi centralizzati e dalle ricchezze
accumulate nelle mani di poche famiglie di ulama. Per il resto della società non restavano altro che briciole.
Quindi, se vista sotto un altro occhio, la storia del waqf è anche una storia di abusi e avidità, malagestione e
strumentalizzazione. Nonostante queste criticità, tale sistema ha funzionato per secoli. L’ampia
documentazione raccolta e le numerose testimonianze ci restituiscono del waqf la manifestazione più
visibile del dono nelle società islamiche.

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)


lOMoARcPSD|3590153

Scaricato da Lorenzo Vecchioli (lvecchioli@alice.it)

Potrebbero piacerti anche