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di Vittorino Andreoli
Per capire come una simile scelta possa invece essere addirittura gioiosa, bisogna partire
dall’amore, e – se non scandalizza – dall’amore anzitutto come dimensione propriamente umana.
Considerato il più sublime dei sentimenti, quale condizione straordinaria e sognata, se ben valutato
l’amore è la promessa di fare non solo ciò che è gradito all’amato o all’amata, ma anche quello che
vuole. E in questo legame, fare ciò che piace all’altro dà gioia, non per il gesto in sé, ma proprio per
l’effetto che provoca nell’amato. L’amore ribalta la "logica" di ciò che sembra avere o non avere un
senso. È una condizione in cui ciò che è considerato "normale" si trasforma.
Le rinunce d’amore non di rado sono imponenti, eppure sono pesi portati con la certezza di arrecare
piacere e gioia a colui senza il quale non si riuscirebbe a vivere. E non è nemmeno necessario
caricare l’altruismo proprio dell’amore di significati teorici, basta analizzare la dinamica
dell’unione di mente e di corpi, per convincersi che la rinuncia tende alla soddisfazione dell’altro e
a far piacere.
Insomma, l’amore insegna che si può essere felici per un bene o un gesto che si riceve, ma
altrettanto felici per un bene o un gesto che si compie. Oggi viviamo in una società irrigidita nelle
espressioni altruistiche, e ciò a causa di una dominante cultura del nemico. Le relazioni interumane
sono dapprima fredde e sulla difensiva. Ci sfugge persino la gioia e il piacere che derivano
dall’essere gentili e generosi, nel fare qualcosa che l’altro apprezza, nel mostrare rispetto, e offrire
solidarietà, comprensione, condivisione, cooperazione. È bellissimo fare il bene, esattamente come
riceverlo. Così, la scelta del sacerdote che, vista dall’esterno pare una rinuncia, può essere vissuta
addirittura come gioia. E certamente poter dire alla persona amata, faccio tutto ciò che vuoi,
potrebbe sembrare culturalmente un romanticismo depassé, mentre psicologicamente rimane
un’esperienza vera.
Così le promesse di ubbidienza, castità e povertà, staccate dal contesto in cui si pongono, finiscono
con l’acquisire un significato totalmente differente rispetto a quando le si legge inserite in un
legame d’amore. Le promesse cioè fanno parte della scelta sacerdotale, e quindi rientrano in un
legame d’amore con Cristo e la sua Chiesa. Lette come rinunce, apparirebbero follie, inserite invece
in un contesto d’amore acquistano un significato diverso: già nella dimensione dell’amore umano,
figurarsi in un rapporto d’amore con Dio.
E chi non ha mai vissuto la relazione dell’amore teologale deve astenersi dal giudicare le dinamiche
di questa dimensione, per non cadere in un intellettualismo freddo e arrogante o nell’ateismo.
Si aggiunga poi la facoltà di rimettere i peccati. Dove lo scarto tra l’essere e il dover essere genera
un senso di colpa che con l’Ego te absolvo viene superato, come la più preziosa delle terapie.
Al di là del dinamismo sacramentale, questa è un’operazione che a suo modo e al suo livello compie
ad esempio anche lo psichiatra. Basti ricordare il rapporto che egli attua con un ossessivo, con un
soggetto cioè che è gravato dal senso di colpa, fino a vivere ogni gesto come colpevolezza e quindi
come qualcosa che egli avrebbe dovuto evitare. Sostenuto dall’autorità clinica, lo psichiatra gli
garantisce che non è stato compiuto nulla di tragico: a quel punto il paziente comincerà a respirare,
a vivere cioè senza la cappa di piombo che si sentiva addosso. Uscendo dalla patologia, chi non
ricorda il proprio padre che, non approvando un nostro comportamento, tuttavia ci abbracciava e a
suo modo "ci assolveva", raccomandandoci di non ripeterlo più? O come quando, ritenendo di aver
commesso una mancanza, si ha l’annuncio che il timore era sproporzionato e si viene come liberati
da una colpa che in realtà non si era commessa.
Naturalmente nella visione cristiana, e in particolare nella dinamica sacramentale, il senso di colpa
si precisa e si identifica nel peccato, inteso come mancanza commessa nei riguardi della bontà e
della fedeltà di Dio, e dunque nella mancanza verso i fratelli. E la Confessione è atto non
comparabile ad altri. Il non credente può faticare a percepire il salto di qualità tra una relazione
meramente umana e la relazione che lega personalmente a Dio, ma non gli può sfuggire che la
facoltà di sciogliere dal peccato e dalla colpa, sia un compito straordinario.
Ci sono altri "poteri" che il sacerdote acquisisce con l’ordinazione: per la spiritualità cristiana egli
all’altare è un altro Cristo, mentre per la teologia egli agisce in nome e per conto di Cristo. Cioè, ci
sono azioni che sono proprie ed esclusive del sacerdote.
Ebbene, è nel quadro di questa identità che si possono leggere e capire le promesse di povertà,
ubbidienza e castità, le quali ad di fuori di una simile cornice apparirebbero come semplici rinunce.
So bene che il sacerdozio cattolico è una figura non confondibile con altre. È un unicum come
Cristo. Tuttavia, a me interessa qui rilevare come non sia un assurdo sul piano antropologico che vi
sia una distinzione di comportamenti da commisurare in taluni casi sulle dimensioni della sacralità e
sulla necessità di comunicare questa.
In questo contesto sarà utile ricordare pure come la parola giuramento (juramentum) contenga la
radice jus-juris, che sta per diritto. Giurare è una promessa che si basa sul diritto, e che segue una
formula rituale. Ma non è altro che una promessa. I soldati promettono fedeltà alla costituzione o
alla patria. Già lo facevano i mercenari che giuravano davanti al comandante. In tribunale, si giura
di dire la verità, di mantenere il segreto e lo si fa ritualmente, un tempo alzando la mano e recitando
una formula precisa. Dunque, il giuramento richiede una forma data e non può essere mutata. I
ministri giurano davanti al capo dello stato.
Non è un caso che nella storia juramentum si trovi spesso associato a sacramentum. Una formula
presente nei testi antichi è Deos jurare, nel senso di chiamare a testimoni gli dei.
Personalmente ritengo, ma il mio osservatorio è limitato, che il sacerdote sia profondamente umano
anche quando formula il suo impegno a essere povero, ubbidiente e casto.