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E.

BIANCHI, Dono e perdono

Cap. 1 – Il dono
Homo donator: uomo capace di donare, uomo che fa dono. Tema molto discusso nella
contemporaneità, dai filosofi francesi a Godbout.
Per Marcel Mauss il meccanismo del dono si articola in tre momenti fondamentali basati sul
principio della reciprocità: dare, ricevere, ricambiare. Il dono implica una forte dose di libertà. È
vero che c'è l'obbligo di restituire, ma modi e tempi non sono rigidi e in ogni caso si tratta di un
obbligo morale, non perseguibile per legge, né sanzionabile. Il valore del dono sta nell'assenza di
garanzie per il donatore. Un'assenza che presuppone una grande fiducia negli altri. Per Mauss la
virtù del dono sta nell’oggetto stesso, per Strauss sta nell’atto del donare, nel gesto stesso.
Oggi c’è ancora posto per l’arte del donare? A una lettura sommaria, oggi siamo sopraffatti dallo
scambio utilitaristico, il dono viene visto come strumento per simulare gratuità e disinteresse,
quando invece regna la legge del tornaconto. Oggi c’è una forte banalizzazione del dono che viene
depotenziato e stravolto, chiamato carità.
La società è una communitas: mettere insieme i doni, donare non è solo riconoscere l’altro ma
anche l’unico modo per entrare in società.
L’essere umano è sempre capace di operare bene, percepisce la propria insufficienza e cerca l’altro
per una pienezza di vita: persiste l’evento del dono anche oggi, nonostante tutto.
Donare: consegnare un bene nelle mani di un altro senza ricevere nulla in cambio (vs dare, dove
c’è la vendita), un’offerta unilaterale e gratuita. È possibile donare poiché l’essere umano ha
dentro si sè la capacità di compiere un’azione senza calcoli: capax amoris.
Dono come ibrido: è doveroso ma anche libero, utile e gratuito. C’è utilità nel donare perché il
donare ha senso e produce senso: abbiamo bisogno dell’altro al quale dare dei doni ma anche noi
stessi, senza però strumentalizzarlo. Il dono ha il carattere del miracolo.
Una possibilità di dono è la parola (ma anche gesto, dedizione, cura, presenza): sigillo della fiducia,
credere negli altri. Noi siamo tentati di dare, piuttosto che noi stessi, altre cose estranee a noi.
Donare noi stessi significa donare il nostro tempo e la nostra presenza.
Il dono fatto all’altro è possibile solo quando si decide la prossimità, la vicinanza altrui: una volta
vicino, il dono viene quasi naturale perché c’è in noi la capacità del bene. Come farsi prossimi di
qualcuno? Necessità della fiducia!
Gli Atti degli Apostoli ci ricordano che c’è più gioia nel donare che nel ricevere: l’atto del dono
porta gioia al donare perché è un atto concreto che lo lega all’altro da un rapporto di
responsabilità.
Nel cristianesimo, l’amore che vince su tutto, anche sulla morte, è un dono gratuito che l’uomo
non deve meritare: l’amore di Dio non va meritato, ci precede e non possiamo ripagarlo.
Rendiamo grazie a Dio per la sua grazia, ma la nostra gratitudine non determina il dono di Dio. Dio
ci fa dono del suo amore non per essere ricambiato, ma perché noi ci possiamo amare: io dono a
te non perché tu ridoni a me, ma affinchè tu doni agli altri.
Occorre imparare a ricevere e ad accogliere il dono e a riconoscere la gratitudine nei confronti
dell’altro, donando a propria volta.
Il dono deve trovare posto anche nella società odierna, non solo nella politica e nell’economia ma
prima di tutto nella società, che è basata sulla fraternità, che ha sempre come obiettivo il bene:
società come communitas di fratelli, humanitas.
Cultura del dono: nel donare c’è il riconoscimento della singolarità dell’altro, del celebrarlo. Non ci
può essere giustizia senza dono.
Doni che abbiamo ricevuto: vita, parola, presenza, fiducia, oggetti, bene, terra, frutti ecc. Se
diventiamo consapevoli di questa ricchezza ricevuta, entriamo a nostra volta nella logica del dono.
Richiamo cristiano nella parabola dei talenti: un signore diede a un servo cinque talenti (li impiegò
e ne riguadagnò cinque), ad un altro due (ne guadagnò altri due), ad un altro uno, che lo sotterrò.
Il biasimo del padrone fu per quest’ultimo perché il padrone non voleva un tornaconto (non era un
dare, era un donare!).

Cap. 2 – Il perdono
Oggi il perdono è diventato qualcosa che attrae curiosità (mass media) o che viene dato
facilmente. In realtà, il perdono va generato nella fatica, nel dolore.
Non significa dimenticare l’offesa, perché l’uomo ha in sé la facoltà della memoria: solo Dio può
perdonare dimenticando, perché quando perdona cancella i peccati e considera la persona come
un uomo nuovo.
A volte il perdono:
- è confuso con lo scusare l’offensore, scaricandolo delle sue responsabilità
- è inteso come riconciliazione
- non significa né la negazione nel male subito né un voler ristabilire la situazione
precedente all’offesa.
Cosa significa perdonare? Saper leggere e discernere il più possibile nella verità l’offesa ricevuta
(per i cristiani, la fede nel Dio di Adamo, Isacco e Giacobbe è un esempio, perché perdona l’uomo
responsabile del male).
Gli esseri umani conoscono molto bene il male, che nasce nell’intimo e diventa aggressività, odio,
volenza, indifferenza verso gli altri. Compiamo del male nonostante siamo consapevoli di ciò che è
bene e a volta nonostante la nostra volontà del bene.
La conseguenza dell’offesa, dell’aver ricevuto male, è la sofferenza e a volte siamo tentati a nostra
volta di eliminare l’altro, per istinto di conservazione.
Perdonare significa donare totalmente, richiede un sacrificio di se stessi in rapporto con l’altro
perché non è naturale perdonare.
Tappe essenziali del perdono:
1. La tentazione di vendicarsi
Tentazione impulsiva di rispondere al male con altro male. Vedere sofferente colui che ha
offeso e umiliato può dare un piacere narcisistico, fare male come vendetta oppure per
pareggiare i conti. Il primo passo del cammino è una rinuncia a farla pagare, umanizzando
se stessi e chi ha provocato l’offesa.
2. Conoscere se stessi per cambiare se stessi
Bisogna avere uno sguardo lucido su di sé, leggere e rileggere il male subito senza
dimenticarlo, distinguere l’azione che ha provocato il male dalla persona che lo ha
commesso. Deve dunque succedere una conversione profonda del cuore, a volte
condividere con qualcuno la propria sofferenza aiuta.
3. Comprendere l’offensore
L’altro non è il male, non lo incarna e non può essere demonizzato: ciascuno è sempre più
grande del male compiuto. Il perdono afferma che la relazione con l’offensore è più
importante dell’offesa che questi ha recato alla relazione.
4. Manifestare il perdono
È un atto che richiede grande forza d’animo. Non bisogna aspettare che l’offensore faccia il
primo passo né che riconosca il proprio torto o arrivi a chiedere perdono. Occorre
comprendere che sono il perdono e la misericordia a causare la conversione, il perdono
nasce dalla compassione. Il perdono è il gesto più grande di cui un essere umano è capace.
Il perdono da cristiani: nella rivelazione ebraica Dio manifesta il proprio nome come
misericordioso e compassionevole, colui che perdona. Il credente ha la convinzione profonda che
Dio lo perdona, l’amore di Dio non va mai meritato, è grazia, e per questo precede addirittura il
pentimento dell’uomo. Da questa capacità di perdonare sempre, Gesù traeva l’autorevolezza per
chiedere ai discepoli di essere uomini e donne pronti a perdonare, pronti ad avere empatia, con
chi è nel male, nel peccato e nel debito. Il perdono, attributo di Dio iscritto nella rivelazione del suo
nome a Mosè, è diventato il nome di Gesù, amico dei peccatori, colui che è venuto per salvare dai
peccati (“Riceverete lo Spirito santo per rimettere, perdonare i peccati”). Se non si è capaci di
perdono, non si è discepoli fedeli di Gesù.
Anche la giustizia fa parte del nome di Dio: per noi uomini non è facole coniugare giustizia e
perdono, eppure questo è possibile per Dio, la cui giustizia non si misura in termini umani, non
dobbiamo dunque proiettare in lui la nostra giustizia, ma piuttosto scoprirla dalla rivelazione della
parola di Dio. Il perdono è il vero fine del perseguimento della giustizia.
L’unica via da percorrere è il perdono reciproco e quindi la riconciliazione. Nella giornata mondiale
per la pace del 2002 Giovanni Paolo II era giunto a comprendere che il Vangelo esige che il
principio perdono sia immanente al principio giustizia: non c’è pace senza giustizia, non c’è
giustizia senza perdono. Aprirsi al perdono, a livello familiare e sociale, significa anche rinnovare la
comunicazione, la relazione con l’altro.
Perdonare è dunque una vera conversione da attuare in se stessi: il perdono non nasce dalla
conversione di colui che ha offeso, ma nasce dalla conversione di chi ha ricevuto l’offesa. È la
vittima che deve convertirsi, rinunciare a vendicarsi e intraprendere un cammino di prossimità,
con tempo e fatica.

Cap. 3 – La compassione
Compassione è stato a lungo utilizzato per indicare un sentimento verso persone in situazione di
sofferenza, oggi sta prendendo di nuovo piede il suo significato originale. Compatire non è più
inteso come un atteggiamento esercitato dall’alto verso il basso e neppure come una
manifestazione di debolezza. Indica un movimento con il quale andiamo dove c’è il male e
condividiamo con il sofferente la sia situazione: raggiunto dalla sofferenza di un altro, sentiamo il
dolore come suo, fino a sentirlo con lui come nostro.
Il dolore è collegato al male, di cui noi esseri umani ne siamo ossessionati: l’unica cosa seria da
fare contro il male è praticare la compassione, il soffrire insieme e soffrire a causa della sofferenza
di un altro. Oggi la compassione è diventata particolarmente difficile perché il nostro contesto
culturale ha una possibilità di percezione del male molto diversa dal passato: ci abituiamo alla
visione del male (mass media) e paradossalmente abbiamo difficoltà a diventare prossimi
dell’altro.
La compassione è il punto di incontro tra cristianesimo e buddhismo.
Compatire significa soffrire-con, ha delle somiglianze con simpatia, ma mentre la simpatia resta
nella sfera dei sentimenti, la compassione va oltre, riguarda atteggiamenti e comportamenti, è
simpatia nel senso forte, ma per la sofferenza altrui. Nietzsche condanna la compassione,
facendone l’essenza del cristianesimo, che però agisce in senso depressivo. Strass, invece, la
considera come il fondamento della sapienza universale.
C’è poi la misericordia, un sentimento che esprime un forte coinvolgimento affettivo, una carica
passionale che nasce dalle viscere. È un sentimento del cuore per chi è nella sofferenza, è
commozione delle viscere. Nella parola misericordia l’accento cade sulla fonte del sentimento,
cioè il cuore, mentre nella compassione cade sull’atteggiamento, cioè la condivisione della
sofferenza.
Dio è onnipotente nella compassione e onnipotente nella misericordia: se il Salvatore è disceso
sulla Terra, è per compassione dell’umanità. Dio è vulnerabile, entra nella sofferenza umana.
Dio:
- Vede: pone lo sguardo fino a discernere, ha uno sguardo per l’uomo;
- Ascolta: il grido che si leva dalle vittime;
- Conosce: la sofferenza.
Dio scende dunque dove c’è l’uomo, gli si fa vicino, soffre con lui e compatisce. Non sempre dalla
compassione di Dio nasce un’azione che pone fine al male, ma sempre con la sua compassione Dio
si pone dalla parte della vittima e dà una risposta non all’origine del male, ma al male come realtà
concreta che opprime il sofferente.
Gesù narra la compassione di Dio, che ha rinunciato alla sua onnipotenza e si è fatto carne, si è
fatto solidale con i suoi peccatori. In ogni incontro con Gesù appare la compassione, nei Vangeli si
caratterizza come colui che ascolta l’altro. Gesù vede l’uomo, simultaneamente lo ascolta e cerca
di comprendere ciò che egli esprime con tutta la sua persona, arrivando a conoscere. Dal vedere,
ascoltare, conoscere, provare compassione si passa al dono della presenza: farsi prossimo, farsi
vicino, arrivare a toccare l’altro e a sentire il corpo dell’altro. Il sentimento diventa virtù, l’essere
mosso a compassione può diventare relazione e comunione.
La resurrezione è la prova che Dio vive e che Cristo è vivente in lui per sempre. Paolo insiste sulla
compassione dicendo: se ci sono viscere e compassione, ricolmatemi di gioia.
La compassione è costitutiva dell’esistenza umana, senza compassione non potrebbe esserci
umanizzazione, perché quest’ultima è il frutto della comunicazione e della solidarietà: deve
diventare sofferenza della sofferenza altrui, passione-pentimento per il male che colpisce l’altro.
“Amerai il prossimo tuo come te stesso”: occorre scegliere tra andare oltre e non vedere. Rendere
l’altro prossimo è un rischio, non lo rendiamo mai prossimo senza avere anche dei pregiudizi, dei
giudizi che ci abitano e suoi quali dobbiamo intervenire ragionevolmente.
Audacia e fiducia devono intrecciarsi in modo da poter sostenere l’altro: occorre una concreta
assunzione della sofferenza, non un chiederci il perché di essa. Ciascuno è debitore di ciascuno e
questa esperienza richiede che io tolga la solitudine alla sofferenza dell’altro, mettendomi accanto
a lui, per combattere con lui contro il male.
Il sofferente ha una dignità e una autorità che io devo sempre riconoscere per vivere una
compassione autentica: c’è una distanza tra chi si fa prossimo e il sofferente che va sempre
riconosciuta e custodita. La compassione è molto difficile da mantenere, può spesso degenerare in
pietà.
In uno scritto dell’Antico Testamento si dice che Dio, negli ultimi giorni, manderà sulla Terra la sua
misericordia e dovunque troverà viscere di misericordia, porrà la sua dimora. Quanto l’uomo ha
compassione del suo prossimo, tanto il signore ne ha di lui.

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