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L’eguaglianza di genere riduce la violenza sulle donne?

di FRANCESCA BETTIO, ELISA TICCI e GIANNI BETTI


1. Introduzione
Ci chiediamo quale sia la relazione fra uguaglianza di genere e violenza sulle donne, e se a livelli alti di uguaglianza
corrispondano livelli elevati di violenza e viceversa, o se invece la 1* riduca la 2*. Ci occupiamo di violenza ad esclusione
del «femminicidio», di quella violenza potenzialmente quotidiana che si concretizza in abusi di natura fisica, sessuale e
psicologica o in molestie sessuali. Le prime analisi dei risultati dell’indagine condotta nel 2012 dall’Agenzia Europea per
i Diritti Fondamentali (Fundamental Rights Agency/FRA) hanno sorpreso/deluso chi si aspettava che l’eguaglianza
frenasse in qualche modo la violenza. I Paesi nordici, da sempre in cima alle classifiche internazionali sull’eguaglianza di
genere, riportano una quota più alta di donne che dichiarano di aver subito almeno un episodio di violenza nel periodo di
riferimento. Riportano cioè una maggiore prevalenza statistica anche se ciò non è vero sistematicamente o per qualsiasi
tipo di violenza, mentre non è infrequente che Paesi che non si distinguono per la parità di genere riportino valori inferiori.
Il dibattito si è perciò concentrato sui perché di questi risultati spaziando dall’idea di un effetto consapevolezza – donne
più emancipate riconoscono e denunciano più facilmente episodi di violenza – alle difformità nella raccolta di dati nei vari
Paesi, alle disparità fra i medesimi rispetto alle cosiddette «infrastrutture dell’uguaglianza di genere», ivi inclusi i centri
antiviolenza. Un’ulteriore ipotesi da non trascurare è che stiamo assistendo ad un contraccolpo del vecchio ordine
patriarcale (backlash), specialmente laddove le donne hanno ottenuto maggiori conquiste. Con questo saggio noi
offriamo una risposta di segno molto diverso che si articola in due passaggi concatenati. Nel primo passaggio
proponiamo l’adozione di una misura della violenza più completa di quella utilizzata dal rapporto FRA, un indice di
violenza fuzzy che abbiamo sviluppato in dettaglio altrove e che tiene conto non solo della prevalenza ma anche della
frequenza e della gravità degli abusi. Nel secondo passaggio mostriamo che, se si applica tale misura ai dati dell’indagine
FRA, la relazione che emerge fra uguaglianza di genere e violenza sulle donne nei diversi Paesi europei smentisce in
modo chiaro il paradosso nordico per quanto riguarda la violenza domestica da partner, non per quanto riguarda la
violenza (di ogni tipo) da non partner e in particolare le molestie sessuali. Da questi riscontri emerge un’ipotesi plausibile,
ma ancora preliminare, secondo cui man mano che le donne guadagnano terreno nel mercato del lavoro, nelle istituzioni,
nelle imprese e nella politica, la violenza si «sposta» dall’ambito domestico ad ambiti pubblici – luoghi di lavoro inclusi –
più che aumentare o diminuire dovunque.
L’analisi che proponiamo indaga tutti i tipi di violenza – fisica, sessuale, psicologica e molestie – trattando ciascuno
secondo una metodologia nuova ed uniforme. Riesce a valutare la violenza sulle donne nella sua interezza invece di
limitarsi a misurare la proporzione della popolazione femminile che ne ha sofferto. Infine, ha un respiro compiutamente
europeo perché sfrutta dati comparabili per i 28 Paesi membri.
2. Uguaglianza e violenza di genere: quali ipotesi le legano?
La consapevolezza che violenza di genere contro le donne e disparità di genere possano essere strettamente intrecciate
ha radici lontane, ma solo a fine anni 60 si inizia a riconoscere il problema nominandolo:i l’espressione «violenza sulle
donne» si diffonde negli USA in un clima dove i fermenti del femminismo crescono e influenzano gli studi in molti ambiti.
La variante del femminismo radicale è forse quella che ha avuto la maggiore influenza sulle scienze sociali, e che, ha il
merito di illustrare chiaramente il legame con l’uguaglianza di genere. Perno del pensiero femminista radicale è la
nozione di patriarcato, i cui strumenti e modalità di controllo possono variare nello spazio e nel tempo: la violenza va
annoverata fra questi (Un esempio, è il contributo di MacKinnon, la quale ha introdotto il concetto di molestie sessuali
nelle scienze sociali oltre che in ambito legale). È, cioè, intrinseca a questo approccio una visione societaria della
violenza che la lega direttamente all’idea della diseguaglianza di genere. Ne consegue l’aspettativa che, man mano che
le donne riguadagnano controllo sulla propria sessualità e sul proprio lavoro, ciò riduca/freni il ricorso alla violenza nei
loro confronti. Poiché tuttavia nessun gruppo dominante cede il proprio potere senza reagire e poiché i processi storici
non sono lineari, non si può escludere che si verifichino contraccolpi (backlash), anche prolungati, in risposta a
progressi sostanziali nella parità di genere. In questa visione societaria la relazione fra eguaglianza di genere e violenza
contro le donne è di tipo strutturale e abbraccia tutte le istituzioni e i tipi di violenza, ma in realtà l’approccio femminista ha
finito con l’influenzare soprattutto l’elaborazione teorica relativa ad un particolare tipo di violenza – quella da partner –
nell’ambito di una particolare istituzione, la famiglia. Questa specifica messa a fuoco ha fatto sì che l’analisi a livello di
comportamento individuale abbia talvolta prevalso sull’analisi a livello societario. In generale, però, le diverse discipline
hanno combinato i due livelli di analisi, dando maggiore enfasi o a 1 o all’altro. Ad es, la neurologia o la criminologia sono
state particolarmente attente agli aspetti devianti del comportamento violento del singolo – dall’abuso di sostanze
intossicanti, all’eccesso di aggressività, a disturbi mentali – anche se, secondo altri, la maggior parte degli episodi di
violenza ascrivibili al partner non è riconducibile ad abuso di sostanze o a malattie mentali. Si colloca all’estremo opposto
l’approccio «ecologico» di Heise che concettualizza la violenza di genere, con al centro la violenza domestica da
partner, come il frutto di una complessa interazione di fattori causali che attraversa piani diversi, dalla storia personale
alle caratteristiche dell’istituzione familiare, a contesto socio-economico a istituzioni legali, al sistema normativo-valoriale
di una società. Fra i due estremi si possono situare molti contributi di matrice sociologica o economica che analizzano la
violenza da partner intrecciando piano individuale, familiare e societario. In assenza di teorizzazioni esplicite ed articolate
sul rapporto fra parità e violenza di genere nel suo complesso, possiamo utilizzare questi contributi per ricostruire nel
dettaglio analitico l’opposizione fra i lavori che sottintendono una riduzione della violenza al progredire dell’eguaglianza
fra uomini e donne e quelli che articolano le possibili ragioni di un contraccolpo.
Con riferimento ai contributi sulla violenza da partner, già dai primi anni Settanta il sociologo Goode (1971), ispirato a sua
volta dalla resource theory di Blood e Wolfe (1960), articolò l’idea che gli uomini non solo godono di una forza fisica
superiore ma controllano anche una maggiore quantità di risorse materiali rispetto alle donne e, in ambito domestico,
usano entrambe per piegare ai propri obiettivi gli altri membri della famiglia, in particolare le donne. Quando le risorse
materiali non bastano per assicurarsi la cooperazione interviene la violenza. Dalle maggiori risorse appannaggio degli
uomini ad un diverso potere contrattuale il passo è breve e vede allineate la dependency theory di ispirazione sociologica
e quella economica dell’household bargaining. A differenza di quanto fa Goode, però, queste ultime guardano alle risorse
e al potere contrattuale di «lei», non di «lui». Nell’ambito di una relazione di coppia, suggerisce ad esempio l’approccio
dell’household bargaining, anche le donne possono usare come arma di contrattazione la minaccia di separazione o
divorzio. L’efficacia di quest’arma è proporzionale alle risorse economiche su cui esse possono contare in caso di
separazione. Conta soprattutto l’accesso a fonti di reddito e di ricchezza, ma contano anche fattori societari come le
norme che regolano i rapporti di genere. I sociologi della dependency theory hanno una visione meno selettiva delle
risorse che contano e parlano più in generale di risorse «socio-economiche». A loro avviso, la combinazione di minori
opportunità economiche e maggiori vincoli – economici o societari – limiterebbe il potere negoziale della donna e quindi la
sua capacità di difendersi dalla violenza tra le mura domestiche o di liberarsi da una relazione violenta.
Un’altra serie di ipotesi propugna l’idea che ciò che conta per la violenza domestica da partner non sia tanto l’ammontare
delle risorse socio-economiche di «lei», di «lui» o combinate, quanto la misura della disparità di risorse tra i due. I
contributi che vi aderiscono possono fornire munizioni a chi difende le ragioni del backlash e fra questi ricordiamo
l’exchange theory (Gelles 1983), la status inconsistency theory (O’Brien 1971), la relative resource theory (McCloskey
1996) e la gendered resource theory (Atkinson et al. 2005). In qualche caso le differenze fra le diverse ipotesi sono poco
più che nominali, ma talvolta risultano sostanziali. Ad esempio, per la exchange theory, chi ha più risorse ha più potere e
lo può esercitare anche sotto forma di violenza, ma nulla vieta che ciò tocchi ad una donna invece che ad un uomo.
Secondo la status inconsistency theory, invece, a scatenare la violenza è l’asimmetria a favore della donna, ad esempio
quando lei guadagna più di lui, occupa posizioni di maggior prestigio sociale o semplicemente è più scolarizzata.
L’uguaglianza di genere non significa che le tradizionali asimmetrie di genere vengano sistematicamente rovesciate, ma
che lo possono essere in alcuni casi. Quando ciò si verifica ne può scaturire violenza poiché un’asimmetria a favore della
donna viene percepita come una minaccia al vecchio ordine patriarcale. La versione gendered della status inconsistency
theory combina il ruolo dell’asimmetria con l’aderenza a ideologia/norme tradizionali da parte del maschio («sessismo»):
un maschio che crede in un rapporto di coppia paritario non ricorre alla violenza quando «lei» lo supera in risorse. Questa
ipotesi – ed altre affini – offrono dunque spessore teorico alla possibilità che si verifichi un backlash laddove le donne
stanno incassando maggiori guadagni in termini di emancipazione finanziaria e prestigio sociale.
Un sostegno teorico di tipo diverso alla possibilità di un backlash viene da un’ipotesi di ispirazione criminologica,
l’exposure reduction hypothesis (Dugan). Nella sua formulazione originaria, l’ipotesi sostiene che le donne che lavorano
sono meno esposte alla violenza domestica per ragioni spazio-temporali: si riduce il tempo che trascorrono fra le mura
domestiche. L’ipotesi ha avuto forse meno eco di altre, ma, ha il merito di riportare al centro dell’analisi il fatto che donne
più emancipate o socialmente attive occupano sempre di più lo spazio pubblico, incluso quello lavorativo. Riteniamo, in
particolare, che abbia senso riformulare l’exposure reduction hypothesis chiedendo se, più che diminuire o aumentare in
toto, la violenza contro le donne si stia spostando dallo spazio privato a quello pubblico e se questo spostamento
contribuisca ad alimentare la percezione che nei Paesi più «evoluti» è in atto una recrudescenza complessiva della
violenza di genere. Esiste ed è in crescita una letteratura sulle molestie sessuali – il tipo di violenza più diffusa al di fuori
delle mura domestiche. Rimandiamo ad alcuni contributi recenti per rassegne in merito, mentre qui interessa trarre dalla
letteratura sulle molestie un’indicazione sulla possibile relazione con l’eguaglianza di genere. Lo facciamo brevemente
nel seguito sfruttando alcuni fatti stilizzati sulle molestie sul luogo di lavoro piuttosto che attingere ad un’elaborazione
teorica che rimane molto carente. L’evidenza disponibile suggerisce che le molestie sul luogo di lavoro sono più diffuse e
tollerate in professioni fortemente maschili – l’esercito o le miniere – ma anche laddove «maschile» allude alla cultura
dello specifico luogo di lavoro più che alla composizione di genere della forza lavoro. Le molestie sul lavoro sono
particolarmente diffuse anche laddove le relazioni sono fortemente gerarchiche e l’uomo è in posizione dominante, fra le
disoccupate o le occupate in posizioni precarie, ma anche fra le donne molto scolarizzate e/o in posizione di autorità. Le
donne rispondono spesso alle molestie cambiando lavoro, una soluzione generalmente meno problematica che separarsi
da un marito violento. Sotto alcuni aspetti, perciò, ci si può aspettare che il crescere dell’occupazione femminile riduca la
prevalenza delle molestie poiché ridimensiona il peso delle professioni al maschile. Sotto altri aspetti, però, ci si può
attendere il contrario perché, se è vero che la quota delle donne molto scolarizzate e in posizione di autorità continua a
salire, ciò non impedisce che si allarghi anche l’area del lavoro precario femminile.
Non resta, dunque, che affidarsi ai riscontri empirici? Il problema è che la pur notevole mole di letteratura empirica non
offre una risposta univoca in merito. Ne è in parte responsabile l’eterogeneità di linguaggio, di procedure di verifica e di
dati che l’interdisciplinarietà del tema comporta. Ma il problema sta anche in una scelta metodologica a monte, la scelta di
indagare la relazione fra violenza di genere e uguaglianza scegliendo di volta in volta un indicatore diverso di
quest’ultima. Lo studio di Bettio e Ticci (2017) sui dati FRA, per esempio, pur servendosi di una medesima fonte di dati e
una medesima metodologia per tutti i tipi di violenza, ricorre a diversi indicatori di indipendenza economica – lavorare o
meno, essere più o meno istruita, o guadagnare più o meno del partner – e ottiene risultati che variano in funzione
dell’indicatore (oltreché del tipo di violenza). In particolare, una donna che lavora risulta avere minori probabilità di subire
violenza psicologica dal partner, ma, soprattutto, contribuisce con il suo guadagno ad allontanare il rischio di povertà del
nucleo familiare; così facendo riduce la propria esposizione ad ogni tipo di violenza domestica poiché quest’ultima è
fortemente correlata con la povertà. Allo stesso tempo, una donna che non lavora risulta essere meno esposta alla
violenza fisica rispetto ad una lavoratrice che abbia recentemente perso il lavoro. Se poi si sceglie il reddito da lavoro
quale indicatore di uguaglianza, una donna che guadagna di più del proprio partner risulta correre maggiori rischi di
subire violenza fisica e sessuale rispetto ad una che guadagna di meno. E se si guarda al livello di istruzione, il rischio di
violenza fisica da partner risulta inferiore per una donna meglio istruita, mentre questa stessa donna è maggiormente
esposta al rischio di subire molestie o violenza sessuale da tutti.
In questo articolo scegliamo una strategia più adatta ad ottenere una risposta univoca, alla domanda da cui siamo partiti.
Al pari di altri contributi indaghiamo l’associazione fra uguaglianza e violenza di genere nel loro complesso. Lo facciamo
per i Paesi europei sfruttando il fatto che sono disponibili indici di uguaglianza sufficientemente autorevoli e consolidati.
La principale novità rispetto ad altri contributi è che usiamo una metrica inedita per misurare la violenza, un indice ispirato
alla teoria degli insiemi fuzzy e normalizzato fra zero e uno. Elemento distintivo di tale misurazione è il suo carattere
esaustivo, nel senso che non si limita a registrare se un abuso sia avvenuto o meno come fa la prevalenza, ma tiene
conto della frequenza e della gravità dell’abuso. Il paragrafo che segue riassume la nostra proposta.
3. Scala e indice fuzzy della violenza sulle donne
La parte importante e nuova della misura che proponiamo riguarda dunque la gravità. Quando ci si riferisce alla gravità di
un atto violento il pensiero corre all’entità di un qualche danno che l’atto produce, e ciò vale anche nel caso della violenza
sulle donne. Non a caso le scale di gravità che si incontrano in letteratura e che aspirano all’oggettività cercano di
quantificare questo o quel danno di tipo psichico, fisico o economico. Il nodo irrisolto è che, anche se si riuscisse ad
arrivare ad un consenso sulla misura da adottare per ciascun tipo di danno, l’aggregazione delle diverse misure si
scontrerebbe con problemi di incommensurabilità.
Se però ci viene richiesto di ordinare per gravità una serie di atti di violenza siamo generalmente in grado di farlo,
mostrando così di detenere implicitamente una qualche nozione di danno «complessivo». È proprio questa capacità che
viene sfruttata per costruire le scale cosiddette soggettive, altrettanto diffuse di quelle che ambiscono all’oggettività,
nonostante i limiti insiti nel ricorso a valutazioni soggettive.
La scala fuzzy che proponiamo, e che usiamo per costruire l’indice fuzzy, è al contempo oggettiva ed esaustiva senza
richiedere misurazioni puntuali del danno. La premessa fondamentale è che, per ogni tipo di violenza, le manifestazioni
(atti) più diffuse siano socialmente considerate meno gravi. Prendiamo l’esempio della violenza fisica. A nostro avviso
molti converrebbero che colpire con un oggetto pesante sia più grave che dare uno spintone e ciò trova riscontro nei dati
dell’indagine FRA secondo la quale le donne europee sono molto più a rischio di venire intenzionalmente spintonate dal
partner che di essere colpite dal medesimo con un oggetto pesante. Indicazioni analoghe si ottengono per altri tipi di
violenza. Ad esempio, per ogni 100 mila donne europee ben 18 mila dichiarano di essere state umiliate in pubblico dal
partner nell’anno precedente l’indagine, mentre l’incidenza si dimezza per le donne spaventate o intimidite
intenzionalmente da un partner che urla o distrugge oggetti. La violenza è di tipo psicologico in entrambi questi casi, ma
molti concorderebbero che il secondo è più serio del primo.
È possibile che tutto ciò nasconda una tautologia, ovvero che tendiamo a considerare meno grave un atto di violenza che
si manifesta con maggiore frequenza semplicemente perché la familiarità lo fa sembrare meno minaccioso? Possibile ma
poco convincente, a nostro avviso. In caso contrario dovremmo concludere che, per esempio, uccidere intenzionalmente
la (propria) donna sia considerato un atto di estrema gravità solo perché pochi possono dire di aver acquisito familiarità
con questo tipo di abuso.
Sgombrato il campo da questo dubbio, e definito il tipo di violenza che si desidera analizzare – ad esempio la violenza
fisica – assumiamo che la misura della gravità che la società attribuisce ad un dato atto di violenza fisica – ad esempio
infliggere bruciature alla propria partner – possa essere approssimata dal reciproco della prevalenza di questo abuso
nella popolazione femminile di riferimento a patto che siano rispettate tre premesse. La prima premessa è che la
popolazione di riferimento appartenga ad un ambito socio-economico relativamente omogeneo. La seconda premessa è
che ci si possa avvalere di una base dati che, come l’indagine FRA, differenzi chiaramente i diversi tipi di violenza sulle
donne, piuttosto che considerarla come un insieme indistinto. La terza premessa è che sono ordinabili rispetto alla gravità
i singoli atti (abusi) che fanno capo ad uno stesso tipo di violenza, non gli atti che fanno capo a tipi diversi. Ad esempio,
schiaffeggiare la propria partner e colpirla con un oggetto contundente sono due atti distinti di violenza fisica e sono
quindi ordinabili, mentre nessuno dei due è ordinabile rispetto ad un atto di violenza psicologica (umiliare la partner in
pubblico) o di tipo sessuale (stuprarla).
Fatte queste premesse, è possibile sfruttare la teoria degli insiemi fuzzy per costruire una scala di gravità e un indice di
violenza in maniera analoga a quanto è stato fatto per la povertà. Il parallelo con la concezione fuzzy della povertà aiuta
ad enucleare alcune implicazioni importanti rispetto alla violenza. Uno dei vantaggi di una misura fuzzy della povertà è
che essa supera la dicotomia povero/non povero per assegnare un grado di povertà su una scala da zero ad uno. Allo
stesso modo una scala fuzzy di gravità della violenza misura il grado di violenza lungo un continuum i cui valori
normalizzati sono compresi tra zero e uno. Un secondo vantaggio dell’approccio fuzzy alla povertà è che esso offre una
misura multidimensionale catturando l’accesso ad una molteplicità di risorse, monetarie e non monetarie. In maniera
analoga l’indice di violenza fuzzy aggrega atti di violenza diversa (abusi) pesandoli per la presenza dell’abuso, l’eventuale
ripetizione sulla singola donna e la gravità dell’abuso medesimo. Va, però, sottolineato che sia la scala che l’indice fuzzy
che abbiamo sviluppato non sono necessariamente adatti a misurare altri generi di violenza, ad esempio la violenza di
due fazioni opposte in guerra.
I passaggi formali per costruire scala ed indice fuzzy sono illustrati nel seguito:
Dato un contesto socio-culturale omogeneo (la popolazione di riferimento) vanno innanzitutto identificati i diversi tipi di
violenza e, successivamente i singoli abusi (atti di violenza) nell’ambito di ciascun tipo. Distinzione in quattro tipi (violenza
fisica, sessuale, psicologica, molestie).
Ad ogni donna della popolazione di riferimento viene fatta corrispondere una «funzione di appartenenza» che quantifica
la frequenza del singolo atto di violenza per quella persona.
Ad ogni atto di violenza viene assegnato un peso che riflette la gravità dell’atto nell’ambito del tipo di riferimento.
L’insieme dei pesi costituisce la scala fuzzy.
Per ogni tipo di violenza le funzioni individuali di appartenenza vengono aggregate usando i pesi della scala fuzzy. Si
ottiene così l’indice fuzzy per la popolazione di riferimento relativamente al tipo di violenza in esame.
Benché non siano ammessi confronti trasversali fra atti appartenenti a diversi tipi di violenza, è prevista l’opzione
(facoltativa) di aggregare gli indici per tipo tramite semplice media aritmetica. Sul piano formale l’operazione di
aggregazione è giustificata dal fatto che l’indice fornisce una metrica omogenea lungo un medesimo intervallo di valori
(0-1). Sul piano sostanziale calcolare una media semplice per tipi diversi di violenza significa attribuire lo stesso peso ad
ogni tipo.
4. Violenza e violenze sulle donne nei Paesi Europei. La misura fa differenza
4.1. Scala e indici fuzzy utilizzando l'indagine FRA
L’indagine FRA è stata condotta nel 2012 servendosi di un campione di 42000 donne europee intervistate di persona e
garantendo la rappresentatività sia a livello europeo che nazionale. È considerata pietra miliare e sta facendo da
prototipo alla costruzione di un’indagine a cura dell’Eurostat destinata a ripetersi regolarmente nel tempo. L’indagine
distingue fra quattro principali tipi di violenza per un totale di 40 atti o voci specifici. Alle donne intervistate è stato chiesto
di identificare i responsabili di ogni eventuale abuso, distinguendo fra il proprio partner e una molteplicità di non partner
che va dagli amici ai colleghi ai parenti ai datori di lavoro. Le domande sugli eventuali abusi sono state ripetute per l’anno
che precede l’intervista e per l’intero arco della vita dell'intervista a partire dai suoi 15 anni. A causa dei noti problemi
statistici legati alla memoria di eventi lontani (recall), abbiamo preso in considerazione solo le risposte riferite ai 12 mesi
prima dell’intervista.
Costruendo la scala di gravità. Per farlo abbiamo inteso la premessa di «sufficiente omogeneità socio- culturale» che
sottende la costruzione della scala come un’ipotesi a valere sull’intera popolazione dell’Unione Europea su cui è stata
condotta l’indagine FRA. L’ordinamento di gravità che abbiamo così ottenuto è perciò lo stesso per ogni singolo Paese
dell’unione e per l’Unione nel suo complesso, ed è riportato nella tabella 1.
Per leggere correttamente la tabella 1 servono due precisazioni.
1. Per ogni tipo di violenza, la scala è stata calcolata tenendo conto di tutti gli atti di quel tipo riferiti dalla popolazione
intervistata, dovunque e chiunque ne sia stato responsabile. Non tutti i tipi di violenza sono riferibili a qualsivoglia
responsabile; la violenza psicologica è stata rilevata dall’indagine solo con riferimento al proprio partner.
2. In linea con la distinzione fra dimensione fisica, sessuale e psicologica della violenza, abbiamo suddiviso anche gli
atti di molestia sessuale in queste tre tipologie, calcolando separatamente l’ordinamento di gravità per ogni tipologia
per poi aggregare in un unico ordinamento tramite media semplice.
Costruita la scala abbiamo proceduto alla costruzione di un indice di violenza fuzzy riferito inizialmente alla singola
donna e tale da riflettere frequenza e gravità di tutti gli abusi da lei subiti nell’ambito di ogni tipo. Questi valori individuali
sono stati infine aggregati per Paese calcolandone la media su tutte le donne di quel Paese.
Scala fuzzy di gravità della violenza, per tipo di violenza, in ordine crescente
1. Violenza psicologica: Con che frequenza il tuo attuale partner Ti ha sminuita o umiliata in privato o davanti ad altre
persone? momenti di rabbia se ti rivolgevi a un altro uomo? Ha preteso insistentemente di sapere dove ti trovavi in un
modo che va oltre la normale preoccupazione? Ha messo in dubbio la tua fedeltà? Ha fatto qualcosa per spaventarti o
intimidire intenzionalmente? Ha cercato di impedirti di vedere i tuoi amici? Ti ha impedito di prendere decisioni
autonomamente in merito alle finanze della famiglia e agli acquisti? Ha provato a limitare i contatti con la tua famiglia di
origine o con i parenti? Ha minacciato di ferirti fisicamente? Ti ha proibito di lavorare fuori casa? Ha minacciato di portarti
via i bambini? Ti ha vietato di uscire di casa, ha sottratto le chiavi della macchina o ti ha chiuso dentro? Ha minacciato di
ferire o uccidere una persona a te cara? Ha ferito i bambini? Ha minacciato di ferire i bambini?
2. Violenza fisica Negli ultimi dodici mesi, con quale frequenza qualcuno/il tuo attuale partner
Ti ha spinta o strattonata? schiaffeggiata? afferrata o tirato i capelli? Ha lanciato un oggetto contundente contro di te?
Ti ha colpita con un pugno o con un oggetto contundente o ti ha presa a calci? Ti ha fatto sbattere la testa contro
qualcosa? Ha tentato di soffocarti o strangolarti? Ti ha tagliata, accoltellata o ti ha sparato? Ti ha provocato ustioni?
3. Violenza sessuale Hai acconsentito all’attività sessuale perché avevi paura di ciò che ti sarebbe potuto accadere se
avessi rifiutato? Qualcuno/il tuo attuale partner ti ha fatto partecipare ad una forma di attività sessuale contro la tua
volontà o in una situazione in cui non eri in grado di rifiutare? Qualcuno/il tuo attuale partner ha tentato di costringerti a un
rapporto sessuale tenendoti ferma o ferendoti in qualche modo?
4.Molestie sessuali
di natura fisica Sguardi insistenti/commenti per cui ti sei sentita minacciata Contatto fisico, abbracci o baci indesiderati.
Commenti invadenti sul aspetto fisico che ti hanno offesa Commenti o battute con allusioni sessuali che ti hanno offesa
di natura psicologica Domande invadenti sulla tua vita privata che ti hanno offesa Richieste di appuntamenti
inopportune. Avance inopportune offensive nei tuoi confronti su social network come Facebook o in chat room di Internet.
Messaggi di posta elettronica o messaggi SMS sessualmente espliciti o indesiderati che ti hanno offesa
Cyber-molestia e materiale sessualmente esplicito Qualcuno ha compiuto atti di esibizionismo nei tuoi confronti.
Qualcuno ti ha inviato o mostrato immagini, fotografie o regali sessualmente espliciti che ti hanno offesa. Qualcuno ti ha
fatto vedere o guardare materiale pornografico contro la tua volontà
5. Violenza e diseguaglianza di genere nei Paesi europei
Tutto ciò conduce al passaggio finale della nostra analisi dove diamo una prima risposta al quesito iniziale sulla relazione
fra eguaglianza e violenza di genere. Per catturare la complessità dell’eguaglianza di genere ci serviamo della misura
ufficiale dell’Unione Europea, l’indice elaborato dallo European Institute of Gender Equality coevo all’indagine FRA.
L’indice sintetizza 31 possibili sotto-indicatori che coprono cinque possibili terreni di disparità (lavoro, denaro,conoscenza,
tempo, potere e salute) secondo una metodologia piuttosto articolata.
La tabella 2 rivela se e in che misura eguaglianza e violenza di genere procedano di concerto nei diversi Paesi europei o
varino in senso opposto. Vengono riportate due misure di associazione fra indici di violenza fuzzy e indici EIGE di
eguaglianza – il coefficiente Pearson e quello di rango Spearman. Entrambi sono calcolati separatamente per ciascun
tipo di violenza da partner, per l’aggregato della violenza da partner, per la violenza fisica e sessuale da terzi (non da
partner) e per le molestie sessuali da tutti. La correlazione risulta negativa e significativa per la violenza da partner nel
suo insieme e per ciascuno dei suoi tre tipi, ad indicazione che i Paesi dove la disparità di genere è più forte tendono a
registrare indici di violenza più alti. Il segno della correlazione diventa invece positivo, e rimane significativo, per le
molestie sessuali che tendono a registrare valori più bassi proprio nei Paesi meno avanzati rispetto alla parità di genere.
Il segno è positivo anche per la violenza fisica e sessuale da non partner, ma in questo caso la significatività statistica
risulta chiaramente più debole e non fornisce un’indicazione netta.
La figura 3 offre ulteriori indicazioni sull’andamento della relazione in esame, limitandosi però ai tre casi principali -
violenza da partner nel suo insieme (tutti i tipi), violenza fisica e sessuale da non partner, molestie sessuali da tutti.
L’analisi visiva dei tre grafici a dispersione conferma quanto abbiamo appreso dai coefficienti di correlazione, ossia che
nel primo caso la relazione fra Paesi è negativa, nel terzo positiva mentre nel secondo è meno chiaramente definita.
L’informazione aggiuntiva che la figura offre è che, in tutti e tre i casi, la relazione è approssimativamente lineare e non
lascia intravvedere un vero e proprio contraccolpo (backlash). In presenza di quest’ultimo do- vrebbe emergere una
relazione ad U, ovvero la violenza dovrebbe diminuire nel passaggio da Paesi a basso indice di eguaglianza di genere a
Paesi a medio indice per poi risalire nei Paesi ad alto indice di uguaglianza.
5. Discussione
La scala è stata sottoposta a test di validazione che l’hanno messa a confronto, con alcune delle scale più usate in
letteratura, tra cui le (revised) Conflict Tactics Scales e la Severity of Violence Against Women Scale (Marshall 1992). I
risultati hanno rivelato un buon grado di allineamento, nonostante le notevoli differenze metodologiche. Da un lato, quindi,
gli ordinamenti ottenuti con la scala fuzzy rispetto alla gravità non si discostano sensibilmente da quelli ottenuti con altre
scale. Dall’altro, però, la metodologia fuzzy offre alcuni vantaggi specifici che sono discussi compiutamente nel saggio,
tra cui una maggiore parsimonia di informazioni e minori rischi di distorsione legati a fattori soggettivi o specificità
culturali.
Ciononostante, ci sono ragioni per lasciar la porta aperta ad interpretazioni diverse da quella che qui offriamo, in
particolare rispetto alla possibilità di un forte contraccolpo laddove le conquiste di eguaglianza sono state più forti.
1. La prima ragione è che risulta difficile raggiungere conclusioni definitive su un possibile backlash guardando a dati
medi nazionali invece che a valori individuali.
2. La seconda ragione ha a che fare con ciò che viene percepito come backlash: la maggior diffusione di molestie in
quei Paesi dove le donne hanno conquistato maggiori spazi di integrazione economica e di uguaglianza non
equivale necessariamente ad una vera e propria recrudescenza.
I risultati che abbiamo ottenuto suggeriscono infatti come sia in atto un processo di dislocazione che vede tipi di violenza
prevalentemente privata perdere terreno a favore di quelle violenze che si manifestano in spazi pubblici. Tale
dislocazione può essere dovuta ad una maggiore presenza delle donne in questi spazi – in linea con l’idea originaria della
exposure reduction hypothesis – ad un maggior rischio per donna di subire violenza in questi spazi – in linea con l’idea di
un «backlash selettivo» – o ad una combinazione di entrambi.
Ci siamo volutamente astenuti dal tirare la somma delle somme ovvero dall’aggregare in un unico indice tutte le violenze
(e da chiunque perpetrate) in modo da fornire una sola risposta. La prima ragione è che, più si procede con
l’aggregazione, più diventa problematico difenderne la premessa secondo cui i diversi tipi di violenza e le diverse
tipologie di responsabili si equivalgono e si possono quindi aggregare tramite media semplice. Una seconda ragione
riguarda specificamente la qualità dell’indagine FRA sulle molestie sessuali. L’indagine ha classificato i vari tipi di
molestia in modo tale da mischiare atti di gravità potenzialmente diversa, rendendo quindi problematico ordinarli. A
queste ragioni se ne aggiungono altre relative alla natura stessa delle molestie. Ad esempio, è importante richiamare
l'attenzione sulla già citata ipotesi «consapevolezza» secondo cui le donne che hanno conquistato maggiori spazi di
autonomia ed eguaglianza sono più consapevoli di cosa costituisca comportamento violento e più disposte a denunciarlo.
Nella misura in cui questo è vero, quell’associazione positiva che abbiamo documentato fra eguaglianza e molestie ne
verrebbe ridimensionata e i risultati complessivi che abbiamo ottenuto si sposterebbero a favore della tesi che
l’uguaglianza riduce non solo alcuni tipi di violenza, ma la violenza sulle donne nel suo complesso.
6. Note conclusive
In questo articolo abbiamo indagato i possibili legami fra uguaglianza e violenze di genere. Sul piano teorico, l’idea che
sussista una qualche relazione origina da ipotesi che provengono da ambiti disciplinari diversi e puntano in direzioni
diverse: dal modello dell’household bargaining secondo cui l’emancipazione economico/finanziaria sostiene la capacità
della donna di limitare la violenza domestica, all’idea più sociologica del contraccolpo secondo cui la parità di genere può
incoraggiare risposte violente quando le conquiste sono sostanziali. Più che guardare all'eguaglianza in senso lato,
l’elaborazione teorica e la ricerca empirica presenti in letteratura hanno indagato alcuni nessi specifici che intercorrono fra
violenza e aspetti chiave dell’emancipazione economica femminile ottenendo riscontri non sempre univoci. Allargare il
quesito al composito processo dell’eguaglianza di genere solleva perciò l’obiezione che si rischia di confondere in un
unico legame nessi potenzialmente diversi. La nostra motivazione per correre tale rischio in questo saggio è duplice.
Nella sua accezione più generale la violenza è una manifestazione del comportamento umano dalle molte cause, talune
delle quali temporanee, mentre il carattere pervicacemente asimmetrico della violenza sulle donne e il suo perdurare nel
tempo pongono una domanda chiara e univoca sul rapporto con le relazioni di genere. Inoltre, il valore simbolico e la
valenza di policy di guardare all’uguaglianza nel suo complesso sono potenzialmente alti: se una maggiore uguaglianza
attenuasse la violenza, i dividendi di una politica di uguaglianza aumenterebbero in ragione della riduzione dei costi
sociali della violenza. Per rispondere all’interrogativo che ci siamo posti, abbiamo adottato una nuova misura della
violenza che ne copre tutti gli aspetti, inclusa la gravità. Abbiamo considerato tutti i tipi di violenza e usato dati
comparabili a livello europeo tratti rispettivamente dall’indagine FRA e dall’indice europeo di uguaglianza di genere
(EIGE). I risultati che abbiamo ottenuto mostrano che la violenza da partner è complessivamente più alta nei Paesi
europei con minor eguaglianza di genere. La riduzione della violenza da partner è il nostro risultato più solido da un
punto di vista statistico ed è compatibile con le une o le altre ipotesi interpretative che abbiamo schierato sul fronte della
riduzione. È altresì compatibile con almeno due riscontri che Bettio e Ticci hanno ottenuto nella precedente analisi dei
dati FRA. Il primo riscontro è che, per le donne, avere un lavoro si accompagna ad una maggiore probabilità di uscire da
relazioni violente. Il secondo è che la violenza psicologica da partner è meno frequente per le coppie paritarie dove lei
guadagna grosso modo quanto lui e che, plausibilmente, sono più numerose nei Paesi più egualitari.
Il secondo risultato che abbiamo conseguito – una maggiore violenza associata agli spazi pubblici nei Paesi a più forte
uguaglianza di genere – richiede cautela ed ulteriori approfondimenti. Per ragioni statistiche diverse, infatti, i risultati che
abbiamo ottenuto per le molestie sessuali e la violenza da non partner sono meno solidi. Al di là di queste ragioni,
sarebbe opportuno approfondire questo secondo risultato distinguendo fra due possibilità, rispettivamente un aumento
per la singola donna del rischio di subire violenza negli spazi pubblici dei Paesi più egualitari e un numero maggiore di
donne che operano quotidianamente negli spazi pubblici di questi Paesi (a parità di rischio individuale). L’idea della
exposure reduction fa riferimento soprattutto alla seconda possibilità, mentre la prima suggerisce l’idea di un backlash
selettivo che privilegia la violenza esterna alla coppia. Approfondire questa distinzione sarebbe importante, ma va al di là
degli scopi di questo contributo. Lasciamo quindi aperto il quesito se il travaso di violenza dallo spazio privato a quello
pubblico rappresenti una tappa intermedia di un percorso complessivamente a favore dell’uguaglianza che per ora
mostra frutti solo nello spazio privato.
Chi è il giudice più severo?
La popolarità di Papa Francesco fra rappresentazione dei media e sentimenti giovanili
di SIMONE C. MARTINO e ROBERTA RICUCCI
1. Introduzione
Nella sera del 14 marzo 2013. Già da quel «Buonasera», Josè Mario Bergoglio dava l’avvio a un papato caratterizzato
dall’idea di un dialogo diretto con cattolici e non. I temi affrontati da Papa Francesco in questi primi tre anni di pontificato
sono stati molti e variegati; non solo durante cerimonie e incontri con i fedeli, ma attraverso l’enciclica Laudato Sì,
dedicata alla questione della «tutela del creato», o l’esortazione apostolica Evangelium Gaudium, in cui ha ribadito la sua
idea di un episcopato collegiale. O ancora, con l’avvio del doppio Sinodo sulla famiglia e l’indizione a sorpresa di un
giubileo dedicato alla misericordia. Il Pontefice è intervenuto, in linea con i suoi predecessori, su molti temi sociali (dalla
povertà e dall’emarginazione all'accoglienza di migranti e profughi, dal lavoro «che significa dignità» all’economia che
«uccide») e su questioni cruciali per il cattolicesimo, come il dialogo interconfessionale e la relazione con i fedeli
divorziati. Bergoglio ha poi compiuto numerosi viaggi, che lo hanno condotto sia molto lontano dai Sacri Palazzi (in Africa,
America, Asia), sia in contesti più vicini (da Lampedusa a Lesbo); viaggi durante i quali ha avuto modo di illustrare la sua
idea di Chiesa nel mondo contemporaneo: ovvero con una visione non eurocentrica, in cui si lascia spazio e
protagonismo alle realtà ecclesiali degli altri continenti, da quella latino-americana a quella africana. Scelte e gesti che
mostrano come egli abbia agito su più livelli comunicativi, cogliendo le sfide di una Chiesa cattolica che, all’interno e
all’esterno delle proprie strutture, si confronta con le complessità culturali, sociali e politiche della contemporaneità.
Commentatori e giornalisti hanno analizzato la presenza e l’azione del Pontefice, sottolineandone le peculiarità e le
differenze rispetto ai predecessori. Fra gli aspetti maggiormente evidenziati vi è lo stile comunicativo assunto dal Papa:
diretto e ricco di metafore facilmente comprensibili. Si tratta di un approccio che ha garantito a Bergoglio una
visibilità e una copertura mediatica (in Italia e nel mondo) inconsueta per un Pontefice in un così breve lasso di tempo; è
stato indicato fra le cinquanta persone più influenti al mondo.
Papa Francesco è a pieno titolo fra i personaggi definibili come influencer sulla rete; capace di utilizzare vecchi e nuovi
media (dal telefono a Youtube) come strumenti ordinari per ribadire i contenuti e lo stile di vita cui un cattolico deve
attenersi, trasmettere messaggi, commentare a caldo questioni al centro del dibattito pubblico in tema di famiglia, vita,
bioetica, immigrazione. Il consenso che attornia Bergoglio va però approfondito. Con riferimento allo scenario italiano è
utile domandarsi se nei confronti dell’attuale Pontefice prevalga nella popolazione un generale sentimento di simpatia
connesso a una figura che viene per lo più descritta dai mass media come aperta in campo etico e religioso; oppure se vi
siano delle ragioni di riconoscimento più profonde, indicative di una nuova stagione della Chiesa cattolica, che sta
divenendo più luogo di ricerca che di certezze, più attenta alle istanze religiose a cui si ispira che coinvolta nelle vicende
politiche nazionali. Oltre a ciò, l’apprezzamento della sua figura e del suo operato è trasversale all’insieme della
popolazione, oppure si manifesta in modo diseguale nei diversi gruppi sociali e nelle varie aree territoriali? E che succede
al riguardo all’interno delle diverse anime del cattolicesimo? Come giudicano Papa Francesco i cattolici che
maggiormente si identificano nella religione di Chiesa rispetto a quanti oggi interpretano questo tipo di appartenenza più
in termini etnico-culturali che religiosi o spirituali? Qual è la posizione di coloro che invece hanno un’appartenenza
discontinua, pur riconoscendosi negli insegnamenti della Chiesa, o di quanti rientrano nello spettro dei cattolici perché
hanno vissuto nell’infanzia un’educazione religiosa, da cui poi si sono allontanati con atteggiamenti di critica esplicita o di
distacco? Tra i molti aspetti che meritano di essere analizzati ci si può chiedere se esista un «effetto Bergoglio» a livello
religioso; intendendo se e quanto la presenza e l’azione di questo Pontefice abbia a favorire nella popolazione un
avvicinamento alla fede religiosa o un aumento del proprio impegno in questo campo.
Le questioni qui sollevate nascono dall’idea che le parole, i gesti, ritenuti per lo più inconsueti per un Pontefice, possono
affascinare, ma non essere sempre condivisi; che la scelta di luoghi particolari dove celebrare la messa, la decisione di
avviare l’anno giubilare in Africa, le frasi pronunciate durante le conferenze stampa su temi che lacerano oggi la
coscienza individuale e collettiva (famiglie «irregolari», omosessualità, fine vita, ecc.) possono sollecitare riflessioni nella
popolazione ma non essere sufficienti per smuovere gli animi sia all’interno della Chiesa sia nell’insieme della società,
vuoi dentro il mondo cattolico vuoi tra i fedeli di altre religioni. L’effetto Bergoglio è misurato collocandosi su due
osservatori diversi (giovani/media), autonomi x oggetto e x metodo, ma dal cui confronto è possibile approfondire se la
popolarità del Pontefice sia prevalentemente l’esito di un effetto mediatico oppure della fiducia in un personaggio che
incide sugli orientamenti religiosi dei giovani. Prima ci si concentra su una fascia della popolazione che il Papa, ha intuito
essere una platea da animare e/o conquistare utilizzando i suoi stessi linguaggi (dai tweet ai selfie, a Youtube, Telegram).
Usare le stesse forme comunicative non significa tuttavia comprendersi reciprocamente ed essere in sintonia: l’analisi
illustrerà le opinioni dei giovani su una serie di tratti che sembrerebbero distintivi dello stile e dell’operato dell’attuale
Pontefice, cercando anche di verificare se si stia producendo tra i giovani stessi un «effetto Bergoglio» nel campo della
fede e della riflessione religiosa. In seconda istanza, si esporranno i risultati di una ricerca su come questo pontificato
venga rappresentato da alcuni media internazionali, ottenuta passando in rassegna le notizie e gli articoli su Papa
Francesco comparsi su quattro quotidiani tra i più diffusi e accreditati in Europa. Per l’Italia la scelta è caduta su «Il
Corriere della Sera». L’indagine inoltre si è estesa a livello europeo a «Le Monde», «The Guardian»… Questa
comparazione allargata ci permetterà non soltanto di valutare se la narrazione mediatica della figura e dell’azione del
Pontefice trovi un qualche riscontro nella percezione che i giovani italiani hanno dell’attuale capo della Chiesa di Roma;
ma anche di rilevare l’eventuale sintonia o dissonanza tra il racconto pubblico di Papa Francesco riscontrabile nel nostro
Paese rispetto a quello prevalente in altre nazioni del vecchio continente.
2. Un Pontefice ad alto gradimento
Osserviamo la percezione a livello nazionale della figura di un Pontefice la cui esposizione mediatica è molto elevata.
Secondo una rilevazione effettuata in Italia nel 2015 – al termine del secondo anno di pontificato – su un campione
rappresentativo della popolazione adulta, l’88% degli intervistati ha dichiarato di avere molta fiducia in Papa F.
Ovviamente fra coloro che si riconoscono nel cattolicesimo tale gradimento risulta maggiore, raggiungendo il 93%.
Sorprende che 7 non credenti su 10 abbiano affermato di avere fiducia nel Pontefice. Bergoglio si presenta, quindi, come
una figura capace di raccogliere un ampio consenso anche al di fuori di quanti si riconoscono nella fede e negli
insegnamenti del cattolicesimo. Si può ipotizzare che alcuni dei suoi tratti e comportamenti (es. modo sobrio di vivere e di
esercitare il suo ruolo, le prese di posizione contro il potere centralistico della Curia romana, le sue aperture in campo
etico, il non entrare nel merito delle vicende politiche italiane) possano essere apprezzati da chi è più lontano e ha
sempre guardato con sospetto o giudicato negativamente la Chiesa e i suoi leader. Inoltre, molti non credenti sembrano
ritrovarsi in sintonia con alcuni principi della dottrina sociale della Chiesa, «che richiama i credenti e gli uomini di buona
volontà a farsi carico dei problemi degli ultimi, a ridurre le diseguaglianze, a promuovere la solidarietà e la giustizia
sociale, a favorire un modello di sviluppo sostenibile». Proprio l’impegno del Pontefice su questi temi pare garantirgli un
largo e trasversale consenso nella popolazione italiana. In termini di fiducia, i dati riferiti a Papa Francesco non solo
hanno superato quelli del Papa «teologo» Benedetto XVI ma sono già paragonabili ai risultati raggiunti da Giovanni Paolo
II dopo oltre vent’anni di pontificato. La crescita della fiducia in Bergoglio rispetto al suo predecessore, si affianca a quella
nei confronti della Chiesa cattolica? Rispetto ai pontefici che lo hanno preceduto, emerge uno iato più profondo fra la
percezione dell’operato dell’attuale Papa e quella dell’istituzione da lui guidata. Sebbene sia da tempo noto il fenomeno
della disaffezione della popolazione dal vertice ecclesiale italiano e dal Vaticano, un così alto scarto nella fiducia tra il
Pontefice e la Chiesa di cui è leader non ha precedenti dal 2003. Sicuramente contribuisce ad accrescere questo iato la
serie di scandali (economici e morali) che la Chiesa ha dovuto affrontare nell’ultimo decennio e che ne hanno minato la
credibilità agli occhi di molti fedeli, aumentando la diffidenza nei suoi confronti, soprattutto tra le ultime generazioni.
3. I fan di Papa Francesco
campione rappresentativo della popolazione di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Nei suoi tratti essenziali in termini di
religiosità, si tratta di una popolazione che in gran parte continua a esprimere un’identità cattolica, mantenere un legame
con il cattolicesimo (il 75% dei soggetti), a fronte del 6% di giovani che si riconosce in altre fedi religiose e del 18% dei
casi che risulta estraneo a qualsiasi appartenenza religiosa (rappresentando a livello nazionale il cosiddetto fenomeno
dei nones). Inoltre, il 72% dichiara di credere in Dio, il 27% afferma di pregare ogni giorno o alcune volte alla settimana,
mentre la partecipazione assidua ai rituali religiosi comunitari coinvolge il 13% dei soggetti, a fronte di un altro 12% di
giovani che frequentano le chiese ½ volte al mese. Il riferimento al cattolicesimo sembra un tratto ancora diffuso negli
under-trenta italiani, pur caratterizzato da varie discontinuità e da modi molto diversi di interpretare il sentimento religioso.
Per quanto riguarda il giudizio sull’attuale Pontefice, le indicazioni empiriche di cui disponiamo sono di tre tipi.
Anzitutto un giudizio complessivo circa la figura e l’azione di Papa Francesco da parte dei giovani, capace di rendere
conto dell’immagine prevalente con cui si è accreditato presso le nuove generazioni. A questo livello si registra un
consenso diffuso: ben il 75% considera positivamente la presenza e l’opera del Pontefice, contro un 5% che ne dà un
giudizio negativo e un 20% che invece non esprime un’opinione al riguardo.
In secondo luogo, il dato relativo alla percezione o meno, da parte dei giovani stessi, se esista un «effetto Bergoglio» dal
punto di vista religioso; in altri termini, se essi avvertano di essere stati stimolati dalla presenza di un Pontefice ritenuto
aperto in campo etico e religioso a riavvicinarsi alla fede o ad aumentare il proprio impegno religioso. L’impatto del
Pontefice sembra in questo caso assai rilevante: la metà degli intervistati (51%) dichiara che il nuovo pontificato ha avuto
un effetto molto/abbastanza positivo in termini spirituali, mentre per l’altra metà la ricaduta sembra essere scarsa o nulla.
Si tratta di un dato molto rilevante, anche se viene il dubbio che vi sia una certa sovrarappresentazione del fenomeno: se
effettivamente la metà dei giovani italiani avesse visto aumentata la propria fede da Bergoglio in appena due anni di
pontificato ci troveremmo di fronte un fenomeno sociale straordinario per rapidità e dimensione. Tuttavia le risposte date
dallo stesso campione non indicano un contemporaneo aumento delle pratiche religiose, delle credenze: elementi che
rendono plausibile ritenere che si tratti di un fenomeno connesso più al riconoscimento e apprezzamento generale
all’operato di Francesco che a modifiche sostanziali della religiosità nella popolazione giovanile.
Un terzo livello di analisi riguarda il giudizio attribuito dai giovani a una serie di tratti che sembrano contraddistinguere la
figura e il pontificato dell’attuale Capo della Chiesa cattolica. L’obiettivo era di rilevare se e quanto i giovani attribuiscano
al Papa alcune caratteristiche che vengono indicate come distintive sia del modo in cui egli interpreta il suo ruolo sia degli
indirizzi prevalenti del suo pontificato.

I giovani riconoscono al Pontefice di essere vicino alla gente comune (81%), giudicano positivamente il suo stile di vita e
di comunicazione (82%), così come lo sforzo per cambiare la Chiesa e la Curia romana (78%). Viene apprezzato il Papa
che «denuncia le storture del sistema economico» (81%), «è attento alle vicende umane e sociali di tutti i continenti»
(77,5%), si spende a favore «degli immigrati, degli emarginati, dei senza fissa dimora» (75%). Il riconoscimento
dell’impegno e dell’attività del Pontefice su tutti questi fronti (e in particolare sul versante della solidarietà e della
giustizia sociale) sembra non essere in discussione e ci si aspetta un consenso a tutto tondo, da parte di credenti e non,
cattolici e fedeli di altre religioni. In realtà, andando oltre il dato medio, si colgono prese di posizione più articolate, i
«senza religione» valutano in modo più tiepido questi tratti attribuiti al Pontefice, un giudizio più severo si riscontra tra
coloro che appartengono ad altre religioni, che in maggioranza giudicano negativamente le qualità di Bergoglio sin qui
ricordate: l’unica eccezione riguarda il consenso sulla denuncia degli effetti perversi del capitalismo, espresso dal 56%
di questi soggetti. Veniamo ora a due questioni oggetto di particolare dibattito pubblico, dentro e fuori la Chiesa
cattolica. La prima riguarda l’atteggiamento di attenzione e di rispetto che l'attuale Papa sembra dimostrare nei
confronti dei «non credenti», giudicato da alcuni osservatori come un vero e proprio «salto di qualità». 7/10 giovani
valutano positivamente questa disposizione del Pontefice. Essa viene apprezzata da oltre l’85% dei cattolici più convinti e
impegnati, e anche dal 74% dei «senza religione»; ma guardata con scetticismo dalla maggior parte dei soggetti (57%)
che si riconoscono in fedi e tradizioni religiose diverse dal cattolicesimo. Un andamento simile si riscontra in merito alle
aperture del Papa verso quanti vivono situazioni personali e familiari che Chiesa cattolica ha sempre considerato
«irregolari», come gli omosessuali e i divorziati. La grande maggioranza dei giovani (73%) condivide tale
atteggiamento dell’attuale Pontefice, soprattutto all’interno delle diverse anime del cattolicesimo: da chi ha una pratica
regolare (70%) a coloro che frequentano i riti più saltuariamente (75%) a coloro che non praticano mai o solo qualche
volta l’anno (79%). Tra i fedeli di altre religioni l’approvazione scende al 37%, per risalire al 65% tra i non credenti.
Sui due aspetti qui trattati (l’atteggiamento verso i non credenti e alcune questioni spinose all’interno della Chiesa)
emerge dunque un largo riconoscimento al Pontefice nella popolazione giovanile, anche se permane una minoranza di
1/3 che pare del tutto estranea al suo carisma; per diverse ragioni ad esempio si potrebbero ricondurre alla convinzione
che si tratti di aperture più formali (o strumentali) che di sostanza, oppure alla presenza di soggetti contrari a una Chiesa
cattolica che si sta mescolando troppo col mondo o ancora che nell’accogliere tutti rischia di rendere evanescente la
distinzione religiosa e cristiana. In sintesi, si osserva che una quota minoritaria ma rilevante di giovani non si allinea al
sentire diffuso veicolato dalla maggior parte dei media. Quasi a dire che non è sufficiente avere un Papa presente su
Telegram e che lancia messaggi aperti in campo religioso ed etico, per distoglierli dall’idea che le trasformazioni
avvengono realmente solo quando gli atteggiamenti di sacerdoti e credenti rispondono– nelle dinamiche di tutti i giorni –
a vere e proprie indicazioni di cambiamento.
Molti di questi temi sono fortemente correlati alla dimensione politica. Tuttavia, il fatto che l’impegno del Papa per i
migranti sia meno apprezzato tra i ragazzi residenti nel Nord-Est (area in cui vi è un forte radicamento dell’elettorato di
centro-destra) fa presumere che vi sia una certa correlazione tra alcuni di questi temi e l’orientamento politico dei giovani.
Continuando nell’analisi, si osserva che a Francesco va il plauso di essere capace di smarcarsi in qualche modo dalla
comunicazione mainstream, sia per il linguaggio che usa sia per alcuni contenuti. Si tratta infatti di una figura propensa a
esprimere il suo pensiero al di fuori delle occasioni ufficiali, secondo modalità del tutto insolite per un Pontefice. Questo
stile comunicativo ai più appare accattivante, in sintonia con una strategia di riconquista di un rapporto più diretto con i
fedeli, con l’intento di annullare la distanza dalla gente comune. Tuttavia una minoranza consistente di giovani (32%)
sembra non apprezzare o risulta indifferente verso queste forme espressive inusuali per chi ricopre un alto ruolo pubblico
e religioso.
Se si guarda al mondo di chi non giudica positivamente Bergoglio, si nota come la maggioranza sia composta o da chi
non appartiene ad alcuna religione o da chi è un cattolico che si definisce tale per tradizione ed educazione. Tale
posizione è invece praticamente assente tra i cattolici convinti e attivi. Su altre rappresentazioni attribuite al Pontefice si
delinea una maggior contrapposizione nell’insieme dei giovani tra quanti le giudicano in termini positivi e quanti ne
prendono le distanze. Ad esempio, l’idea proposta da un item che Francesco sia «un Papa più attento alle questioni
sociali che a quelle spirituali» è condivisa dal 57% del campione, mentre la restante quota giudica negativamente
questo aspetto del pontificato. Vi è poi un gruppo consistente di giovani (il 40%) che apprezza il Pontefice per la sua
attitudine a manifestare il senso del sacro in tono minore rispetto ai suoi predecessori. Infine, poco meno del 30% del
campione giudica in modo positivo il fatto che Francesco – con il suo stile di vita e di governo, con la politica ecclesiastica
che promuove – sia una fonte di divisione e di sconcerto all’interno della stessa Chiesa che presiede.
Anche in questo caso, si ha a che fare con un giudizio non condiviso dalla maggior parte dei giovani, o perché ritengono
che Bergoglio non abbia un ruolo di rottura all’interno della cattolicità, o perché temono le fratture che può produrre negli
ambienti ecclesiali. Le immagini positive dell’attuale pontificato sono senza dubbio prevalenti nell’insieme dei giovani, ma
non mancano in questo universo molti distinguo, che indicano come da un lato non sempre le nuove generazioni siano
sempre ricettive ai messaggi e dall’altro come la figura e l’operato di Bergoglio si presti a valutazioni non sempre
univoche e scontate.
4. Il «backstage» della popolarità di Papa Francesco
In coerenza con gli obiettivi del presente saggio, si è ritenuto a questo punto opportuno operare un approfondimento
empirico, per evidenziare l’eventuale influenza di alcune variabili religiose sulla formazione nei giovani di un giudizio
positivo o negativo sulla figura e l’azione del Papa. A questo proposito è stato costruito un modello che tenesse conto
delle seguenti dimensioni:
1) Il livello di esposizione dei soggetti alla socializzazione religiosa; riguarda l’educazione religiosa ricevuta in
famiglia e quella appresa negli ambienti ecclesiali.
2) la collocazione dei giovani stessi nel campo religioso: è espressa da una tipologia di religiosità (che si basa
sull’auto-definizione dei soggetti) capace di rendere conto del diverso grado di appartenenza al cattolicesimo.
Al loro interno i cattolici risultano suddivisi in quattro gruppi: i «convinti e attivi», i «convinti ma non sempre attivi», «per
tradizione e educazione» e i «selettivi» (chi condivide solo alcune idee del cattolicesimo o lo interpreta a modo proprio). A
questi si aggiungono coloro che si autodefiniscono di una confessione non cattolica e quanti dichiarano di non avere
alcuna appartenenza religiosa.
Si è scelto di utilizzare come categoria di riferimento i «senza religione» per valutare come i vari profili di religiosità
giovanile si collochino rispetto a questa. Il modello identificato è stato replicato per esplorare l’effetto delle variabili sopra
descritte su:
1) il giudizio complessivo sul Papa espresso dai giovani;
2) il cosiddetto «effetto Bergoglio» in termini di fede e di coinvolgimento religioso; ovvero se figura e l’operato di
Francesco possano aver stimolato i giovani a riavvicinarsi alla fede religiosa o a aumentare il proprio impegno in questo
campo;
3) l’eventuale presenza di un gruppo di giovani particolarmente in sintonia con il Papa, al punto tale da poter essere
considerati i suoi «fan». Quest’ultima variabile è stata costruita sommando coloro che hanno espresso un giudizio
positivo su tutti i tratti del Pontefice, dimostrando così una forte identificazione con il suo stile e la sua figura.
Per quanto riguarda il giudizio complessivo su Papa Francesco, il modello permette di notare come al netto delle variabili
di controllo l’aver ricevuto un’educazione religiosa, in famiglia o negli ambienti ecclesiali, raddoppi la probabilità di
giudicare positivamente figura e azioni del Papa.
Sempre su questo punto, anche la tipologia di religiosità interviene in modo significativo. A fronte di un mondo cattolico
non omogeneo al proprio interno, si osserva che i cattolici «convinti e attivi» hanno maggiori chance di esprimere un
giudizio positivo sul Pontefice, rispetto a quanti sono legati al cattolicesimo perlopiù per l’educazione ricevuta o per motivi
di tradizione e di cultura e molto di più dei non credenti. Al di fuori dell’area cattolica, invece, il modello evidenzia come
l’appartenenza ad altre religioni riduca sensibilmente la probabilità di esprimere un giudizio positivo sull’attuale Papa.
Cambiando prospettiva e guardando al «fattore Bergoglio» (come possibile fonte di stimolo per un riavvicinamento alla
fede o per un maggior impegno in questo campo) emerge a questo livello la scarsa efficacia della socializzazione
religiosa vissuta in famiglia dall’analisi condotta risulta come aver frequentato ambienti religiosi aumenti invece
sensibilmente la probabilità di dichiarare che l’azione e la predicazione del Papa hanno aumentato il proprio
coinvolgimento religioso. Dinamiche diverse si osservano anche analizzando i giovani a seconda del loro profilo religioso.
Tra i cattolici, la probabilità di essere maggiormente influenzati dall’attuale Pontefice ad aumentare il proprio impegno
spirituale è assai più elevata tra i credenti «convinti e attivi» che tra quanti sono ancorati a una religiosità di tipo etnico e
culturale. Tale influenza coinvolge anche i giovani che appartengono alle minoranze religiose, tale condizione aumenta di
circa tre volte la probabilità – rispetto ai «senza religione» – di recepire dalla presenza del Papa lo stimolo ad una
maggior riflessione e impegno in campo religioso. Da questo quadro, emerge indirettamente che non esiste un «effetto
Bergoglio» tra coloro che si definiscono «senza religione».
3) Vi è infine la terza variabile che richiama la realtà dei giovani che risultano molto identificati con l’attuale Papa.
Si può affermare che i «fan» siano soprattutto coloro che si lasciano attrarre dalle novità (stile di vita, linguaggio
diretto e accattivante, modalità di presenza pubblica) introdotte da un Pontefice che appare vicino alla gente
comune. Apprezzamenti spiegabili non tanto in base ad un’identificazione religiosa e a un percorso di fede che
nasce dalla frequentazione e dall’impegno ecclesiale (tratti questi caratterizzanti i Papaboys all’epoca di Giovanni
Paolo II), quanto piuttosto dalla simpatia umana per una figura percepita come prossima alla condizione di tutti,
nonostante l’alto ruolo e le elevate responsabilità che ricopre. In sintesi, sembrerebbe trattarsi di un infatuazione, da
mettere alla prova sul se e come le parole e gli atteggiamenti del Pontefice si trasformeranno in quelle azioni di
riforma, di aggiornamento, di apertura, che molti giovani rilevano.
Per completare l’analisi, passiamo ora a valutare come intervengano le variabili di controllo considerate (sesso, area di
residenza, stato occupazionale) sui tre aspetti studiati. Dal punto di vista del sesso si riscontra un leggero effetto negativo
dell’essere maschio sul giudizio complessivo sul Pontefice e sull’«effetto Bergoglio», mentre il rapporto si inverte per
quanto riguarda il fenomeno dei «fan» del Papa, dove essere maschio aumenta del 41% la probabilità di avere
un’identificazione completa con l’opera del Pontefice. Per quanto riguarda l’area geografica solo l’«effetto Bergoglio»
divide la Penisola: in questo caso si ritrovano infatti le tradizionali linee di demarcazione territoriale della religiosità del
territorio italiano e i dati rilevano come siano i giovani del Sud Italia ad avere le probabilità maggiori di ricevere stimoli in
termini di fede dalla presenza dell’attuale Pontefice. Lo stato occupazionale non è statisticamente significativo.
5. Dai quotidiani al web, per ritornare ai mass media tradizionali
L’importanza dei moderni mezzi di comunicazione per l’azione delle chiese non è una novità degli ultimi anni. Nella
Chiesa cattolica, a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II, l’attenzione dedicata a questi canali è costantemente
cresciuta evidenziando due elementi: una ritrovata centralità della figura del Papa, anche grazie a momenti pubblici
assai partecipati, e un loro uso estensivo. In tempi recenti questo quadro si è tuttavia arricchito di elementi del tutto
nuovi, collegati al cambiamento tecnologico nel mondo della comunicazione, che ha portato una presenza dei social
network nella vita quotidiana della popolazione mondiale. Papa Francesco è il primo che ne ha sfruttato in modo pieno la
potenzialità, irrobustendo un filone già aperto da Benedetto XVI. Ecco dunque la ripresa e il nuovo slancio dell’account
Twitter «@pontifex», i video su Youtube, le fotografie su Instagram. A differenza dei media tradizionali, che trasmettono
un messaggio in modo asimmetrico a una platea relativamente numerosa e indistinta, i social network si caratterizzano
per l’ampliamento del ventaglio delle interazioni mediate, tanto da modificare le modalità di comunicazione degli individui:
si lanciano messaggi attraverso post, ci si confronta a colpi di botta e risposta sui blog, si esprime il proprio disappunto o
il proprio sostegno attraverso un hashtag. Viene quindi la necessità di confrontarsi con nuove regole e stili
comunicativi. Il carattere più immediato di molti strumenti dell’interazione sul web, ben si adatta allo stile del Papa,
diretto e familiare, pronto a usare slogan o frasi a effetto, ideali per un post. Questo è probabilmente uno degli elementi
principali del successo del Pontefice su diverse piattaforme sociali: già a un anno dalla sua elezione, su Instagram oltre
90 mila immagini facevano riferimento alla sua figura; oltre 47 mila menzioni nei maggiori siti di news americani, lo
ponevano al quarto posto per numero di citazioni dopo il presidente Obama, Nelson Mandela, Bashar al-Assad.
La popolarità sui social network è spesso ripresa dai tradizionali mezzi di comunicazione, che l’hanno inserita nel
racconto della svolta comunicativa attuata dal Pontefice e del già discusso apprezzamento da parte di ampie fasce della
popolazione. La capacità di essere presente attraverso i nuovi media diventa elemento di una più complessa e articolata
dimensione comunicativa, che dai quotidiani riverbera a sua volta sul web. La riproposizione dei messaggi attraverso
media diversi consente di raggiungere destinatari differenti. I dati sul digital divide e sulla lettura dei quotidiani sembrano
dar ragione all’uso da parte del Pontefice di un menù comunicativo completo.
5.1. Quo vadis Francesco?
Il Pontefice è stato presentato come attento a creare, o a ritrovare, una sintonia con la gente comune, che alcuni
commentatori hanno considerato un punto debole del pontificato del suo predecessore. Come già segnalato, questa
«riconquista» passa anche attraverso uno stile che ha colpito opinionisti di tutto il mondo sul piano comunicativo (ad
esempio, il ricorso a immagini vivaci, il richiamo a episodi propri della giornata lavorativa o familiare dei fedeli) e su quello
socio-politico. Rientra in quest’ultimo aspetto l’attenzione alle periferie del mondo e a portare sotto i riflettori aree del
pianeta che più di altre rimangono nel cono d’ombra dell’attenzione dei media, dei fedeli, della politica e talora della
riflessione pastorale. Ma nella comunicazione del Papa non mancano, ovviamente, le questioni più propriamente di fede,
teologiche; anche su alcuni argomenti molto discussi, come il rapporto della Chiesa con i divorziati e gli omosessuali,
oltre all’amministrazione della stessa Curia romana.
Quanto di tutto questo viene veicolato nei media tradizionali, ovvero nei quotidiani?
La «notiziabilità» di Papa Francesco varia da Paese a Paese. Nello scenario italiano la rilevanza mediatica della Chiesa
cattolica e della sua guida permane per varie ragioni come un’adesione al cattolicesimo che continua a permeare la
cultura della maggioranza dei residenti, come pure un apprezzamento per la rete sociale che svolge un ruolo importante,
una presenza pubblica di vescovi e cardinali che intervengono nel dibattito politico su innumerevoli questioni.
In tale scenario, non stupisce lo spazio dedicato da «Il Corriere della Sera» allo stile comunicativo del Papa, alla sua
particolare pastorale e «diplomazia dei gesti», agli incontri «fuori programma» che tanto impensieriscono gli addetti alla
sicurezza, alle parole, all’uso dei social network o addirittura dei selfie. «Francesco comunica. Non perché usa Twitter,
ma per come lo usa, e per quello che dice. Consapevole di non avere a disposizione un’aula, ma solo 140 caratteri,
sceglie la brevità». E fra i temi che dal quotidiano si riverberano sul web ci sono quelli di «costume», ovvero gli incontri
con personaggi dello spettacolo, dello sport (da Angelina Jolie a Mario Balotelli) le cronache sulle passioni sportive, i
rimandi alle origini piemontesi e al periodo argentino. Seguono poi i commenti legati ai viaggi e agli incontri che il Papa ha
con capi di Stato e di governo, soprattutto internazionali. All’ultimo posto si collocano gli articoli di «giustizia sociale» e
che affiancano la figura del Papa all’attenzione sulla questione dei migranti, dei disoccupati, di coloro che la
globalizzazione ha relegato ai margini della società. Quest’ultimo insieme di tematiche pare essere sottostimato rispetto
alla sua centralità nei messaggi del Papa.
Allargando lo sguardo alla stampa internazionale, 4 elementi emergono con chiarezza operando un confronto tra «Il
Corriere della Sera» e i più importanti quotidiani di tre diversi Paesi europei. Innanzitutto, un maggiore interesse per la
figura del Pontefice come leader sullo scacchiere internazionale che come figura esclusivamente religiosa. Bergoglio, è
presentato e i suoi gesti interpretati più sul piano politico che non su quello religioso. Il Papa diviene una notizia rilevante,
per il modo in cui si è mosso nel contesto africano, per gli interventi al Congresso americano e al Parlamento Europeo,
così come per i discorsi e i gesti emblematici (ai due incontri a Cuba, con Fidel Castro e con il Patriarca Cirillo, alla messa
celebrata sul difficile confine tra Messico e Stati Uniti) compiuti durante il viaggio apostolico nel continente americano.
Un secondo elemento che si coglie nella comparazione internazionale è l’accento meno marcato sull’interpretazione del
ruolo del Papa e sullo stile comunicativo attraverso cui trasmettere contenuti, prese di posizioni.
Infine, scandagliando i vari temi che hanno a che fare con «le questioni interne alla Chiesa», si colgono ulteriori
differenze. Per quanto riguarda le posizioni espresse dal Pontefice su «temi caldi» inerenti la dottrina e la morale
cattolica, mentre la «Frankfurter Allgemeine» pare meno attenta al dibattito. Nella laicissima Francia, il Pontefice
rappresenta un personaggio pubblico di interesse per i lettori d’oltralpe, i quali sono informati anche sulle attività legate al
ruolo istituzionale, aspetto verso il quale il quotidiano anglosassone «The Guardian» presta invece poco rilievo, superato
di poca misura dalla controparte tedesca.
6. Conclusioni
Esiste un solo argomento su cui la valutazione della figura e delle azioni del Papa da parte dei giovani è in sintonia con i
temi più trattati a livello pubblico dai giornalisti: è quello dello stile di Bergoglio, del suo modo di essere e di svolgere il
suo ruolo. Sul resto, ovvero sugli elementi che un’ampia quota di giovani apprezza, soprattutto quelli riferiti al messaggio
del Pontefice sull’economia, sulla solidarietà e sulla giustizia sociale, si scorge un distacco rispetto alla copertura
giornalistica. Se sul quotidiano nazionale gli aspetti «di costume» sono enfatizzati, dal canto loro una parte dei giovani è
indifferente al protagonismo del Pontefice e all’uso di espressioni inconsuete per la sua carica, oppure ritiene che non
siano del tutto apprezzabili. Tale impostazione critica racchiude in sé posizioni assai diverse e articolate, a volte opposte
fra loro, da chi è contrario in sé a un ruolo pubblico molto significativo del Papa a chi invece teme che lo stile di governo
di Francesco possa produrre divisioni all’interno degli ambienti ecclesiali.
La valutazione del protagonismo mediatico di Bergoglio definisce il punto di massima distanza fra la sensibilità
(personale) dei giovani e quella (pubblica) dei quotidiani. Leader religioso, ma anche politico attento, personaggio
apprezzato per la sua capacità di rivolgersi a giovani e anziani, fedeli e non. È questo il ritratto che ragazzi e ragazze si
mostrano capaci di analizzare, filtrandolo alla luce dell’esperienza personale negli ambienti religiosi e confrontandolo con
altri canali informativi. Infatti, i giovani oggi hanno il vantaggio rispetto ai coetanei delle generazioni precedenti di
utilizzare un ventaglio di fonti informative dirette per sintonizzare o meno la propria opinione con quella di giornalisti,
editorialisti, analisti e commentatori. Rileviamo quindi una distonia su come vengano apprezzati e sottolineati diversi
aspetti che i professionisti dell'informazione hanno sinora proposto del pontificato di Bergoglio. Le notizie, gli articoli di
cronaca, le riflessioni di opinionisti e studiosi hanno la funzione di formare, orientare, stimolare l’opinione pubblica, talora
presentando curiosità, atteggiamenti o linguaggi inconsueti per un Pontefice, episodi al di fuori del rigido protocollo e del
programma delle cerimonie e dei viaggi apostolici. Ancora una volta i giovani, pur caratterizzati da un discreto rapporto
con la stampa quotidiana nell’era delle edizioni online e della reperibilità degli articoli su blog, dimostrano di saper
prendere le distanze dai titoli sensazionali. Per questa fascia di popolazione non si può quindi pensare a un effetto di
cassa di risonanza, che dal quotidiano (e dalle sue pagine web) raggiunge i destinatari, informando opinioni e giudizi. Gli
esperti della notizia sono avvertiti: i giovani non solo si mostrano osservatori attenti, talora giudici severi, ma anche in
grado – grazie alla pluralità di mezzi comunicativi usati da Francesco – di verificare notizie, confrontare opinioni,
recuperare e muoversi fra letture nazionali e internazionali. Ed è per questo che l’atteggiamento nei confronti del
Pontefice oscilla fra l’entusiasmo e la cautela. Una (sproporzionata) presenza pubblica del corpo del leader può
trasformarsi in un effetto negativo all’interno dello stesso gruppo di riferimento; l’esposizione ravvicinata di tutte le sue
caratteristiche, anche quelle di fragilità e difficoltà nello svolgimento del proprio compito, può arrivare a trasformarsi in
sentimenti di lontananza. In tal senso, come alcuni commentatori si sono affrettati a sostenere alla luce dei cambiamenti
introdotti nei primi mesi del pontificato di Francesco, un’esposizione mediatica ritenuta eccessiva dai destinatari del
messaggio può rendere meno efficaci la presenza e l’azione della figura di Bergoglio, che appare capace di raccogliere
ampio consenso e favorire 1 riavvicinamento alla religione.
Maternità lesbica e paternità gay: problemi – ordinari – di re-entry Alcune riflessioni a partire da
Luhmann
di LUCA GUIzzARDI
1. Introduzione
Escludendo le famiglie omogenitoriali in cui il figlio è nato da una precedente unione eterosessuale e quelle che hanno
fatto ricorso all’adozione (là dove l’accesso all’istituzione dell’adozione è esteso anche alle coppie omosessuali), quando
la coppia composta da due persone dello stesso sesso decide di avere il proprio figlio, il ricorso a un terzo (il donatore di
seme, la donatrice di ovuli) è inevitabile. Le questioni che si pongono sono numerose e complesse. Per esempio, la
coppia di futuri genitori dovrà decidere chi dei due sarà il genitore biologico e chi quello sociale/intenzionale (genitore che
non ha partecipato al concepimento ma vuole crescere il nascituro assieme all’altro genitore). Pensiamo a due uomini
gay che vogliono diventare padri: o entrambi potranno essere genitori biologici fecondando due ovuli, – ma questa
possibilità richiede la decisione di avere due gemelli. Inoltre, i due padri devono scegliere se ricorrere a un accordo di
maternità surrogata tradizionale (o ‘parziale’ o ‘a basso ricorso tecnologico’) e che prevede l’impiego degli ovuli della
madre surrogata, fecondati dallo sperma di uno dei due padri, ed è, pertanto, la madre genetica del nascituro, o a un
accordo di maternità surrogata gestazionale (o ‘piena’ o ‘ad alto ricorso tecnologico’) e che prevede l’impianto,
nell’utero della gestante, degli ovuli di una donatrice fecondati da uno dei due futuri padri – in questo caso, quindi, la
donna che porta avanti la gravidanza non è la madre biologica del nascituro. Una seconda decisione da prendere è se far
ricorso a un accordo di maternità surrogata commerciale (la madre surrogata percepisce un compenso che eccede le
spese sostenute per portare avanti la gravidanza) o altruistica (la madre surrogata non percepisce alcun compenso ma
soltanto un rimborso per le spese sostenute). Un’altra opzione è data dalla possibilità di realizzare una surrogazione
intra-familiare, cioè la donatrice di ovuli e/o colei che porterà in grembo il figlio per i mesi della gestazione è una persona
che appartiene al nucleo familiare. Spostando la nostra attenzione a due donne lesbiche, interrogativi in merito a chi, tra
le due future madri, porterà avanti la gravidanza (se viene esclusa la possibilità della gravidanza condivisa l’embrione è
stato incubato, nelle prime 18 ore, nel corpo di Donna; poi è stato impiantato nell’utero dell’altra madre. Da un punto di vista tecnico,
entrambe le donne hanno portato avanti la gravidanza, ma solo una è la madre genetica), a chi fornirà gli ovuli che potrebbero
essere impiantati nell’utero dell’altra e a chi darà il seme. Relativamente al donatore di seme, vi sono diverse possibilità
per reperirlo: tra gli amici, tra i familiari o tra quelli messi a disposizione dalle banche del seme e, in questo caso, occorre
decidere quale tipologia di donatore, se anonimo o aperto. Un altro interrogativo riguarda se realizzare un concepimento
medicalmente assistito oppure tramite l’auto-inseminazione.
Al di là di queste questioni, occorre anche prendere in considerazione il contesto sociale più ampio in cui le coppie
omosessuali sono inserite – se, per esempio, la surrogazione di maternità sia consentita o messa al bando, se la
fecondazione eterologa sia aperta solo alle coppie eterosessuali e sposate o a tutte le tipologie di coppie, ecc.
Qual è il legame tra le famiglie omogenitoriali e la teoria sistemica-funzionale di Niklas Luhmann, evocato nel titolo? In
queste pagine si assume, nel solco di un pragmatismo funzionalista, che la famiglia omogenitoriale, funzionando e
funzionando bene, vada studiata nella sua peculiarità di forma familiare differente da quella eterogenitoriale; I figli, nelle
famiglie LGBT, crescono bene; dopo trent’anni e oltre di ricerche in merito alle capacità della famiglia omogenitoriale di
‘tirare su’ i propri figli in modo sano, positivo ed equilibrato, possiamo affermare che i genitori non-eterosessuali sono
«genitori buoni e capaci».
Indubbiamente, le famiglie di due padri e di due madri fanno ‘saltare’ la differenziazione per sesso e genere di
parsonsiana impostazione. Ma, come era stato notato già a metà degli anni Novanta, «le lesbiche, i gay e le loro famiglie
non costituiscono una anomalia demografica; ignorandole, la ricerca sulla famiglia non coglie pienamente quanto tutte le
famiglie siano diverse». Avere lungamente escluso le unioni fra persone dello stesso sesso dagli studi è stato un grave
errore della più ampia ricerca sociologica sulla famiglia, errore dovuto al fatto che «quelle esperienze, che esulavano
dalla definizione stretta di famiglia e di parentela, non venivano incluse negli studi» . Le osservazioni che, qui, propongo
partiranno dal fatto che, tanto per il concepimento lesbico quanto per quello gay, si pone, non solo la questione del
ricorso a un terzo soggetto, ma anche quella di come tale figura venga reintrodotta e ‘raccontata’; questione che è
determinante per la stabilità della famiglia. Come includere queste persone all’interno della famiglia? Sono della famiglia
o non sono della famiglia? Il problema di chi è l’altro genitore (quello sociale) e chi è il donatore/la donatrice non è
soltanto legato alla questione della nomenclatura parentale. L’intento di questo saggio è quello di affrontare le questioni
appena indicate attraverso la teoria luhmanniana della famiglia e dell’intimità. Trattare il tema della famiglia
omogenitoriale attraverso la teoria dei sistemi sociali di Luhmann permetta di approfondire il rapporto, inevitabile e
costitutivo della famiglia omogenitoriale, tra i donatori e le famiglie di due padri e di due madri che non si riflette solo nel
momento del concepimento ma riguarda la famiglia stessa, la costruzione della storia della famiglia che verrà raccontata
al figlio e la stabilizzazione e la gestione dei confini della famiglia attraverso l’identificazione di chi è il genitore (tanto
quello biologico quanto quello intenzionale) e chi non lo è (il donatore o la donatrice). In altri termini, riflettere sul rapporto
tra i futuri genitori e il donor induce a riflettere anche su ciò che è e non è famiglia. Il percorso è così strutturato.
2. La famiglia secondo Luhmann: segretezza e intimità
«Il fatto che – scrive Luhmann – nelle famiglie di oggi la comunicazione intima non solo venga ammessa, ma addirittura
richiesta, significa chiaramente che in ogni comunicazione ci si deve preoccupare di come l’altra/o la intenda e di come la
possa rafforzare. Non bisogna solo rifletterci su, si deve e si dovrebbe poterci comunicare sopra. Si tratta di un principio
talmente improbabile, che se funziona può funzionare solo in enclave societarie». In quanto sottosistema sociale, la
famiglia è pura e semplice comunicazione. Per distinguersi dagli altri sottosistemi sociali, la famiglia deve svolgere una
funzione che non può essere realizzata da nessun altro sottosistema cioè includere l’intera persona al suo interno: nella
società funzionalmente differenziata, la famiglia è l’unico sottosistema nel quale ognuno di noi è trattato come persona.
Tutto ciò che facciamo, e non facciamo, tanto all’interno quanto all’esterno della famiglia, non può non essere oggetto di
comunicazione in famiglia, perché, come scrive Luhmann, «una gran quantità di comportamento diventa
comunicazione». Per poter includere «nel reticolo delle osservazioni, nella comunicazione» l’intera persona dei membri,
la famiglia realizza questa funzione attraverso la re-entry che si basa sull’identità delle persone facendo sì che il
comportamento interno ed esterno di determinate persone diventa rilevante internamente. Tramite le persone (solo
pochissime) l’ambiente può (solo in settori molto ristretti) essere reintrodotto nel sistema, senza con ciò perdere la sua
peculiarità. Allo stesso tempo, mediante la re-entry, è possibile distinguere se una comunicazione appartiene alla
famiglia o all’ambiente. La persona è il «punto di vista» che la famiglia ha per «orientarsi»; per fissare i propri confini e
per raggiungere e mantenere «la propria stabile unità autopoietica». Attraverso la re-entry realizzata sulle persone, la
famiglia può distinguersi da tutto ciò che non è famiglia – ossia rientra in sé stessa senza sopprimere o cancellare i propri
confini con tutto ciò che è all’esterno della famiglia. Tutto ciò che riguarda i membri della famiglia, tutto ciò che
concerne la totalità della persona diventa «accessibile per la comunicazione nella famiglia». Nulla di ciò che
inerisce alla persona può essere potenzialmente escluso dalla comunicazione in famiglia. Luhmann, a questo proposito,
è molto chiaro: «la segretezza può naturalmente venire praticata ma non ha alcun status legittimo. Non si può
rifiutare una comunicazione su sé stessi osservando: questo non ti riguarda! Si deve rispondere. Chi è pronto a
sottomettersi a queste regole, è pronto a sposarsi!». In famiglia, non c’è «alcuna limitazione tematica legittima» per
ciò che è in relazione con il singolo partecipante alla comunicazione intima perché, da una parte, la semantica
dell’intimità e dell’amore nutre l’aspettativa del diritto di essere ascoltati ma, dall’altra, anche il dovere di conversazione e
di risposta. Questa ‘illegittimità’ della segretezza caratterizza un tipo particolare di comunicazione, quella intima.
Siccome la gestione della distinzione segreto/non segreto è un problema inderogabile nei processi di costituzione delle
famiglie omogenitoriali, mi preme soffermarmi a riflettere ulteriormente su questo aspetto della trasparenza attesa.
Il secondo elemento che, secondo la prospettiva luhmanniana, caratterizza il sistema sociale famiglia, è l’intimità. La
comunicazione intima implica che i partecipanti non possano tenere celato e nascosto nulla di personale e che essi siano
importanti l’uno per l’altro; la produzione dell’intimità è un elemento determinante per le famiglie omogenitoriali nel
costruirsi come famiglie là dove, in particolar modo, esse non hanno alcun riconoscimento giuridico o ‘sociale’ più ampio.
La semantica dell’intimità si poggia sulla differenza tra i rapporti personali e i rapporti impersonali. La differenza che, nella
società moderna, «dà forma» è tra quelle relazioni nelle quali l’individuo «non può comunicare su sé stesso» – le
relazioni impersonali – e quelle nelle quali l’individuo «può mettere al sicuro tutto il suo sé» – le relazioni personali. Nella
famiglia e nelle relazioni intime più generali, «un individuo può trovare conferma e supporto alla propria personale visione
del mondo oltre e al di là del mondo anonimo delle verità e dei valori». Per resistere a un ambiente caotico, complesso e
imprevedibile, gli individui necessitano di «relazioni intime che offrono loro punti di riferimento e occasioni per
esprimere e trovare conferma del fatto che proprio in queste difficoltà e nonostante tutti i mutamenti continuano a
rimanere gli stessi». Per mettere al sicuro tutto il suo sé, ritiene Luhmann, l’individuo ha bisogno di relazioni in cui può
comunicare su sé stesso e lo può fare solo in un sistema in cui la re-entry è operata sulle persone nella loro interezza –
nella famiglia e nelle relazioni intime. È solo nella comunicazione intima che l’individuo può trovare confermata la
propria autodescrizione. L’intimità ha nell’amore il proprio medium, ma può essere usata per definire ciò che è
famiglia da ciò che non è famiglia. In famiglia, si comunica con l’amore ma non soltanto con esso; in famiglia, non tutte le
comunicazioni sono comunicazioni intime. Per Luhmann nelle famiglie ci si può aspettare che la comunicazione si
riferisca alle persone o almeno che abbia presente cosa sentano i sistemi psichici coinvolti: questa è una condizione; ma
questo non è indipendente dal processo di apprendimento messo in moto da una sistematica irritazione. La storia svolge
perciò un ruolo maggiore rispetto agli abbinamenti strutturali privi di rumore: qui non è legittimo dimenticare,
diversamente da quanto accade, per esempio in economia. Molto più di altri sistemi sociali, la famiglia è un sistema
storico nel quale si profila ciò che succede nel rapporto tra coscienza e comunicazione. E proprio perché le strutture dei
sistemi coinvolti determinano ostinatamente ciò che essi fanno, la storicità diventa un meccanismo che si rafforza in
modo discorsivo e che parte continuamente da sé stesso. Andarsene può allora avere un effetto liberatorio da intenzioni
che non si riescono più a sopportare, anche se l’esperienza si ripeterà. Dato che i sistemi psichici partecipano anche ad
altre comunicazioni, non solo a quelle familiari, l’attenzione su di loro non è propria solo delle famiglie. Qualsiasi
esperienza e azione, interna o esterna, è potenzialmente rilevante se è rilevante in senso personale.
La soluzione di tipo temporale che Luhmann trova al problema dei piatti da lavare è la stessa per qualunque altro
problema familiare: da «chi fa la spesa?» a «quale donatore scegliere?», «come sono venuto al mondo?» (riferendomi a
un figlio di due padri o di due madri). È la storia che fa la famiglia, è proprio attraverso la costruzione della storia, che
ha nel concepimento l’evento iniziale, di come il figlio è venuto al mondo, che avviene la costruzione della famiglia
distinguendo chi ne fa parte – il genitore biologico ma anche quello sociale – e chi non ne fa parte – il donor – e
distinguendo, al contempo, tra ciò che non è quella famiglia – non è una madre single o un padre single né un’unione
contro natura o contro l’ordine sociale – e ciò che quella famiglia è – due genitori con il loro figlio.
L’aspetto della semantica dell’intimità che mi preme evidenziare, non è tanto quello della costruzione, attraverso il
medium dell’amore e dell’interpenetrazione interumana nei rapporti intimi, «di un mondo da parte di una persona
individuale», quanto sul fatto che essa può essere estesa a tutte le (forme di) famiglie intese come legami affettivi
intimi d’amore – la famiglia come la stabilizzazione della storia costruita e confermata nel tempo. Siccome «la modalità
della re-entry riferita alla persona esclude naturalmente che ‘la famiglia’ possa darsi come un particolare sistema della
società», ogni famiglia gestisce la re-entry ‘a proprio modo’. Non c’è la famiglia che rappresenta e organizza questa
funzione ma «ci sono solo singole famiglie» ognuna delle quali, a proprio modo, cioè secondo le proprie caratteristiche
(un padre, una madre, due padri, due madri, etc.) opera per conto proprio.
La scelta di chi poter amare non avviene per «designazione istituzionale» ed entro forme delimitate da «barriere
istituzionali», ma lasciando «la scelta all'individuo». La comunicazione intima attraverso il medium dell’amore accresce le
proprie possibilità se i due partecipanti «rendono reciprocamente possibile un tale rapporto – e non perché sono buoni,
belli, nobili o sono ricchi» o, aggiungo, perché sono di sesso opposto. Vi è, indubbiamente, la famiglia così come viene
codificata e regolata dal sistema giuridico e che pone limiti, dall’esterno, alla possibilità della scelta di chi amare/ sposare.
3. Maternità lesbica e paternità gay: chi è il terzo?
3.1. Madri/non-padre
Tra le tante questioni che due lesbiche si pongono quando decidono di avere il proprio figlio, le più immediate e urgenti
sono quelle relative a quale tipologia di donatore fare ricorso (un amico, un donatore aperto o anonimo). Di seguito
vengono avanzate alcune riflessioni in merito alla figura del donatore per poi passare ad analizzare in profondità come il
donatore venga re-introdotto dalle due madri lesbiche all’interno della storia della loro famiglia.
L’uomo che dà il proprio seme può essere un donor inseminator se non c’è stato un pagamento; se c’è stato un
pagamento da parte dell’aspirante madre che ha fatto ricorso a una qualche banca del seme o all’inseminazione
medicalmente assistita, l’uomo è un semen vendor, un semen provider, un reproductive service worker. Questa
distinzione però non si riflette sul figlio nato in quanto si parla di donor-conceived children perché le famiglie, che sono
diventate tali grazie al donatore, sono donor-conceived families. Vi sono anche le donor-conceived family
communities o le donor kin families or networks, per indicare quei raggruppamenti familiari che coinvolgono due
diverse tipologie di relazioni basate sulla condivisione genetica – le relazioni tra il donatore e tutta la prole alla cui nascita
egli ha contribuito e le relazioni tra questa e la propria singola famiglia. Per l’uomo che dona il proprio seme, la scelta
dell’anonimato è l’opzione più funzionale nel caso in cui non voglia ‘correre il rischio’ di avere responsabilità paterne.
Grazie all’informatizzazione della comunicazione già dalla fine degli anni Novanta, si andava a delineare un mercato
globale online, transnazionale, di donatori di sperma, accanto a quello regolato e più formale formato dalle cliniche di
inseminazione e dalle banche di seme. Uno dei motivi per cui l’uomo-donatore preferisce ricorrere a internet è per
avere una comunicazione immediata con le potenziali donne destinatarie in questo modo, il donatore può scegliere a chi
dare il proprio seme – possibilità che non ha se passa attraverso la mediazione delle cliniche o delle banche di seme. A
volte, inoltre, ricorrere a internet, può essere utile per il donatore che vuole mantenere l’anonimato là dove, invece, a
livello di regolamentazione nazionale è stato abolito.
Meccanismi di selezione e di gestione della figura del donatore da parte delle coppie di future madri. Spesso, i
figli di due madri lesbiche, grazie al loro «creativo management familiare-linguistico della ‘famiglia’», inventano nuovi
termini con cui chiamare la loro madre non biologica. Frequentemente, è il nome di battesimo della madre sociale a
essere impiegato come termine con cui indicarla. Questa soluzione è dovuta al fatto che i figli sanno che lei, pur non
essendo né la madre naturale né il padre, è un membro essenziale della loro famiglia. Se mancano i termini per indicare
ruoli, la comunicazione familiare li crea. Per esempio, quando manca il riconoscimento legale del genitore intenzionale,
un ruolo inventato è il mather, un termine che fonda mother e father in una stessa figura e impiegato dalle madri non
biologiche, per distinguersi dalle madri biologiche.
Altre scelte da affrontare sono quelle relative a quale tecnica di riproduzione fare ricorso (fecondazione in vitro o
inseminazione artificiale), a chi porterà avanti la gravidanza (chi sarà la madre biologica e chi quella sociale), se optare
per l’auto-inseminazione domestica o per quella in ambito clinico-ospedaliero. Ognuna di queste scelte porta a ulteriori
scelte e distinzioni. Le madri assumono le decisioni alla luce della famiglia che esse vogliono avere e di ciò che giudicano
come la scelta migliore per il bene del figlio e per la sua crescita. Infatti, per legittimare la propria famiglia, spesso, le
madri lesbiche scelgono un donatore anonimo in quanto esse tendono a rappresentarsi quello aperto come una
potenziale minaccia all’unità e alla solidità del loro nucleo familiare perché nutrono il timore che egli, in futuro, possa
avanzare diritti di paternità sul figlio. Anche la scelta di ricorrere all’inseminazione tramite la medicalizzazione
dell'intervento anziché all’auto-inseminazione domestica dà alle future madri maggiori certezze sia sull’ottima qualità dello
sperma sia sull’irrilevanza futura della figura del donatore: è la clinica ad avere la responsabilità del legal management
del donatore stesso come non-genitore/non-padre. A livello sociale, culturale e simbolico, le madri lesbiche riformulano la
famiglia eteronormativa cercando di comunicare e confermare in ogni ambito che la filiazione naturale che interessa
esclusivamente una sola delle due madri è un progetto familiare della coppia. Infatti, affinché ci sia una connessione
biologica tra ciascuna delle due madri e il figlio, molto frequentemente, le coppie ricorrono alla fecondazione in vitro in
modo che gli ovuli di una delle due donne vengano impiantati nell’utero dell’altra. Questa scelta è dettata dal timore che
possa insorgere un sentimento negativo di gelosia se, al contrario, la madre biologica fosse una soltanto. Ecco che,
allora, la famiglia originaria di due madri lesbiche non può non stabilire e costruire la narrazione razionale e sincera, per il
figlio, delle sue origini. Fin da subito, è la normalità della loro famiglia a essere raccontata.
Se confrontate agli altri tipi di famiglia che hanno fatto ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (le
famiglie monogenitoriali e quelle eterogenitoriali), sono le famiglie composte da due mamme quelle nelle quali, fin dalla
nascita, al figlio viene raccontata la sua storia e la storia della sua famiglia; in questo racconto, nulla viene nascosto
perché se i genitori, come può accadere nelle famiglie eterogenitoriali, hanno aspettato troppo tempo prima di
comunicare al figlio la sua vera origine biologica, ecco che, allora, la reazione del figlio è stata fortemente critica
causando, così, l’insorgenza di conflitti familiari e recriminazioni.
I figli di due madri lesbiche possono arrivare a identificare il donatore come semplice fornitore di seme e, quindi, non
come un membro della famiglia, oppure come membro della famiglia ma privo di alcuna autorità genitoriale, o, infine,
come padre (nel caso di co-genitorialità o di polyfamilies). Altri studi dimostrano che, quando i bambini sono il frutto del
progetto genitoriale di due madri lesbiche, essi non considerano il donatore come il padre mentre gli attribuiscono il ruolo
di terzo genitore se, invece, sono nati da un progetto di co-genitorialità. In ogni caso, il modo in cui il figlio percepisce
la propria famiglia dipende dal progetto che le madri vogliono realizzare. Il donatore può essere aperto, dando, così la
possibilità al figlio, una volta maggiorenne, di conoscerlo (ma non si sa come il figlio lo re-introdurrà: come il padre? come
un amico?); anche in questo caso, il donatore rimane all’esterno della famiglia per essere incluso nei racconti fatti al figlio
tratteggiandone l’identità in modo più o meno preciso e netto. Infine, il donatore può essere un amico conosciuto, un
parente di una delle due madri. Ogni famiglia organizza, a seconda delle proprie intenzioni, l'inclusione del donatore.
La famiglia è quella composta dalle due madri e dal figlio, ogni altro individuo che è una minaccia potenziale alla sua
unità, dev’essere re-introdotto secondo certe modalità che possano garantire la neutralizzazione.
3.2. Padri/non-madre
Per introdurre il tema di questa sezione, la cosiddetta primary gay fathering (paternità gay originaria) e non derivata da
figli nati da precedenti unioni eterosessuali, credo sia utile prestare attenzione alla seguente osservazione: «nella
maternità lesbica, il donatore può essere totalmente presente così come totalmente assente e la sua identità può essere
totalmente svelata così come totalmente celata, diversamente accade nella paternità gay, in cui l’identità del Terzo –
colei che ha portato in grembo il figlio è manifestamente inoccultabile». Infatti, già nei primi importanti studi sulla
paternità gay, il principale problema rilevato è come costruire, in modo etico e legale, la persona della madre surrogata o
della gestante surrogata – a seconda del tipo di surrogacy a cui è stato fatto ricorso per avere il figlio. Affinché il
desiderio di paternità di due gay possa prendere corpo, è necessario il reciproco consenso tra i padri e la donna.
Rivolgiamo la nostra attenzione a quello che Marco Gattuso definisce il modello forte di gestazione per altri. Se il
primo caso ‘pubblico’ di surrogacy negli Stati Uniti risale al 1987, con il processo Johnson v. Calvert, e il 1998, con il
processo In Re Marriage of Buzzanca, dibattuti presso la Suprema Corte della California, per avere l’istituzionalizzazione
della surrogacy. I due casi riguardano la pratica della gestational surrogacy. Anche se queste due vicende non vedono
coinvolta una coppia gay le osservazioni che vado a proporre possono essergli estese. Il coinvolgimento del tribunale è
stato necessario in quanto la gestante voleva essere riconosciuta come la madre del figlio portato in grembo. Senza
entrare nei dettagli del dibattimento, vorrei sollevare due punti. Il primo è relativo al principio che è stato seguito dalle
Corti ed è il principio fondativo della surrogacy: quello dell’intenzionalità genitoriale. Per attribuire il riconoscimento
della potestà genitoriale, la Corte ha seguito il principio dell’intenzionalità procreativa originaria e originale. In tal modo, la
volontà della gestante è «secondaria» perché se non ci fosse stata la volontà iniziale dei genitori intenzionali, quel
bambino non sarebbe mai stato concepito. Il secondo punto riguarda lo status del bambino in quanto figlio. Se i
genitori intenzionali sono, fin da subito, i genitori, allora il bambino è fin da subito, il loro figlio nel senso che ciò che è
oggetto di scambio non è un essere umano – il figlio, il quale è «inscambiabile» – ma la capacità della gestazione. La
paternità gay è uno sforzo costante di elaborare narrazioni autentiche dell’evento del concepimento e della storia della
nascita da trasmettere al figlio, fondamentali per lo sviluppo della sua identità. Una recentissima ricerca etnografica sui
percorsi di surrogazione di gravidanza intrapresi da padri gay per formare la propria famiglia pone come elemento
fondamentale per la buona riuscita del progetto, la costruzione della storiala che si configura come una categoria
analitica utile a comprendere le forme di relazionalità che si sono intrecciate. A creare il legame è un flusso irripetibile di
momenti salienti compartecipati che non si sono arrestati col parto, ma che sono proseguiti, in maniera differente da
nucleo a nucleo, anche dopo il rientro della famiglia in Italia; è il desiderio di essere rappresentati all’interno di relazioni
significative che si fissano negli anni.
Guerzoni: le tessere che sono andate a costruire la storia tra i padri e le surrogate – il feeling, l’abbinamento tra le parti,
la condivisione di ecografie e fotografie che mappano lo sviluppo dei feti, le videochiamate Skype, il giorno del parto,
quello dei saluti e lo scambio dei doni – compongono un mosaico che si configura come superficie sulla quale aggregare
nuove narrazioni e così espandere le connessioni nel futuro. Il percorso riproduttivo si è gradualmente co-costruito, così
come la relazionalità tra le parti. La storia che viene ri-costruita e narrata, dev’essere trasparente e sincera.
Raccontare, ma, prima ancora, costruire assieme una storia trasparente vuol dire dare unità: la surrogata non è definita
madre per tante ragioni. Una di queste è direttamente proporzionale alla frammentazione della produzione che,
includendo al suo interno altre attrici parimenti protagoniste (le donatrici), rende complessa la categorizzazione dei ruoli.
Secondo il punto di vista dei padri, nessuna delle donne può essere considerata e definita madre poiché la genitorialità è
uno status che si acquisisce progressivamente ed è frutto di una storia ben precisa.
Indubbiamente, la buona riuscita di una surrogacy dipende, soprattutto, dalla capacità di tessere uno scambio di mondo
vitale, di costruire legami intimi, empatici e personali con la surrogata e che non siano interamente mediati dall’agenzia di
surrogacy, o dai medici. L’accuratissima rassegna di studi sulla surrogacy di Gunnarsson Payne et al. mostra, infatti, la
necessità di andare oltre la dicotomia o la contrapposizione tra surrogacy gratuita e surrogacy commerciale, tra dono e
denaro, tra la surrogazione di maternità e la surrogazione della capacità di gestazione. Questa necessità è dovuta al fatto
che la surrogacy, come pratica relazionale intersoggettiva, tende a tipizzarsi o istituzionalizzarsi in forme più o meno
positive.
Come si può legittimare la surrogacy? La surrogacy è stata oggetto di un lungo dibattito parlamentare in merito a
come regolamentarla e, nota Jenni Millbank, gli attori politici hanno prestato particolare attenzione e risalto non tanto alle
voci provenienti dalla ricerca scientifica quanto alle narrazioni delle esperienze personali e riportate dai media. Si tratta di
un modello legislativo che, per il suo operato, non rifacendosi alle evidenze e alle conoscenze scientifiche, fornisce «un
interessante esempio per analizzare il ruolo dinamico del discorso e della narrazione nel creare e giustificare nuove
norme e leggi». In questo modo, dunque, «la legittimazione della surrogacy emerge come il risultato dei
cambiamenti dell’esperienza sociale della fertilità e della formazione della famiglia». La legittimazione della
surrogacy, il diritto a fare ricorso e il diritto a offrirsi come surrogata, si radica nelle relazioni che vengono poste in essere
e, soprattutto, nell’autenticità del progetto genitoriale, che è il fine ultimo – nel desiderio di avere un figlio da amare. Nelle
famiglie con due padri gay, fin da subito, l’identità di colei che porterà in grembo e/o che sarà anche la madre surrogata
non solo non può essere celata ma viene, fin da subito, costruita e progettata. Abbiamo visto come, in molti casi, la figura
della surrogata venga reintrodotta in modo trasparente nelle narrazioni fatte al figlio della sua nascita e come, spesso,
essa rimanga una figura rilevante per la storia della famiglia senza, però, essere equiparata a un genitore.
4. Conclusioni
Le famiglie come sfera dell’intimità. Due padri gay e due madri lesbiche, fin dal concepimento, si sforzano,
incessantemente, di essere e di osservarsi come famiglia. Per costruirsi come famiglia, i genitori hanno la necessità di
distinguere chi è il genitore – tanto il genitore biologico quanto quello intenzionale – da chi non lo è – il donor – ma anche
di distinguere ciò che la loro unità non è – non è un nucleo monogenitoriale (il solo genitore naturale e il figlio), non è
un’unione contro natura o contro l’ordine sociale – da ciò che la loro unità è – due genitori con il loro figlio, cioè una
famiglia. Nelle pagine precedenti, ho proposto di osservare questi processi della famiglia omogenitoriale come una delle
conseguenze della trivializzazione della semantica dell’intimità e della famiglia. Là dove le famiglie omogenitoriali non
hanno alcuna legittimità giuridica, quando i genitori avanzano la pretesa di essere riconosciuti come i genitori legittimi, lo
fanno in virtù di quello che può essere definito il right to care, la forma più elementare e, forse, primordiale, di
famiglia/amore/ intimità: la cura. La problematica, a mio avviso, più urgente è quella di sostenere la lenta ma progressiva
legittimazione sociale delle famiglie omogenitoriali e, allo stesso tempo, di riflettere su come essa possa tradursi in
legittimità giuridica.
GIOVANI NEET E MONDO DEL LAVORO: UNA TRANSIZIONE COMPLESSA
Fabio Gaspani
L’articolo esplora la realtà sociale dei giovani Neet (Not in Education, Employment or Training), focalizzandosi sulla
fase di transizione al lavoro. Nel passaggio dall’istruzione al lavoro, o nel tempo che trascorre tra un’occupazione e l’altra,
l’incertezza si riverbera sulla dimensione esistenziale richiedendo un continuo confronto tra desideri, vincoli e opportunità
disponibili. In tal senso, l’analisi degli orientamenti al lavoro in situazioni di discontinuità è rilevante per comprendere i
modi in cui i soggetti concepiscono strategie e rielaborano significati, collegando vissuti e aspirazioni allo scenario sociale
ed economico del contesto in cui vivono.
L’indagine fa riferimento alla funzione dell’istruzione nel passaggio al lavoro e alle modalità di ricerca di un’occupazione,
alle attività lavorative pregresse e ai rifiuti di occasioni di impiego, ai significati attribuiti al lavoro e alle immagini
dell’occupazione ideale. L’attenzione su pratiche, rappresentazioni e soggettività consente di fare emergere i modi in cui i
soggetti sono coinvolti nella costruzione dei propri percorsi nei differenti ambiti di vita.
1. La transizione al lavoro
Nelle società occidentali, in linea con le trasformazioni dei percorsi verso l’età adulta, la fase di transizione dall’istruzione
al lavoro risulta, rispetto al passato, più estesa e meno lineare. Nella configurazione di tale passaggio, i mutamenti a
livello globale in ambito economico, sociale e culturale svolgono un ruolo significativo, così come i fattori contestuali. Il
riferimento è alle specificità del sistema scolastico e ai collegamenti tra istituzioni formative e mondo del lavoro, alle
caratteristiche del mercato del lavoro e al sistema di welfare. La transizione al lavoro si mostra sensibile all’aumento
della scolarizzazione. La presenza di una quota di early leavers from education and training (giovani 18-24 che
hanno raggiunto l’istruzione secondaria inferiore e non sono coinvolti in percorsi ulteriori di istruzione o formazione)
superiore alla media europea e il non elevato tasso di transizione dalla scuola secondaria di secondo grado all’università
suggeriscono che il proseguimento degli studi non viene considerato come un’opportunità per aumentare le
possibilità di successo nel mercato del lavoro. Inoltre, l’età alla laurea rimane piuttosto elevata; Occorre sottolineare, che
sebbene il valore della laurea nel mercato del lavoro italiano risulti inferiore rispetto ad altri contesti, a titoli di studio
elevati tendono a corrispondere migliori posizioni occupazionali.
Nell’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro si registra l'affermazione di forme contrattuali instabili: nel 2016, il 46,9%
dei lavoratori italiani nella fascia d’età 15-24 ha un impiego temporaneo. In Italia, la diffusione di tali occupazioni è
avvenuta in assenza di una sostanziale riforma del sistema di welfare e delle politiche attive del lavoro, accrescendo il
rischio di esperire situazioni di non lavoro e di dipendenza da altri significativi. A tal proposito si rileva che, nell'anno 2016,
i Neet in Italia sono il 19,9% dei giovani tra 15 e 24 anni e il 31,4% nella fascia d’età 25-34. In quest’ultimo gruppo
anagrafico, il tasso di Neet assume valori molto alti nel Mezzogiorno (46,5%) e più contenuti nelle regioni del centro
(25,1%) e del nord (20,9%). Ci sono, inoltre, rilevanti differenze di genere: a livello nazionale, i giovani uomini Neet sono il
24,1%, le giovani donne il 38,8%. Ciò riflette il peso dei modelli culturali tradizionali rispetto alla configurazione dei
percorsi biografici.
Nel processo di transizione, i giovani devono confrontarsi con una realtà sociale complessa e mutevole. Se da un lato
l’ampliamento delle opzioni potenziali e la disponibilità di repertori di azione possono influenzare l’immaginario dei
soggetti, dall’altro, gli elementi che strutturano il sistema delle disuguaglianze svolgono ancora un ruolo importante nei
percorsi di inserimento lavorativo e mobilità sociale. Le risorse di classe della famiglia di origine si rivelano significative
in termini di opportunità educative e di collocazione occupazionale dei giovani, e la qualità del supporto
intergenerazionale influisce sulla possibilità di seguire le proprie aspirazioni alla ricerca di carriere soddisfacenti. In
relazione all’origine etnica si riscontra un rischio elevato per i soggetti non nativi di confluire in occupazioni di qualità
scadente e basso status. In aggiunta ai fattori citati, possono incidere sulla transizione al lavoro anche la capacità
riflessiva e gli eventi particolari che caratterizzano la biografia di ciascun individuo.
2. L’esperienza del lavoro
Nel nuovo scenario economico emerge la necessità di un utilizzo flessibile delle risorse umane, sulle quali viene trasferita
una parte dei rischi che le imprese devono affrontare per rispondere in maniera efficiente alle trasformazioni nella sfera
del consumo e della domanda. In un quadro di espansione del settore terziario, la diffusione di forme contrattuali
atipiche evidenzia la tensione tra organizzazione del lavoro e bisogni dei lavoratori, ponendo luce sulla qualità delle
occupazioni. Quest’ultima richiama elementi oggettivi e valutazioni personali su differenti aspetti del lavoro – economico,
simbolico, della complessità, dell’autonomia, del controllo – e della relazione tra vita lavorativa ed extra lavorativa –
conciliazione, partecipazione sociale. In Italia, solo il 64,2% degli occupati con età superiore ai 14 anni si ritiene molto o
abbastanza soddisfatto delle proprie condizioni di lavoro, mentre il 35,8% no. I mutamenti nell’esperienza del lavoro
risultano evidenti sia sul terreno del quotidiano sia a livello biografico. Per quanto riguarda il quotidiano, si assiste a un
generale affievolimento dei confini fra tempi di lavoro e di non lavoro e alla crescente possibilità di lavorare con orari
asociali. Nel 2017, in Italia l’8,6% degli occupati di età compresa tra 15 e 64 anni lavora in orari notturni e il 15,2% la
domenica (14,2%). Permangono, inoltre, differenze contestuali relative all'estensione giornaliera della regione temporale
dedicata all’attività lavorativa, che si intrecciano con i modelli di genere egemoni e la fase di vita dei soggetti. I dati del
Multinational Time Use Study mostrano che in Italia gli uomini sono più impegnati nel lavoro retribuito e meno coinvolti in
compiti domestici e di cura rispetto a quelli degli altri paesi europei considerati. Le donne italiane, per contro, svolgono
maggiormente il lavoro non retribuito rispetto alle donne degli altri paesi europei, e la differenza nell’impegno in tale
attività aumenta al crescere dell’età. Nelle biografie degli individui emergono difficoltà nel mantenere una coerenza del
percorso professionale in quanto tendono a inserirsi numerosi ed eterogenei lavori. Con l’erosione delle tradizionali
traiettorie di carriera, i soggetti sono tenuti a sostenere la propria occupabilità attraverso ricorrenti esperienze di
formazione e strategie di mobilità. Di conseguenza, la vulnerabilità dei percorsi può essere accompagnata dalla riduzione
delle aspirazioni e dalla frammentazione identitaria. Malgrado ciò, le ricerche condotte sulla popolazione giovanile
evidenziano come quella lavorativa continui a rappresentare una dimensione centrale nelle esistenze, benché si registri
una crescita in termini di importanza di altri ambiti di vita – la famiglia, le relazioni. Oltre ad associare al lavoro significati
strumentali – come mezzo per procurarsi un reddito e costruirsi un futuro – i giovani riconoscono in esso una componente
fondamentale per la propria realizzazione personale. Il modo in cui gli individui esperiscono il lavoro non deriva
solamente dalla relazione con quest’ambito e dai valori a livello sociale, ma è influenzato dalle complesse interazioni tra
sfera lavorativa ed extra lavorativa. Infatti, si assiste alla moltiplicazione e diversificazione dei significati del lavoro in linea
con le caratteristiche dell’occupazione svolta e la pluralità dei mondi di vita in cui ciascun soggetto è coinvolto.
3. La ricerca
La ricerca indaga le esperienze dei giovani Neet nella fase di transizione al lavoro, viene posta l'attenzione su diversi
aspetti interconnessi: il ruolo del percorso di istruzione e degli episodi lavorativi pregressi in riferimento all’ingresso
al lavoro, la ricerca di impiego e il rifiuto di occasioni lavorative, i significati attribuiti al lavoro e l’occupazione ideale.
Il materiale empirico scaturisce da uno studio basato su trentasei interviste narrative con soggetti di età compresa tra 28
e 34 anni e residenti nella città di Milano o provincia. Il reclutamento degli intervistati è avvenuto mediante la tecnica
snowball, con l’obiettivo di esplorare la condizione di Neet in differenti gruppi sociali. Il fatto di circoscrivere l’analisi al
contesto milanese ha consentito di esaminare la realtà giovanile in una delle aree metropolitane italiane più importanti
economicamente.
Per quanto riguarda il caso italiano, numerosi studi testimoniano un'accentuata dilatazione della transizione all’età adulta.
Per esempio, dalla fine degli anni ottanta all’inizio del nuovo secolo, le ricerche dell’Istituto Iard hanno ampliato la fascia
d’età considerata come giovanile da 15-24 a 15-34 anni. In tal senso, l’attenzione posta dal presente studio sui giovani
adulti riflette la complessità dei percorsi di autonomia e le difficoltà nella definizione di ruoli e relazioni in questa fase di
vita. Il dibattito riferito all’eterogeneità della categoria Neet è sfociato in tentativi di disaggregare questa popolazione al
fine di sviluppare interventi rivolti a gruppi quanto più omogenei in termini di condizioni sociali. In linea con
l’indeterminatezza dei percorsi di carriera nelle società contemporanee, si è optato per considerare nella ricerca
solamente i giovani che si trovavano nella condizione di Neet da un periodo compreso tra sei e diciotto mesi. Occorre
considerare, inoltre, che l’essere senza lavoro non comporta necessariamente «fare niente»: ad alcuni intervistati è
capitato di svolgere attività saltuarie o marginali, comunque non sufficienti a mettere in discussione lo status di Neet.
I percorsi dei giovani si distinguono in ragione delle esperienze passate – nell’ambito dell’istruzione, del lavoro, e nella
sfera privata di vita – e della dotazione economica e culturale della famiglia d’origine. Gli intervistati che provengono da
famiglie in possesso di elevate risorse presentano in prevalenza traiettorie scolastiche lineari. In maniera differente, i
soggetti la cui famiglia d'origine è in possesso di risorse modeste mostrano percorsi maggiormente frammentati, spesso
dovuti alla precoce conclusione o abbandono degli studi. Alcuni giovani hanno svolto esperienze lavorative rilevanti
– intervallate spesso da periodi di non lavoro – e vivono da soli o con un partner, ma sembrano lontani dal completo
coinvolgimento in ruoli adulti poiché mostrano spesso uno stato di dipendenza economica da altri significativi e sono alla
ricerca di soluzioni per neutralizzare l'incertezza caratteristica della propria condizione.
Tra gli intervistati sono presenti anche giovani padri e madri Neet. Sebbene in alcuni casi i modelli di genere legati alla
dimensione di cura possano fornire un’identità e uno status sociale soddisfacente anche in assenza di lavoro, i
partecipanti alla ricerca non considerano la genitorialità come un’esperienza in grado di oscurare i loro orientamenti
lavorativi. La scelta di includere i giovani genitori nel presente studio, dunque, segue il fine di analizzare la condizione di
Neet sulla base delle differenti esperienze individuali.
4. Il ruolo dell’istruzione
Confrontandosi con le trasformazioni nel mondo dell’istruzione e del lavoro, gli intervistati sottolineano la debole relazione
tra i due ambiti e le difficoltà sotto il profilo della traduzione pratica dei contenuti appresi. Alcuni giovani con scolarità
media o bassa, così come quelli che hanno abbandonato il percorso universitario, pongono l’accento sul fatto che, nel
contesto italiano, il conseguimento di un titolo di studio superiore non conferisca particolari benefici in termini
occupazionali.
Per i giovani maggiormente istruiti, invece, il riconoscimento dell’esperienza universitaria come occasione di crescita e
formazione personale si accompagna spesso a sentimenti di sfiducia verso la possibilità di un inserimento lavorativo
corrispondente alle aspettative.
Il senso di frustrazione avvertito dai giovani più qualificati nasce «dal confronto tra le aspettative suscitate [dal titolo di
studio] e la realtà effettiva della vita lavorativa e professionale nella quale la distribuzione degli status sociali non
rispecchia affatto il grado di istruzione, ma corrisponde alle esigenze del mercato del lavoro».
Sebbene la maggior parte dei giovani riconosca l’utilità dell’istruzione in termini di trasmissione di conoscenze, abilità e
competenze, l’idea che essere istruiti serva a trovare più facilmente un impiego convince soltanto il 41% dei rispondenti,
e solamente il 52,8% considera la scuola una risorsa utile per trovare un lavoro migliore.
La maggioranza dei giovani si mostra disposta a partecipare unicamente a iniziative di formazione erogate in contesti
lavorativi con finalità di inserimento.
5. Le esperienze lavorative
Sebbene gli intervistati ritengano spesso che gli episodi lavorativi pregressi costituiscano momenti di conoscenza del
mondo del lavoro, essi sottolineano come la limitata esperienza in attività significative sia in grado di frenare la
partecipazione ad alcune occupazioni.
Il percorso di gran parte dei giovani risulta composto da attività a tempo determinato, irregolari o di poca qualità. Gli
impieghi a termine, ad esempio, non sono sfociati in occupazioni stabili in quanto avrebbero comportato elevati oneri
fiscali ai datori di lavoro. Inoltre, alcuni intervistati lamentano che le condizioni poste dalle aziende per l’avvio di un
rapporto lavorativo, come l’attivazione della partita Iva, accrescano l’incertezza reddituale e sul piano delle tutele.
Alcuni soggetti evidenziano che, nel corso delle precedenti esperienze, le mansioni reali si sono mostrate differenti
rispetto a quelle concordate in fase di assunzione, con spesso una concentrazione di diverse funzioni nella stessa figura
professionale.
I partecipanti alla ricerca rappresentano i propri episodi lavorativi come poco soddisfacenti.
6. La ricerca di lavoro
Nella ricerca di lavoro, il canale più diffuso tra gli intervistati è rappresentato dalle piattaforme online delle organizzazioni
di intermediazione, che consentono, più dei siti web delle singole imprese, di accedere direttamente a un gran numero di
posizioni. Vi è poi il ricorso a servizi quali centri e agenzie per l’impiego. Questi canali formali, soprattutto per i soggetti
meno scolarizzati e alla ricerca di occupazioni manuali, risultano complementari alla consegna del curriculum di persona
alle aziende e al passaparola nelle proprie cerchie sociali. I giovani più istruiti dichiarano di dedicare significative porzioni
della propria giornata alla ricerca di un’occupazione. L’organizzazione di tale attività, sebbene possa suscitare sentimenti
di frustrazione, deve essere effettuata con impegno per sfociare in un esito positivo.
La perseveranza nella ricerca di lavoro riflette il desiderio di vedere ripagati i sacrifici compiuti durante il percorso di
studio, e si accompagna al ridimensionamento dei tempi da poter dedicare alla vita privata. In maniera differente, alcuni
soggetti hanno rinunciato a ricercare attivamente un’occupazione e manifestano scoraggiamento e disagio in relazione
alle difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro.
In riferimento alla componente di genere, sebbene i ruoli tradizionali risultino più sfumati rispetto al passato, i giovani
padri Neet sembrano avvertire in maniera consistente le aspettative sociali per ricoprire il ruolo di breadwinner.
Anche per le giovani donne con figli la ricerca di lavoro segue la necessità di contribuire al reddito familiare. Se da un lato
la condizione di madre può inibire l’inserimento lavorativo, dall’altro, tale ruolo può altresì conferire riconoscimento sociale
in assenza di un’occupazione.
Sebbene il mercato del lavoro locale – area milanese – offra maggiori opportunità rispetto ad altri contesti italiani, gli
intervistati non sono ottimisti rispetto alla propria collocazione lavorativa. A ciò si accompagnano, nella totalità dei casi,
sentimenti di condanna e sfiducia verso le istituzioni statali e la politica, che non sembrano in grado di governare i
processi di mutamento.
Per alcuni soggetti, la convinzione di appartenere a una generazione privata del futuro si affianca alla disponibilità a
migrare alla ricerca di migliori opportunità. La mobilità verso l’estero, tuttavia, sembra riflettere la dotazione di risorse
disponibili: i giovani più istruiti o con un maggior supporto familiare si mostrano più disposti a metterla in atto.
7. Il rifiuto di occasioni lavorative
Nel corso delle interviste, la quasi totalità dei giovani – indipendentemente dalle risorse a disposizione – ha riportato
situazioni di rifiuto di occasioni lavorative. I motivi pongono l’accento sulla scarsa qualità delle proposte e richiamano due
dimensioni valoriali che emergono, in differente misura, dai singoli casi. La prima è connessa alla valutazione
dell’occupazione sulla base di criteri socialmente condivisi come correttezza, utilità nella vita collettiva e dignità del
lavoratore. La seconda dimensione, invece, si riferisce alle preferenze dei singoli sia in termini di impegno lavorativo sia
rispetto al soddisfacimento di bisogni quali riconoscimento e prospettive future.
La dimensione valoriale individuale sembra prevalere nei casi in cui agli intervistati è capitato di dimettersi da
un’occupazione. Le motivazioni della scelta, infatti, rimandano spesso alla mancanza di soddisfazione e di spazi di
realizzazione.
Invece, alcuni giovani in possesso di risorse elevate, culturali e/o economiche, scelgono di seguire le proprie aspirazioni
adottando la cosiddetta «strategia dell’attesa».
Gli orientamenti lavorativi degli intervistati riflettono la non elevata qualità delle occupazioni disponibili sul mercato – in
termini di condizioni, retribuzioni e prospettive. Il «posto fisso» ricopre una posizione dominante nei loro desideri.
8. I significati del lavoro
Le frammentate esperienze lavorative e la prolungata condizione di Neet conducono i giovani a interpretare i significati
del lavoro come quelli attribuiti alla dimensione lavorativa in relazione a quelle extra lavorative, piuttosto che a una
specifica occupazione. Tali significati, costruiti sia nelle fasi di socializzazione pre lavorativa sia mediante il rapporto
diretto con il mercato del lavoro, vengono rielaborati dai soggetti in accordo alla propria situazione. Per analizzare i
significati conferiti al lavoro si è spesso utilizzata la distinzione tra orientamento espressivo e strumentale. Il primo
richiama la realizzazione e le prospettive di carriera, lo sviluppo delle competenze e la costruzione dell’identità. Il secondo
rimanda all’idea del lavoro come strumento per ottenere i mezzi economici per il sostentamento o per raggiungere i propri
obiettivi. Nelle società contemporanee a fronte dei mutamenti in ambito lavorativo e della pluralizzazione dei mondi di
vita, l’atteggiamento verso il lavoro sembra acquisire un carattere multidimensionale: sebbene i soggetti siano
maggiormente inclini a significati espressivi o strumentali, essi tendono ad attribuire al lavoro più significati.
L’orientamento degli intervistati verso il lavoro è plasmato dalle risorse a disposizione. Nonostante la riduzione delle
aspettative in seguito alle difficoltà riscontrate nel mercato del lavoro, i giovani con una buona disponibilità di risorse
culturali e/o economiche sembrano attribuire al lavoro significati prevalentemente espressivi.
L’orientamento espressivo è condiviso anche da alcuni intervistati meno scolarizzati. Sofia, ad esempio, desidera
acquisire l’esperienza necessaria per trasformare in occupazione la sua serious leisure activity (possono consentire
una carriera attraverso l’acquisizione e l’espressione di conoscenze, abilità e competenze. Sono attività significative e
soddisfacenti per chi le svolge, e richiedono un investimento in termini di impegno) ovvero i corsi di ginnastica non
retribuiti che tiene in un centro associativo per poche ore al giorno.
Nei casi in cui il lavoro è visto principalmente con una valenza strumentale, i giovani sembrano disposti a mettere da
parte le proprie aspirazioni, mostrandosi disponibili a ricoprire qualsiasi mansione. Tale decisione rappresenta, spesso,
una scelta adattiva perché la grande maggioranza degli intervistati desidererebbe un certo grado di espressività e
gratificazione nel lavoro.
La prevalenza del significato strumentale non sembra legato ad ambizioni reddituali elevate, ma richiama piuttosto l’idea
di lavoro come mezzo per creare condizioni di sicurezza economica che permettano di realizzare obiettivi nella sfera
lavorativa stessa o in quella extra lavorativa. Infine, per alcuni giovani, quello lavorativo può non rappresentare un ambito
soddisfacente, e pertanto diventa implicito come il lavoro debba essere considerato soprattutto uno strumento.
9. Il lavoro ideale
Numerosi giovani hanno descritto la propria occupazione ideale in riferimento agli aspetti contrattuali e di organizzazione
del lavoro. Gli elementi condivisi rimandano alle garanzie che l’attività può offrire in termini di stabilità, equilibrio con altri
ambiti di vita, qualità delle relazioni. L’immagine di un’occupazione a tempo indeterminato sembra rivestire, come nelle
precedenti generazioni, un ruolo di rilievo per molti intervistati. Tale forma di contratto, infatti, sembra l’unica in grado di
assicurare la possibilità di costruire un futuro per sé e per gli altri significativi.
L’aspetto della stabilità si accompagna al desiderio di svolgere l'attività lavorativa in giorni feriali e orari diurni. Il lavoro
ideale, dunque, non dovrebbe essere eccessivamente invadente rispetto ad attività che rimandano ad altre dimensioni
della vita e non sono considerate secondarie.
I giovani uomini vorrebbero svolgere un’attività lavorativa full-time, a eccezione di due casi. Il primo è rappresentato da
Carlo che, provenendo da un contesto familiare agiato, prediligerebbe un lavoro a orario ridotto in grado di garantire,
insieme a un reddito, una buona quantità di leisure time. Dall’esperienza di Luigi, invece, emerge come la precedente
occupazione a turni, con orari variabili e asincroni rispetto all'organizzazione temporale degli altri significativi, possa
influire sulla qualità del tempo extra lavorativo.
Le giovani donne intervistate evidenziano il tema della negoziazione della modalità di accesso all’occupazione. Lungi
dall’avere interiorizzato il ruolo di casalinga, i soggetti femminili tendono a proiettare le proprie aspirazioni tanto sulla
famiglia quanto verso il lavoro, cercando di conciliare desideri e responsabilità . Le giovani madri, per esempio, pongono
l’accento sui tempi e sugli spazi considerati ottimali per un’ipotetica attività lavorativa.
Anche alcune giovani donne che vivono per conto proprio o nella famiglia d’origine tendono a interrogarsi sulle strategie
che, in un ipotetico futuro, dovrebbero adottare per svolgere un’attività lavorativa senza compromettere la vita familiare.
Un ulteriore aspetto sottolineato dalle giovani donne è rappresentato dalle carenze sul versante delle politiche pubbliche.
Il ricorso al mercato per le attività di cura costituisce una spesa ingente a fronte della quale occorre valutare gli orari e
l’aspetto economico di una potenziale occupazione. L’impronta familista del sistema di welfare italiano e i modelli di
genere tradizionali ancora diffusi a livello sociale possono condurre, in alcuni casi, alla disponibilità a rinunciare al lavoro.
In generale, mentre i giovani uomini che prediligono un lavoro limitato nella sua estensione giornaliera sembrano mossi
da fattori legati alle risorse economiche a disposizione o all’esperienza lavorativa pregressa, le giovani donne
contemplano la possibilità di svolgere un’occupazione part-time per conciliare la vita lavorativa con quella privata. L’ultimo
aspetto che emerge dalle interviste raccolte è quello dell’importanza della qualità dell’ambiente di lavoro e, più nello
specifico, delle relazioni con colleghi e superiori. In questa direzione, la partecipazione al lavoro consentirebbe agli
intervistati di alimentare la sfera della socialità, anche sotto il profilo del confronto interpersonale.
Ciò testimonia quanto quella lavorativa costituisca una dimensione complessa e sfaccettata, un ambito fondamentale di
sviluppo degli individui e della loro integrazione sociale.
10. Conclusioni
L’analisi della fase di transizione al lavoro dei giovani Neet fa luce sugli orientamenti e sulle strategie con cui essi cercano
di risolvere in maniera positiva la propria situazione. Sebbene i partecipanti alla presente ricerca vivano in una realtà
socio-economica piuttosto solida e pienamente inserita nei processi di modernizzazione rispetto ad altre parti d’Italia, essi
sembrano reagire al clima di incertezza che contraddistingue l’attuale periodo storico con aspettative decrescenti,
indipendentemente dalle risorse a disposizione. In tale quadro, i deboli collegamenti tra sistemi di istruzione e mercato
del lavoro, così come i processi di precarizzazione e dequalificazione delle occupazioni, favoriscono l’emergere di un
diffuso scoraggiamento legato alla possibilità di un prolungamento indeterminato dello stato di Neet.
Le rappresentazioni dominanti dei giovani Neet nel dibattito pubblico hanno spesso associato questa condizione a
connotazioni negative – pigrizia e irresponsabilità, scarse aspirazioni e mancanza di competenze, disinteresse per il
lavoro e per la formazione. Inoltre, le dinamiche della crisi occupazionale e il dibattito sulla transizione verso modelli di
welfare to work hanno suggerito politiche attive che pongono l’accento sull’attivazione e sull’impegno degli individui nella
ricerca di lavoro, oltre che sulla necessità di accettare le esperienze formative e lavorative proposte al fine di migliorare
l’occupabilità formale. I discorsi culturali e di policy costruiti attorno ai giovani Neet, tuttavia, non sembrano rispecchiarsi
nella presente ricerca. Il lavoro rappresenta un elemento centrale nelle biografie degli intervistati e, superata la soglia del
bisogno, i significati attribuiti a esso richiamano aspetti di gratificazione e realizzazione personale. I partecipanti alla
ricerca associano alla dimensione lavorativa espressioni alternative rispetto alle culture egemoni. Essi sfidano la
necessità di entrare e rimanere nel mercato del lavoro a ogni costo, anche a quello di accettare occupazioni di scarsa
qualità, a basso salario e con ridotte prospettive, che spesso non conducono a posizioni sociali migliori. In tal senso, il
rifiuto di occasioni lavorative si configura come un’affermazione della necessità di svolgere attività significative e
stimolanti. L’occupazione desiderata, infatti, più che assicurare elevati guadagni, deve conferire benessere sociale
fornendo strutturazione temporale ed esperienze relazionali. Come nelle generazioni precedenti, inoltre, un’ulteriore
caratteristica del lavoro ideale è quella della stabilità. Sebbene la sicurezza occupazionale possa sembrare obsoleta a
fronte dei mutamenti economici e sociali e della diffusione di forme contrattuali flessibili e temporanee, essa occupa una
posizione egemone nelle aspirazioni dei giovani adulti.
Nel contesto italiano, per molti soggetti la giovinezza tende a configurarsi come fase di vita dalla durata indefinita, con
incursioni nelle pratiche e nelle esperienze adulte, senza conseguirne in modo definitivo lo status. Se da un lato le
destandardizzazioni delle transizioni richiamano la moltiplicazione delle appartenenze e delle opportunità virtuali, dall’altro
esse rimandano alle trasformazioni del mercato del lavoro e all’inadeguatezza del sistema di welfare in termini di accesso
agli ammortizzatori sociali, sostegno al reddito e supporto ai percorsi di vita autonoma.
Il veganismo tra mainstream e controcultura

Nicola Righetti
1. Introduzione
Nonostante le controculture nascano in sfida alla cultura dominante, quando il mainstream (= corrente più tradizionale e
anche più seguita dal pubblico) le incorpora esse conoscono una diffusione che difficilmente potrebbero raggiungere
altrimenti, ma allo stesso tempo perdono parte della loro forza antagonista. I mass media ne ridefiniscono il significato
all’interno dei frame dominanti e il mercato di massa si appropria dei loro simboli. Così, la critica inizialmente sferrata al
sistema viene, in parte, metabolizzata e neutralizzata dal sistema stesso. Questa incorporazione solitamente non
coincide con la trasformazione del mainstream ad immagine della controcultura, ma piuttosto con un riadattamento di
quest’ultima alle esigenze ideologiche ed economiche del mainstream. Dagli stili e dai simboli delle controculture
vengono attinti i materiali per plasmare nuove mode/convenzioni, nuovi prodotti per il mercato di massa, nuove industrie.
Fenomeni simili sono stati osservati con particolare riferimento a movimenti giovanili quali Mod e Punk, ma le stesse
osservazioni possono essere calate su quanto sta accadendo al veganismo, che, proprio come le innovazioni stilistiche
analizzate da Hebdige, viene «alternately celebrated (in the fashion page) and ridiculed or reviled (in those articles which
define subcultures as social problems)», e la sua diffusione nei mercati di massa, da taluni interpretata come il segno di
una sempre più vicina vittoria dei diritti degli animali sull’industria della carne – segno di wishful thinking o almeno di
conclusioni premature – può essere più plausibilmente interpretata come indicatore dell’ingresso del veganismo nel
meccanismo della moda, che ne consente la diffusione grazie al potere dei mezzi di comunicazione ed economici
dominanti, ma al prezzo di vedere disinnescato il suo potenziale «sovversivo» – in questo caso rappresentato dalla
componente animalista – e di vedere alterato il suo significato originario, riadattato ai gusti del mercato di massa per
trarne il maggiore profitto possibile.
Per comprendere a pieno gli interrogativi sollevati dall’integrazione del veganismo nel mainstream commerciale e
culturale, occorre considerare che nonostante oggi si assista alla diffusione di un veganismo prevalentemente basato su
valori niente affatto contrapposti alla cultura dominante – come quelli salutistici e ambientalisti – il veganismo è da
considerarsi come un movimento originariamente controculturale. Infatti, è caratterizzato da valori morali che sfidano la
comune concezione secondo cui l’uomo ha il diritto di disporre degli animali per i suoi scopi alimentari e non, ed è mosso
da obiettivi politici che mirano a rivoluzionare, annullando, i rapporti di dominazione e sfruttamento fatti valere dagli
uomini sugli animali. A questa visione complessiva consegue, coerentemente, la pratica del boicottaggio sistematico di
tutte le attività e prodotti direttamente o indirettamente coinvolti nello sfruttamento degli animali. A partire da questa
considerazione del veganismo come fenomeno essenzialmente controculturale, dunque, ci si interroga in questa sede sul
processo che porta alla sua integrazione nel mercato e nella cultura mainstream. Si argomenterà che per quanto il
veganismo appaia essere sempre più integrato, è in realtà integrato solo come forma di consumo risignificata alla luce di
valori meno controculturali mentre come progetto morale e politico animalista resta marginalizzato. Si proporranno nello
specifico due processi di contemporanea integrazione e marginalizzazione del veganismo: uno che opera
all’intersezione tra mercato e relazioni sociali («integrazione di facciata»), l’altro che opera all'intersezione tra
mercato, consumatore e prodotto («integrazione mediante risignificazione»).
1.1. Rilevanza sociologica del veganismo
I Rapporti Italia Eurispes suggeriscono un’incidenza crescente del veganismo in Italia, indicandone, nel 2017, una
prevalenza del 3,0% tra la popolazione intervistata. Contemporaneamente, nella grande distribuzione organizzata e nelle
attività ristorative aumenta l’offerta di prodotti etichettati come vegani e cresce la copertura mediatica del fenomeno.
Non solo per l’attuale sua diffusione, il veganismo è fenomeno d’interesse sociologico anche in quanto espressione di
processi socioculturali più generali. Per esempio, è un’espressione della «politicizzazione dei consumi», e
rappresenta un caso di «lifestyle movement»; per chi vi aderisce profondamente, può assumere il ruolo di sostituto
funzionale della religione, analogamente a quanto osservato per il vegetarianismo e l’attivismo animalista; può
rappresentare un rimedio alla «gastro-anomia» connessa alla frantumazione dei modelli alimentari tradizionali, e da una
prospettiva politica, esprime una sensibilità animalista che potrebbe essere capitalizzata dai partiti. Infine, permette di
interrogarsi sui rapporti tra innovazione e conservazione culturale in una società nella quale il consumo e la cultura
materiale hanno una rilevanza centrale. La prospettiva generale che qui si adotta è quest’ultima, intersecandola con una
più specifica lettura del veganismo come fenomeno controculturale. Proprio considerando il veganismo nel suo rapporto
conflittuale con la cultura dominante, infatti, la diffusione di questa pratica tra la popolazione e quella dei prodotti vegani
nella grande distribuzione organizzata e nei servizi ristorativi, sollevano alcuni interrogativi: se il veganismo esprime
istanze critiche rispetto al mainstream mediante la resistenza al consumo – in primo luogo boicottando i prodotti di origine
animale – la sua integrazione in quello stesso sistema mainstream di consumo che esso critica e vorrebbe trasformare
appare paradossale e contraddittoria.
2. Il veganismo: definizione e prospettive d’analisi
Il veganismo può essere definito come uno stile di vita che cerca di evitare lo sfruttamento e la crudeltà verso gli animali.
(La Vegan Society, 1 associazione vegana al mondo, lo definisce «a way of living which seeks to exclude, as far as is
possible and practicable, all forms of exploitation of, and cruelty to, animals for food, clothing or any other purpose»). Dal
punto di vista dietetico, rappresenta una delle forme più restrittive di vegetarianismo, ma lungi dal limitarsi a una pratica
dietetica, è un più complesso «movimento di lifestyle» (I«lifestyle movement» promuovono il cambiamento sociale
attraverso scelte individuali e quotidiane; sono caratterizzati dalla ricerca di un’identità moralmente coerente, dalla
struttura diffusa e dall’avere come bersaglio codici e pratiche culturali consolidate) ispirato da una sensibilità animalista,
sul piano culturale, da un’ideologia antispecista e, sul piano sociale, dall’obiettivo di promuovere un cambiamento
secondo ideali di liberazione animale dallo sfruttamento umano. Sia per mantenere la coerenza morale a livello
identitario, sia per perseguire il suo obiettivo politico, il veganismo promuove l’astensione da ogni prodotto alimentare e
non di origine animale o che sia connesso allo sfruttamento degli animali, nonché dalla partecipazione a qualunque
attività che faccia uso di animali.
Per capire l’apparente paradosso dell’integrazione del veganismo nel mainstream è importante sottolineare in via
preliminare i suoi tratti controculturali, intendendo con «controcultura» un «insieme di norme e valori di un gruppo che
contraddicono nettamente le norme e valori dominanti della società di cui è parte». Scrive, Yinger, che la controcultura
«emerge da una combinazione di devianza e critica dell’ordine sociale». Se il veganismo è un fenomeno controculturale
dev’essere possibile identificare meccanismi di controllo sociale sotto forma di sanzioni negative, come la censura, la
condanna, il disprezzo e l’isolamento sociale. Effettivamente, gli stili di vita vegetariani, di cui il veganismo rappresenta
un’espressione radicale, sono in conflitto con la cultura dominante fin dall’antichità, e ancora oggi il vegetarianismo, e
ancor più il veganismo, la sfidano sotto l’aspetto nutrizionale, morale, spirituale ed ecologico. La categoria che meglio
consente di apprezzare la portata radicale di questa sfida è quella di specismo, che può essere considerata la chiave di
volta dell’ideologia vegana. Il termine, coniato da Richard D. Ryder nel 1970 viene reso popolare dal filosofo Peter Singer,
autore di Liberazione Animale, testo che ha avuto grande risonanza nel campo del movimento per i diritti degli animali. In
questo libro, Singer scrive che: Lo specismo è un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei
membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie. Dovrebbe risultare evidente che le
fondamentali obiezioni avanzate nei confronti del razzismo e del sessismo sono altrettanto valide nel caso dello
specismo. Se il possesso di un superiore livello di intelligenza non autorizza un umano ad usarne un altro per i suoi fini,
come può autorizzare gli umani a sfruttare i non-umani per lo stesso scopo?.
Dal momento che il consumo di carne e l’uso, lo sfruttamento e l’uccisione di animali per una varietà di scopi umani,
anche su scala industriale, sono normalmente accettati dalla cultura dominante, la condanna morale di queste pratiche
da parte del veganismo antispecista rappresenta un evidente elemento di conflittualità controculturale. Si trovano anche
altri indicatori del fatto che al veganismo siano attribuiti tratti devianti: gli stereotipi negativi diffusi sui mass media e
individuati dalla letteratura internazionale, per quanto riguarda il contesto italiano, da una ricerca che ha analizzato le
rappresentazioni del veganismo sulla stampa quotidiana online. In particolare, hanno avuto particolare risonanza sulla
stampa italiana alcuni casi di cronaca aventi ad oggetto minori ricoverati per malnutrizione, le cui cause sono state
generalmente attribuite al «veganismo integralista» dei genitori. Questi casi hanno contribuito a diffondere un’immagine
del veganismo come pratica caratterizzata da un irrazionale fanatismo e da una certa pericolosità, e hanno spinto alla
proposta di leggi volte a condannare coloro che somministrano diete vegane o vegetariane ai minori. Nel questionario
esplorativo distribuito per questo studio, si è trovato che l’affermazione «Seguire a lungo una dieta vegana può essere
pericoloso per la salute», trova abbastanza/completamente d’accordo ben il 43% dei rispondenti, che salgono al 50%
circa considerando solo i rispondenti non vegani né vegetariani. Ancora, l’affermazione «In generale, i vegani sono dei
fanatici», ottiene una percentuale di accordo del 60% dei rispondenti non vegani né vegetariani. Pur non avendo il
questionario rappresentatività statistica, e nonostante la base empirica sia limitata, esso permette di appurare l’esistenza
di simili rappresentazioni del veganismo, e le percentuali indicate non passano inosservate. Inoltre, si tratta di dati
coerenti con le osservazioni netnografiche (metodo di ricerca qualitativa etnografico che ha l'obiettivo di studiare le
interazioni sociali nei contesti comunicativi digitali contemporanei) svolte: sui social media si possono trovare pagine
esplicitamente dedicate a dileggiare i vegani, e in televisione non mancano prese in giro, provocazioni e attacchi.
2.1. Un veganismo... senza derivati «di origine animalista»?
Specialmente per i suoi tratti controculturali, l’attuale diffusione del veganismo appare paradossale. Tuttavia, occorre
ammettere che quanto sta accadendo non è un fenomeno sorprendente, né un fenomeno nuovo. È noto il processo di
incorporazione nel mainstream di stili sviluppati nelle «subculture spettacolari». Analogamente, oltre vent’anni fa veniva
segnalato un simile processo avente ad oggetto il vegetarianismo nel Regno Unito, che portava gli autori a suggerire che
il mercato integrasse, a scopo di profitto, questo stile alimentare «deviante». Si sarebbe trattato, tuttavia, di
un’integrazione che alterava il significato originario di vegetarianismo, tanto che il vegetarianismo diffuso
commercialmente sarebbe stato una «forma moralmente diluita» di vegetarianesimo, scrivono gli autori. Guardando al
veganismo in Italia, si può analogamente argomentare che il mercato ne produca una simile forma, sostanzialmente
spogliata della sua identità e della sua carica critica, ideale e politica, di matrice animalista. Il veganismo troverebbe allora
posto nel mainstream soltanto come una scelta individuale di consumo accanto alle altre.
La dissociazione del veganismo dalla sua dimensione animalista era già stata osservata negli Stati Uniti, Greenebaum
osservava: «Although people find vegetarianism and veganism interesting, it is mostly tolerated as long as it is being
presented as a diet that does not include a moral agenda». Si è detto che l’integrazione del veganismo nel mainstream
rappresenta un paradosso. Tuttavia, di paradosso, a ben vedere, si potrebbe parlare soltanto qualora tale integrazione
conservasse gli aspetti maggiormente critici, contraddittori e conflittuali dell’ideologia vegana rispetto alla cultura
mainstream, ma verrebbe meno qualora questa componente venisse sistematicamente neutralizzata.
3. Il veganismo tra integrazione e marginalizzazione
Si è argomentato che il veganismo è caratterizzato da tratti controculturali e non è pienamente accettato socialmente, in
particolare a causa dei suoi valori animalisti. Allo stesso tempo si diffonde, sotto forma di moda, tra la popolazione, nel
mercato e sulla stampa mainstream, attecchendo in una cultura dominante che non considera moralmente problematico
lo sfruttamento e l’uccisione degli animali, anche su scala industriale. Vediamo quindi come avviene l’integrazione del
veganismo in un contesto rispetto al quale esso si trova in radicale contrapposizione. Si propongono due processi, qui
denominati «integrazione di facciata» e «integrazione mediante risignificazione». La caratteristica comune è la
marginalizzazione della componente animalista del veganismo, ossia la neutralizzazione del suo elemento conflittuale.
3.1. Integrazione «di facciata»
La commercializzazione di prodotti vegan facilita l’integrazione sociale del veganismo, in particolare della sua
componente alimentare: quella più facilmente a rischio di suscitare attriti sociali. Se a casa, per i vegani, è possibile
seguire con maggiore facilità un’alimentazione più varia, grazie all’aumento dell’offerta di prodotti nella Gdo, fuori casa gli
effetti integrativi appaiono ancora più significativi: i menù vegan sono oggi disponibili in molti ristoranti e bar, e la loro
diffusione e accettazione sociale segue il fenomeno della «pluralizzazione dei menù». Di conseguenza, l’individuo
vegano non incontra più molte difficoltà a mangiare con persone non vegane, evitando imbarazzanti astensioni e forme di
isolamento sociale. La commercializzazione dei prodotti vegan e la «pluralizzazione dei menù» riducono il rischio che
questa scelta etico-alimentare interferisca con i rituali della tavola, suscitando tensioni sociali nella vita quotidiana.
Per quanto significativa sia tale integrazione, occorre osservare che non si tratta di un’integrazione delle componenti
etiche e politiche del veganismo, quanto piuttosto di un’occasione di integrazione dell’individuo vegano mediante
integrazione commerciale della sua dieta. Prova ne è il fatto che non si osservi alcuna modifica strutturale nella
produzione e nel commercio di prodotti animali, la cui eliminazione rappresenta l’obiettivo finale dal movimento;
soltanto, si trasforma la «trasgressione alimentare» vegana in una nuova opzione a disposizione del consumatore,
preso nella dialettica di identificazione e differenziazione tipica della moda. L’offerta di alternative vegan e la
pluralizzazione dei menù facilitano l’integrazione del vegano soltanto a patto che esso eviti di farsi portavoce delle istanze
politiche e morali del veganismo, come osservato da Greenebaum. Richiedendo di «posare le armi» in cambio di una
conveniente integrazione sociale, la diffusione dei prodotti vegani supporterebbe la strategia di gestione dello stigma che
Goffman ha definito «passing», consistente nel celare la propria identità stigmatizzata per non suscitare reazioni
negative. La pluralizzazione dei menù e la maggiore disponibilità di alternative «veg» proposte dal mercato, ovverosia la
normalizzazione dei prodotti vegani, rendono più semplice seguire tale strategia di «auto- censura», permettendo al
vegano, qualora lo volesse, di passare inosservato. È curioso osservare che tale processo di mascheramento del
veganismo sembri concretamente materializzarsi in alcuni prodotti alimentari vegan, che assumono l’apparenza del
prodotto a base di carne: hamburger, wurstel vegetali e simili, sembrano adottare la stessa strategia di «passing».
3.2. Risignificazione
Il mercato non attua alcuna delle modifiche strutturali desiderate dal movimento vegano, ma trasforma la trasgressione
«veg» in una nuova moda, offrendo i piatti di questo stile alimentare originale, se non «deviante», come una nuova
opzione a disposizione del consumatore. Molte delle stesse aziende che propongono alternative vegan continuano infatti
a immettere sul mercato prodotti derivati dallo sfruttamento degli animali. L’alimentazione vegana, oggi, può essere scelta
e le aziende produttrici hanno interesse a promuovere tale scelta. A questo proposito, è stato suggerito che le aziende
private assumano funzioni di promozione del veganismo affiancandosi e forse persino riducendo l’importanza delle
associazioni tradizionalmente attive nel promuovere la scelta veg, come per es la Vegan Society. Alla comunicazione
delle associazioni vegan si affianca dunque quella commerciale delle aziende. Se si osservano i prodotti vegan presenti
nella grande distribuzione, spicca la marginalizzazione della componente controculturale-animalista del veganismo. I
valori animalisti appaiono assenti, quasi censurati, sugli scaffali dei supermercati. I prodotti sembrano omettere
sistematicamente, nel loro packaging, il riferimento a questi valori, presentandosi piuttosto secondo quelli più mainstream
del salutismo e del rispetto per l’ambiente, che sebbene siano utilizzati anche nella comunicazione delle associazioni
vegan, non sono pienamente congruenti con la sua motivazione animalista. Dalle osservazioni condotte sui packaging
dei prodotti vegan emerge come dominante il colore verde – che rinvia al mondo naturale e all’ecologismo – e spiccano
claim rinvianti alla salute e al benessere, ma non al rispetto della vita degli animali.
Rafforza queste osservazioni anche l’analisi svolta dall’Osservatorio Vegan relativamente alle bevande vegetali: l’89%
delle referenze appartenenti alla categoria bevande vegetali vanta almeno un claim salutistico nutrizionale: il 78% dei
prodotti a scaffale è senza glutine, il 76% presenta il claim 100% vegetale, il 64% ha il claim «senza lattosio», il 32% delle
referenze vanta l’assenza di zuccheri e più del 20% delle referenze esaminate sono addizionate di calcio e vitamine.
Sembra quindi che gli alimenti vegani siano integrati nel sistema dei prodotti della Gdo soprattutto attraverso il filtro della
consolidata offerta Bio, naturalistica e salutista. Il riferimento all’etica animalista appare sistematicamente assente.
Queste osservazioni supportano l’idea che il mercato mainstream dei prodotti vegani sia guidato dallo stesso principio di
dissociazione del veganismo dagli ideali animalisti. Il nascondimento dell’anima animalista del veganismo contribuisce al
processo di «disinnesco» della sua carica sovversiva, e a questo si somma la neutralizzazione provocata dal fatto stesso
che il veganismo viene assorbito nel mainstream. Hebdige teorizza il «processo di “integrazione” nella cultura
dominante» descrivendolo come «ideologico più che materiale, in cui i segni sottoculturali che prima erano sovversivi
(come la musica e i vestiti) sono “convertiti” o “tradotti” in merci di produzione di massa».
Rispetto ai valori bio-naturalistico-salutisti impiegati nella promozione dei prodotti vegan, si possono fare alcune altre
osservazioni. Claude Fischler ha proposto il concetto di «gastro-anomia» per descrivere l’anomia in campo alimentare
conseguente alla rottura dei tradizionali modelli alimentari, che affligge la nostra società e che porterebbe al riemergere
dell’ansietà connessa al «paradosso dell’onnivoro». Si potrebbe così interpretare la diffusione del veganismo anche come
una strategia culturale di controllo dell’ansia connessa alla gastro-anomia. I punti di contatto non mancano: secondo
Fischler, la gastro-anomia sarebbe associata alla crescente preoccupazione per la salute e alla diffidenza verso l’industria
alimentare – che caratterizzano anche il veganismo – e determinerebbe una crescente domanda di simboli legati alla
natura – come appunto quelli diffusi sulle confezioni di prodotti vegan – interpretabile come risposta al crescente
problema che gli individui affrontano nell’identificare cibi sani, non pericolosi per la salute.
Da una prospettiva di marketing, occorre osservare che la preferenza per i valori Bio, salutisti ed ecologisti rispetto a
quelli animalisti, non può essere intesa come una censura etica da parte del mercato, istituzione che possiamo
considerare moralmente neutrale, tuttavia, acconsentire all’idea che il mercato sia un’istituzione eticamente neutrale non
significa escludere che abbia tutto l’interesse a sintonizzarsi con i valori più diffusi tra i consumatori. Al contrario, il
mercato cerca di avvicinarsi, mediante oculate strategie di marketing, ai valori dei consumatori, tendendo alla creazione
di cluster di offerta tali da poter massimizzare il profitto, rivolgendosi al gruppo di acquirenti il più ampio possibile. I
prodotti vegan-friendly commercializzati nella grande distribuzione non sembrano, in effetti, mirati esclusivamente ad un
target vegano-animalista, ma ad un più ampio target di consumatori che non ha necessariamente motivazioni animaliste
e che, anzi, forse nemmeno le approva: consumatori con una preesistente sensibilità Bio e green; consumatori che
vanno riducendo il consumo di carne per preoccupazioni salutiste in genere, nonché consumatori con particolari
intolleranze, come per esempio quella al lattosio, che possono approfittare di prodotti senza questo particolare
ingrediente di origine animale. In questo complesso e ampio contesto, che trascende di gran lunga la preoccupazione per
i diritti degli animali, intersecandosi con più eterogenei valori, preferenze e problematiche, l’etica animalista non solo non
ha rilevanza, ma rischia persino di confliggere con le credenze e i valori di questa vasta platea di consumatori, creando
un effetto repulsivo che il venditore ha certamente interesse a evitare. Qualche supporto a questa ipotesi proviene dal
questionario che si è somministrato, in cui è stato chiesto agli intervistati quanto spesso acquistassero prodotti per
vegani. Considerando soltanto il gruppo di intervistati non vegano né vegetariano che ha dichiarato di acquistare «mai» o
«qualche volta» i prodotti per vegani, si è trovato che circa il 71% di chi si è detto completamente d’accordo con la frase
«In generale, i vegani sono dei fanatici», ha dichiarato di non acquistare mai prodotti per vegani, mentre l’esatto opposto
vale per chi si è detto per nulla d’accordo ad identificare, in generale, i vegani con dei fanatici; tra questi ultimi, quasi il
79% ha dichiarato di comprare prodotti veg almeno qualche volta, e solo il 21% di non comprarli mai. Questi dati
suggeriscono una possibile correlazione tra la percezione del carattere deviante del veganismo e il mancato acquisto di
prodotti per vegani, lasciando ipotizzare una sorta di «contagio» simbolico tra la stigmatizzazione dei vegani e quella dei
prodotti veg. Se questo fosse vero, sarebbe ulteriormente ragionevole, da una prospettiva di marketing, la scelta di non
sottolineare troppo la componente animalista dei prodotti veg, a favore di valori più mainstream e meno controversi.
Mantenendo vago il significato del significante «vegan» ed evitando di associarlo troppo esplicitamente ai valori
animalisti, di nicchia e controversi, preferendo ad essi valori generalmente più condivisi come quelli della natura e della
salute, tale etichetta si trasforma in un simbolo pronto per essere riempito di significato dal consumatore stesso, a
seconda delle sue particolari inclinazioni. Si tratta, in fondo, della strategia più ragionevole in un mercato caratterizzato
dal pluralismo dei valori e delle preferenze, ma che risponde senz’altro più alle logiche del business che a quelle
animaliste del veganismo.
Un altro meccanismo, indiretto ma non per questo meno efficace, attraverso cui si attua una risignificazione del
veganismo, è quello connesso alla disposizione spaziale dei prodotti nei punti vendita della grande distribuzione
organizzata. Per esempio, la collocazione dei prodotti vegan in spazi circoscritti dei supermercati, se da un lato svolge la
funzione pratica di permettere al consumatore di individuare facilmente la categoria di prodotti di interesse, dall’altro
potrebbe determinare la percezione di una sorta di ghettizzazione sociale; inoltre, la collocazione dei prodotti vegani
accanto a quelli «senza» (senza lattosio, senza glutine ecc.) o biologici, implica, in virtù del frame in cui i prodotti sono
inseriti, una chiara definizione del veganismo come dieta salutista, piuttosto che come pratica animalista.
Se dunque appare vero che il mercato di massa integra il veganismo, le osservazioni svolte in questo studio spingono a
sostenere che tale integrazione avvenga neutralizzando le spinte più critiche e devianti del veganismo, ossia quelle di
natura animalista; non tanto per ragioni etiche, quanto per il semplice motivo che esse emergono sulla base di
motivazioni marginali rispetto a quelle più diffuse nella popolazione, nonché in virtù del fatto, connesso al precedente, che
tali motivazioni potrebbero risultare disturbanti per la più ampia platea dei consumatori.
4. Conclusioni
In questo studio si è argomentato che la scelta individuale di essere vegani è accettata e sfruttata dal mercato, mentre
quella politico-ideologica marginalizzata. Il veganismo è quindi allo stesso tempo integrato e neutralizzato nella sua
carica politica ed ideale, ridotto a scelta privata, dietetica piuttosto che etica.
Si sono proposti due processi di integrazione/marginalizzazione del veganismo nel mainstream, definiti «integrazione di
facciata», ricollegandosi ai lavori di Goffman sulla gestione dello stigma e già impiegati nella letteratura in materia, e
«integrazione mediante risignificazione». L’attenzione è stata posta sull’interazione tra mercato e movimento vegano. In
particolare, si è guardato ai meccanismi di marginalizzazione della componente ideologica e controculturale del
veganismo messi in moto, per quanto indirettamente e senza presupporre alcuna intenzione morale o politica, dal
mercato. Si è visto come la gestione individuale dello stigma possa essere facilitata e persino favorita dalle risorse messe
a disposizione dal mercato, e si è proposto che i prodotti e la loro disponibilità commerciale possano essere utilizzati
come risorse funzionali alla gestione di strategie relazionali mirate al nascondimento dello stigma. Si è inoltre sostenuto
che le scelte di marketing e la capacità interpretativa dei consumatori possano produrre rielaborazioni della
rappresentazione di un movimento eticamente impegnato come il veganismo, e che queste rielaborazioni possano
essere non coerenti con gli obiettivi di quest’ultimo. L’inserimento del veganismo in un processo di costruzione del
significato indipendente dalle agenzie ideologiche del movimento, solleva quindi dei problemi per il movimento vegano: il
controllo della rappresentazione sociale della propria identità è un problema che riguarda ogni movimento sociale, ma
quando un movimento entra nel processo della moda, il problema diventa più difficile da gestire. Se in linea teorica è
infatti possibile, almeno per le associazioni animaliste più grandi e organizzate, riuscire a veicolare il loro messaggio
attraverso i media, è altamente improbabile che possano intervenire sulle scelte di marketing delle aziende che
immettono sul mercato prodotti vegan; eppure queste, come si è detto, hanno il potere di condizionare la
rappresentazione che i consumatori hanno del veganismo, dal momento che i prodotti vegan e la comunicazione loro
associata ha veicoli di diffusione tanto vasti e capillari quanto lo è la loro rete commerciale. L’ingresso del veganismo nel
processo della moda, così, se da un lato ne favorisce la diffusione, obiettivo desiderato dagli stessi vegani, allo stesso
tempo rischia di produrre alterazioni nella sua rappresentazione sociale ad opera degli agenti del mercato, alterazioni
indirettamente determinate dal fatto che, questi ultimi, perseguono obiettivi diversi da quelli del movimento vegan.
Piove sul bagnato
La povertà urbana in una periferia metropolitana ai tempi della crisi
di ALBERTO VIOLANTE
1. Premessa: (la) crisi e la povertà urbana
Analizzeremo la povertà dentro il campo di osservazione teorica definito dai temi del cambiamento urbano e utilizzando
uno studio di caso concreto (il XIII° Municipio di Roma). Questo caso è interessante poiché è una periferia cresciuta
demograficamente dentro una metropoli che ha visto un rapido sviluppo occupazionale così come un altrettanto rapido
declino post-crisi. Anche se qui mi occuperò solo di ciò che riguarda gli effetti della crisi relativi a questa delimitazione, è
per me verosimile l’ipotesi che questa crisi cambierà in profondità lo scenario urbano. In particolar modo gli anni Novanta
hanno visto un cambiamento della concettualizzazione della povertà che affonda le sue radici nella precedente
congiuntura negativa di fine anni Ottanta e che si è risolto in un’ampia letteratura che ha guidato la strutturazione dei
servizi sociali locali negli anni duemila. Il discorso sulla povertà l’ha sganciata dall’analisi della sola distribuzione
reddituale per legarla agli effetti dell’esclusione del mercato del lavoro (esclusione sociale). Successivamente si è
sottolineata la soggettivizzazione del rischio sociale e il suo allargamento ad una platea molto più vasta dei poveri in
senso proprio (vulnerabilità). In questo articolo ci chiederemo in primo luogo se le dimensioni prese in considerazione
dalle categorie di esclusione sociale e vulnerabilità descrivano bene l’incidenza del disagio sociale in un determinato
contesto di periferia metropolitana alle porte della crisi. Un secondo punto richiamato nella discussione teorica, riguarda
la relazione tra povertà urbana e la polarizzazione sociale che sarebbe generata dai mercati del lavoro a carattere
specificatamente terziario come quello di Roma. Infine, come terzo punto, se e come il bisogno sociale sia aumentato nel
periodo post-crisi e come i servizi sociali abbiano gestito questo incremento. In questa maniera potremo avere un
riscontro del funzionamento dei servizi sociali sullo sfondo di quello ricostruito nella letteratura dell’ultima decade.
2. La povertà: dalla povertà economica all’esclusione sociale e alla vulnerabilità
Negli anni 90 il concetto di povertà è stato affiancato dai concetti di esclusione sociale e vulnerabilità. Categorie che
derivano dalla trasformazione del dibattito sulla povertà sintetizzabile in due principi teorici: la multidimensionalità delle
dimensioni necessarie per misurare la deprivazione e l’individualizzazione del discorso sulla diseguaglianza che
colpisce in primo luogo il singolo. Il concetto di esclusione sociale comparato con quello di povertà dovrebbe in teoria
sottendere una suddivisione dicotomica della popolazione in stato di disagio, tanto da far notare come questo passaggio
segni l’abbandono della categoria di eguaglianza. La genealogia della categoria può essere fatta risalire all’aumento
della disoccupazione in tutti i paesi europei a seguito della ristrutturazione industriale. Proprio perché il concetto di
esclusione sociale partiva dall’assunto teorico della irriproducibilità del lavoro salariato, la ricerca empirica europea ha
mostrato come l’esclusione sociale non potesse essere intesa come frutto esclusivo della disoccupazione (cioè
dell’assenza del lavoro salariato). L’attenzione si è andata spostando su altre determinanti: l’instabilità del nucleo
familiare, la condizione di solitudine e le dipendenze da sostanze sono tutti fattori extra-reddituali che possono
cronicizzare la povertà impedendo il reingresso nel mercato del lavoro e trasformandola in esclusione. Sebbene il
tentativo di spiegare la povertà tramite il contesto urbano e le patologie sociali non sia stato estraneo al dibattito europeo,
l’idea su cui una parte del dibattito europeo si è esercitata è che la povertà dovesse essere vista come un processo
individuale di cui determinare le condizioni di ingresso e (mancata) uscita. Soprattutto nei paesi a più alto reddito
pro-capite e a welfare universalista, i dati indicavano che la popolazione che sperimenta un episodio di povertà è molto
più vasta di quella permanentemente disoccupata. Ciò comporta però due paradossi. Il primo è che nello stesso periodo
in cui si è affermata questa visione vasta del disagio sociale si è andato affermando un orientamento di governo che ha
posto un limite all’allargamento dell’area dei bisogni demercificati dal welfare. Il secondo è che la disoccupazione, se non
spiega tutto il disagio, sembra comunque restare un predittore straordinariamente credibile non solo della povertà di
reddito, ma della deprivazione misurata nelle sue varie componenti, comprese quelle relazionali. Questo elemento rende
problematico il superamento della centralità della sfera lavorativa, che pure era una parte dell'elaborazione che ha portato
al concetto di esclusione sociale. Del resto una sequenza causale che va dall’assenza di lavoro al depauperamento del
capitale sociale (implicitamente istituita quando si parla di maggior isolamento sociale dei disoccupati), si rifarebbe a un
economicismo contraddittorio con l’aspirazione di partenza ad una maggiore complessità. Addirittura Levitas fa notare
come sia spesso l’essere occupato ad essere di ostacolo alla vita relazionale. Come è stata indagata la relazione tra
povertà e biografia personale? Singoli episodi di povertà colpiscono in tutti i paesi molte più persone dei «poveri». Nel
Sud Europa però l’ingresso in povertà deriva in misura maggiore dall’aumento dei bisogni piuttosto che dalla diminuzione
delle risorse. In Italia a questi tratti si accoppia una netta concentrazione territoriale dei poveri nel Mezzogiorno. Il tratto
dominante della povertà Meridionale è che non solo la quantità, ma la qualità dell’impiego (instabile e sottopagato) insiste
su famiglie più ampie, per soddisfare la domanda delle quali servirebbe invece un impiego stabile. La povertà italiana è
quindi da basso reddito e occupazione instabile, prima ancora che da assenza di reti familiari e problemi sanitari;
anche la povertà da vecchiaia è causata da storie contributive spezzate. Gli studi della Banca d’Italia aggiungono a questi
fattori la collocazione sociale visto che rischio di trovarsi in povertà è aumentato nelle famiglie di lavoratori dipendenti
e diminuito in quelle di imprenditori, autonomi e professionisti. In virtù di queste evidenze Sgritta rimarca che la giustizia
distributiva (a partire dai redditi formati sul mercato del lavoro) debba essere rimessa al centro del dibattito, ripartendo da
un approccio di svantaggio strutturale. La seconda caratteristica dell’esclusione sociale è infatti che ha posto
un’attenzione maggiore alla relatività individuale delle dimensioni del disagio. Nella formulazione di Sen, il livello
adeguato di reddito per sfuggire alla povertà varia parametricamente al variare di caratteristiche e circostanze individuali.
Uno degli studiosi di riferimento del dibattito ha fatto notare come questa impostazione logicamente rovesciata possa
implicare che «riguardo al fallimento dello status d’inclusione dovremmo interessarci non soltanto alla situazione di una
persona, ma anche alla misura in cui lui o lei sono responsabili». Questo passaggio è centrale per approdare alla nozione
di vulnerabilità, declinata da Ranci come una situazione in cui la capacità di autodeterminazione dei soggetti è preclusa
dal labile inserimento nel sistema di risorse sociali e garanzie materiali. La vulnerabilità è l’impossibilità di affrontare il
rischio à la Beck, progettando le proprie scelte e non come semplice esposizione passiva. Le novità nell’approccio della
vulnerabilità sono due: la prima è che è più diffusa a livello orizzontale registrando un rischio permanente (quello della
precarietà), che incombe sull’intera biografia, piuttosto che un rischio aleatorio (quello della disoccupazione), che si
verifica solo all’interno dei confini definiti dalla biografia lavorativa. La seconda è che è più diffusa verticalmente perché
nelle parole di Ranci: «la distribuzione dei rischi è certamente influenzata dall’appartenenza di classe, ma non in misura
tale da poter concludere che essi si dispongano in maniera coerente alla struttura di classe nella nostra società». Per
comprendere la vulnerabilità è quindi centrale il problema della precarietà nel mercato del lavoro, come per l’esclusione
sociale ci si doveva confrontare con la disoccupazione. In Italia dalla metà degli anni Novanta sono state introdotte una
serie di riforme che hanno deregolamentato il mercato del lavoro con un innalzamento della quota di lavoro atipico e di
occupazione femminile. Questo processo è stato visto come ambivalente in quanto avrebbe contribuito a superare il
modello familiare monoreddituale: «la diffusione di posti di lavoro (o meglio contratti) precari tra gli adulti che non siano la
persona di riferimento va letta meno univocamente come segno di precarizzazione, e tantomeno di disaffiliazione». La
diffusione di occasioni di lavoro sarebbe stata importante soprattutto per le donne, anche se secondo Reyneri e Scherer
l’inattività femminile è scesa solo nel Nord e tra le donne meno giovani, facendo pensare ad un modello che non realizza
l’accresciuto capitale umano delle donne. L’instabilità lavorativa è stata comunque vista come una fase transitoria.
Implicitamente i cambiamenti del mercato del lavoro avrebbero quindi contribuito ad evitare la trappola dell’esclusione,
soprattutto per le donne, con l’effetto però di renderle – insieme agli altri nuovi soggetti – più vulnerabili. La
familizzazione, come strategia italiana di copertura dai rischi della vulnerabilità, solleva tuttavia il problema della
riproduzione delle diseguaglianze, visto che le risorse familiari trasferite ai soggetti vulnerabili sono ineguali.
3. La povertà urbana
La povertà come fenomeno distributivo non è specificatamente urbano, anzi le aree rurali sono solitamente più povere.
Questa specificità è stata intesa almeno in due accezioni: una istituzionale, che esplora come le istituzioni locali
rispondano alle specificità locali della povertà, e una di contesto economico.
3.1. La povertà urbana come contesto istituzionale: il welfare locale
A partire dagli anni 90 la povertà urbana è stata vista come processo sociale istituzionalmente costruito a livello locale.
Paugam, ha inteso questa prospettiva sottolineando come il sistema di welfare abbia indirettamente un effetto sulla
costruzione sociale dell’immagine del povero, disegnando una linea tra coloro meritevoli del sostegno sociale e coloro
che non lo sono. Questa linea crea dei modelli nazionali di stigmatizzazione sociale, dati non solo dai criteri di eleggibilità
e/o esclusione all’accesso, ma anche dai requisiti che il povero deve mostrare durante il percorso di assistenza.
In Italia si è dato maggior spazio ad un significato più sostantivo di questa declinazione della povertà urbana come
contesto istituzionale, riportandone la scala di osservazione a livello locale. L’altezza della soglia di accesso all’aiuto, la
quantità e la durata di questo aiuto, modellano diversamente la medesima carriera di povertà avvenuta in luoghi
differenti. L’idea è che il processo di decentramento delle politiche sociali porti le istituzioni locali a costruire dei modelli
propri di assistenza sociale, che sono leggibili attraverso le specificità urbane in cui nascono, e contribuiscono anche a
produrre delle carriere di povertà differenti tra le diverse città. In questo senso il welfare locale è parte della comunità
territoriale, incrociando un insieme di attori e di bisogni prodotti dallo specifico contesto locale e rispondendovi più
efficacemente dell’erogazione nazionale. In Italia questo tema è apparso rilevante nell’ultimo decennio data
l’approvazione nel 2000 della legge quadro sull’assistenza sociale e del titolo V della Costituzione che, delegando alle
Regioni la responsabilità in materia, lasciava poi ad ambiti locali la competenza di pianificare ed implementare
l’assistenza tramite lo strumento dei Piani di Zona. La ricerca si è concentrata sulla costruzione di questi strumenti, sulla
capacità di coordinare i diversi attori e di promuovere processi partecipativi che supportino la programmazione dei servizi
sociali nell’aderenza ai bisogni espressi sul territorio. Non a caso i risultati di ricerca si basano sempre sulla
formalizzazione dei processi di governance più che sul raggiungimento degli obiettiviù. Rimane inevaso il grado di
incisività dei Piani di Zona nel contenere il livello di povertà locale, anche perché ci si scontra da un lato con una cronica
carenza di dati affidabili a livello comunale/subcomunale, dall’altro con la mancata definizione di Livelli minimi di
assistenza esigibili, che rende l’erogazione di servizi e contributi non solo estremamente variabile da città a città, ma
anche pericolosamente discrezionale in dipendenza dai processi di pianificazione attivati e dalla disponibilità di risorse
che segue la tradizionale frattura fra comuni del Nord e del Mezzogiorno.
3.2. La povertà urbana come contesto economico: la polarizzazione sociale
Abbiamo già accennato a come la struttura economica influisca sulla povertà condizionando la stratificazione sociale.
Negli stessi anni in cui in Europa si parlava dell’esclusione sociale, nella letteratura anglosassone si è affermato che i
servizi avanzati creassero una struttura occupazionale con un polo di professioni ultra qualificate e un altro di terziario a
basso reddito. L’idea era che una nuova divisione del lavoro sociale, incrementasse la diseguaglianza (e la popolazione a
rischio di povertà). Altri autori hanno contestato questa immagine sostenendo che la città duale nascondesse una varietà
sociale più articolata. Hamnett dimostra che se a Londra vi era traccia di un incremento della disuguaglianza salariale,
non ve ne era invece di polarizzazione professionale. Fu obiettato che in Europa la dualizzazione non compariva nella
stratificazione professionale perché riguardava la dicotomia occupati/disoccupati. Questa dicotomia era estremamente
dipendente dalle condizioni assicurative offerte dai diversi welfare states e quindi non aveva senso immaginare degli
effetti univoci dei processi di ristrutturazione economica (Hamnett). Sono temi congruenti con quello sull’esclusione
sociale, e hanno generato l’idea che esista un modello di città europea che si caratterizza per la capacità istituzionale di
smussare le eccessive disuguaglianze. Anche in questo caso il welfare è centrale nella concettualizzazione della povertà
urbana, ma non lo si intende affatto come componente territoriale bensì come l’elemento istituzionale capace di
modificare la composizione sociale agendo sulla divisione del lavoro sociale post-industriale. La contestualizzazione della
povertà in ambiente urbano si limita a registrare le differenze dei processi di povertà, senza sostenere che siano le città in
quanto tali a produrla. È rimasto dibattuto invece se il modello post-industriale italiano comportasse la creazione di un
nuovo proletariato dei servizi intrappolato nelle occupazioni a basso reddito o se invece la scarsa liberalizzazione ne
abbia impedito la formazione. Anche le ricerche empiriche americane dimostrano come non necessariamente la
concentrazione nei settori terziari dei mercati del lavoro urbani porti ad una polarizzazione salariale, ma come siano
l’assenza di relazioni industriali rigide e le rivoluzioni organizzative all’interno dell’impresa ad alimentare la
segmentazione del mercato del lavoro. Abbiamo visto come le indicazioni generali della letteratura tendano ad
allontanare l’analisi della povertà dalla sola considerazione del reddito, là dove il rapporto con la dimensione
economica passa casomai dalla capacità d’inserimento sul mercato del lavoro. Le politiche di welfare possono favorire
l'occupabilità locale, lasciando ai servizi sociali il reinserimento delle persone multiproblematiche. Il problema segnalato
dal dibattito sulla polarizzazione a livello urbano è invece che i mercati del lavoro post-industriali possono creare
polarizzazioni sociali che includono nella fascia a rischio di povertà anche chi lavora. Ciò però è comprensibile proprio a
partire dalla prospettiva classica sulla povertà. Vediamo ora se questa tesi si applica anche a Roma.
4. Fonti dei dati e metodi
La prima fonte di dati, utilizzata è il Whip del Laboratorio Revelli, estratti tramite un campionamento casuale su un
universo amministrativo noto, pertanto senza problemi di non-response e di bias nella quantificazione del reddito. Su
questi dati abbiamo scelto di calcolare il classico indice di Gini. L’indice è scomposto in una disuguaglianza interna ai
gruppi, una tra i gruppi e in un residuo secondo le indicazioni matematiche di Pyatt. La seconda fonte utilizzata è il
questionario della survey realizzata dall’Osservatorio sul sociale dei Servizi Sociali ad Aprile 2009 su un campione
rappresentativo per zona urbanistica di 1846 famiglie con figli iscritti alle scuole primarie del territorio, presso cui i
questionari sono stati distribuiti. La survey conteneva una serie di domande in parte identiche all’indagine multiscopo
Istat, fra cui la quantità di persone considerabili amiche (per operazionalizzare il livello di esclusione), la qualità e la
quantità degli eventi di difficoltà economica (per operazionalizzare la vulnerabilità). Una domanda, inoltre, chiedeva di
quantificare i consumi mensili (eccettuato il mutuo e gli accantonamenti) con risposta chiusa in scaglioni da 250€. Visto
che l’assenza dei nuclei familiari senza almeno un figlio in età scolare escludeva tutta la fascia più anziana e più giovane
della popolazione, e vista l’imprecisione dell’autodichiarazione dei consumi si è preferito utilizzare una soglia di povertà
interna al campione, per poi applicare la scala di equivalenza Carbonaro e decidere in base a quella il collocamento al di
sopra o al di sotto della soglia di povertà. Ne è uscita una variabile dicotomica, che ho utilizzato come variabile
dipendente in un modello di regressione logistica binomiale. Non potendo garantire che i regressori lineari scelti per
rappresentare le varie dimensioni che influenzano la possibilità di trovarsi in povertà abbiano identica relazione lineare, si
è scelto un modello con una funzione logistica che garantisce che la probabilità p resti entro i valori ammissibili. Il
modello di regressione logistica binomiale esprime in maniera diretta la probabilità in cui p varia quando varia il
regressore. Invece di essere espressi in termini di logit, i coefficienti sono stati espressi in termini di Odd Ratios, che non
esprimono l’effetto diretto del fattore causale sulla variabile dipendente, ma sulla sua probabilità relativa. Gli OR hanno
però il vantaggio di poter misurare l’intensità del fenomeno in termini di probabilità percentuale. In termini di odds sono
espressi anche i valori, che rappresentano il rischio relativo che quel determinato evento abbia generato vulnerabilità in
una famiglia povera, e il medesimo rischio in una non povera. Gli OR Vanno letti cioè come la probabilità relativa (di una
categoria) a sperimentare l’evento. La terza fonte sono i dati amministrativi sui beneficiari di trasferimenti monetari
provenienti dagli uffici Municipali. Abbiamo scelto questo servizio perché la popolazione beneficiata non corrisponde alla
popolazione povera, ma a quella sotto un certo ISEE; i criteri di erogazione sono comunque oggettivi e permettono di
controllare le variazioni intervenute all’interno di quella popolazione
5. Prima della crisi: Modello Roma (a basso reddito)
Roma è uno dei territori più analizzati dalle scienze sociali italiane. Le interpretazioni sociologiche classiche
convergevano verso una sorta di città duale ante litteram, secondo due versioni. Quella di un’emarginazione ed un
isolamento sociale prodotto dello sviluppo distorto, e quella dell’enfasi sull’antagonismo prodotto da quella stessa
emarginazione. Negli ultimi dieci anni la Capitale è tornata al centro dell’attenzione, ma in termini capovolti rispetto agli
anni Settanta. Secondo le letture correnti il mercato del lavoro avrebbe superato la dipendenza dal settore pubblico per
crescere grazie allo sviluppo del terziario avanzato in linea con le altre metropoli ex-industriali, e lo sviluppo fisico della
città avrebbe seguito una direzione policentrica in grado di riconsegnare equilibrio alla Capitale. Questi punti hanno però
poco riscontro. A Roma la professionalizzazione del mercato del lavoro e le mansioni più elevate continuano ad essere
legate al settore pubblico. I dati indicano che la crescita del terziario che ha garantito la crescita occupazionale degli anni
duemila è un misto di servizi al consumo che offrono professioni dequalificate, e servizi all’impresa avanzati che sono
interconnessi alle spese per acquisti della pubblica amministrazione. Se è vero infatti che il numero assoluto di addetti
alla PA è destinato a scendere, per via dell’austerità fiscale, quello che più importa è il mutamento qualitativo avvenuto
nella PA a partire dalla fine degli anni Novanta con l’aziendalizzazione di molte sue unità, che ha ripercussioni più
importanti per il mercato del lavoro romano del mero numero degli impiegati pubblici. Infatti le modalità di gestione degli
appalti e delle assunzioni hanno provocato una riformulazione dei confini tra segmenti centrali e periferici, simile a ciò che
è stato chiamato marketization del settore pubblico con una divaricazione tra professionisti in grado di accedere al
«mercato» degli incarichi e delle consulenze da un lato, e i lavoratori delle ditte in appalto che soffrono la compressione
dei costi dall’altra. A questo primo cambiamento ne va aggiunto un secondo, più facilmente registrabile. In vista del
Giubileo il centro è stato sottoposto ad un rinnovamento che insieme ad efficaci politiche culturali ha raggiunto l’obiettivo
di trainare l’industria turistica. Come è stato notato però (Judd e Fainstein), il modello produttivo della città turistica
essendo centrato su un settore a bassa produttività, in assenza di un forte sistema redistributivo, comporta sostenuti
livelli di diseguaglianza in linea con il profilo di ristrutturazione urbana previsto nelle città globali, che basano la loro
polarizzazione su altri settori. In più essendo un modello produttivo basato su una domanda esogena tende a sviluppare
inflazione indipendentemente dalla forza della domanda interna. Il primo fattore ha effetto sulla povertà relativa, il
secondo su quella assoluta. Se in virtù di queste considerazioni analizziamo la disuguaglianza a Roma prendendo i dati
sui salari dei lavoratori dipendenti nelle imprese di Roma dal 1993 al 2004 troviamo che la disuguaglianza salariale è
aumentata ben prima della crisi creando molti potenziali lavoratori poveri.
Prendiamo in considerazione il salario annuale dei lavoratori dipendenti del settore privato a prescindere dai giorni
lavorati (La disuguaglianza salariale, deve essere ovviamente controllata per qualifica e a parità di durata della
prestazione erogata, ma siamo qui interessati alla sussistenza dei lavoratori come se il reddito da lavoro fosse la loro
unica fonte di sostentamento). In virtù dell’importanza del lavoro intermittente abbiamo misurato la disuguaglianza tra i
lavoratori prendendo in considerazione tre gruppi: gli stabili, coloro che hanno lavorato nello stesso anno per più di
un'azienda, e coloro che hanno lavorato per la stessa azienda per meno di 230 giorni. Se si analizza l’indice di Gini
scomposto nella disuguaglianza individuale e in quella tra i gruppi presi in considerazione, si vede come è proprio la
disuguaglianza tra i gruppi a dare il maggior contributo all’aumento della disuguaglianza generale, insieme a quella quota
di disuguaglianza (overlap) che può essere interpretata come l’area di sovrapposizione tra gli ultimi individui del gruppo
dei lavoratori stabili e i primi dei due gruppi di precari dove giovani e donne sono la maggioranza. Una sovrapposizione
che cresce con l’incremento della diseguaglianza interna ai gruppi.
Inoltre, durante gli anni 90 Roma ha sempre avuto un differenziale inflattivo superiore al resto d’Italia. Questo ha
significato per le famiglie un’erosione del potere d’acquisto del 19,3%, che è poi continuata provocando una progressiva
espulsione delle famiglie a basso reddito sia italiane che straniere nei comuni metropolitani. Prima della crisi vi è stato
un aumento delle occasioni di lavoro a basso reddito, sostenute dall’aumento del consumo privato e pubblico.
Questo modello di polarizzazione sociale si differenzia da quello anglosassone sia per la funzione di integrazione al
reddito svolta dai nuclei familiari, che consente alti tassi di inattività, sia per l’aumento di reddito molto contenuto dei
lavoratori in cima alla piramide distributiva. C’è da aspettarsi che i tagli alle spese e il blocco delle assunzioni nella PA
avranno pesanti conseguenze su questo assetto, si bloccherà la principale fonte di reclutamento dell’impiego stabile, e
l’impiego occasionale perderà occasioni di lavoro, scatenando una diminuzione complessiva dei redditi da lavoro formale.
6. Roma dopo la crisi
Questo è il quadro di ristrutturazione metropolitana in cui si cala il nostro studio di caso, dissimile dal caso milanese
principalmente per il diverso ruolo che il settore pubblico gioca a Roma. L’austerità fiscale non ha imposto tagli
occupazionali al settore pubblico, che però non ha più potuto giocare il ruolo di «moltiplicatore del mercato del lavoro».
Dopo la prima fase di crisi le ripercussioni erano pertanto inevitabili. Effettivamente il mercato del lavoro di Roma cambia
totalmente volto ed i più colpiti sono i giovani adulti il cui tasso di disoccupazione passa dal 15,8 nel 2007 al 23,4 nel
2011, pur a fronte di un aumento del tasso di inattività, creando nella fascia giovanile un’amplissima area di esclusione
dal mercato del lavoro. Questa area, nella città che ha la più alta incidenza di laureati in Italia è probabilmente composta
in parte di attesa, ma nei suoi strati più bassi rappresenta un’inoccupazione, che rischia di trasformarsi in disoccupazione
di lunga durata e successiva inoccupabilità. A fronte di questa situazione sul mercato del lavoro, i dati sulla povertà Istat
ci indicano che nel Lazio, non sembrano esserci effetti sull’incidenza della povertà. Certamente però l’ulteriore aumento
del costo della vita e la mancanza di occasioni di reddito, metteranno a dura prova la capacità degli occupati stabili di
sostenere il reddito degli altri membri familiari. È prevedibile che una parte del lavoro intermittente che si è diffuso negli
anni della crescita rientri nel sommerso. Del resto era stato previsto che mercati del lavoro urbani basati solo su
economie di agglomerazione fossero dei modelli di sviluppo largamente instabili. Chiarito che la disoccupazione è tornata
ad essere un problema centrale, controlliamo se essa tende a comportare problemi cumulativi come implicito nell’ipotesi
di esclusione sociale.
7. La povertà urbana nel XIII Municipio di Roma
Il territorio che analizzeremo è il Municipio 13, estrema periferia sud di Roma, posta interamente fuori dal raccordo, è un
distretto composto di 10 zone urbanistiche tra loro molto differenziate. Al suo interno si trovano riprodotte tutte le tipologie
dello sviluppo urbano di Roma: l’edilizia di lusso di Casal Palocco (per ceti di elevata estrazione sociale); l’edilizia
cresciuta disordinatamente con nicchie di autocostruzione dell’Infernetto; le zone di recente costruzione intorno al
Raccordo nell’area di Malafede; le ex borgate nate ai tempi del fascismo ancora deprivate in termini di servizi; e poi sul
litorale il nucleo urbano compatto di Ostia, con funzioni turistiche durante i mesi estivi. Negli anni Ottanta, il suo nucleo
popolare di Ostia ponente ha attraversato un periodo di stigmatizzazione comune a tutte le aree che ospitavano edilizia
pubblica, ma aggravato da una presenza visibile del problema della tossicodipendenza che portò la USL ad aprirvi uno
dei primi SERT di Roma. Ultimamente è sottoposto a profonde trasformazioni dovute in parte all’arrivo di popolazione
straniera in linea con il trend metropolitano, in parte alla crescita del mercato immobiliare che ha riguardato tutta la città. Il
centro di Ostia e tutti i nuclei abitativi intorno alla linea di ferrovia leggera che collega il litorale al centro di Roma hanno
innalzato la loro rendita dopo l’abbassamento dei tassi d’interesse alla fine degli anni Novanta. Dopo questa prima parte
del ciclo immobiliare in cui i valori del 13 Municipio si innalzano dal 25% al 50%, la zona intorno al raccordo, similmente a
quanto accaduto in altri quadranti di Roma, è stata soggetta ad una forte espansione di edilizia privata che ha generato
offerta a prezzi molto elevati, attirando nuova popolazione e aggravando l’emergenza abitativa. Quali sono le
caratteristiche della popolazione povera in un contesto di così forte cambiamento? I nuclei familiari sotto la soglia
di povertà risultano essere il 7,4 %. Una cifra al di sotto della soglia nazionale dell’11%. Le peculiarità del nostro
campione, che esclude alla fonte la fascia degli anziani soli, lascia pensare che la popolazione povera del Municipio sia
ben superiore alla media regionale. Il primo indicatore da analizzare per tentare una descrizione è l’incidenza della
povertà rispetto alla numerosità del nucleo familiare. Questa cresce esponenzialmente a partire dal quinto componente.
Vi è quindi la classica correlazione inversa tra numero di figli e stato di benessere, anche se la povertà cresce meno
velocemente che in altri contesti, con l’allargarsi della famiglia: il 28% di incidenza in più si verifica solo oltre il sesto
componente. Solo il 10,7% delle famiglie povere risulta avere un capofamiglia disoccupato, confermando che anche nel
13 Municipio ci troviamo di fronte ad una povertà non dipendente dalla quantità di occupazione. Alla luce di questa
evidenza analizziamo pure l’intensità di povertà, ovvero l’altro indicatore che dà la caratterizzazione del fenomeno.
Espressa in percentuale sul monte consumi, essa in media è del 26% (il dato nazionale è 20%), mentre per numerosità
del nucleo familiare, assume la forma di una U rovesciata e, per i motivi appena spiegati, assume valori molto sopra la
media soprattutto nei nuclei numerosi.
L’intensità della povertà per nuclei di due persone è più profonda di quella dei nuclei di 3/4 persone. I nuclei di due
persone presi in considerazione sono nuclei monogenitoriali, ma misurato sull’interezza del campione il loro consumo
pro-capite non è il più basso tra le varie tipologie familiari. Proviamo a capire se la tipologia familiare sia influente nel
trovarsi in stato di povertà. Stimiamo un modello di regressione logistica per verificare l’effetto di alcuni fattori sulla
possibilità di trovarsi al di sotto della linea di povertà. Esaminiamo cinque dimensioni: la tipologia familiare per controllare
l’incidenza dei nuclei atipici; la nazionalità per controllare lo svantaggio relativo dei non-italiani, lo stato occupazionale per
verificare le ipotesi dell’inclusione sociale; lo stato abitativo per verificare l’importanza della disuguaglianza nella
dimensione abitativa; il numero di persone considerate amiche nel palazzo, per verificare l’isolamento sociale.
Le modalità statisticamente significative sono tre. In primo luogo l’essere disoccupati, che si conferma il predittore più
solido della povertà. I disoccupati hanno il 125% di probabilità in più di essere poveri. Secondariamente la proprietà
dell’abitazione, a parità di condizione, protegge dal rischio povertà. La nazionalità non sembra esercitare nessun effetto
particolare. I nuclei monogenitoriali risultano avere il 62% di probabilità in più di essere poveri, ma c’è da dire che questo
effetto non è statisticamente significativo e scompare controllando per l'anzianità residenziale. Infine, non c’è
cumulazione tra l’esclusione dal mercato del lavoro e quella sociale poiché il numero di persone considerate amiche nel
vicinato non esercita alcun effetto, anche se le persone che vivono in case monofamiliari hanno una propensione alla
povertà statisticamente significativa e maggiore persino dei disoccupati. È un effetto spurio spiegabile con lo sviluppo
urbanistico del territorio che ancora deposita nell’edilizia auto costruita abusivamente molto più disagio di quello
concentrato nei condomini E.R.P. Indaghiamo adesso il rapporto che esiste tra la deprivazione e la vulnerabilità
(usando come indicatore il numero e il tipo di occasioni in cui la famiglia si è trovata in stato di disagio economico
percepito). L’incrocio tra il numero di situazioni di disagio economico percepito e lo stato di indigenza mostra come i
poveri si distanzino dalla media della popolazione soprattutto perché sono esposti costantemente a episodi che li
rendono vulnerabili. È interessante però vedere come si distinguano nettamente le cause di fragilità in base al profilo
di indigenza. Tra gli eventi economici, quelli legati al reddito insufficiente e alla perdita del lavoro caratterizzano i poveri.
Tra gli eventi riguardanti il lavoro autonomo è nettamente più probabile che il mancato avvio di un’attività propria
coinvolga una famiglia povera. Il rischio di sfratto colpisce leggermente di più i poveri che però sono rispetto ai non poveri
molto più protetti da un fallito acquisto di abitazione. Gli eventi familiari si differenziano solo per quanto riguarda il
divorzio, che rappresenta una causa di difficoltà lievemente maggiore per i poveri. Indagando il Capitale Sociale utilizzato
in questi eventi di difficoltà, i poveri si differenziano non tanto per aver ricevuto un minor supporto, ma per esser loro
mancato il supporto dei legami forti familiari (Genitori e Suoceri).
8. L’assistenza sociale nel Municipio 13 dopo la crisi
Nel 2008 il Municipio 13 è stato interessato dalla crisi della ex compagnia aerea di bandiera. La sua contiguità al comune
sede dell’aeroporto fa sì che una quota del personale di volo e di terra lo abbia scelto come residenza. Attualmente il 13
Municipio è una periferia che mantiene numerosi problemi sociali, dalla disoccupazione maggiormente segregata e più
alta della media romana, alla percezione di un tasso di criminalità ancora più elevato di quello reale, ma con una
prospettiva di ulteriori investimenti economici ed edilizi se si dovessero realizzare i progetti di investimento che vogliono il
litorale il secondo polo turistico di Roma. Il paradosso però è che tali investimenti, oltre ad essere resi difficili dalla
scarsità di capitali, sono basati su un modello di sviluppo che abbiamo visto dimostrare la sua fragilità occupazionale in
occasione della crisi. Tentiamo in questo quadro di analizzare ora i primi effetti della crisi a livello locale, e se i
cambiamenti descritti a livello del mercato del lavoro abbiano una ripercussione in termini di crescita dei bisogni sociali.
La nostra fonte stavolta saranno i dati amministrativi dei Servizi Sociali. Dalla riforma della fine degli anni Novanta i
servizi sociali romani si costituiscono infatti in unità territoriali Municipali (dette UOSECS) e, alla vigilia dell’applicazione
della l.328, riorganizzano l’intervento abbandonando i criteri di allocazione di tipo categoriale (disabili, minori, stranieri...)
e ripartendo l’erogazione di servizi in un primo livello di segretariato sociale di tipo universalistico ed in un secondo livello
d’intervento integrato. Gli accessi al segretariato sociale durante gli anni della crisi sono aumentati significativamente dai
1918 del 2007 ai 3638 del 2011, con un trend di aumento continuo. A questo aumento dell’utenza corrispondono dei
cambiamenti nella sua composizione. Il maggior contributo all’aumento di accessi nell’ultima più intensa fase della crisi lo
hanno dato gli stranieri che arrivano al 21,1% degli accessi al segretariato sociale, pur rappresentando il 10,4% dei
residenti. Viste le peculiari caratteristiche della popolazione immigrata, il cambiamento di nazionalità degli utenti ha
ovviamente un effetto sulla composizione sia anagrafica che familiare degli accessi: la fascia d’età dai 18 ai 40 anni è
diventata la seconda fascia d’età più significativa (dopo 41-64). Per quanto riguarda le caratteristiche familiari
l’incidenza dei nuclei familiari con almeno un minore a carico passa dal 21,6% del 2007 al 41,3% del 2011. Il
cambiamento della composizione sociale degli utenti del segretariato sociale non è un indicatore diretto di difficoltà
economica, visto che le UOSECS territoriali offrono servizi non necessariamente connessi alla deprivazione di reddito. I
trasferimenti monetari contro il disagio sono regolati a Roma dalla deliberazione 154 del 1997, che lascia ai Municipi la
scelta di definirne le modalità di erogazione. Il contributo economico nel Municipio 13 non deve essere richiesto
preventivamente al segretariato sociale, ma viene attribuito secondo una graduatoria dai punteggi prefissati da un
regolamento municipale, che prende in considerazione 6 dimensioni (reddito, proprietà di veicoli, situazione abitativa,
situazione sanitaria, tipologia nucleo familiare, iscrizione a percorsi formativi). I contributi economici vengono assegnati a
3 categorie (anziani, minori e adulti), ognuna delle quali ha un punteggio base diverso. La ripartizione del numero di
assegni erogati tra le tre categorie dipende però in ultima istanza dai fondi di bilancio, stabiliti dagli organi politici del
Municipio. Le domande per contributi economici non solo aumentano più degli accessi in generale, ma vanno a costituire
quasi la metà dell’utenza negli ultimi due anni di crisi. Per quasi tre quarti le utenti a essere eleggibili di un contributo che
si sono rivolti al segretariato sono donne. La proporzione di stranieri richiedenti aumenta di quasi dieci punti percentuali
(fino al 26%) negli anni dal 2008 al 2010, mentre l’età media dei richiedenti scende al crescere del numero assoluto. I
nuovi richiedenti sono quindi in prevalenza adulti/e non anziani con carico familiare. L’altro contributo economico è il
contributo alloggiativo, che copre una quota parte del canone d’affitto per quegli utenti (prioritariamente sfrattati) che
sono in grado di procurarsi un contratto sul mercato degli affitti. Si tratta quindi di quegli utenti che costituiscono lo strato
superiore dell’emergenza abitativa romana e non sono costretti a ricorrere al sistema di residence gestito direttamente
dal gabinetto del Sindaco e dal Dipartimento centrale delle politiche abitative. A fronte di questo vertiginoso aumento
della domanda di adulti in difficoltà il Municipio è riuscito ad aumentare l’ammontare dei 2 trasferimenti economici. Anche
tra le categorie eleggibili x il contributo economico ci sono stati significativi cambiamenti, aumentati i contributi per minori.
9. Conclusioni
1 obiettivo di questo articolo era di definire i tratti della povertà in un preciso contesto urbano verificando alcune
categorie. Il quadro della povertà che esce dal nostro studio di caso si apparenta all’immagine della povertà meridionale,
e si confronta con i concetti degli anni 90. Da una parte l’opportunità di guardare al disagio nelle sue dimensioni multiple
è confermata; ad esempio dalla capacità di protezione dalla povertà che fornisce il possesso dell’abitazione. La bolla
immobiliare costruita prima della crisi lascia una nuova povertà abitativa connessa con la dimensione occupazionale.
Inoltre la straordinaria forza di predizione della povertà che possiede la disoccupazione, richiama la categoria di
esclusione sociale, senza che però questa si accompagni a caratteristiche demografiche particolari (di nazionalità o
tipologia familiare), né a conseguenze di isolamento sociale in termini di relazioni forti. Le famiglie della nostra periferia
sembrano «normalmente» deboli sul mercato del lavoro con uno scarso supporto dalle loro reti familiari, il che le rende
particolarmente vulnerabili – in primo luogo alla precarietà lavorativa – facendole scivolare nella povertà. Questa
considerazione ci porta al nostro secondo interrogativo di ricerca. Non abbiamo indagini longitudinali che ricostruiscano le
condizioni delle famiglie della nostra periferia, e ci possiamo affidare solo all’insieme dei nostri dati cross-section su
reddito, disoccupazione e aumento della domanda ai servizi sociali per formulare quella che però, appare come qualcosa
di più di un’ipotesi vaga. L’economia del consumo del terziario romano ha creato una forma specifica di polarizzazione
sociale del mercato del lavoro con un aumento dei lavoratori instabili. Questo settore della domanda di lavoro ha prodotto
una mole significativa di occasioni di reddito per le fasce deboli del mercato del lavoro, le stesse a rischio povertà nel
nostro campione. Dal nostro caso sembra che i mercati del lavoro metropolitani non siano in grado di trovare un modello
di sviluppo che sostituisca il terziario precario che ha alimentato la crescita di alcune città negli anni 2000. Con la crisi
queste occasioni di reddito sono venute meno trasformandosi in disoccupazione, con quanto ne consegue in termini di
aumento della povertà, soprattutto nel caso dei lavoratori stranieri, che più facilmente rispetto ai giovani italiani hanno
carichi familiari. L’aumento di domanda ai servizi sociali riguarda infatti soprattutto giovani adulti stranieri, che dalla nostra
survey risultano essere i più precari. Con questo veniamo al terzo obiettivo di ricerca che riguardava come il welfare
locale ha reagito alla crisi. I servizi sociali, vista l’impossibilità di una risposta organica alla povertà esistente e a quella
montante come conseguenza della crisi, hanno risposto concentrando le poche risorse disponibili nella prevenzione di
ulteriori casi di emergenza abitativa che trascinassero altri nuclei nel disagio estremo. Sono stati aumentati, per quanto
possibile i fondi di sostegno all’affitto. È una strategia di assistenza selettiva che si basa sulla scarsità di risorse e non
sulla soggettivizzazione del trattamento, e il cui equilibrio al ribasso sarà presto spezzato dalle ripercussioni dell’ulteriore
ciclo di austerità fiscale. A Roma la palpabile sensazione di inefficacia dei servizi sociali nell’affrontare gli effetti dei primi
anni di crisi sembra quindi essere data dall’incapacità di affrontare l’aumento della domanda, anche senza fronteggiare
un taglio delle risorse. Il che dimostra una debolezza nel rispondere ad alcune caratteristiche strutturali del disagio, che
affonda le sue radici nel cronico sottofinanziamento della lotta alla povertà antecedente alla crisi.
Dalle politiche sociali all’algoritmo: le app per la salute come agenti
di medicalizzazione
di Antonio Maturo, Veronica Moretti e Flavia Atzori
1. Introduzione
La mattina del 9 novembre 2016 milioni di americani si svegliarono in stato di shock a causa della vittoria di Trump su Hillary Clinton.
Per molti, su Facebook non vi era stato nessun segno di un esito del genere. Opinioni degli «amici», siti consigliati, news nulla lasciava
presagire la vittoria di Trump. Per certi versi, questo è comprensibile: per lo più abbiamo «amici» simili a noi (fenomeno dell’omofilia).
Inoltre, l’algoritmo di Facebook, sulla scorta dei dati che produciamo (like, post, condivisioni) ci costruisce una realtà che sia in linea
con i nostri desideri, che filtra le informazioni secondo le nostre preferenze rafforzando così le nostre convinzioni di base (filter
bubble, echo chamber).
In un episodio del serial Black Mirror viene raccontato un mondo distopico nel quale è il sistema a decidere la durata delle relazioni
amorose. Si tratta di una sorta di app che fa incontrare due persone e stabilisce la durata della loro relazione. A seconda di come noi ci
comportiamo durante ogni rapporto ci viene fornito il partner successivo. Sulla base della nostra storia dei rapporti amorosi collezionati
attraverso la app, il sistema, in un’ottica di machine learning, ci fornirà, quando avrà immagazzinato le informazioni necessarie, il
nostro partner ideale e finale, senza scadenza.
Se vogliamo comprare un biglietto aereo a un buon prezzo ci conviene prendere alcune misure. Ad esempio, conviene farlo la
domenica attraverso il cellulare in periferia. Infatti se lo acquistiamo mentre siamo in centro il prezzo è più alto: area dove il reddito
medio è elevato e gli orari sono quelli di ufficio, il prezzo dipende da un algoritmo.
Questi esempi ci fanno comprendere l’importanza degli algoritmi oggi. La facilità con cui si raccolgono dati e l'enorme mole di dati che
possiamo immagazzinare su qualsiasi cosa in ogni dimensione della vita. Giocoforza algoritmi, big data, pratiche di sorveglianza
rivestono un ruolo molto importante anche nella salute.
2. Self-tracking e salute tra quantificazione e gamification
L’interesse della sociologia alla pratica di self-tracking, e più precisamente al fenomeno del quantified self, è stabile,
vista la diffusione. Il self-tracking: misurazione delle attività e abitudini quotidiane attraverso la quantificazione di ogni
azione/condizione realizzata mediante nuovi e sempre più sofisticati dispositivi tecnologici. Contare i passi, riportare dove
spendiamo i nostri soldi sono solo alcuni esempi di attività di monitoraggio. Questa pratica viene realizzata attraverso le
app e i wearable devices che, attraverso funzioni e sensori diversi, immagazzinano le informazioni collezionate. Una
volta raccolti, i dati vengono trasformati in grafici che riassumono statisticamente l’andamento del nostro stile di vita. Con
il self-tracking, la persona ottiene 1 «radiografia», “oggettiva”, delle sue attività, condizioni fisiche, emotive, fisiologiche.
La produzione, l’elaborazione e l’analisi di grandi quantità di dati (big data) avviene anche a livello individuale.
La possibilità di descriverci attraverso i numeri sembra essere perfettamente in linea con la società attuale, interamente
permeata da indicatori statistici. Solo negli ultimi anni la sociologia ha affrontato il tema della quantificazione della vita
quotidiana. Espeland e Stevens propongono addirittura di creare una sociologia della quantificazione – poiché esso
«include non soltanto la statistica propriamente detta, ma anche la contabilità gli indicatori di performance, i ranking, e gli
strumenti quantitativi del New Public Management (NPM)». Classifiche, analisi costi-benefici e audit sono ad oggi
ritenuti necessarie per amministrare le politiche pubbliche e le numerose forme di quantificazione, dal calcolo
probabilistico alla contabilità. In breve, la quantificazione è divenuta oggi un tratto caratterizzante tutte le società
moderne. L’attenzione della sociologia digitale al fenomeno della quantificazione si lega al fatto che l’utilizzo di standard
numerici e di indici si è diffuso anche in un'ottica individuale di gestione delle proprie attività attraverso il self-tracking e la
quantificazione della vita quotidiana. La quantificazione mette a disposizione degli attori sociali la possibilità di misurare il
proprio «tasso crescita» in numerose dimensioni (la sfera lavorativa, la salute, la popolarità etc.) utilizzando indicatori
standard di performance e prestazioni.
Adottando una prospettiva Science, Technology, Society notiamo come i numeri «si trasformano da prove a sostegno
di fatti scientifici a fatti scientifici «pronti per l’uso», che si presentano come entità oggettive. In altri termini, i numeri sono
dotati di agency poiché, allo stesso tempo, producono e ci fanno produrre fatti.
L’arena della salute si è mostrata fin da subito altamente recettiva alle pratiche di auto-monitoraggio, tanto che numerosi
autori si sono occupati di analizzare il quantified-self in relazione alla salute. Da un lato, la tendenza a quantificare
sintomi e fattori di rischio può determinare la creazione di standard di salute e, dunque, favorire la sorveglianza delle
condizioni di salute della popolazione valutando i dati che vengono raccolti. Dall’altro lato, la possibilità di raccogliere
informazioni sulle condizioni individuali di salute alimenta un ruolo attivo del soggetto, sia nella gestione della malattia sia
nel rapporto con il medico. Per questo, il mercato della e-health si amplia di anno in anno, mettendo a disposizione dei
cittadini numerose app mediche. La pratica di quantified-health può anche essere interpretata come un’opportunità per
l’utente di «vedere l’invisibile», di portare alla luce aspetti sommersi e di far emergere informazioni accurate che ci
descrivono il nostro stato di salute, non catturabile «ad occhio nudo». Per questo, la raccolta di alcune informazioni
sanitarie può giovare alla gestione individuale e sociale della malattia. Individualmente il soggetto diviene più
responsabile e informato rispetto alle proprie condizioni; socialmente possono essere ridotti i costi sanitari. Il self-tracking,
per certi aspetti, può essere considerato una sorta di medicina preventiva, poiché può essere utilizzato per il
miglioramento degli stili di vita per prevenire il manifestarsi della malattia. Le nuove tecnologie possono essere impiegate
in vari momenti della salute. Da una fase preventiva ( monitoro x incrementare benessere fisico), a fase diagnosi a una
fase di gestione della terapia, specialmente nei casi di cronicità (diabete e Alzheimer per fare alcuni esempi).
La raccolta dei dati di natura medica, unita alla promozione di un utilizzo «scientifico» dei numeri in ambito sanitario, si
lega ad una pratica, oggi largamente diffusa: la gamification: una strategia che ha lo scopo di rendere divertenti pratiche
che di per sé sarebbero noiose, viene utilizzata principalmente in contesti lavorativi, in cui competizioni tra colleghi e gare
con premi finali mirano ad aumentare la produttività del dipendente. Ad esempio, sono state create numerose app per i
bambini che soffrono di diabete di tipo 1, in cui premi e mostriciattoli (che rappresentano l’avatar del diabete) rendono
meno impegnativa la raccolta di dati (livello di glucosio, pasti consumati e il numero di carboidrati assunti).
3. Le app come agenti di medicalizzazione (attraverso quantificazione e gamification)
La medicalizzazione è definita da Conrad come il processo attraverso il quale un problema fino a quel momento non
medico viene definito e trattato come se lo fosse, utilizzando categorie tipiche della sfera medica. Numerose condizioni
umane, un tempo considerate «normali» o interpretate attraverso altre categorie rispetto a quelle tipiche della medicina,
sono oggi medicalizzate, si pensi ad esempio all’ADHD, all’invecchiamento o alla sessualità. L’interesse sociologico sul
tema non è nuovo. Quando Ivan Illich scriveva di iatrogenesi sociale si riferiva alla trasformazione, da parte della
medicina, di problemi sociali in problemi di natura biologica. Foucault sosteneva come la medicalizzazione indefinita
fosse una delle principali caratteristiche della società disciplinare. In altre parole, volendo utilizzare la triade Disease,
Illness e Sickness (disease: malattia rappresentata e definita a livello bio-medico; illness: modo in cui soggetto vive ed
interpreta la malattia; sickness: modo attraverso cui la malattia è interpretata a livello sociale), la medicalizzazione può
essere vista come una dominanza della sfera del disease sulle altre due componenti della malattia.
Tradizionalmente le cause della medicalizzazione erano attribuite alla dominanza professionale medica, oggi invece si è
concordi nel sostenere che la medicalizzazione sia promossa da diversi agenti, quali la tecnologia, l’industria
farmaceutica, il sistema delle cure e gli stessi consumatori. Infatti, i sempre più sofisticati strumenti tecnologici
consentono di identificare condizioni che, a seguito di tale identificazione, sono diagnosticate e sottoposte a trattamento
medico in quanto fattori di «rischio». L’industria farmaceutica spesso «scopre» nuove malattie, proponendo allo stesso
tempo i farmaci adatti al trattamento di queste nuove patologie (disease mongering). Anche il sistema organizzativo
delle cure contribuisce ad alimentare il processo di medicalizzazione: ad esempio, considerare la depressione come una
condizione causata da un malfunzionamento dei recettori biochimici, farà propendere il sistema sanitario a coprire i costi
di una terapia farmacologica rispetto ad un più dispendioso percorso di psicoterapia. Infine, gli stessi consumatori
possono essere considerati agenti promotori del processo di medicalizzazione in quanto «vogliamo essere sempre più
sani, belli e performanti» e siamo sempre più inclini ad utilizzare una terminologia di natura medica per definire la nostra
condizione di salute. Nell’ambito delle analisi rivolte agli agenti promotori della medicalizzazione, riteniamo che sia
opportuno mostrare come le app per la salute giochino in tale processo un ruolo rilevante. A seguito della sempre
maggiore diffusione di dispositivi mobili, infatti, negli ultimi tempi è stata rivolta un’attenzione particolare al fenomeno della
mobile Health (dispositivi per il monitoraggio dei pazienti, assistenti digitali personali (PDA), ed altri dispositivi wireless:
m-Health), che suscita un certo interesse per i suoi risvolti in ambito sociale e sanitario. Tra le app per la salute, quelle
per l’autodiagnosi rappresentano un esempio molto pertinente di medicalizzazione attraverso la quantificazione. La
diagnosi è lo strumento che la medicina utilizza per tracciare i confini della propria competenza, è quindi strumento di
medicalizzazione poiché «ciò che prima era un malessere, [attraverso la diagnosi] diventa un disease». Allo stesso
modo, sempre più spesso il processo diagnostico si serve di evidenze tecnologiche e di logiche quantitative. Il DSM
(Manuale Diagnostico e Statistico per i Disturbi Mentali) è un esempio di come oggi la salute mentale venga espressa
attraverso dati numerici. La salute mentale è perciò una delle sfere più medicalizzate, poiché si possono valutare stati
emotivi senza il supporto di evidenze di tipo tecnologico: la malattia mentale non può essere identificata con una
ecografia, è in un certo senso invisibile. La diagnosi di uno stato di salute mentale si basa sui sintomi percepiti dal
soggetto e dichiarati al medico. Per quanto riguarda il disturbo depressivo, ad esempio, il DSM-V indica che esso può
essere diagnosticato se in un lasso di tempo di due settimane sono presenti almeno cinque dei nove sintomi indicati dal
Manuale come caratterizzanti la malattia. È in questo modo che, in assenza di dati «visibili», il DSM si serve
dell’apparente oggettività del dato numerico per legittimare il processo diagnostico. Inoltre, la logica del dato numerico,
supportata da elementi di gamification che alleggeriscono la complessa gestione di calcoli ed elaborazioni, rende
estremamente semplice effettuare un’autodiagnosi attraverso le app per la salute mentale. L’app permette di visualizzare
il proprio stato psicofisico in un diagramma e di percepire il proprio livello di salute in termini «scientifici» e
apparentemente «oggettivi». Si realizza qui quella che Conrad definisce «medicalizzazione concettuale» ovvero la
narrazione in termini medici di ciò che non è (ancora) uno stato medico. Tra le app per il benessere, che hanno in
comune l’obiettivo di incentivare l’utente a migliorare i propri stili di vita controllando ad esempio lo svolgimento
dell’attività fisica o il numero di calorie assunte, quelle per il controllo e la perdita di peso rappresentano un caso
particolarmente pertinente rispetto alla medicalizzazione e individualizzazione di problemi sociali. Il sovrappeso è infatti
spesso definito in termini biomedici, attraverso la patologizzazione non solo della condizione di salute ma anche delle
abitudini alimentari alla base della stessa. Le app per la perdita di peso sembrano alimentare questa tendenza,
rappresentando il sovrappeso come un problema di natura individuale e la perdita di peso come un obiettivo da
raggiungere attraverso la motivazione e la buona volontà del singolo individuo. La logica con cui sono costruite le app per
il dimagrimento rafforzano la concezione di sovrappeso come un problema di natura medica. Molte di queste app, infatti,
permettono di raggiungere l’obiettivo di dimagrimento attraverso la misurazione e la raccolta di dati relativi a calorie
assunte, attività sportive svolte, calcolo dell’indice di massa corporea – senza alcun riferimento al contesto sociale del
soggetto. Anche in questo caso la quantificazione è quindi centrale per la definizione della condizione di salute
individuale. Il Quantified Self incarna un’ontologia cartesiana in cui la mente controlla fermamente il corpo, sulla base
della conoscenza dei numeri che ne descrivono l’andamento. La mente, e quindi la volontà, agisce e modifica le
prestazioni del corpo grazie ai dati del self tracking.
La medicalizzazione degli stati di salute psico-fisica si realizza attraverso le app lungo due dimensioni interconnesse:
quantificazione e gamification. La prima promuove il discorso di tipo medico-scientifico, mentre la seconda alleggerisce
il compito di raccolta ed elaborazione dei dati. In questo modo le app rendono accessibile ed estremamente semplice per
gli utenti diagnosticare, gestire e definire con un linguaggio biomedico la propria condizione di salute psico-fisica.
4. Algoritmi di salute e sorveglianza digitale
Le enormi moli di dati personali che si possono raccogliere attraverso il self-tracking possono essere condivise con
organizzazioni che, grazie ad algoritmi sofisticati, in tempi rapidissimi possono elaborarli, analizzarli e valutarli a seconda
dei propri scopi. In tal senso, gli algoritmi agiscono come dispositivi di sorveglianza «soft» sulle nostre abitudini, stili di
vita e persino sulla nostra fisiologia. Secondo Stiegler, la società «iperindustriale» è dominata da automatismi che
sfruttano le tracce digitali lasciate dagli individui. Addirittura, in questa società «dell’ipercontrollo», la sorveglianza digitale
rende possibile non solo il controllo in remoto degli individui che compongono i network, permette pure di «teleguidarli».
Dalla prospettiva dell’organizzazione delle cure, il self-tracking dischiude la possibilità: «di migliorare il risk management e
le conoscenze riguardo alla salute e alla malattia, stimolando così uno spostamento dall’esclusiva dipendenza verso i
professionisti sanitari a un modello di health management fondato sulla prevenzione». Alcuni studiosi sono
particolarmente entusiasti rispetto alle promesse della m-Health. Tra questi Eric Topol è senz’altro il più «vocal». Nel suo
volume, The Patient Will See You Now: The Future of Medicine Is in Your Hands, fornisce un impressionante numero
di esempi su come lo smartphone e le app contribuiranno a migliorare la nostra salute. Con lo smartphone tramonta l’era
del paternalismo medico e si dischiude un tempo caratterizzato dalla «democratizzazione della medicina». Presto saremo
noi «consumatori» i protagonisti della gestione della nostra salute grazie agli innumerevoli dati che possiamo raccogliere
ed elaborare sui nostri corpi, comportamenti e stili di vita. Potremo condividere in tempo reale le nostre informazioni di
salute con i medici che sceglieremo in base al loro punteggio nei ranking clinici. A loro volta, i medici, grazie alla
Evidence-Based Medicine e a sofisticati algoritmi, potranno elaborare i nostri dati e così intervenire in modo preciso,
predittivo e personalizzato. Questo ruolo attivo e partecipativo dei cittadini è centrale non solo perché si spera che la
maggiore responsabilizzazione individuale riduca le spese sanitarie, ma anche perché le informazioni personalizzate di
salute – essendo parte di un approccio data-driven – richiede un ruolo attivo dei cittadini nella loro raccolta». Questa idea
di salute, alimentata da esigenze di cost-containment, si basa su due capisaldi: la possibilità di raccogliere dati precisi
ed esaustivi rispetto alla salute e la volontà del soggetto di agire, a livello molecolare, sulla propria fisiologia sulla base di
questi dati. Si tratta quindi di un orientamento positivistico e agenziale: dati e disponibilità all’azione. L’idea del
soggetto come self-entrepreneur e l’entusiasmo per la datificazione e gli algoritmi ben si attaglia quindi con un
orientamento neoliberista in campo sanitario.
In questo scenario, non sorprende come la start up americana Health IQ abbia raccolto, dal 2014 al 2017, ottantuno
milioni di dollari da una pluralità di investitori che scommettono sul suo successo. Health IQ è un broker assicurativo, un
mediatore tra individuo e compagnie assicurative. L’assunto di base è che le persone che hanno stili di vita sani e una
elevata competenza sanitaria dovrebbero pagare meno una polizza perché la loro aspettativa di vita è più elevata e le
probabilità di ammalarsi minori, rispetto a coloro che hanno un basso Health IQ. Si sta sviluppando dunque un intreccio
strettissimo tra self-tracking, dati sanitari e finanziatori. In questo modo, il self tracking agisce anche come nudging,
«spinta gentile», verso l’adesione a stili di vita sani. Alla sorveglianza digitale sono soprattutto interessate le aziende,
visto che per lo più sono loro a pagare la polizza ai dipendenti negli Stati Uniti. In più la riforma Obama garantisce degli
sconti fiscali alle aziende che incentivano l’attività fisica tra i propri dipendenti. Ad esempio, la compagnia petrolifera BP
ha proposto come dono il fitbit ai propri dipendenti in cambio del monitoraggio della loro attività fisica. Per coloro che in
un anno faranno più di un milione di passi c’è un bonus economico, visto che a sua volta BP riceve uno sconto
dall’assicurazione sanitaria. E, a proposito di quantificazione e gamification, chi è iscritto alle polizze offerte
dall’assicurazione sanitaria John Hancock, può ricevere sconti calcolati in «Vitality Points» se aderisce a certi stili di vita.
Su questi ultimi esempi, rispetto a Topol e altri tecno-entusiasti della m-Health, bisogna integrare alcune riflessioni. Senza
essere luddisti, alcune cautele possono essere espresse. Infatti il timore principale che si può esprimere rispetto all’enfasi
della salute digitale, almeno rispetto all’ambito della m-Health, riguarda il rischio dell'esclusione sociale. L’enfasi sulla
salute come responsabilità individuale infatti cancella ogni riferimento a fattori sociali ed economici. Sappiamo infatti
come ad esempio l’obesità non sia unicamente un problema di indice di massa corporea, affrontabile con la
quantificazione delle calorie ingerite e con nudging e gamification dell’attività sportiva. L’obesità è un problema
politico-sociale incarnato nella diseguaglianza di opportunità. Vi si intrecciano dimensioni di giustizia sociale, politica
economica delle multinazionali del cibo, stratificazione sociale. Le app possono essere utili, ma l’assolutizzazione della
imprenditorialità del sé insita nella m-Health potrebbe innescare e legittimare pratiche di allontanamento e
deresponsabilizzazione dello Stato nell’ambito della rimozione delle diseguaglianze.
5. Conclusioni
5 punti principali. Si tratta di aspetti critici che dovrebbero essere tenuti in considerazione per essere integrati in un
approccio responsabile alla m-Health. Come detto, la nostra prospettiva non è luddista e pensiamo che l’innovazione
tecnologica offra mastodontiche opportunità per migliorare la vita delle persone, opportunità che debbono venire
doverosamente sfruttate. «Indietro non si torna» diceva Rousseau rispetto al progresso. I punti sono questi:
1. i big data alimentano una progressiva quantificazione della vita quotidiana – sebbene il rapporto tra quantificazione e
self-tracking si sostanzia in un processo circolare, in cui entrambi i fenomeni si alimentano a vicenda;
2. quantificazione e digitalizzazione promuovono medicalizzazione – esse presentano complesse patologie sociali con
modalità «cliniche» e riduzionistiche che in molti casi rimpiazzano il sociale con il biologico;
3. medicalizzare problemi sociali ipso facto svalorizza il ruolo delle politiche sociali. Applicare un trattamento medico a
situazioni che potrebbero essere slegate da problemi sanitari (stati d’animo o condizioni di svantaggio, per fare un
esempio), significa considerare molteplici aspetti della vita sotto l’egida della medicina e, di conseguenza,
depotenziare il ruolo delle politiche sociali approcci legati alla giustizia sociale;
4. self tracking, quantificazione e medicalizzazione condividono e alimentano un’episteme neopositivista – problemi
complessi vengono riprodotti in forma di algoritmi lungo un’ottica di «soluzionismo tecnologico»;
5. i big data raccolti grazie al self-tracking e «sorvegliati» attraverso algoritmi possono causare esclusione sociale e
sostenere un approccio individualistico alla salute mettendo tra parentesi il peso delle determinanti sociali.
Il welfare informale dei migranti
Chiese etniche e processi di inclusione sociale a Milano
di Maurizio Ambrosini, Paola Bonizzoni e Samuele Davide Molli
1. Introduzione
Il progressivo insediamento della popolazione immigrata ha contribuito a ridefinire la geografia religiosa italiana. Nel
corso degli ultimi due decenni il panorama delle fedi praticate nel Paese si è visibilmente trasformato ed allargato. Come
in altri Paesi europei, anche in Italia l’emergere di tale pluralismo rappresenta una delle implicazioni più significative dei
processi migratori. La letteratura sul coinvolgimento religioso degli immigrati fatica però ad emergere con continuità. Da
un lato, il lungo dibattito sulla secolarizzazione del continente ha finito per trascurare il ruolo e il valore delle
appartenenze religiose dei migranti. Dall’altro, l’Islam – data la visibilità mediatica – ha sinora assorbito e monopolizzato
la maggior parte degli sforzi di ricerca sui fenomeni religiosi collegati all’immigrazione, oscurando le sfaccettature di un
panorama assai più complesso. Il recente revival degli studi sociologici sul ruolo della religione nel continente europeo
sta trainando un interesse ampio, che coinvolge anche il pluralismo innescato dai processi migratori. Tra le varie
prospettive di analisi, spicca il ruolo svolto dalle istituzioni religiose frequentate dagli immigrati per il loro processo
di insediamento e di inclusione nelle società riceventi. Come sottolineato da Hagan, anche le congregazioni religiose
sono parte attiva della complessa infrastruttura sociale che influenza e sostiene l’integrazione degli immigrati. In tal
senso, la letteratura sociologica insiste sul fatto che le istituzioni religiose non sono per gli immigrati soltanto luoghi che
rispondono ad esigenze spirituali, ma si fanno carico anche di domande sociali ed economiche.L’articolo entra nel
merito di questi processi di intermediazione e supporto analizzando le risorse, gli strumenti e i servizi che le comunità
religiose connotate etnicamente promuovono per sostenere i bisogni dei loro membri, un campo di attività che definiamo
come welfare informale. Questi servizi, seppur non regolati al pari delle prestazioni erogate nell’ambito dei servizi
pubblici di welfare, interagiscono attivamente con le scelte e necessità occupazionali, abitative, educative dei migranti,
con le loro domande di sostegno relazionale e psicologico. Sono quindi attività complementari, talvolta sostitutive alle
politiche pubbliche, le quali lasciano scoperte molte delle esigenze e dei bisogni che scaturiscono proprio a partire
dall’esperienza migratoria. L’articolo si concentra su sei esperienze diverse ed emblematiche di cristianesimo plurale ed
etnicamente connotato nella città di Milano: tre di matrice protestante e tre di matrice cattolica. Come i dati a disposizione
rilevano, la maggioranza degli immigrati presenti nel Paese è stimata appartenere a denominazioni cristiane. Svariate
chiese sorte su base etnica caratterizzano infatti in modo inedito la geografia religiosa del Paese, innescando un
processo di diversificazione interno alle religioni storicamente insediate.
2. Il welfare religioso: uno sguardo al ruolo delle comunità etniche di minoranza
La promozione di attività solidali nell’ambito delle organizzazioni religiose non è certo nuova: il termine welfare fu coniato
per connotare con un’accezione positiva nuove iniziative di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale,
differenziandole così, in un periodo critico della storia europea, dal modello tedesco, definito in antitesi con il termine
warfare. Chiese ed istituzioni di stampo religioso hanno spesso incoraggiato nuove forme di solidarietà e attivismo civico
in delicati passaggi storici e politici, favorendo la mobilitazione di nuove energie per azioni ed interventi solidali.
A distanza di un secolo, la religione continua a svolgere un ruolo fondamentale nell’esperienza migratoria,
rappresentando una delle principali risorse per l’inclusione in una nuova società. I contesti religiosi diventano infatti spazi
sociali in grado di recepire attivamente le esigenze che la migrazione detta, favorendo pratiche di mutuo-aiuto e
alimentando l’impegno nel volontariato da parte dei propri fedeli. Secondo una rilevazione Eurostat risalente al 2015,
nell’UE il volontariato informale prevale su quello formalizzato.
In secondo luogo, i diritti di cittadinanza degli immigrati emergono spesso come tema di contesa, tanto più se questi
versano in condizione di irregolarità. In queste nuove geografie post-secolari del welfare, una galassia di attori, sia
religiosi sia laici, contribuiscono alla produzione di servizi e alla circolazione di risorse. Anche le comunità di fede degli
immigrati si inscrivono a pieno titolo in questo panorama assumendo un ruolo significativo nell’offrire attività di supporto
ritagliate sulle specifiche esigenze dei propri membri, anche se l’informalità che caratterizza questi processi ne complica
sia l’indagine empirica sia il loro pieno riconoscimento in veste di attori di un welfare sempre più destrutturato e
frammentato. In altri termini, raramente le attività del welfare informale rientrano nelle analisi e nelle rilevazioni statistiche
dedicate al terzo settore. Per essere riconosciuto, questo richiede in genere una qualche formalizzazione. La letteratura
disponibile fornisce una cornice teorica in grado di coglierne le specificità, entrando nel merito della cooperazione
necessaria ad allocare risorse e produrre servizi. In primo luogo, rispetto all’offerta pubblica e ai servizi reperibili nel
mercato, le attività di supporto sono infatti prodotte all’interno delle comunità religiose di minoranza e circolano sulla base
della fiducia reciproca che fonda uno specifico capitale sociale etno-religioso. Si possono quindi collegare alla prospettiva
di un welfare relazionale e sussidiario, come teorizzato da Donati, nonché all’idea di un «welfare generativo», proposto
dalla Fondazione Zancan, e inteso come «un welfare in grado di rigenerare e far rendere le risorse (già) disponibili, per
aumentare il rendimento degli interventi delle politiche sociali, a beneficio degli aiutati e dell’intera collettività».
In secondo luogo, la tensione etica che caratterizza questi contesti, animati da valori quali l’altruismo e la carità, alimenta
differenti pratiche solidali, che di fatto rappresentano forme uniche ed alternative di tutela per coloro la cui cittadinanza
sociale è solo parzialmente garantita. In riferimento al tipo di attività promosse in questi contesti, il quadro che emerge è
variegato e composito. Chafetz e Ebaugh osservano che uno degli aspetti qualificanti di tali istituzioni è quello di favorire
l’insediamento dei nuovi arrivati, proponendo corsi di lingua, sportelli di orientamento legale, supporto psicologico e
sostegno emotivo a fronte delle complessità emerse in relazione alla vita familiare e lavorativa dei fedeli. Particolarmente
diffusi sono i servizi di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro: date le caratteristiche degli impieghi che spesso
caratterizzano il mercato del lavoro immigrato,il ruolo dei network etnici, del passaparola, e soprattutto della fiducia
interpersonale, assume un rilievo particolarmente importante. In un certo senso si rivitalizzano dal basso pratiche un
tempo diffuse, come quella dell’accreditamento da parte di parroci o religiose presso i datori di lavoro, tipicamente nei
servizi domestici. Come osservato da Guest e Mooney è poi frequente osservare forme di intermediazione per la richiesta
di affitti o di ospitalità temporanea: le chiese diventano così snodi cruciali nel fronteggiare le molteplici forme di
svantaggio e discriminazione che caratterizzano il mercato abitativo. Inoltre, le comunità attivano pratiche solidali,
sponsorizzando raccolte fondi per necessità dovute a situazioni di particolare fragilità sociale, come gravi emergenze
sanitarie e periodi di inattività lavorativa. Il ruolo svolto dalle istituzioni religiose è particolarmente rilevante per gli
immigrati in condizione irregolare, poiché rappresentano degli spazi protetti che offrono risorse utili a superare condizioni
di precarietà dal punto di vista legale ed amministrativo, generando «aree grigie» di sopravvivenza. Inoltre, bisogni e
necessità, per il caso della popolazione immigrata, assumono specifiche sfaccettature che derivano dal confronto con
una nuova società; le dinamiche di supporto emozionale e psicologico acquistano un peso specifico nelle istituzioni
religiose. I luoghi di culto diventano dei «pronto soccorso spirituali», come nel caso emblematico dei rifugiati, dove
possono elaborare le proprie sofferenze in termini di catarsi religiosa, attutendo l’impatto del passato e venendo
accompagnati nel presente. Anche McMichael mostra come le donne somale a Melbourne abbiano utilizzato la pratica
islamica come supporto emotivo per far fronte al disagio della migrazione forzata e della separazione familiare. Inoltre,
come osservato da Bloch, Sigona e Zetter, nel caso degli immigrati in condizione irregolare le comunità religiose
assumono un ruolo di rifugio spirituale per affrontare lo stress psico-sociale derivante dal loro status legale, offrendo uno
spazio sicuro dove non sentirsi diversi o discriminati. Queste riflessioni sul carattere emozionale del welfare promosso
dalle chiese migranti evidenziano come la migrazione sia anche un’esperienza teologizzante. Venendo a mancare il
contesto di origine, dove l’appartenenza e la pratica religiosa erano spesso un fatto scontato e irriflesso, il migrante
sperimenta un’inedita revisione della sua dimensione spirituale, ricercando nelle comunità religiose istituite in terra
straniera nuove risposte teologiche e morali.
Infine, se l’informalità di tali prassi può rappresentare un limite, ne costituisce anche un aspetto qualificante. La regolarità
nella posizione giuridica, la regolarità in quella lavorativa, la stabilità della residenza e la sicurezza emotiva sono
conquiste faticose, e spesso non definitive, durante l’esperienza migratoria. Qui va notata una differenza rispetto alle
attività di aiuto che molte istituzioni religiose offrono ai bisognosi: normalmente l’aiuto è asimmetrico, anche quando è
fornito da volontari. Sono persone socialmente integrate, di solito appartenenti alla classe media, che si adoperano per
rispondere ai bisogni di persone che vengono a presentare le loro necessità. Nei casi che verranno analizzati, il sostegno
rientra maggiormente nelle categorie del mutuo aiuto tra pari: sono immigrati che aiutano altri immigrati, in base a un
patto non scritto di reciprocità.
3. Metodo e casi studio
Sono stati presi in esame 6 casi: 3 chiese protestanti, di cui una evangelica battista frequentata da coreani e due pentecostali, una a frequentazione
mista latina (ecuadoriani e peruviani) ed una frequentata prevalentemente da ucraini ed est-europei provenienti dall’area dell’ex-Unione Sovietica. Nel
caso delle chiese cattoliche sono state incluse una comunità etnica in cui il luogo di culto è diventato ad uso «esclusivo» dei fedeli immigrati provenienti
dal Salvador, una parrocchia condivisa da fedeli filippini ed ispanofoni e una parrocchia che, originariamente istituita per i cattolici anglofoni nella città di
Milano, vede oggi, nella pratica, un’ampia e consolidata presenza di fedeli filippini. Sono state effettuate una serie di osservazioni in loco, sono stati
intervistati i ministri di culto, i principali referenti «storici» oltre che alcuni fedeli, per un totale di 30 interviste semi-strutturate e registrate, a cui si
aggiungono numerose conversazioni non registrate. Sono stati raccolti dati sulla storia della congregazione, la strutturazione delle attività di culto e di
eventuali altre attività parallele (di carattere sia ordinario che straordinario), è stato ricostruito l'organigramma interno (ad es. responsabili di attività e
funzioni specifiche, numero e scopo di eventuali sottogruppi), l’eventuale rapporto e collaborazione con altri enti e realtà del territorio (sia religiosi che
non), il profilo socio-demografico prevalente ed il numero dei fedeli, le principali esigenze e ragioni che hanno portato questi ultimi alla scoperta, scelta e
frequentazione della rispettiva chiesa. A ciò si aggiungono ripetute conversazioni con esperti del mondo cattolico e protestante locale (soprattutto
pentecostale), che sono state di grande aiuto per contestualizzare in un quadro più ampio i dati raccolti.

4. Dalla fede in Dio alla fiducia nella comunità: il capitale sociale religioso
Il capitale sociale è alla base dei meccanismi relazionali di condivisione e di supporto. La possibilità di disporre di
rapporti intersoggettivi e di allargare le proprie relazioni può essere infatti capitalizzata dalle persone, e trasformata in
risorsa per raggiungere determinati obiettivi. Come osservato da Weber, la religione è uno dei principali contesti per
sviluppare queste dinamiche relazionali. Infatti, la partecipazione religiosa attiva il riconoscimento interpersonale,
rafforzando la fiducia reciproca e la rispettabilità, e favorisce l’inserimento dei fedeli in network sociali stabili, attivabili per
esigenze individuali. Questi meccanismi relazionali necessitano però di essere continuamente rinsaldati e ravvivati. La
fiducia e la rispettabilità sono prodotti sociali che si sviluppano nel tempo, sono processi graduali, frutto di impegno e di
obblighi reciproci. Infatti, tutte le chiese osservate si caratterizzano per una vita sociale articolata ed una serie di attività
che si estendono oltre i tempi e gli spazi di celebrazione del culto. La metafora familiare e il tema centrale della
condivisione, di spazi, stili di vita e valori, di momenti specifici e attività ripetute, costituiscono il perno della costruzione di
un senso di comunità ed appartenenza: La nostra diciamo che è una chiesa viva, a va vissuta perché questa è una
famiglia. Un aspetto comune a tutte le comunità riguarda la costruzione di fiducia interpersonale attraverso la
formazione di network di prossimità interni alle stesse chiese.
Le comunità mostrano una complessa micro-strutturazione organizzativa interna. In tal senso, richiamando la distinzione
posta da Putnam, la partecipazione religiosa osservata porta in primo luogo alla formazione di un capitale sociale di tipo
bonding, emergente dallo sviluppo di cerchie sociali coese; le chiese in esame rappresentano spazi urbani ove i fedeli
convergono sulla base di un’identità condivisa, e tramite interazioni regolari, descritte nei termini di un attivismo multi-
sfaccettato, sviluppano tra di loro una serie di legami forti. Il capitale sociale di tipo bonding è la premessa analitica
necessaria per comprendere le attività di supporto e mutuo aiuto promosse dalle comunità religiose in esame. Le norme
di reciprocità generate internamente facilitano infatti la collaborazione tra i membri, convogliando risorse e interessi
individuali verso obiettivi comuni e innalzano la probabilità che tali sforzi saranno ricompensati, favorendo un circuito
continuo di atti di solidarietà. Le chiese, nel diventare spazi per vivere una socialità oltre le dinamiche lavorative, offrono
anche contesti dove poter esercitare e costruire responsabilità, assumere nuovi ruoli sociali, costruire un’immagine
positiva del sé.
Le chiese formate in emigrazione, oltre la sola dimensione spirituale, si trasformano quindi in importanti snodi relazionali
nei luoghi di insediamento, nel nostro caso nella città di Milano. Le dinamiche osservate, che vedono la costruzione di
legami di fiducia e di rispetto, compresa una nuova attivazione soggettiva con assunzioni di responsabilità, ravvivano e
rinsaldano il senso di comunità, favorendo così lo sviluppo di un capitale sociale religioso.
5. Anomia, solitudine e sofferenza: un welfare emotivo
Questa complessa infrastruttura di legami che si alimenta all’interno delle chiese diventa il presupposto sociologico per lo
sviluppo del welfare informale; la sua forte connotazione relazionale lo rende inoltre particolarmente flessibile e ricettivo
rispetto alle specifiche esigenze dei propri membri. In primo luogo, le fragilità della popolazione immigrata assumono
spesso una specifica connotazione emozionale, necessità che si possono manifestare ed affrontare in contesti religiosi,
capaci di recepire questo tipo di richieste. Se nel complesso della popolazione tali dinamiche emotive trovano risposta
nelle reti di prossimità, nei nuclei familiari e nelle amicizie, per la popolazione immigrata possono rappresentare un vuoto
da riempire. La migrazione è infatti caratterizzata dalla brusca separazione da legami sociali e familiari, e dalla pressante
necessità di ricostruirne altri nel nuovo contesto, legami volti a sopperire alla sofferenza e all’isolamento.
La solitudine e l’isolamento trovano in questi contesti un conforto psicologico significativo. Inoltre, la chiesa fornisce
anche un’importante camera di compensazione per la pressione dovuta al declassamento professionale, alla necessità di
accumulare risorse da trasformare in rimesse, favorendo la ricerca di un equilibrio tra le identità sociali sperimentate
prima e dopo la migrazione. Il senso di comunità condivisa favorito dalla chiesa consente inoltre di superare lo stigma
associato all’immagine di fallimento che si accompagna alla richiesta d’aiuto; in questo senso il counselling informale,
l’offerta di spazi sicuri in cui parlare e potersi confrontare è un’attività riscontrata in tutti i contesti indagati.
Oltre gli aspetti prettamente legati al culto, i ministri partecipano sensibilmente alle esigenze emotive della comunità, che
cerca e trova nella dimensione spirituale da loro rappresentata una significativa valvola di sfogo e di sostegno. Anche i
pastori contribuiscono quindi al funzionamento di questo welfare emotivo basato sulle reti di prossimità ricostruite nelle
congregazioni religiose degli immigrati.
A partire dall’infrastruttura relazionale che rinsalda lo spirito comunitario, e dalla sua capacità di esprimere supporto
emotivo, possiamo ora entrare nelle dinamiche di aiuto materiale che le comunità offrono ai loro membri.
6. Aiutare il prossimo: dal principio alla pratica della solidarietà
Il principio teologico della solidarietà è un valore intrinseco e comune alle istituzioni religiose, e assume un profilo
specifico e complesso nelle chiese migranti, connotandosi innanzitutto per la sua informalità. Tali scambi non sono infatti
pienamente regolati, codificati ed istituzionalizzati in specifiche forme organizzative, ma costituiscono una prassi regolare,
analizzabile a partire dalle risorse che tali processi contribuiscono ad allocare.
Le chiese forniscono un ambiente relazionale affidabile per evitare le forme di abuso che non di rado caratterizzano tali
reti. La circolazione di risorse materiali (offerta di lavoro/casa) è infatti legata alla produzione delle risorse reputazionali di
cui la chiesa è lo sponsor, fungendo da intermediario di fiducia tra offerta e domanda. Pertanto, la rispettabilità garantita
dall’appartenenza alla chiesa diventa la base per partecipare allo scambio.
I principali bisogni che esprimono i fedeli,sono i documenti, anche se ora un po’ meno…Ci sono nella chiesa alcune
persone che magari conoscono un po’ di più la legge o che conoscono altre persone e allora… si cerca di aiutare…
Oppure la salute, ci sono alcune persone che hanno dei problemi gravi e hanno bisogno di qualcuno che stia loro vicino,
che vada ad assisterli in ospedale. Persone che hanno magari conflitti familiari, persone che hanno bisogno di un aiuto
con i bambini…E con il lavoro? Capita che qualcuno chieda «c’è qualcuno della tua chiesa che vuole venire a lavorare
per me?» Perché il pensiero è che se va in una chiesa allora è una persona onesta… i datori di lavoro chiamano qui se
hanno bisogno di una badante o di un lavoratore domestico e io faccio circolare le informazioni ai vari gruppi, al gruppo
del coro, ai lettori della Bibbia mando loro un messaggio: c’è un’offerta di lavoro... qualcuno di voi è disponibile? Altrimenti
me lo chiedono i fedeli, io so chi sta cercando un lavoro e quando sento che gira un’offerta di lavoro... metto in contatto le
persone. Il mercato degli affitti informale è un classico, o... notizie sui posti letto, sul loro prezzo, se sono confortevoli e
convenienti... qui puoi anche trovare affitti temporanei, se non sai dove sei oggi e dove sarai domani per vari motivi, o se
ne hai bisogno per i documenti o per scopi di ricongiungimento familiare... Una sistemazione adeguata non è sempre
facile da trovare... Ospitano e sono ospitati, pagano o offrono per uno scambio reciproco.
Va notato che tale welfare non è accessibile liberamente a chiunque, ma richiede anch’esso delle specifiche credenziali:
Cerchiamo di aiutare il più possibile, ma non lo facciamo... facciamo solo ciò che ha una realtà e un’attività specifica. Per
esempio: se una persona ha un’assistenza medica costosa da sostenere... raccogliamo fondi e paghiamo per quello. Se
qualcuno ha un problema economico, forse può chiamare quelli del gruppo, dice che cucinerà qualcosa e poi ci parliamo
e compriamo tutto... queste sono persone che di solito vediamo e che conosciamo molto bene… Ma poi, sai... A volte
uno ti racconta una storia toccante, e noi diamo aiuto e poi... non li vediamo più e forse li vediamo da qualche altra parte,
non possiamo fidarci di tutti, ma diamo il benvenuto a tutti, parliamo con tutti e poi lasciamo crescere la relazione.
L’accumulo e la distribuzione delle risorse sono intrinsecamente legati alla continuità della presenza religiosa e alle
pratiche di riconoscimento ed accreditamento. Questo filtro selettivo evita le ambiguità che un accesso indiscriminato
potrebbe implicare (rischi di opportunismo) ed impedisce al contempo che la principale identità religiosa venga oscurata
dalle sole esigenze materiali dei fedeli. È possibile anche osservare la circolazione di risorse di tipo economico,
auto-finanziate attraverso l’organizzazione di pranzi o specifiche iniziative: In caso di necessità si organizzano cene per
raccogliere denaro o risorse di vario tipo. Nel caso della chiesa evangelica dell’Europa orientale, la «missione» della
riabilitazione sociale verso persone gravemente svantaggiate è così fondamentale da costituire una risorsa identitaria per
la chiesa stessa; D’altro canto, il circuito di risorse e il tipo di attività che si svolgono variano molto da un contesto all’altro,
anche per la peculiare composizione socio-demografica della popolazione che compone la chiesa e per la sua specifica
missione. Come ben evidenzia il caso della chiesa coreana, la frequentazione degli ambienti offerti dalla chiesa può
fornire altresì rilevanti occasioni di network-building finalizzati alla mobilità professionale per persone di estrazione sociale
più elevata; settore lirico, il settore della moda… In questo universo altamente circolante di studenti di musica e moda,
stilisti e musicisti, manager in distacco presso multinazionali, il soggiorno in Italia è parte di un progetto di mobilità sociale
articolato su scala transnazionale per classi medio-alte impegnate in un percorso di accumulazione di capitale simbolico,
in cui Milano rappresenta uno snodo cruciale. La chiesa rappresenta uno spazio privilegiato, anche se la fede, come
ammette lo stesso pastore, non è necessariamente l’elemento prioritario o dominante: In Corea la percentuale di cristiani
è circa del 20%, ma tra i coreani in Italia e comunque a Milano, la quota è molto superiore, ma non credo che ciò sia
dovuto solo a una questione di fede. Penso che ci sia anche una questione riguardo al ruolo che ricopre la chiesa in
Italia, quindi di ruolo di ponte o comunque di collegamento con la comunità coreana.
Ogni contesto religioso si attiva dunque per produrre le risorse funzionali alle esigenze dei propri membri, che possono
variare significativamente al variare dell’estrazione sociale dei partecipanti. Le forme di scambio e i tipi di sostegno
attivabili dalle comunità possono dipendere anche da fattori ascrivibili alla dimensione organizzativa ed istituzionale. La
partecipazione religiosa può infatti favorire l’accesso dei fedeli a risorse che appartengono a circuiti relazionali più ampi
rispetto al proprio gruppo di riferimento e ai legami forti rinsaldati internamente: un tipo di rapporti che le chiese possono
instaurare rispetto all’affiliazione denominazionale di riferimento, così come sulla base di un riconoscimento formale
costruito nel corso del tempo a livello locale.
Da questo punto di vista, le chiese etniche di matrice cattolica, se da un lato, per loro stessa genesi, rispondono al
bisogno dei propri fedeli di frequentare un ambiente socio-culturale differente rispetto a quello delle parrocchie italiane,
dall’altro, in caso di necessità, possono anche accedere al circuito diocesano grazie al quale hanno avuto in uso gli spazi
e ottenuto un riconoscimento canonico, entrando in rapporto con attori del solidarismo cattolico e usufruendo così di
risorse difficili da attivare internamente in caso di necessità. Da un punto di vista relazionale, tali chiese, oltre a
promuovere e inserire fedeli in reti di prossimità, rappresentano anche uno snodo rispetto ai circuiti solidali milanesi e ai
servizi offerti (es. Caritas, Acli). Alcune comunità nel tempo sono anche diventate un punto di riferimento per ambasciate
e consolati. In questo senso, luoghi religiosi istituiti dai fedeli sulla base di un attivismo spontaneo e informale si sono poi
trasformati in terminali e snodi semi-formali per la diaspora delle comunità migranti all’estero.
Se dunque molte delle forme di sostegno materiale analizzate sono strettamente correlate al capitale sociale religioso
costruito internamente, allo stesso tempo si osservano differenze sulla base del tipo di riconoscimento istituzionale
sviluppato dalle chiese. In questo senso, le comunità religiose presentano un duplice volto rispetto al tema del welfare:
sono attori in grado di mobilitare risorse e promuovere forme di sostegno dirette, così come snodi relazionali, intermediari
che fungono da connessione con circuiti di aiuto e sostegno più ampi a cui rivolgersi in caso di necessità non affrontabili
direttamente.
7. Le chiese di fronte ai bisogni delle famiglie: conciliazione, educazione, istruzione
È possibile osservare come questi rapporti su base religiosa abbiano delle implicazioni rispetto alle dinamiche familiari
della popolazione migrante, dalla conciliazione vita-lavoro delle madri, alle pratiche educative per i ragazzi di seconda
generazione. Una forma di supporto frequentemente osservata nelle comunità religiose indagate è infatti il sostegno alla
genitorialità. Il tema della conciliazione è un bisogno urgente che spesso non trova risposta a causa della mancanza di
reti familiari estese, per la limitata possibilità economica di acquistare queste risorse di cura sul mercato oltre che per
eventuali difficoltà nelle disponibilità di posti nei servizi pubblici. Le chiese cercano di far fronte a queste esigenze
favorendo la creazione di gruppi informali o fornendo spazi sicuri, in cui le madri possono portare i bambini durante le loro
attività lavorative. Qui nella chiesa noi fedeli abbiamo cercato di costruire un asilo nido per le madri che lavorano.
Gli spazi religiosi possono inoltre fornire risposta anche alle preoccupazioni relative al nuovo sistema scolastico che le
famiglie affrontano in Italia, consigli e aiuti che diventano cruciali per orientarsi in una nuova struttura educativa, o (tramite
spazi per l’aiuto nei compiti) per seguire i figli nelle carriere scolastiche, data la carenza di risorse cognitive, come la
padronanza della lingua italiana, che limita la possibilità di sostegno negli studi. Inoltre, le famiglie migranti sono spesso
soggette a dinamiche relazionali complesse, dovute ai fenomeni di separazione e ricongiungimento: le chiese diventano
così spazi di confronto su esperienze difficili, agenzie ricreative ed educative informali, oltre che luoghi di socialità e
divertimento percepiti come selezionati e sicuri.
8. Welfare transnazionale: la solidarietà religiosa oltre i confini dello Stato-nazione
Come ben osservato da Levitt, la prospettiva teorica transnazionale, oggi in voga negli studi sulle migrazioni, può essere
adottata anche per indagare le attività di supporto che le istituzioni religiose attuano verso le comunità di provenienza.
Proprio la religione, grazie alla sua capacità di trascendere i confini geografici e di generare significati capaci di
connettere comunità situate in contesti differenti, denota oggi un campo empirico rilevante sotto il profilo dei legami e
delle pratiche transnazionali. Varie forme di interazione e flussi di risorse connettono le comunità religiose degli immigrati
con quelle della madrepatria. Tra le più frequenti possiamo ricordare le collette per le necessità dei confratelli, delle opere
sociali e dei luoghi di culto in patria; la circolazione di messaggi e predicazioni dei leader religiosi; l’istituzione di centri
religiosi affiliati a una casa-madre insediata nei Paesi di origine, fino a dar luogo a forme di «franchising» spirituale; i
flussi pluridirezionali di messaggi e di risorse promossi dalle diaspore che mantengono una peculiare identità religiosa; i
più tradizionali pellegrinaggi verso i luoghi santi oltre i confini. Nei campi sociali transnazionali avvengono inoltre processi
di deterritorializzazione, transterritorializzazione, riterritorializzazione di devozioni popolari, pratiche rituali, che vengono
importate e adattate ai nuovi contesti. La nostra ricerca rivela che, anche in spazi aggregativi frequentati da persone di
modesta estrazione sociale, la raccolta di fondi a favore di progetti, attività e bisogni di persone e comunità nella
madrepatria è una pratica regolare; organizzano varie attività, come concerti, finalizzate alla raccolta di denaro per le
Filippine.
Nel caso della chiesa coreana, la solidarietà transnazionale si indirizza verso l'Africa: bambini della Tanzania che sono
sostenuti dal primo corpo della missione femminile, sono adottati dal primo corpo missionario.
Il dinamismo organizzativo interno osservato in precedenza si mobilita anche verso obiettivi esterni, sulla base dei legami
che le comunità hanno stabilito nel corso del tempo o di necessità che si vengono a delineare. Le chiese diventano di
fatto attori transnazionali dello sviluppo locale, attraverso pratiche solidali che rafforzano il valore ed il prestigio
internazionale della comunità religiosa e dei suoi fedeli, contribuendo a generare forme di riconoscimento su scala
trans-locale, destinate sia ai Paesi di provenienza sia, come evidenzia il caso coreano, ai Paesi in via di sviluppo. Come
mostrato da Cherry and Ebaugh in uno dei rari studi sul tema, istituzioni e movimenti sociali di stampo religioso, come
effetto dei processi migratori che hanno contribuito alla dislocazione e circolazione internazionale dei fedeli, operano
sempre di più su scala globale e promuovono con maggior intensità e grado di formalità forme di aiuto e sostegno. Come
gli stessi autori mostrano, molte chiese, congregazioni e comunità religiose hanno di fatto prodotto una «circolazione
transazionale di servizi di welfare» che mira a fornire supporto e sostegno rispetto a vari bisogni. In questa prospettiva, le
istituzioni religiose contribuiscono attivamente a quella che oggi viene anche definita la sfera civile transnazionale: una
filantropia non più circoscritta all’interno dei confini nazionali, che istituisce circuiti solidali tra comunità dislocate nel
mondo. Seppur qui identificate in scala minore all’interno della città di Milano, e segnate da differenti gradi di formalità, le
pratiche osservate rivelano comunque gli sforzi che le comunità religiose stanno mettendo in campo per promuovere
nuove forme di aiuto che oltrepassano le frontiere.
9. Conclusioni: il welfare informale, criticità e possibili sviluppi internazionali
Quello che abbiamo definito come «welfare informale» è una caratteristica osservabile in tutte le comunità religiose
prese in esame. Animato dal principio della solidarietà si attiva un capitale sociale religioso, che genera meccanismi
relazionali in grado di alimentare numerose attività di aiuto e supporto. Lo sviluppo di questo welfare alternativo e
informale diventa decisivo per le esperienze della popolazione immigrata; in questi contesti religiosi possono trovare
risposta le necessità che faticano ad essere coperte dai servizi ordinari, e che spesso sono anche impossibili da
soddisfare, come le esigenze emotive e relazionali, o le necessità dei migranti in condizione irregolare. Anche in Italia, le
comunità religiose entrano nella complessa infrastruttura sociale che favorisce l’inclusione sociale dei migranti.
Frequentemente il rapporto tra religioni e immigrati è asimmetrico: sono le istituzioni religiose storicamente insediate a
venire in aiuto dei nuovi arrivati. Anche a livello micro-sociale, nelle attività di sostegno gestite da volontari presso le
chiese storiche, la distanza sociale tra donatori e beneficiari è la regola.
Un aspetto significativo delle esperienze che abbiamo analizzato è invece il mutuo aiuto tra persone che condividono
condizioni sociali simili, e la medesima esperienza di immigrazione: nelle comunità religiose analizzate si tratta di
immigrati che aiutano altri immigrati alla ricerca di cibo, lavoro, riparo, ascolto, sostegno morale. Questo dinamismo
solidale assume uno specifico rilievo in Italia: se infatti in molti ambiti, come quello politico, si nota uno scarso
protagonismo degli immigranti e delle loro associazioni, è possibile invece osservare come attraverso la religione gli
immigrati stiano assumendo un ruolo attivo inedito, almeno a livello locale e nei circuiti dell’aiuto reciproco. Alcuni vincoli
però condizionano tali forme di aiuto. Appaiono prevalenti quelle più semplici e immediate: attività assistenziali a bassa
complessità, soprattutto in risposta a domande emergenziali (distribuzione di cibo, vestiti, piccole somme di denaro…).
Pur nell’informalità, le comunità provano però a rispondere anche ad esigenze più complesse (aiuto nella ricerca di casa,
lavoro o nelle procedure burocratiche), che faticano a trovare risposta negli apparati pubblici. Non si tratta tuttavia di
forme di impegno solidaristico riconducibili al paradigma canonico del terzo settore, in cui la crescente formalizzazione e
il rapporto con il sistema pubblico appaiono oggi prevalenti. Informalità, reciprocità, comune appartenenza culturale
sono gli aspetti caratterizzanti del welfare dal basso promosso dalle comunità religiose immigrate. Tali processi vanno poi
letti alla luce della specificità di ogni istituzione: il caso della chiesa coreana, forse atipico in Italia (ma non nel panorama
internazionale) mostra che i legami interpersonali instaurati presso i luoghi di culto non sono una risorsa soltanto per gli
immigrati socialmente deboli, ma anche per quanti occupano posizioni professionalmente qualificate o aspirano ad
accedervi. Nel caso della chiesa evangelica est-europea la missione religiosa si collega invece ad un’attività alquanto
impegnativa di recupero sociale nei confronti di persone gravemente emarginate, vittime dell’abuso di alcool o altre
sostanze. Inoltre, rispetto alla possibilità di attivarsi per le esigenze dei propri membri, va notata una differenza tra le
chiese in esame in termini di capacità di fungere da intermediari con altri attori istituzionali, favorendo così l’accesso a
forme di scambio e risorse differenti dalle reti di prossimità interne basate sul capitale sociale religioso. In questo senso,
la presenza di legami che possono fungere da snodo varia rispetto al tipo di riconoscimento e accreditamento che le
chiese sono state in grado di sviluppare. Da questo punto di vista, le comunità di matrice cattolica possono godere di un
riconoscimento che permette loro di accedere in caso di necessità ai circuiti solidali tipici dell’ecologia istituzionale
diocesana. La semi-informalità delle chiese evangeliche rappresenta invece un limite, e lascia all’intraprendenza e
all’abilità individuale dei responsabili la capacità di costruire relazioni con l’esterno, ottenendo informazioni e risorse da
condividere poi internamente. Possiamo inoltre notare che il personale religioso in genere non è interessato a sviluppare
servizi sociali più specializzati, ritenendoli estranei alla propria missione. Il ruolo dei ministri di culto è certo rilevante nel
predisporre il terreno su cui si sviluppano queste pratiche, sia in termini di esortazione morale, sia di reperimento di spazi
logistici, sia come attenti interlocutori rispetto alle sofferenze esistenziali dei fedeli, ma le attività caritative sono poi
solitamente auto-organizzate dagli immigrati stessi. L’attenzione dei leader è alta anche per evitare che le comunità
religiose si riducano a centri di servizi, volendo ribadire il mandato religioso originario. Si tratta di un sottile equilibrio,
continuamente soggetto a tensioni, e rinegoziato a contatto con le esigenze pressanti che i migranti presentano nelle
proprie comunità. Va sottolineata anche la rilevanza della proiezione transnazionale delle attività sponsorizzate dalle
chiese etniche. Tramite pratiche solidali che varcano i confini nazionali, gli immigrati hanno sviluppato un canale che
permette loro di mantenere vivi anche i legami simbolici e culturali con la madrepatria. Sotto questo punto di vista, le
nuove comunità religiose istituite dagli immigrati riscrivono e rinnovano un processo che storicamente ha caratterizzato le
denominazioni europee. Le chiese etniche stanno dunque contribuendo a sviluppare un campo religioso transnazionale,
che innova le tradizionali identità cristiane e alimenta legami socio-religiosi oltre i confini dello Stato-nazione. La sfida che
si prospetta è l’evoluzione di questa infrastruttura-solidale, nello specifico non delle pratiche di aiuto, ma degli
atteggiamenti che sono alla base delle pratiche. In altri contesti migratori, questo impegno si è spesso evoluto verso altre
forme di partecipazione, per esempio verso ruoli di responsabilità in istituzioni pubbliche. Il civismo storicamente ha
avuto spesso basi religiose, e non di rado è diventato anche politico. Le chiese sono state anche trampolini di lancio per
la mobilità sociale dei partecipanti. La sfida è comprendere se, oltre a svolgere la funzione di camere di compensazione
delle tensioni tra immigrati e nuova società, le comunità religiose stiano diventando siti di anticipazione di altre forme di
attivismo sociale.
A livello internazionale vari filoni di letteratura hanno elaborato in differenti modi queste novità introdotte dagli immigrati;
negli Stati Uniti, l’attivismo spirituale dei migranti si è conciliato con il panorama religioso nazionale, in cui queste realtà
sono viste come strumenti di inclusione e di produzione di servizi. In Europa, solo di recente ha preso piede l’attenzione
per il dinamismo religioso della popolazione immigrata, al di là del caso specifico dell’Islam. Questa riflessione apre uno
spiraglio per costruire analogie internazionali, nell’ambito di un dibattito fin qui caratterizzato dallo schema bipolare
elaborato da Foner e Alba: in Nord America le religioni sono viste come un ponte per l’integrazione, in Europa
(prevalentemente) come una barriera. La nostra analisi si inserisce in processi più ampi che sollecitano una rivisitazione
del paradigma. Possiamo oggi affermare che sia molte chiese nazionali europee, sia almeno embrionalmente quelle
costituite da immigrati, sono attori che di fatto prendono parte alla complessa governance che regola i processi migratori,
e in modo particolare contribuiscono all’integrazione degli immigrati nei contesti locali. Forse approcci meno normativi e
più analitici potranno aiutare a raffinare l’analisi di questa dimensione dell’incontro tra immigrati e società riceventi.
FENOMENOLOGIA DI DUE NUOVI PARTITI I CASI DEL MOVIMENTO 5 STELLE E DI PODEMOS
Lucia Montesanti e Valeria Tarditi
1. Introduzione
La crisi economica internazionale e l’emergere della «giuntura critica neoliberale» hanno prodotto conseguenze politiche
nella maggior parte dei paesi europei. È stato soprattutto nelle democrazie del sud Europa che le preesistenti condizioni
della bassa partecipazione e dell’elevata sfiducia istituzionale sono state ingigantite dal declino economico,
aprendo la strada a forme non convenzionali di partecipazione e a nuovi fenomeni partitici. Particolarmente
emblematici al riguardo sono i casi delle democrazie italiana e spagnola. Nella prima, la riduzione della lealtà dei
cittadini verso le istituzioni tradizionali della rappresentanza politica, ha avuto come conseguenza l’emergere quasi
immediato di un nuovo attore partitico: il Movimento 5 stelle (M5s). In Spagna la reazione è stata quella della protesta
non convenzionale con la formazione del movimento degli Indignados (o 15 Mayo giorno iniziate le mobilitazioni) e
della sua istituzionalizzazione attraverso il nuovo partito Podemos. Entrambi hanno mostrato di essere tutt’altro che
partiti flash, agendo in funzione di decartellizzazione e contribuendo a modificare gli equilibri politici preesistenti. In Italia
l’ingresso del M5s nello scenario partitico ha favorito il passaggio da un assetto competitivo bipolare, incentrato sulle
coalizioni del centrodestra e del centrosinistra e raccolte rispettivamente intorno al Partito delle libertà (Pdl) e al Partito
democratico (Pd), a uno tripolare. In Spagna, invece, l’emergere di Podemos ha posto fine al bipartitismo che, dalla metà
degli anni 90, vedeva la competizione tra il Partido popular (Pp) e il Partido socialista obrero español (Psoe). I due partiti
hanno sfidato le maggiori forze politiche, mostrando una natura anti establishment e presentandosi come diversi non solo
nei temi politicizzati ma anche nelle forme organizzative e nelle modalità di rappresentanza. Essi si sono proposti come
organizzazioni internamente democratiche e dai confini più sfumati, utilizzando le nuove tecnologie del web e
semplificando le modalità di iscrizione. Obiettivo di questo saggio individuare somiglianze e differenze tra i due partiti
rispetto agli esiti concreti delle loro proposte di cambiamento con riferimento alle caratteristiche della classe politica e dei
modelli organizzativi. Adottando un approccio organizzativo allo studio dei due casi, si dimostrerà che pur avendo favorito
entrambi un rinnovamento della classe politica nei rispettivi parlamenti, le differenze in termini di struttura sono molteplici
2. Il M5s e Podemos: uguali o diversi?
Il M5s e Podemos sono stati definiti come partiti di protesta, intesi come formazioni che mobilitano l'insoddisfazione dei
cittadini, veicolando un messaggio di opposizione all'establishment politico. A differenza delle forze antisistema, in questo
caso non si ritrova un’opposizione al regime, ma un’accettazione delle regole della democrazia. Allo stesso tempo, però,
rivendicano l’esistenza di una divisione fondamentale tra il popolo e l'establishment politico, enfatizzando la loro
estraneità rispetto a quest’ultimo e mostrandosi differenti sia nelle forme organizzative che nelle proposte politiche. Infatti,
hanno politicizzato il cleavage (netta divisione) che contrappone gente e casta, perseguendo l’obiettivo di rinnovare e
deprofessionalizzare la politica, favorendo un maggior coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni istituzionali, secondo gli
slogan «Il cittadino al potere». Si sono posti come interpreti della maggioranza sociale, evidenziando il fenomeno di
reciproco sganciamento tra cittadini e partiti, facendosi portavoce di nuove modalità di rappresentanza e modelli
organizzativi più leggeri, ispirati ai principi della partecipazione e dell’orizzontalità. Da questo punto di vista quindi essi
appaiono molto simili. Tuttavia precedenti studi hanno dimostrato come la categoria dei partiti di protesta sia ampia ed
eterogenea, includendo formazioni differenti non solo in termini di appartenenza ideologica ma anche di dimensioni e
strutture. I partiti verdi, quelli libertari e radicali di sinistra o, al contrario, quelli populisti di destra, nonché i partiti
etnoregionalisti sono stati considerati tutti come portatori di una sfida (sebbene differente nei contenuti)
all’establishment politico, inteso come insieme di quelle forze che hanno avuto esperienze di governo o che presentano
un potenziale in questo senso. Alcuni autori hanno individuato un legame tra declino economico, livelli di astensione e
ampiezza del loro consenso, ma anche differenze nella composizione ideologica dei rispettivi elettorati: eterogenea nel
caso del M5s e prevalentemente di sinistra in quello di Podemos. Molteplici sono gli studi che hanno approfondito il loro
carattere populista, evidenziando il profilo ideologico ibrido del M5s e l’orientamento a sinistra di Podemos. Obiettivo di
questo saggio è quindi quello di rispondere alle domanda: quali sono le differenze e le somiglianze tra il M5s e Podemos
dal punto di vista organizzativo? Al tal fine è necessario segmentare il concetto di partito, individuando le dimensioni da
analizzare. Secondo Katz e Mairi partiti non sono organizzazioni unitarie, ma presentano tre facce: il partito nelle
istituzioni (party in public office), come organizzazione centrale (party in central office) e nella società (party on the
ground); tenendo conto di questa tripartizione che si procederà alla comparazione tra i nostri due casi. In particolare ci si
aspetta che essi siano più simili che diversi nell'aver favorito l’ingresso nelle istituzioni di una classe politica diversa da
quella delle forze preesistenti. Ciò dipende non solo dalla loro natura anti establishment ma anche dall’essere «partiti
genuinamente nuovi» e di origine esterna. Questi ultimi, secondo Sikk, non sono eredi di precedenti forze politiche
parlamentari, hanno nuove sigle e strutture e non includono figure appartenenti alla politica del passato. Allo stesso
tempo si ipotizza che i nostri due casi siano più diversi che simili in termini di struttura organizzativa e di equilibri tra le tre
facce. Ciò per l’influenza esercitata dal loro modello originario, cioè dall’iniziale combinazione di fattori organizzativi e
scelte delle élites, ma anche dalle sfide esterne (competizioni elettorali e vincoli istituzionali). Come sottolineato dalla
letteratura, infatti, le invenzioni o scelte che caratterizzano la nascita dei partiti tendono a lasciare la loro impronta
anche nelle fasi successive. È anche vero poi che i partiti non sono agenti completamente liberi, venendo condizionati
dall’ambiente operativo in cui si muovono. Come meglio si spiegherà nel prosieguo, nella genesi del M5s si ritrova la
prevalenza di una logica top-down, derivante dalla presenza imprescindibile del suo fondatore e leader carismatico,
Beppe Grillo. Alla base della fondazione del M5s vi è una sfiducia totale rispetto alle forme organizzative e alla natura
del partito. Nel caso di Podemos è possibile individuare la compresenza delle due logiche: quella top-down, legata alla
leadership di Pablo Iglesias, e quella bottom-up derivante dal legame diretto con il movimento degli Indignados e le
proteste anti austerità. L’organizzazione è vista come elemento indispensabile per raccogliere l’eredità del movimento e
giungere al governo. Si tratta in sostanza di una proposta di rinnovamento della forma partito e delle sue funzioni. Proprio
per queste ragioni, si ipotizza che il M5s presenti una maggiore personalizzazione, solo moderata dagli adattamenti ai
vincoli istituzionali, e che Podemos abbia una struttura più complessa in cui prevale una tendenza verticale favorita della
necessità di far fronte alle sfide competitive.
3. I due nuovi partiti nelle istituzioni
Il M5s è stato fondato a Milano nell’ottobre del 2009 su iniziativa dell’attore comico Beppe Grillo e dell’imprenditore
Gianroberto Casaleggio. Podemos invece è nato nel 2014 grazie alla convergenza di giovani professori e ricercatori
universitari, esponenti del partito della sinistra radicale Izquierda anticapitalista e attivisti dei movimenti sociali. Essi sono
riusciti rapidamente a occupare posizioni rilevanti nei rispettivi sistemi partitici fino a modificarne il formato e la
meccanica. Il primo, dopo un timido esordio alle elezioni comunali e regionali del 2008, ha ottenuto risultati inaspettati alle
elezioni locali del 2012 e a quelle regionali siciliane dello stesso anno. Nel 2013 poi è stato il partito più votato a livello
nazionale con il 25,6% dei voti e 109 seggi alla Camera dei deputati. Il secondo invece, a pochi mesi dalla sua
formazione, ha raggiunto l’8% dei voti alle elezioni europee, divenendo successivamente il terzo partito sia in ambito
regionale che nazionale. Nelle elezioni politiche del 2015 ha conquistato il 20,6% dei voti e 69 seggi, partecipando in
Catalogna, Galizia e nella Comunità Valenciana insieme a formazioni locali. In quelle del giugno 2016, celebratesi per
l’impossibilità di individuare una chiara maggioranza governativa, è confluito nella coalizione Unidos podemos, insieme
al partito della sinistra radicale Izquierda unida e ad altre formazioni a carattere territoriale. La coalizione ha così raccolto
il 21,1% del consenso e 71 seggi.
Il M5s ha incentrato il suo discorso sulla critica alla classe politica, considerata corrotta e autoreferenziale, interessata
al mantenimento e alla difesa dei propri privilegi e dei legami con il mondo economico. Sono stati inclusi nella cosiddetta
casta anche i mezzi di informazione, ritenuti asserviti al potere e soggetti attivi nel processo di assopimento delle
coscienze dei cittadini. In maniera simile, Podemos ha identificato nelle dicotomie tra gente e casta e tra democrazia e
oligarchia i cleavages fondamentali della democrazia spagnola. I suoi fondatori, ispirandosi al pensiero di Gramsci e
Laclau, hanno interpretato l’avvento della crisi economica e l’indebolimento della logica bipartitica come manifestazioni di
una «crisi di regime» e della «fine di un ciclo politico». Per essi si è trattato del verificarsi di un «momento populista»,
ovvero di una fase di «inflessione» della democrazia spagnola. Quest’ultima ha aperto la possibilità di costruire, tramite la
pratica politico-discorsiva, un soggetto collettivo unito dall’equivalenza delle diverse rivendicazioni in contrapposizione al
gruppo sociale dominante. Lo scopo del partito è stato quello di costruire una maggioranza sociale, elaborando
proposte che fossero o diventassero «senso comune», mediante un progetto egemonico alternativo a quello esistente.
Entrambi i partiti hanno quindi agito come strumento di contro-élites, facendosi portavoce di un rinnovamento della
classe politica. Ma come il loro ingresso ha mutato le assemblee nazionali? I rappresentanti del M5s e di Podemos
presentano differenze in termini di aspetti sociali e professionali rispetto a quelli degli altri partiti? La loro sfida alla classe
politica esistente si è tradotta in un generale cambiamento dell’identikit sociale dei deputati? Al fine di rispondere a
queste domande proponiamo di seguito un’analisi del profilo sociale degli eletti dei nostri partiti, confrontandoli con i loro
colleghi. Si esamineranno in dettaglio le caratteristiche dei deputati secondo diversi parametri: l’età, il genere e la
professione svolta. Per Podemos l'attenzione sarà rivolta principalmente alla composizione del Congreso de los
diputados successiva alle elezioni del 2015, ma non mancheranno delle riflessioni riguardanti la classe politica
attualmente al potere. Questa scelta deriva da due ragioni fondamentali: è nel 2015 che il partito è entrato per la prima
volta nell’arena parlamentare; nelle elezioni del 2016 il ricambio dei candidati è stato limitato. Considerando che sia il
M5s che Podemos hanno puntato molto sulla trasparenza, varie informazioni sono state ricavate dai loro rispettivi siti. Nel
caso del M5s inoltre si sono tenute in considerazione le presentazioni dei singoli candidati sui principali social network.
Anche per le altre forze partitiche spagnole si è fatto ricorso alle informazioni pubblicate sulle loro pagine web.
4. Una nuova classe politica?
Le elezioni politiche del 2013 in Italia e del 2015 in Spagna hanno determinato una significativa circolazione delle élites
con l’ingresso di nuovi deputati. Sia nella Camera dei deputati che nel Congreso de los diputados il ricambio è stato
superiore al 62%. In Italia tale percentuale ha rappresentato il picco massimo di esordienti nell’ultimo ventennio. Anche in
Spagna d’altro canto la percentuale nelle passate legislature si era attestata intorno al 50%.
Il cambiamento in Italia non è legato solo al successo del M5s, ma dipende da più fattori: una nuova configurazione del
sistema partitico, forme innovative di reclutamento dei parlamentari (le primarie del M5s e del Pd), la coesistenza di più
modelli relazionali fra il leader e il ceto politico (il leader risorto del Pdl e dei suoi alleati, il leader interno selezionato con
le primarie proprio del Pd e del centrosinistra, il leader acquisito dentro la tecnocrazia di Scelta civica, il leader
rumorosissimo ed esterno del M5s) e un diffuso senso di sfiducia dell’elettorato verso la classe politica. In maniera simile
in Spagna la trasformazione della composizione del Congreso non è dovuta esclusivamente alla presenza di Podemos,
ma anche a quella del neo partito di centrodestra Ciudadanos e alla scomparsa dell’Unión progreso y democracia e del
regionalista Bloque nacionalista galego, nonché al ricambio del party in public office del Psoe (50%) e del Pp (39%).
Ciò detto, rispetto al caso italiano, si ha l’immagine di un’aula parlamentare sempre più aperta alle donne: le deputate
sono 197 su 630, pari al 31,3%. Questa è la cifra massima raggiunta fino ad oggi e costituisce un traguardo storico.
L’apporto del M5s alla Camera in fatto di presenza femminile è stato di certo consistente (38 deputate su un totale di
109), ma minore di altri partiti. Esso infatti si è situato alla terza posizione (34,9%), dopo il Pd (37,4%) e il Pdl (36,4%).
L’età media dei deputati del M5s è inferiore a quella dei loro colleghi: 33,5 anni a fronte di 48,8. Eppure l’età media dei
rappresentanti di tutti gli altri partiti è scesa esattamente di due punti rispetto alla legislatura del 2008, dove si attestava a
50,8 anni. I deputati 5 stelle sono in assoluto i più giovani. Passando all’analisi delle classi d’età, i rappresentanti del M5s
sono racchiusi unicamente nelle prime due coorti. In particolare il 56% ricade nella fascia che va dai venticinque ai
trentaquattro anni e il 44% in quella dai trentacinque ai quarantaquattro anni. I rimanenti 521 rappresentanti della Camera
si distribuiscono invece in tutte le classi indicate, con un affollamento più accentuato in quella che va dai quarantacinque
ai cinquantaquattro anni (34,2%) e una presenza significativa di cinquantenni e sessantenni (25%), nonché di
ultrasessantenni (6,5%). Procedendo nella comparazione in termini di livello di istruzione, il quadro è piuttosto omogeneo.
I 5 stelle possiedono un elevato livello d’istruzione, con il 58,7% che ha concluso il percorso universitario e l’11% che
ha proseguito dopo la laurea. Ma anche le altre organizzazioni partitiche hanno scelto dei soggetti altamente istruiti, dove
i laureati (60,5%) e i titoli post laurea (9,4%) sono il gruppo più numeroso (69,9%). L’unica discrepanza fra essi è più di
carattere qualitativo che non quantitativo, riguardando la tipologia del titolo di studio universitario: le lauree in scienze
sperimentali e ingegneristiche, seppure in forte aumento nel complesso, sono maggiormente diffuse fra gli eletti del M5s.
Ciò ha avuto degli effetti diretti sui profili occupazionali e professionali dei parlamentari della XVII legislatura e, in
particolare, di quelli del M5s. Fra questi ultimi, si rileva una netta prevalenza di impiegati (26,6%), avvocati e/o altri liberi
professionisti (26,6%). Così come per i consiglieri regionali 5 stelle (Montesanti e Veltri), occorre sottolineare tuttavia che
dietro queste tradizionali etichette si nascondono in realtà delle attività lavorative innovative, immediatamente legate al
terziario. Al di là degli impiegati tipici, sono presenti quelli che si occupano di mediazione linguistica, informatica e servizi
energetici. Riguardo alla libera professione, accanto a un gruppo di ingegneri, vi sono degli esperti di servizi energetici,
consulenti informatici e aziendali, qualche vignettista. Le stesse considerazioni valgono pure per gli imprenditori del M5s:
2/4 sono infatti a capo di aziende di servizi ed informatica. Mentre gli studenti sono un gruppo più nutrito che negli altri
partiti (8,3% contro 1,5%). Nell’item «altra professione» del M5s si ritrovano alcuni mestieri tradizionalmente
sotto-rappresentati o quasi inesistenti nelle aule parlamentari: tecnico di sala prove, cameriere, assistente di volo,
fisioterapista, addetto alle comunicazioni turistiche o al front office di un hotel. Gli eletti di questo partito, a differenza dei
loro colleghi, non sono professionisti della politica o esponenti dei sindacati. Fra essi semmai si ritrovano dei dirigenti di
associazioni ambientaliste (10,1%) o di volontariato e terzo settore (7,3%) ed ex attivisti dei movimenti ambientali e
territoriali. I motivi sono ravvisabili nella giovane età e nelle modalità di reclutamento adottate dai suoi fondatori. I gruppi
sociali di appartenenza dei deputati degli altri partiti invece non appaiono poi così diversi da quelli delle legislature
precedenti, incluse quelle della cosiddetta prima Repubblica. Essi provengono in buona parte dall’avvocatura (12,9%),
dalle professioni liberali (11,9%) dai livelli apicali della pubblica amministrazione (10,7%) e dalla politica professionale
(10,2%). La parte rimanente è costituita soprattutto da rappresentanti delle tradizionali filiere occupazionali, fra le quali la
pubblica amministrazione (8,8%), l’imprenditoria (8,4%) e l’università (8,3%).
Per quanto attiene Podemos è necessario puntualizzare che i 69 seggi ottenuti alla tornata elettorale del 2015 si
ripartiscono tra la lista del partito (quarantadue seggi) e quelle di coalizione presenti in tre comunità territoriali. Nel
complesso il numero di deputati rappresentanti esclusivamente il partito è pari a 50. Il numero di donne presenti in
Parlamento con il 39,7% è maggiore che in passato; Podemos mostra una presenza femminile più alta della media
generale (52%), seguito dal Psoe (46%) e dai partiti minori. Al contrario, il Pp ha eletto il 38% di deputate e Ciudadanos
solo il 20%. Podemos inoltre ha favorito l’abbassamento dell’età media. I suoi deputati si collocano in maggioranza
nelle prime due classi d’età, mentre negli altri partiti, sebbene ci sia una distribuzione dominante tra le fasce più giovani,
la prevalente è la centrale. Se l’età media dei parlamentari di Podemos è al di sotto dei quarant’anni (39,4), quella dei
suoi colleghi è molto vicina ai cinquanta (48,8). I laureati e i possessori di titoli post-laurea sono la maggioranza sia in
Podemos (76%) che negli altri partiti (86%). Rispetto alla professione numerosi sono i docenti e ricercatori universitari
(20%). Consistente è anche la voce «altra professione» (28%) in cui si trovano attività diverse da quelle classiche,
riflesso della giovane età dei deputati ma anche della trasformazione del mercato del lavoro, caratterizzato da una
crescente flessibilità. Più nello specifico, alcuni deputati lavorano nel settore della cooperazione, tramite associazioni o
Ong, altri si occupano della comunicazione o dell’organizzazione di eventi in associazioni culturali, altri ancora infine sono
assistenti o educatori sociali e qualcuno svolge la professione di magistrato. Prevale inoltre tra le altre libere professioni
quella dei consulenti (lavoro, comunicazione, tecnologie). In Podemos non sono presenti politici di professione. Se
alcuni hanno militato in precedenti partiti o hanno svolto attività sindacale, la maggioranza ha preso parte ad attività
politiche esterne ai canali istituzionali, aderendo alle mobilitazioni del 15M e a varie forme di associazionismo. Negli altri
partiti invece è evidente una distribuzione più uniforme delle occupazioni lavorative. Una percentuale significativa è data
dai politici di professione (12%); numerose sono le classiche libere professioni come quelle di avvocato, ingegnere e
psicologo (23%) e non mancano i funzionari pubblici (16,4%) così come i docenti universitari (14,7%). Tale composizione
socioprofessionale del parlamento non ha subìto cambiamenti rilevanti in seguito alle elezioni del 2016. La presenza
complessiva di deputate è rimasta pari al 39% e l’età media intorno a quarantotto anni. Il ricambio è stato molto basso,
attestandosi al 12,5% pari a quarantaquattro nuovi candidati. Di questi, ventidue hanno fatto il loro ingresso nel Pp, undici
in Unidos podemos, sette nel Psoe, due in Ciudadanos e pochi altri in partiti minori. Con riferimento a Podemos, tra il
dicembre 2015 e il giugno 2016, si rinviene una riduzione dei suoi deputati da 50 a 47.
5. I deputati del M5s e di Podemos a confronto
Attraverso una più dettagliata comparazione tra il M5s e Podemos si delineano alcune differenze rispetto a tre
dimensioni: l’appartenenza di genere, l’età e la posizione lavorativa. Guardando alla prima dimensione, Podemos
presenta un perfetto equilibrio tra le presenze maschili e femminili, aspetto non rilevabile tra i deputati del M5s, dove gli
uomini sono in maggioranza. Quanto all’età, i dati evidenziano delle trasformazioni significative a favore degli esponenti
del M5s, che sono più giovani dei loro colleghi spagnoli. I neo eletti del partito di Grillo non superano i 44 anni; i deputati
di Podemos invece si distribuiscono in quattro delle cinque fasce di età individuate e tra i 45 e i 64 anni la percentuale si
attesta al 30%. Volgendo lo sguardo alle categorie professionali riscontriamo una comune assenza di politici di
professione e una differenziazione per gli altri campi lavorativi. Se nel M5s hanno un peso rilevante le nuove figure di
impiegato e di libero professionista, proprie di circa la metà degli eletti, in Podemos c’è una forte caratterizzazione
universitaria, doppiamente declinata: docenti (20%) e studenti (8%). I deputati appartenenti a entrambi i partiti presentano
un alto livello di istruzione: i laureati e i possessori di un titolo superiore alla laurea corrispondono al 76% del totale.
Concludendo possiamo affermare che i due partiti mostrano con chiarezza importanti segnali di cambiamento rispetto ai
modelli tradizionali di reclutamento partitico. Cambiamento dal quale non sono completamente esclusi i partiti legati, in
via diretta o indiretta, alle formazioni del passato, seppure non siano ancora totalmente svincolati da rigidi percorsi
selettivi intrapartitici. Le differenze appena rilevate nel confronto tra i nostri due casi discendono invece dalle specifiche
modalità di selezione dei rispettivi rappresentanti oltre che dal loro modello originario. Esse quindi possono essere
comprese guardando alla loro intera organizzazione. Come si dimostrerà a breve notevoli discrepanze tra i nostri due
casi esistono rispetto alle relazioni del party in public office con il party in central office e il party on the ground. Ne
conseguono equilibri interni non omogenei. Al riguardo c’è da precisare che, come ricordato dalla letteratura, in generale
le tre facce possono essere considerate come ambiti funzionali, i cui confini nella realtà non sono ben delineati. Non è
quindi semplice individuare una netta prevalenza di una dimensione sulle altre, addensandosi il potere spesso nelle mani
di chi controlla le transazioni di confine tra di esse, riuscendo a convertire le risorse di un ambito in plusvalore nell’altro. È
tenendo presente questo accorgimento che di seguito si analizzeranno le strutture dei due partiti, evidenziando le loro
caratteristiche secondo il modello normativo delineato nei rispettivi documenti ufficiali e quello operativo legato, invece, al
funzionamento concreto.
6. Il M5s: tra minimalismo e personalizzazione
Il M5s presenta un organigramma molto snello, delineato nel Non statuto del 2009 e nel regolamento del 2014, entrambi
proposti da Grillo e modificati parzialmente nel 2016. Il movimento non ha mai avuto una sede fisica, quanto piuttosto una
piattaforma web coincidente prima con il blog del leader e poi con un altro sito distinto. Il party on the ground è molto diverso
dal modello di partito tradizionalmente inteso. L’adesione all’organizzazione infatti avviene tramite una semplice iscrizione
online, senza alcuna quota, ma assicurando la non appartenenza ad altre formazioni politiche. Svanisce inoltre la distinzione
tra iscritti e militanti in base al principio «una persona, un voto». Da un punto di vista normativo sono proprio gli iscritti e gli
elettori che controllano e guidano il party in public office. In primo luogo i candidati sono stati selezionati attraverso delle elezioni
primarie svoltesi online in cui erano ammessi a votare quegli iscritti appartenenti all’organizzazione da almeno tre mesi prima
delle elezioni. In secondo luogo i rappresentanti del M5s sono legati al loro elettorato da un vincolo di mandato, pena la revoca
del loro incarico. Questa previsione, che è in palese contrasto con i principi costituzionali della democrazia italiana, si è in realtà
tradotta in un’obbligazione morale per gli eletti a dar conto della loro attività istituzionale attraverso dei resoconti periodici sul
blog del movimento o mediante assemblee nei territori in cui sono stati votati. Al riguardo alcuni autori fanno notare però che la
mancanza di strumenti da parte della base per valutare tecnicamente il lavoro svolto nei contesti istituzionali e l’assenza di unità
organizzative di collegamento tra i due livelli contribuiscono ad incrementarne la distanza, favorendo una superiorità del party in
public office. Ciò non ha evitato tuttavia che nel corso degli anni circa ⅕ dei deputati e ⅓ dei senatori siano stati espulsi dal
movimento. In generale le espulsioni sono state annunciate sul blog del leader che, in alcuni casi, ha proceduto a realizzarle
direttamente, motivandole con una scarsa aderenza alla linea politica ufficiale e con la necessità di mantenere la coesione
interna di fronte alle critiche provenienti dagli altri partiti e dai media. In altre situazioni esse sono state ratificate dal popolo della
rete. A proporre simili votazioni, promuovendo la conferma dell’allontanamento dei dissidenti, è sempre stato il leader che
spesso ne ha giustificato la legittimità adducendo l’esistenza di segnalazioni provenienti dai territori o l’accordo già raggiunto
dagli altri parlamentari. Effettivamente talvolta si sono svolte delle assemblee territoriali in cui i rappresentanti sono stati
duramente criticati. Ma, come ben spiegato da Vignati, il problema rilevato per questo tipo di assemblee è la «mancanza di
qualsiasi definizione della loro composizione, delle modalità di convocazione e dei poteri effettivi».
È sempre al leader inoltre che si deve una restrittiva regolamentazione delle primarie che hanno preceduto le elezioni politiche
del 2013. L’accesso alla candidatura era limitato esclusivamente a coloro che avevano partecipato alle consultazioni comunali o
regionali nelle sue liste, ma che non ricoprivano alcun incarico. Venivano poi preferiti i candidati più giovani anche qualora
fossero stati meno votati. Ciò spiega la peculiare giovane età dei rappresentanti del M5s evidenziata in precedenza anche nel
confronto con Podemos. In sostanza il reclutamento era avvenuto mediante il recupero degli esclusi o dei perdenti alle
precedenti elezioni, il cosiddetto personale second best. Tali modalità di selezione se da un lato avevano impedito l’accesso di
persone estranee al partito, dall’altro avevano agevolato quei candidati privi di un ampio supporto popolare, di visibilità o di
esperienza. Molti di essi infatti, a causa anche della bassa partecipazione, erano stati selezionati con una sola manciata di voti.
Ciò, secondo Vignati, sin dal principio indeboliva il peso dei rappresentanti istituzionali all’interno della struttura partitica,
incidendo sul loro grado di indipendenza e restringendone il potere di contrattazione con il party in central office. D’altro canto
quest’ultimo fino a poco tempo fa era costituito esclusivamente dai due fondatori, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio,
affiancati da uno staff. Il primo, creatore del M5s, si è autonominato capo politico e garante dell’integrità del Movimento.
Inizialmente aveva l’esclusiva titolarità della proprietà del simbolo, mentre dal 2016 la condivide con pochi altri che fanno parte
del consiglio direttivo dell’Associazione M5s. Il secondo, scomparso recentemente, è stato definito spin doctor e ideologo,
proprietario della società che gestisce il blog del Movimento. Dello staff invece non si è mai conosciuta la composizione, pur
svolgendo funzioni importanti come ad esempio il controllo delle iscrizioni e delle liste elettorali nonché la comunicazione a
livello nazionale. In assenza di una struttura di intermediazione tra il livello centrale e quello istituzionale, in una prima fase, su
iniziativa di Grillo erano stati istituiti dei gruppi di comunicazione presenti sia nel parlamento nazionale che in quello europeo.
Essi erano costituiti da membri scelti dai leader, ratificati dai gruppi parlamentari e finanziati con le loro risorse. Tali gruppi però
non avevano fatto altro che generare conflitti tra i due livelli. Per un breve periodo, inoltre, era stato introdotto un comitato
operativo, il cosiddetto direttorio, costituito da cinque parlamentari scelti da Grillo e confermati dalla base attraverso il web.
Esso, che aveva il compito di affiancare il leader, non era stato formalizzato nei documenti del partito, venendo sciolto nel 2016.
Soltanto recentemente, in risposta alla richiesta di adattamento alle normative sulla trasparenza e la democrazia imposte ai
partiti e alle critiche rispetto al livello di democrazia interna, sono stati istituiti formalmente l’Assemblea degli iscritti, il
Comitato d’appello, il Collegio dei probiviri, organi che si affiancano alla figura del capo politico (Grillo). L’Assemblea è
costituita dagli iscritti e ha il compito di esprimersi tramite votazioni online sui programmi politici, sulla scelta dei candidati, su
eventuali modifiche al Non statuto proposte dal capo politico o da almeno ⅕ dei suoi membri, sulle sanzioni disciplinari ove la
questione venga ad essa sottoposta. Il Comitato d’appello è composto da un membro nominato dal Consiglio direttivo
dell’Associazione M5s e da due membri eletti dall’assemblea tra cinque nominativi proposti sempre dal consiglio direttivo. Esso
dura in carica 5 anni ed esprime il proprio parere sulla compatibilità con i principi alla base del M5s delle eventuali proposte di
modifica del Non statuto, prima che vengano sottoposte alla votazione online. Infine, il Collegio dei probiviri, la cui durata è di tre
anni, è formato da tre parlamentari nominati dall’Assemblea su proposta del capo politico. Si occupa di valutare l’ammissibilità
delle iscrizioni e le espulsioni. Tali modifiche sembrerebbero aver strutturato maggiormente l’organizzazione del partito,
spingendo alcuni deputati a parlare di una trasformazione consistente in grado di assicurare maggiori garanzie agli iscritti,
fronteggiando adeguatamente le critiche esterne. In realtà, come si può notare dalla composizione e dalle funzioni degli organi
appena descritti, è evidente come esse confermino il ruolo predominante di Grillo formalizzando la sua posizione come capo.
Nei documenti del partito inoltre non vengono menzionati i Meetup, ovvero le assemblee virtuali e territoriali sorte soprattutto
nel periodo iniziale ma ancora esistenti. Esse, seppur a livello locale mantengono una certa autonomia dal centro, non
sembrano godere di canali privilegiati per la partecipazione ai processi decisionali in ambito nazionale, dove invece prevale
l’indistinto popolo della rete e le votazioni via web. Queste ultime hanno avuto un andamento discontinuo riguardo alla
frequenza e declinante in termini di partecipazione. Infine è difficile definire tali procedure come completamente trasparenti e
democratiche. Spesso infatti i risultati mostrati sono incompleti; poco tempo viene riconosciuto per l’espletamento del voto; i
temi su cui gli attivisti si esprimono sono definiti dalla leadership che dichiara pubblicamente la sua preferenza, pur sussistendo
un’asimmetria informativa e di influenza; infine il controllo delle votazioni è effettuato esclusivamente dallo staff. Più di recente il
M5s ha introdotto una nuova piattaforma web, Rousseau, che dovrebbe funzionare come arena deliberativa, coinvolgendo gli
iscritti nell’elaborazione delle proposte. Alcune critiche, però, sono state sollevate rispetto al suo funzionamento. Sembrerebbe
infatti che nei forum di discussione l’interazione sia permessa solo tra attivisti e rappresentanti, ma non tra attivisti stessi. In virtù
di questa ricostruzione possiamo convenire con quanti hanno intravisto una compressione del party in public office tra la base e
la leadership. Risulta però anche chiaro come il ruolo ricoperto dal leader sia preponderante, con una conseguente
tendenziale personalizzazione del partito. Molti autori infatti hanno riconosciuto nel M5s caratteri del partito personale o
carismatico, sottolineando come l’uso della rete, lungi dal coincidere con un’assenza di intermediazioni, consenta al leader di
condizionare il processo decisionale, apparendo però come interprete della volontà generale.
7. Podemos: una complessità controllata
Podemos ha una sede fisica, presenta un'architettura organizzativa molto più strutturata e più vicina ai modelli tradizionali. Se
nel M5s il Non statuto e il regolamento sono stati elaborati da Grillo, coinvolgendo la base solo per l’approvazione delle
modifiche successive, in Podemos l’assetto organizzativo è stato l’esito di un’assemblea cittadina, Sí se puede. Durante la
stessa gli iscritti al portale web di Podemos avevano contribuito all’elaborazione dei documenti organizzativo e politico e del
codice etico avanzando proposte tramite il web, approvando la versione definitiva in occasione del congresso fondativo. Anche
in Podemos quindi il party on the ground è costituito da quei simpatizzanti che procedono all’iscrizione online ma non è richiesta
l’esclusività di appartenenza se non qualora si aspiri a ricoprire cariche interne o istituzionali. Podemos ha registrato sin
dall’inizio un ampio numero di iscritti: nell’ottobre del 2014 essi erano 205.000 fino a raggiungere la cifra attuale di 487.680
(maggio 2017). Però, di essi solo la metà può considerarsi partecipe delle attività del partito. Sulla base del documento
organizzativo (Podemos 2014b), approvato nel 2014, sono stati istituiti: l’Assemblea cittadina, il Consiglio cittadino, la
Segreteria generale, la Commissione di garanzia e i circoli. Alcune modifiche sono state introdotte in occasione del secondo
congresso 02/2017. Esse non hanno alterato l’architettura del partito, introducendo dei cambiamenti rispetto alla composizione
di alcuni organi e alla ripartizione di determinate funzioni. Si inizierà quindi dall’esame della struttura così come delineata in
principio, evidenziando in seguito le trasformazioni. L’Assemblea cittadina, costituita da tutti gli iscritti, è il massimo organo
decisionale del partito. I suoi compiti sono: definire la linea politica, costruire tramite primarie aperte le liste elettorali per le
cariche istituzionali, approvare le alleanze pre e post elettorali a livello nazionale, i programmi definitivi e risultato di processi
partecipativi, eleggere il Segretario generale, il Consiglio cittadino statale e la Commissione di garanzia. Viene convocata ogni 3
anni, pur esistendo la possibilità che il Segretario generale, il Consiglio cittadino statale o i circoli ne richiedano la celebrazione
anticipata. Il Consiglio cittadino statale è l’organo di direzione politica e di gestione, diviso in aree tematiche e di policy
costituito da 81 membri tra cui il Segretario generale, i 17 Segretari regionali, 1 esponente all’estero e 62 membri eletti
dall’Assemblea. La Commissione di garanzia infine è formata da 10 persone e garantisce il rispetto del codice etico del
partito. A sua volta il Segretario generale ha compiti di rappresentanza politica e istituzionale, di coordinamento strategico e
tra le diverse aree di policy. È affiancato infine da un Consiglio di coordinamento composto da 10/15 persone elette dal
Consiglio statale su sua proposta. Tale struttura è stata estesa anche a livello regionale.
Sin dal 2014 ricopre la carica di Segretario generale Pablo Iglesias, il giovane politologo che già in occasione delle elezioni
europee era stato scelto alla guida della lista elettorale con il 60% dei voti alle primarie online. In maniera del tutto opposta al
M5s, anche per la posizione di leader Iglesias è sempre stato legittimato dagli iscritti. Lo stesso si può dire per coloro che
compongono gli altri organi del party in central office così come per i candidati alle elezioni nei vari livelli territoriali o per gli
esponenti dei consigli regionali. Accanto ai social network più diffusi (Facebook e Twitter) Podemos ha fatto ricorso a una serie
di altri canali come, ad esempio, le piattaforme di discussione e deliberazione, di coordinamento o di voto (Agorà voting). Infine,
insieme agli strumenti di partecipazione via web, esso ha previsto sin dall’inizio la costruzione di unità di base territoriali e
settoriali, denominate circoli. Essi, diversamente dai Meetup a 5 stelle, sono parte integrante dell’organigramma del partito così
come formalmente stabilito. I circoli, che possono essere fondati da qualunque cittadino interessato e non necessariamente
iscritto al partito, hanno il compito di assicurare la formazione e il mantenimento di legami con la società. In una prima fase si
erano diffusi rapidamente in tutte le regioni spagnole e molti si erano sovrapposti o avevano inglobato le assemblee nate
durante le proteste del 15M, consentendo così l’instaurazione di un «vincolo organizzativo» con il movimento. Infine il party in
public office di Podemos è stato selezionato dalla base attraverso la procedura delle primarie. La candidatura era aperta non
solo agli iscritti, ma anche agli esterni maggiorenni, purché avessero partecipato precedentemente alle attività
dell’organizzazione nel pieno rispetto dei criteri statutari. Inoltre la commissione elettorale interna si era riservata il diritto di
bilanciamento degli esiti delle votazioni secondo il criterio di genere, qualora le circostanze lo avessero richiesto. Questo, come
si è visto nella sezione anteriore, mirava a favorire una rappresentanza paritaria tra uomini e donne.
Se nel M5s esiste una netta distinzione tra il party in central office e il party in public office, qui invece si ritrova una loro parziale
sovrapposizione. Lo stesso leader, quasi tutti gli esponenti della coalizione dominante presenti nel Consiglio di coordinamento,
così come alcuni rappresentanti del Consiglio cittadino fanno parte della classe parlamentare. A favorire la loro elezione sono
stati due fattori: da una parte la maggiore notorietà mediatica del leader, conosciuto dai cittadini spagnoli già prima della
formazione di Podemos per le trasmissioni di discussione e approfondimento politico che aveva ideato e condotto sul web,
passando poi per tv locali e nazionali; dall’altra la decisione di presentare delle liste bloccate alle elezioni primarie sia per le
cariche interne che istituzionali, impedendo la scelta dei singoli candidati. Ciò ha fatto sì che la lista Claro que Podemos,
guidata dal leader e costituita dagli esponenti più visibili mediaticamente e provenienti soprattutto dal gruppo dell’Università
Complutense, abbia occupato i primi posti sia nel Consiglio cittadino che nella lista alle elezioni politiche. Questo contribuisce a
spiegare la presenza di una percentuale consistente di docenti universitari tra le fila dei deputati di Podemos, così come prima
evidenziato. Tale parziale coincidenza riconosce di fatto un ampio potere di direzione alla coalizione dominante che si ritrova a
controllare quelle risorse di confine tra le diverse facce del partito. Più di recente lo stesso Iglesias e la coalizione dominante
hanno riconosciuto come la necessità di affrontare le sfide esterne, costituite dalle molteplici competizioni elettorali susseguitesi
tra il 2014 e il 2016 abbia condotto il partito verso un processo di verticalizzazione. La necessità di agire e adottare decisioni
rapidamente ha anche determinato una debole promozione della rete dei circoli, generando critiche da parte di molti attivisti.
Infine, come già accennato, il tasso di partecipazione degli iscritti alle primarie e alle altre consultazioni riguardanti
l’approvazione del programma o delle coalizioni elettorali è stato declinante, risalendo soltanto di recente. In seguito alle
elezioni del 2016 e alla mancata conquista del governo (principale obiettivo del partito) la questione della riorganizzazione e
della partecipazione interna è divenuta centrale nel dibattito del partito. Il nuovo documento organizzativo, approvato nel 2*
congresso, ha limitato il numero di posizioni che gli iscritti possono ricoprire, mantenendo però la possibilità di aver un incarico
interno all’organizzazione e uno esterno o istituzionale. Anche la nuova composizione del Consiglio cittadino non ha
sostanzialmente ridotto la commistione tra i due livelli. L’unica limitazione al riguardo è stata introdotta per i membri della
Commissione di garanzia al fine di assicurare una maggiore autonomia nelle attività di controllo. Questa volta, però, i
rappresentanti dei circoli locali e settoriali sono stati inclusi nel Consiglio cittadino. In conclusione Podemos presenta
un’organizzazione complessa e differenziata, dove bilanciare le spinte bottom-up e top-down non è stato semplice.
L’associazione di una struttura per molti aspetti più vicina a quella dei partiti tradizionali con l’uso dei nuovi media ha creato
tuttavia degli anticorpi e maggiori resistenze alla personalizzazione e all’eccessivo accentramento. Da quanto detto infatti è
possibile individuare maggior pluralismo che nel M5s, dimostrato dall’esistenza di un settore critico che ha manifestato, spesso
rumorosamente e pubblicamente, la sua contrarietà alla linea ufficiale, riuscendo comunque a rivestire cariche influenti negli
organi centrali o regionali del partito. Infine, in seguito al mancato sorpasso elettorale del Psoe, la coalizione dominante si è
divisa e la leadership di Iglesias è stata sfidata dal numero due del partito, Iñigo Errejón. La riconferma di Iglesias da parte della
base si deve soprattutto all’introduzione di nuovi «incentivi di scopo», corrispondenti all’ampliamento della democrazia e della
partecipazione secondo le modalità di un partito-movimento.
8. Le differenze alla luce dell’imprinting originario e delle sfide esterne
Dal confronto dei modelli organizzativi appena esaminati si possono individuare molte differenze. Tra esse quelle più
rilevanti possono essere riassunte attraverso 2 dicotomie: minimalismo vs complessità e separazione vs
sovrapposizione. La prima fa riferimento alla maggiore articolazione e formalizzazione strutturale di Podemos rispetto a
quella del M5s. La seconda, invece, riguarda le relazioni tra le tre facce del partito. Se nel M5s il party in public office è
compresso tra il party in central office e il party on the ground, in Podemos invece si ritrova una parziale sovrapposizione
tra il livello istituzionale e quello centrale, entrambi selezionati dalla base. Le ragioni di questa discrasia organizzativa
vanno ricercate nelle divergenti concezioni rispetto alla forma partito e alle sue funzioni espresse in origine dalle rispettive
élites. A fondamento del M5s si ritrova una negazione del partito mentre per Podemos è più appropriato parlare di rifiuto
selettivo del partito. Come già osservato, non soltanto il M5s etichetta il suo documento fondativo come Non statuto, ma
esso stesso si presenta come un non partito, «una piattaforma e un veicolo di confronto e di consultazione». Agisce
quindi per «essere testimone della possibilità di realizzare un efficiente ed efficace scambio di opinioni e confronto
democratico al di fuori di legami associativi e partitici e senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi,
riconoscendo alla totalità degli utenti della Rete il ruolo di governo ed indirizzo normalmente attribuito a pochi». Il partito è
quindi visto come una forma organizzativa del passato, destinata a scomparire grazie all'uso del web e all’affermazione
della democrazia diretta e partecipativa. Anche Podemos enfatizza l’importanza della democrazia partecipativa
presentandosi come «metodo per il protagonismo popolare, nato con il desiderio di creare un nuovo modo di fare politica,
con una struttura trasparente e democratica aperta a tutti i cittadini»; però esso si definisce come partito. La critica di
Podemos è quindi rivolta a un tipo di partito: quello elettorale, che si è sganciato dalla cittadinanza. Le due concezioni
sono legate alle origini/ragioni che hanno determinato la loro formazione. Il M5s è una creazione di Beppe Grillo, a cui si
è associato successivamente Casaleggio. In assenza di un movimento generale, ampio e dal basso come quello degli
Indignados in Spagna, Grillo ha agito come mobilizzatore, adottando una strategia di preference shaping e spostando il
dibattito e la competizione politica sul cleavage che oppone gente e casta. La leadership di Grillo costituisce la risorsa
indispensabile per la formazione stessa del Movimento e non è soggetta a meccanismi di responsabilizzazione. In questo
senso possiamo parlare di «leader con partito». Podemos sorge invece in una democrazia in cui pochi anni prima il
movimento degli Indignados aveva già reso fertile il terreno della protesta, ma senza aver prodotto cambiamenti
sostanziali in termini di equilibri partitici. All’origine di Podemos vi è il tentativo di creare uno strumento per passare dalle
piazze alle istituzioni, convertendo l'indignazione in cambiamento politico. Al riguardo Juan Carlos Monedero, uno dei
fondatori di Podemos ha affermato: Il 15M ebbe successo per tre elementi che furono: non avere leadership, non avere strutture e
non avere un programma. Precisamente i tre elementi che nel tempo si sarebbero convertiti nelle sue principali zavorre: senza
leadership, senza un programma comprensibile che potesse dare la sensazione di una capacità di governo e senza una struttura che
potesse evitare quello che abbiamo sempre detto rispetto ai movimenti sociali e cioè che sono come le onde del mare: esistono
solamente quando c’è vento. Anche Iglesias è stato una risorsa importante per la genesi del partito. Non a caso la sua
immagine venne inserita nel simbolo di Podemos per le elezioni europee del 2014. Tuttavia per Podemos si può parlare
di un «partito con leader»e non viceversa; si è trattato di un processo di costruzione collettiva del partito e della
leadership, mentre per il M5s è il leader che ha indotto un processo di mobilitazione. La debole struttura del M5s e
l’assenza di organi intermedi in grado di legare le tre facce trovano legittimazione proprio nella concezione della
democrazia diretta che sarebbe resa possibile dal web e che vorrebbe la base come «principale» e i rappresentanti come
«delegati». Tuttavia la posizione di Grillo con il passare degli anni e, nonostante i cambiamenti introdotti per i vincoli
istituzionali e in risposta alle critiche interne ed esterne, non sembra essere stata alterata, rimanendo sovraordinata. Il
suo ruolo appare essere più ampio di quello di un semplice mediatore.
Rispetto a Podemos invece si deve ricordare che già in occasione del congresso fondativo il partito era stato
riconcettualizzato come «macchina da guerra elettorale» in grado di condurre una «guerra lampo» per l’acquisizione della
guida del governo. Infine la necessità di far fronte alle sfide elettorali ha condotto verso una prevalenza della tendenza
verticale, ma non ha reso Podemos un’organizzazione monolitica.
9. Conclusioni
Il fattore che accomuna il M5s e Podemos è la capacità di intercettare l’insoddisfazione dei cittadini, veicolando un
messaggio di rinnovamento politico anti establishment. Il successo elettorale dovuto a questa strategia ha permesso loro
di ampliare la rappresentanza sociologica, promuovendo l’accesso in parlamento di personale politico alla prima
esperienza e di categorie sociali e professionali finora poco presenti nelle istituzioni. Eppure queste due forze non sono la
stessa cosa. Le differenze organizzative evidenziate dall’analisi sono infatti molteplici e profonde. Nella fase della
«democrazia del pubblico» i due partiti si sono proposti come strumento per rendere i cittadini protagonisti delle decisioni
e della gestione della cosa pubblica. A tal fine hanno adottato modelli organizzativi differenti da quelli classici, tentando di
garantire la partecipazione dal basso. Si è visto però che nel caso del M5s il popolo della rete, in assenza di organismi
intermedi, ha avuto bisogno sin dall’inizio e poi ancor di più nelle tappe successive di un capo con forte appeal mediatico.
Anche in Podemos trovare un equilibrio tra efficienza e democrazia non è stato semplice. Tuttavia la presenza di una
struttura più articolata ha impedito l’eccessiva centralizzazione, riconoscendo spazi di democrazia interna molto più ampi.

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