I.
Una nuova generazione di attivismo per i diritti e la liberazione animale si affaccia alla lotta carica
non solo di determinazione e di speranza, ma anche del bagaglio filosofico e culturale
dell’animalismo e dell’antispecismo così come elaborati e agiti da chi le ha precedute. Nuovi temi
generano nuovi problemi teorici e nuove forme di azione. Accanto ad essi, alcuni vecchi temi
continuano a far discutere e a influenzare la pratica di lotta. Alcune idee agiscono intensamente
sotto la pelle del “movimento”i, non sempre a livello consapevole ma non per questo con effetti
trascurabili, anzi. Sembra dunque opportuno portare queste idee all’attenzione del movimento,
risolvere qualche fraintendimento su di esse e indicare possibili percorsi per affrontare la strada
davanti a noi con l’equipaggiamento intellettuale più adatto.
La diatriba fra antispecismo politico (anche detto “storico”) e antispecismo morale (anche
detto “metafisico”), sviluppatasi nei libri e nei numeri delle riviste specialistiche, nei convegni,
nelle conferenze e, più di recente, nei video e nei contenuti online, è parte del bagaglio di
conoscenze e di esperienze maturate negli ultimi vent’anni. Essa informa pensiero e attività delle
nuove leve; perlomeno, della punta teoreticamente più avanzata di esse. Non che gli effetti pratici di
un’impostazione teorica - sia pure implicita - non riguardino tutto il movimento; ma è in particolare
chi riflette su quell’impostazione a modificare di più il suo attivismo in base all’idea che si fa della
questione.
Ora, la questione ha due aspetti tra loro intrecciati e che vanno tenuti insieme: da un lato, il
problema della priorità tra l’elemento ideale dello specismo (la “discriminazione”) e quello
materiale (lo “sfruttamento”); dall’altro, la natura del soggetto specista, se cioè esso vada ricondotto
alla coscienza individuale (individualismo metodologico) o se invece vada inteso come processo,
come risultante di forze sociali diverse, plurali e antagoniste (olismo sociologico, funzionalismo,
marxismo, strutturalismo ecc.).
Il prima problema potrebbe essere posto così: se sfruttiamo gli altri animali perché li
discriminiamo (antispecismo morale) o se li discriminiamo perché li sfruttiamo (antispecismo
politico)ii; ovvero se il fatto che ci cibiamo, ci vestiamo e facciamo tutta una serie di cose a danno
degli altri animali sia causato dal ritenerli inferiori, oppure se ritenerli inferiori non sia altro che una
giustificazione razionale che rassicura le coscienze più sensibili e assicura la prosecuzione del loro
sfruttamento.
Molte persone nel movimento risponderebbero che sono vere entrambe le cose; in un certo
senso, avrebbero ragione. È vero, infatti, che l’umanità (e alcune classi sociali più di altre) trae
vantaggio dallo sfruttamento degli altri animali e che ha tutto l’interesse - o almeno così pensa - a
continuare a sfruttarli. Ed è vero anche che l’umanità discrimina gli altri animali, che il suo sguardo
sugli altri animali è specista. Il punto è in che rapporto stiano i due termini del discorso, ovvero la
discriminazione da un lato e lo sfruttamento dall’altro: se co-dipendano o se uno sia subordinato
all’altro. C’è un rapporto causale fra di essi? Da dove origina l’oppressione animale?
Qui occorre introdurre il secondo problema: di cosa è fatta l’azione sociale? E’ l’effetto di
azioni individuali isolate o, piuttosto, le azioni individuali sono rese possibile da un campo di forze
sociali che le precede?
La sociologia, nelle sue varie articolazioni, ha studiato bene il rapporto tra questi due aspetti
dell’essere sociale, ma si è ben guardata dal ridurre l’azione sociale all’agire spontaneo degli
individui (che sarebbe una vera e propria negazione della natura intrinsecamente collettiva dei
processi che sono oggetto del sapere sociologico). A questo proposito può tornare utile quanto
scritto dal sociologo statunitense Herbert Blumer nel suo Race Relations:
Prejudice arises … through a collective process in which spokesmen for a racial or ethnic group - prominent
public figures, leaders of powerful organizations, and intellectual and social elites – operating chiefly through
the mass media publicly characterize another group. Such spokesmen foster feelings of racial superiority, racial
distance, and a claim to certain rights and privileges. Other members of the dominant group, although having
different views and feelings, fall into line fearing ingroup ostracism. The sense of group position serves as a
special kind of social norm, especially for individuals who strongly identify with the ingroup. In this fashion a
sense of group position - with its encompassing matrix of prejudice - becomes a general kind of orientation. It
is a hypothesis, then, that views the dominant group as having a vested interest in another group’s
subordination; the dominant has a stake in preserving an order characterized by privilege and advantage.
Prejudice becomes an instrument for defending this privilege and advantage. iii
Piuttosto che originarsi dal basso e diffondersi trasversalmente a classi e gruppi sociali, il
pregiudizio viene diffuso - scientemente - dall’alto, strumentalmente ad interessi per i quali il
pregiudizio è sempre mezzo, mai fine. Esso è cioè funzione di tali interessi, non avrebbe,
letteralmente, senso senza di essi. Si pensi alla narrazione delle destre italiane sui “terroni” prima e
sui migranti poi, con il graduale allargamento dell’asse del privilegio fino ad includere soggetti che
prima ne erano esclusi e che anzi erano considerati un pericolo per la sopravvivenza stessa del
proprio gruppo.iv Oppure a certe strampalate dichiarazioni del leader di Forza Nuova Roberto Fiore
sull’aver sbagliato le campagne degli anni ’90 contro romeni e albanesi, giacché il “vero” nemico
del bianco europeo non può che essere l’africano! Chi immagina il pregiudizio come punto di
partenza dell’agire politico della destra xenofoba e nazionalista non ha strumenti per comprendere
questi slittamenti di senso: essi rimangono pure “contraddizioni” se non se ne segue la logica che si
muove, in effetti, in un’altra zona, non simbolica ma materiale. Oggi l’identitarismo (a prescindere
da quale sia l’identità di volta in volta in questione) appassiona visceralmente un certo elettorato,
non le élites, le quali mostrano un atteggiamento più spregiudicato che ottuso, più calcolante e
manipolatorio che reazionario e dogmatico.
Da dove sorge dunque il pregiudizio posto che esso va riconosciuto come una variabile
dipendente e non come il punto di partenza dell’analisi sociale? David Nibert risponde
elegantemente a questa domanda ricordando come il pregiudizio non vada ricondotto a una
metafisica “natura umana” opprimente ma a un’euristica empiricamente fondata. Essa ci costringe a
spostare il focus della domanda: come nasce la gerarchia che esercita e intensifica l’oppressione? E
appare evidente che non può esserci gerarchia senza conflitto e che il conflitto, a sua volta, deve
essere oggettivamente possibile e determinato da condizioni materiali che precedono
ontologicamente se non cronologicamente l’istituzione della gerarchia stessa. Da un punto di vista
molto generale, secondo Nibert, i fattori che favoriscono il sorgere di un rapporto di oppressione
sono quindi tre, legati fra loro da rapporti causali: 1) che esistano due o più gruppi in competizione
per le risorse, 2) che fra questi gruppi qualcuno abbia o acquisisca gli strumenti per imporsi sugli
altri e 3) che l’assoggettamento e lo sfruttamento da parte del gruppo o dei gruppi dominanti venga
normalizzato, dunque moralmente giustificato.v In altri termini, non occorre affatto mettersi alla
ricerca del Santo Graal dell’Oppressione per giustificare comportamenti individuali e relazioni
sociali egoistiche ed oppressive: esse potenzialmente valgono non solo per gli umani ma anche per
tutti gli animali, perfino per il vivente non senziente. Il loro attivarsi dipende dalle circostanze.
L’antispecismo politico ha ulteriormente elaborato questo approccio inserendolo
esplicitamente nella cornice interpretativa del materialismo storico. Per materialismo storico si
intende la teoria in base alla quale visioni del mondo e comportamenti individuali e collettivi sono
condizionati dalla base materiale d’esistenza, ovvero, per dirla con Marx, dallo sviluppo delle forze
produttive (persone, strumenti, conoscenze tecniche) e dei rapporti di produzione (le relazioni fra
gruppi/classi, la posizione che occupano nella gerarchia sociale, il possesso che hanno o non hanno
dei mezzi di produzione).vi In particolar modo, l’antispecismo politico prende sul serio la natura
strutturante a livello globale e locale del modo di produzione capitalistico e del processo
impersonale di auto-valorizzazione del capitale: non è possibile comprendere ciò che accade nella
nostra società senza guardare a questo processo come ciò che sposta tutto il tradizionale discorso
sulla gerarchia e l’oppressione di classe su un nuovo livello, quello in cui gli effetti di sistema sono
prodotti da un meccanismo anonimo, quantificante e a-morale, in cui mai come prima, i “valori”, se
non il “senso” stesse delle cose umane si disfa e viene ricomposto in forme inedite, ibride, senza
alcuno scopo autonomo, ma tutte asservite alla teleologia immanente del capitale stesso. Perfino
l’umano “dominatore” diventa qui un retaggio antiquato reso effetto di sistema, un fantoccio tenuto
in piedi da esigenze eteronome che vede progressivamente erosa la propria agency e la propria
sostanzialità dal processo di riproduzione dell’intero. Lo sfruttamento – cioè il meccanismo di
produzione di valore e profitto - diventa l’alfa e l’omega delle relazioni sociali mano a mano che la
legge di mercato occlude l’orizzonte del possibile. L’antropocentrismo si traduce interamente in
capitalocentrismo.
II.
Qual è ora la situazione attuale dell’antispecismo politico? L’aumento del numero delle singole
persone e delle organizzazioni che si richiamano a questa teoria è confortante, e indicativo
dell’accresciuto interesse verso il tema e, cosa che è più importante, della consapevolezza che
occorre superare il qualunquismo e il trasversalismo politico e rivendicare che la lotta per i diritti e
la liberazione animale abbia un colore, una bandiera, anche se non necessariamente il colore e la
bandiera di un’organizzazione politica o di un partito specifico fra quelli dell’attuale panorama
parlamentare ed extra-parlamentare.
Tuttavia, basta gettare uno sguardo online per rendersi conto dell’esistenza di un attivismo
che si auto-definisce “politico” (o “sistemico”, o “intersezionale” vii, e su questa sovrapposizione
torneremo fra un attimo) e che può essere ricondotto a un’area genericamente di sinistra e
comunque anti-capitalista, per il quale il fine della lotta di liberazione animale non è tanto
sovvertire i modi di produzione ma l’ordine mentale antropocentrico e l’ideologia specista. Questo
antispecismo pone ancora al centro della questione il cambiamento del nostro sguardo sull’altro
animale - ben che vada, sull’animalità in generale -, la sostituzione dell’Animale collettivo,
anonimo, dell’Animale-cosa e dell’Animale-merce con l’Animale-persona, la Singolarità-Animale,
il Divenire-Animale ecc. Il reale appare come qualcosa su cui lo sguardo del soggetto opera dei
“tagli”, delle “dicotomie”, delle “categorizzazioni”, delle “classificazioni”: sfugge a questo modo di
pensare il fatto che il soggetto stesso andrebbe pensato come qualcosa che sta dentro quel reale
che pretende di categorizzare “dall’esterno”. L’idealismo si annida anche nel più feroce
decostruttore dei pregiudizi e degli stereotipi. E l’idealismo è necessariamente connesso ad un
moralismo intransigente e astratto.
Da qui deriva infatti quell’abituale, forte contrarietà per i “piccoli passi” delle politiche e
delle organizzazioni dichiaratamente abolizioniste, cioè quelle che si pongono come fine ultimo la
liberazione totale degli altri animali dallo sfruttamento umano ma che per arrivarci operano tramite
un programma strategico di riforme incrementali, cioè funzionali e propedeutiche al fine ultimo.
Secondo la prospettiva che fraintende l’antispecismo politico (tanto da poter essere definita
“pseudo-politica”), infatti, ogni riforma parziale rischia di normalizzare lo status quo acquietando la
coscienza del “cittadino-consumatore”viii.
Si consideri, per esempio, la questione della carne coltivata. C’è chi, da posizioni
antagoniste, vi si oppone - o perlomeno si oppone all’idea che l’animal advocacy dovrebbe
sostenerne la diffusione - perché produrre e consumare carne coltivata non emanciperebbe dall’idea
che gli altri animali non sono cibo, e dunque non scardinerebbe “il paradigma specista”. Nonostante
si dichiari di aderire alla visione dell’antispecismo politico, la preoccupazione è analoga a quella
dell’attivismo di prima generazione tutto intento a convertire le coscienze altrui. Si ha qui una
curiosa convergenza fra antispecismo “politico” di sinistra, anti-sistema e antispecismo borghese
morale-moralista. Per entrambi occorre condannare tutto ciò che rischia di alterare la purezza
originaria del messaggio vegano e antispecista (ammesso che questa purezza originaria sia mai
esistita, e non lo è) dato che, in caso contrario, questo messaggio perderebbe di efficacia ix. E visto
che, come in ogni opera di evangelizzazione che si rispetti, la liberazione animale dipenderebbe
dall’ampiezza e dalla qualità della diffusione di questo messaggio (nonché dalla dedizione dei suoi
evangelisti), la purezza del messaggio sarebbe centrale per la realizzazione della liberazione stessa.x
Questo antispecismo pseudo-politico si regge su due presupposti che lo legano all’orizzonte
dell’antispecismo moralistico di prima generazione: (1) l’inversione dei rapporti tra materiale e
ideale; (2) l’individualismo metodologico.
(1) Il primo presupposto risiede quindi nell’incapacità di comprendere il significato che
l’aggettivo “politico” ha nell’espressione “antispecismo politico” di cui si ignora e/o sottovaluta
l’enfasi sui processi oggettivi e collettivi che stanno alla base dei fenomeni sociali: banalmente, la
sua concezione materialistica della storia. Da ciò deriva una conseguente sopravvalutazione degli
effetti e delle ricadute sociali dello “specismo” inteso come paradigma socio-psicologico svincolato
da ogni riferimento alla base produttiva e classista delle società (ma lo stesso potrebbe dirsi del
“carnismo” e di altri simili costrutti ateoretici, astratti e astorici). La “politicità” dell’antispecismo
viene così genericamente intesa solo nel senso che l’antispecismo si sa e si pone come questione e
come lotta di interesse collettivo e di rilevanza sociale, ovvero “di tutti” e non soltanto degli
antispecisti. Oppure facendo generici riferimenti ai “profitti” dell’industria animale. Basterebbe
“uno sguardo anche superficiale ai fatturati delle multinazionali agroalimentari e chimico-
farmaceutiche - che si stanno progressivamente fondendo tra loro a costituire veri e propri monopoli
tesi alla gestione completa e globale del vivente”, scrive, ad es. Filippi, a far comprendere cosa sia
l’antispecismo politico. “Alla luce di questa constatazione”, prosegue infatti Filippi, “chi ancora
non fosse disposto a considerare la questione animale una questione politica dovrebbe assumersi il
compito di definire cosa sia la politica”. xi Questa interpretazione, ancorché renda correttamente
conto di uno dei possibili significati più generali dell’aggettivo “politico”, non lo qualifica ancora
nel senso che noi pensiamo debba avere. Senza materialismo storico, infatti, l’antispecismo politico
si riduce a un approccio senz’altro utile, perché introduce la questione animale nel vasto campo
delle lotte per i diritti e associa la liberazione degli animali ad altre questioni e ad altre lotte,
rendendola socialmente molto più significativa di quanto non sia; ma anche meno efficace di quanto
potrebbe essere, perché quel legame rimane o vago oppure, come ora vedremo, pone tutte queste
lotte sul terreno idealistico e moralistico del cambiamento di “sguardo”, di “coscienza”, di
“paradigma” e, in generale, della identity politics liberale. Ora, il punto è che la questione animale
non è “politica” perché gli effetti dello sfruttamento animale si ripercuotono a livello globale, né,
tantomeno, perché dagli animali possa estrarsi profitto. Gli animali non umani non costituiscono
una questione politica di per sé, di cui dovremmo semplicemente renderci conto: essi diventano una
questione politica nel momento in cui il loro destino viene teorizzato nel quadro di una
riorganizzazione complessiva dei rapporti sociali e produttivi.
(2) Il secondo presupposto dell’antispecismo pseudo-politico, nonché trait d’union con
l’interpretazione neoliberale della teoria dell’intersezionalità e motivo dell’identificazione
impropria fra antispecismo politico e antispecismo intersezionale, deriva direttamente da questo
difetto di considerazione dei processi sociali oggettivi a favore di quelli soggettivi. Per “processi
sociali oggettivi” intendiamo tutti quei processi, materiali e immateriali, che sono indipendenti dalla
volontà di un soggetto o di un gruppo di soggetti. Che le grandi catene di fast-food distribuiscano
pasti pronti completi a base di prodotti animali a 4€, che le donne guadagnino in media il 20% in
meno degli uomini o che il negazionismo climatico sia un fenomeno più radicato a destra che a
sinistra, sono processi sociali oggettivi. Il singolo individuo può, a volte, emanciparsi da questi
processi ma non può evitare che essi continuino ad esistere e ad avere effetti sulle altre persone e
sulla società nel suo complesso. L’individualismo metodologico – cioè la concezione secondo cui il
sostrato ontologico della società risiede negli individui e nelle loro azioni – impedisce di spingersi
oltre la dimensione idealistica e morale dello sfruttamento animale.
L’antispecismo pseudo-politico intersezionale proietta così sulle altre lotte ciò che già
proietta sulla lotta per i diritti e la liberazione animale: il suo approccio neoliberale. Vediamo
perché e in che senso.
I.
Ovviamente non stiamo sostenendo che ogni militante antispecista intersezionale sposi
coscientemente l’agenda politica neoliberale. La questione va posta, anche qui, in termini oggettivi,
non soggettivi: ciò che le persone ritengono di sostenere è meno rilevante della struttura
soggiacente i loro discorsi. Il problema infatti non è tanto la penetrazione dell’ideologia neoliberale
nella società capitalistica avanzata a livello cosciente ma il fatto che essa renda spesso impliciti, e
dunque occulti, i presupposti di ogni discorso politico. L’egemonia si ottiene non soltanto attraverso
la diffusione positiva di certe idee e valori ma anche attraverso la cancellazione dall’ordine del
discorso di idee e valori alternativi. La rimozione delle categorie centrali del socialismo dopo il
crollo dell’URSS è stata pressoché totale a livello di cultura di massa con conseguenze devastanti
per la teoria e la prassi di chi si autodefinisce anti-capitalistaxii.
L’intero problema del modo di produzione è stato infatti eclissato portando inevitabilmente
ogni discorso a muoversi spontaneamente a livello della sovrastruttura piuttosto che della struttura,
ovvero a livello culturale, filosofico e giuridico, piuttosto che economico. La contraddizione
capitale/lavoro viene cancellata nei suoi effetti sistemici e ridotta a banali e ateoretiche opposizioni
tra ricchezza e povertà, élite e popolo ecc. I corrispondenti processi oggettivi vengono personificati,
con inevitabili cadute nel moralismo (quando non finiscono direttamente nelle derive
complottistexiii).
Ora, la contraddizione capitale/lavoro, a differenza di tutti paradigmi “dominanti” che il
costruttivismo filosofico vorrebbe “smontare” e “demistificare”, non si lascia decostruire xiv.
Quell’opposizione oggettiva non smette di operare perché noi proviamo a pensare il mondo
altrimenti. Essa anzi attribuisce ad ognuno il suo ruolo nell’apparato produttivo (come produttori di
valore o beneficiari della sua trasformazione in profitto), vuoi direttamente, come lavoro salariato,
vuoi indirettamente, come lavoro improduttivo/intellettuale, commerciante o sottoproletario. In
quanto motore della sfera produttiva, essa finisce per determinare sia l’orizzonte della libertà
positiva individuale (il suo contenuto, cioè i bisogni che è materialmente possibile soddisfare),
quanto soprattutto la cornice strutturale della libertà collettiva (cioè la sua forma, il modo in cui
quei bisogni vengono soddisfatti e riprodotti).
II.
Riuscire a teorizzare il problema del modo di produzione permette anche di impostare correttamente
il problema dell’identità del soggetto individuale di cui si pretende parlare. La vulgata
dell’intersezionalismo liberal vorrebbe infatti che esistessero una serie di “identità” (più o meno
rigide) che aspirerebbero al riconoscimento, cioè all’uguaglianza di trattamento, dunque di diritti,
da parte dello Stato o della comunità variamente intesa. Questo nocciolo della cosiddetta identity
politics di matrice liberale deve necessariamente ignorare che quelle identità non preesistono alle
loro relazioni, semmai ne derivano. Non è possibile intravedere questo se non si coglie la questione
della forma della produzione come prioritaria rispetto alla soddisfazione – ma in realtà già alla
formulazione – dei bisogni. La relazione ci introduce direttamente alla sfera ontologica dell’essere-
con e dell’essere-tra, è cioè qualcosa che attraversa i soggetti, investe dunque la forma stessa della
soggettività. Non esistono soggetti che si mettono in relazione: esistono relazioni che producono
soggettività. E queste relazioni non sono “atti” di singoli individui (magari atti che si “ripetono” nel
tempo e si “istituzionalizzano”), bensì costituiscono lo spazio di senso in cui gli individui si trovano
loro malgrado “gettati”.
Per questo fa sorridere il modo in cui questo attivismo allude ai problemi relativi alle classi:
essi vengono spesso ridotti al chiacchiericcio sulle identità e “classismo” finisce per significare
qualcosa di analogo a “razzismo” e “sessismo”. Si origina così una confusione babelica, poiché
essere oggetto di classismo evoca più un atteggiamento di colletti bianchi con la puzza sotto al naso
che il meccanismo di autovalorizzazione del capitale attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro.
Ma il CEO di una grande multinazionale non ha nessun bisogno di praticare questo tipo di
“classismo” per estrarre valore da chi è alle sue dipendenze: gli basta che esista il semplice rapporto
di lavoro subordinato.
Da questo punto di vista, il nero non è sfruttato in quanto nero, la donna non è sfruttata in
quanto donna, il disabile non è oppresso in quanto disabile. L’attivista intersezionale, che non pone
correttamente la distinzione tra discriminazione e sfruttamento, arriverà al massimo a dire che il
nero è “oppresso” in quanto nero e anche in quanto donna, disabile ecc… È un discorso analogo a
quello che fa l’antispecismo morale sull’altro animale, che sarebbe oppresso in quanto altro
animale, o dell’animale di sesso femminile, che sarebbe oppresso in quanto animale e in quanto
animale di sesso femminile.xv
Tuttavia, termini come “classe”, “lavoratrice” e “socialista” non sono omogenei a “razza”,
“specie” o “binario”: c’è un salto logico dalla prima batteria di termini alla seconda che impedisce
di usarle indifferentemente in una lista. Il “salariato nero gay” non è un puzzle di identità che si
sommano. Questo perché “salariato” esprime una relazione immediatamente sociale, la cui essenza
si collega direttamente alla totalità sociale a partire dal meccanismo di valorizzazione capitalistica
che se ne colloca al centro xvi. Per pensare adeguatamente questa relazione occorre infatti pensare la
dialettica aperta e in divenire, il processo conflittuale soggiacente, tra (1) quel meccanismo di auto-
valorizzazione, (2) il mercato come luogo universale dello scambio e (3) l’estrazione della forza-
lavoro. Da un lato, dunque, la potenza impersonale del capitale come impulso inarrestabile
all’accumulazione e alla crescita, la produzione cioè di una ricchezza astratta che domina e “strega”
i rapporti sociali sottomettendoli alla propria meccanica interna. Al lato opposto, la singolarità della
persona che percepisce un salario e che entra in questo rapporto solo come corpo portatore di forza-
lavoro e tempo, un elemento naturale che si trova suo malgrado coinvolto in ciò che ne definisce le
possibilità di vita. Al centro, il luogo della mediazione universale, dello scambio che, nel momento
in cui soddisfa oggettivamente i bisogni, stabilisce una certa rete di rapporti a livello locale e
globale.
Quello che emerge da questa considerazione è un processo di universalizzazione materiale
in cui si esprime l’essenza del conflitto capitale-lavoro. Esso è di altra natura rispetto ai processi di
universalizzazione formali che si svolgono nella sfera del diritto, a partire dal “riconoscimento” che
lo Stato, o le comunità, fanno degli individui nella loro particolarità. La differenza tra questi due
processi è analoga a quella che passa tra democrazia sostanziale e democrazia formale. Mentre nel
secondo caso, l’elemento decisivo è l’abolizione della discriminazione e la piena realizzazione del
soggetto di diritto borghese, del “cittadino” depurato di ogni limite tradizionalmente o naturalmente
ereditato, nel primo caso l’elemento decisivo è l’abolizione progressiva dello sfruttamento. Solo in
questo modo è garantita un’effettiva partecipazione delle classi popolari alla determinazione non
solo dell’esistenza dei singoli individui all’interno di un ventaglio di scelte imposto dalle condizioni
date ma la definizione e l’ampliamento stesso di questo ventaglio di scelte: alle classi subalterne
viene cioè progressivamente trasferito il potere di determinare l’orizzonte del possibile in cui si
muovono. Ciò non è però realizzabile senza un’azione politica collettiva che (a) redistribuisca la
ricchezza prodotta e, soprattutto, (b) riporti nelle mani dei produttori la macchina sociale
complessiva.
III.
IV.
Ma è soprattutto rispetto allo scopo, cioè all’orizzonte post-capitalistico, che queste tendenze
falliscono il colpo. Come abbiamo avuto modo di sostenere, l’errore della identity politics di sinistra
sta nel vedere tutte le “identità” come connesse tra di loro senza porre un discrimine tra il concetto
di “classe” e quelli di “razza”, “genere”, “specie”, “disabilità” ecc. Il socialismo non è un’identità
tra le altre ma un asse attorno a cui ruotano quelle identitàxviii. Perché è essenziale al progetto
socialista che tutti i soggetti abbiano la stessa possibilità di contribuire alla sua lotta e alla sua
realizzazione senza discriminazioni: fa parte della sua natura radicalmente democratica
l’abbattimento di tutti i pregiudizi che impediscano lo sviluppo della solidarietà all’interno di un
progetto condiviso. In questo senso, il socialismo non può che essere intersezionale. Ma ancora più
importante è pretendere che l’intersezionalismo sia socialista perché senza un’idea determinata del
tipo di società per cui si lotta da un punto di vista materiale si cede ad ogni tipo di confusione
interclassista e neoliberale, si depotenzia la lotta al capitale e quindi ci si impedisce di porre le
condizioni per la realizzazione di un mondo effettivamente democratico, al di là delle leggi di
mercato e del profitto.
Una caratteristica diffusa dell’intersezionalismo militante è invece non a caso l’idea che la
mia battaglia deve diventare quella delle altre persone. Ora questa è un’idea armonizzante che si
fonda o sul presupposto della “conciliazione” o “composizione” giuridica tipica del contrattualismo
liberale, oppure su un’idea vaga di società “orizzontale”. Su quali basi sia possibile pretendere
questa convergenza, questa “armonizzazione” non è chiaro. Talvolta si fanno discorsi generici sulla
“violenza” o il “dominio” come se ci fosse una radice comune alle diverse forme di oppressione,
altre volte la pretesa viene semplicemente enunciata senza fondarla. In realtà questa convergenza è
oggettivamente possibile solo come convergenza di scopo, in senso teleologico, guardando alla
società futura che si intende realizzare insieme. Non come contratto o come sogno ma come
progetto politico, plurale e conflittuale che cerca una base materiale. Perché questa “conflittualità”
sia rivolta verso lo stesso obiettivo occorre infatti smarcarsi dalla nozione liberale e post-moderna
secondo cui il mondo è “sbagliato” perché lo pensiamo male e dobbiamo semplicemente liberarci
dei pregiudizi, occorre invece indirizzarla verso l’ordine materiale delle relazioni produttive senza
le quali nessuna società può anche solo essere pensata.
Questo problema diventa parossistico nel caso dell’antispecismo intersezionale
caratterizzato dal paradosso per cui i soggetti che lottano contro la discriminazione, cioè gli umani
antispecisti, non coincidono con i soggetti discriminati e che si vorrebbe contribuire ad
autodeterminarexix. Mentre quindi i soggetti umani discriminati possono far valere direttamente i
propri desiderata nei confronti degli altri soggetti umani qui l’umano antispecista pretende che (a) il
suo “pensiero” sugli animali non umani venga accolto dagli altri umani come legittimo
rappresentante del pensiero degli animali non umani su sé stessi e che, in conseguenza di ciò, (b) gli
altri umani adottino il suo “stile di vita” inteso come (c) conseguenza logica ed etica di quel
pensiero. Né (a), né (b), né (c) sono, a rigor di termini, necessariamente veri e condivisibili.
Risulta infondata, quindi, la pretesa che le altre lotte adottino quella per i diritti e la
liberazione animale pena la loro parziale o totale delegittimazione. Questo cambiamento atteso si
traduce, sul piano pratico, nell’aspettativa che le persone animatrici delle altre lotte diventino
antispeciste, e innanzitutto vegan, ovvero nella pretesa del cambiamento delle coscienze prima e a
prescindere dal cambiamento dei modi di produzione.xx Il ruolo dell’organizzazione animalista
antispecista e delle concrete persone che entrano in contatto e magari collaborano attivamente, per
un periodo, con persone di altre organizzazioni e che portano avanti altre lotte, è qui inteso come di
ispirazione; il suo compito è predicare efficacemente la buona novella vegana e antispecista.
Quando poi il cambiamento atteso non si verifica, capita che l’organizzazione animalista
antispecista si allontani dalla/e organizzazioni con cui ha collaborato, complice la frustrazione e
l’idea che le altre persone non siano sufficientemente sensibili o intelligenti. A questo punto,
purtroppo, a volte segue, come per proiezione, la disaffezione non solo nei confronti di quelle
persone, ma anche nei confronti delle loro cause. La convergenza delle lotte, perseguita per ragioni
e finalità sbagliate, crea la massima divergenza.
Sulla scorta di Deleuze e Guattari, Mark Fisher, noto amante della settima arte, descrive il
capitalismo come “molto simile alla Cosa del film di John Carpenter: un’entità mostruosa, plastica e
infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”. xxi Non che
forme precedenti di capitalismo fossero così diverse da quella di cui parla, ma il capitalismo di
Fisher è, in particolare, il capitalismo della globalizzazione neo-liberista. La base materiale di
questa caratteristica del capitale e della sua “mostruosa” idea di libertà è la natura contraddittoria
del processo di accumulazione capitalistico, caratterizzato, al tempo stesso, da un impulso
espansivo e dalla circolarità. Il capitale si accresce tornando su sé stesso, realizza il proprio ciclo
espandendosi e producendo il proprio stesso presupposto xxii. Il mondo è posto dal capitale a propria
immagine perché il capitale pone sé stesso e tutte le relazioni che gli permettono di perpetuarsi.
Si comprende allora come anche l’atteggiamento “colonizzatore” nei confronti delle altre
organizzazioni e degli altri movimenti, ovvero l’opportunismo e la loro strumentalizzazione, riveli
al fondo un’anima neoliberale. Tipica del liberalismo e del neoliberalismo, infatti, è questa
pervasività strisciante, un’aspirazione totalitaria più o meno implicita che si accompagna a un
atteggiamento plastico, a una certa duttilità che studiosi molto diversi fra loro hanno indicato come
suo tratto caratteristico e adattivo. Lo storico Domenico Losurdo, per esempio, parla di questa
duttilità come di una delle “forze” del liberalismo, di una delle ragioni per cui esso si è trasformato
nel tempo ed è arrivato, dominante, fino a noi.
La libertà liberale nasce come rifiuto dell’arbitrio e dell’ingiustizia tipiche di una fase
premoderna, inadeguata alla nuova razionalità formale che si andava sviluppando dopo il
Rinascimento e la Riforma: qui la razionalità sociale identifica la giustizia come il processo per cui
“tutti”, cioè “ognuno”, deve poter fare x. Che poi questa x si realizzi o meno è un altro discorso:
l’eguaglianza sta nel punto di partenza, la normalità è invece la diseguaglianza dovuta al merito
individuale. Questo tipo di razionalità e di giustizia sociali è formale anche nel senso di non essere
conflittuale al proprio interno (cioè nella sfera giuridica) poiché rivolge essenzialmente la propria
conflittualità verso l’esterno (cioè nella sfera economica). In questo senso essa occulta quell’altra
forma della razionalità e della giustizia sociali che si oppone all’ordine economico dato, quella delle
classi subalterne e dei popoli colonizzati. La libertà socialista deve muoversi in senso opposto.
L’aspirazione liberale alla libertà, dapprima completamente negativa (ovvero la libertà del
“cittadino” dallo Stato), ha poi via via cambiato forma arrivando a integrarsi con la libertà positiva
del diritto democratico. Ma per nutrire i suoi “liberi”, liberalismo e neo-liberalismo danno loro in
pasto gli “schiavi”. Non è un caso che uno degli ultimi grandi padri della tradizione liberale,
precursore dell’illuminismo e autore di un’Epistola e di un Saggio sulla tolleranza religiosa, John
Locke, fosse anche uno schiavista perfettamente convinto della coerenza delle sue idee. Nella
Francia post-rivoluzionaria che si appresta a consegnarsi a Napoleone,
…il partito liberale, che si va via via costituendo, si definisce […] sì contro la monarchia assoluta ma anche, e
forse soprattutto, contro le masse popolari e la loro volgarità. L’attenzione è rivolta al Terzo stato, a quegli
ambienti dove “una sorta di agiatezza consente agli uomini di ricevere un’educazione liberale”. Ad esprimersi
così è Sieyès, che poi svolge un ruolo importante in occasione del 18 brumaio 1799. A suggellare il colpo di
Stato è la “Proclamation du général en chef Bonaparte”, che annuncia la “dispersione dei faziosi”, cioè
dell’agitazione popolare e plebea, e il trionfo delle “idee conservatrici, liberali, tutelari”. xxiii
In Inghilterra, in America, in Francia, i liberali, che si chiamavano anche “nati bene”, si sono
sempre definiti in opposizione a chi libero non era. Hanno sempre, orgogliosamente rivendicato
un’identità non servile e, al tempo stesso, escludente. Per i liberali, la libertà altrui, che
proverbialmente termina dove inizia la propria, è sempre stata meno importante di quest’ultima;
anzi le è sempre stata di ostacolo, perché il liberalismo non è la filosofia politica “di tutti” (non c’è
mai stata una filosofia politica “di tutti”, nel senso di tutte le classi e i gruppi sociali): è, invece, la
filosofia dei borghesi che si liberano dalla morsa del potere monarchico assolutistico, dalla
repressione feudale e religiosa e, in epoca contemporanea, dal cadavere del welfare State, che hanno
contribuito ad uccidere, e dall’economia regolamentata. Questo processo di fusione fra Stato e
liberalismo/neoliberalismo ha attraversato quattro secoli di storia sciogliendo e modellando in sé la
materia viva e sanguinante delle popolazioni colonizzate e della nuova servitù urbana e periurbana,
gli iloti e i perieci del nostro tempo.
Punto di contatto fra liberalismo, neoliberalismo e capitalismo, l’assolutizzazione della
libertà individuale come valore supremo e innegoziabile confligge con la sua determinazione di
classe; ma anche con la sua natura astorica, metafisica. Categoria vuota di significato perché non si
riferisce a qualcosa di concreto, l’individuo del capitalismo liberale e liberista è un feticcio, un
idolo, anzi un idolum baconiano: un’illusione mentale. In effetti, nelle nostre democrazie liberali,
l’individuo esiste solo come miraggio.
Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata,
segno di progresso tecnico. In verità, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione
dell’individualità nel corso della meccanizzazione di attività socialmente necessarie ma faticose; della
concentrazione di imprese individuali in società per azioni più efficaci e più produttive; della regolazione della
libera concorrenza tra soggetti economici non egualmente attrezzati; della limitazione di prerogative e
sovranità nazionali che impediscono l’organizzazione internazionale delle risorse. xxiv
Di fronte alla paradossale (nel senso di Zenone: “che va contro l’opinione comune”) scomparsa
dell’individuo nella società individualistica, di fronte alla sua massificazione, all’anonimia,
all’infinita sostituibilità dell’individuo contemporaneo, la versione neoliberale
dell’intersezionalitàxxv è cieca e sorda. Parla di scelta e di libertà quando le scelte sono scelte altrove
e la libertà, per come si è andata costituendo nelle democrazie liberali, implica la schiavitù altrui;
sovrastima il peso dell’appartenenza a un gruppo sociale ipostatizzato e definito non tramite i
rapporti di produzione, ma tramite se stesso. Nel post-strutturalismo, la versione neoliberale
dell’intersezionalità riduce i processi sociali oggettivi all’interpretazione di un Sé ipertrofico. Per
esempio: “Like sex workers, mail-order brides are commonly depicted as victims of patriarchy and
the ultimate symbol of female oppression … Instead, [agency] allows us to see how woman assert
dignity, express strength, and in doing so resist and transform the role and image of passive sex
object and submissive wife”.xxvi Apparentemente, i sistemi di dominio sono semplicemente negati e
ogni pratica, anche la più mercificante, cessa di essere tale purché sia stata scelta.xxvii Non siamo
troppo lontani dalla legittimazione della schiavitù volontaria. Ora si dà il caso che questa sia la
prassi contraria a quella rivoluzionaria perché mira, come scriveva Simone de Beauvoir, a
“trasformare la mentalità degli oppressi e non la situazione che li opprime”. xxviii Il neoliberalismo ci
consegna alla psicosi di un Soggetto decontestualizzato, assolutizzato e assunto a misura di tutte le
cose; che in realtà è schiavo dell’ordine di cose presenti. E tuttavia è proprio per la sua condizione
concreta che non bisogna essere troppo severi con il Soggetto dell’agency neoliberale. In fin dei
conti, esso sogna il sogno consolatore dello schiavo che, non avendo potuto cambiare la sua
condizione nella realtà, l’ha cambiata almeno nell’immaginazione. La società nella quale si
sviluppano le retoriche circa l’identità e l’agentività che abbiamo sia pur parzialmente
rappresentato, del resto, è la società fondata sulla negazione dell’individualità, è la società della
crisi della democrazia, del rapido aumento delle disuguaglianze economiche e dell’approssimarsi
della peggiore catastrofe della storia del genere umano: quella legata al collasso eco-sistemico. xxix In
questo contesto, la possibilità stessa della liberazione a molte persone appare negata, ridotta al
miglioramento delle condizioni individuali di esistenza o posta in un futuro che però non funge da
fine cui l’azione politica debba tendere. La lontananza dell’obiettivo agisce, anzi, da dissuasore per
l’azione politica (questa volta sì, “politica” semplicemente nel senso di collettiva e orientata al bene
comune).
Spinti sullo sfondo come elementi secondari i rapporti di produzione, e ridotti più che altro
ad accessori must-have dell’anticapitalismo neo-liberale, la scena è riempita dall’Individuo astratto
e astorico, dall’idea “platonica” di individuo. Poiché l’individuo è un feticcio la sua agency e il suo
empowerment hanno sempre un carattere illusorio e teatrale. Esse cadono vittime di questa auto-
illusione per cui il soggetto si realizzerebbe in una forma mitica di intensità, nella stessa credenza di
porsi come soggetto. All’individuo che scompare dalla scena politica divenendo appendice della
produzione fa da compensazione la magica fede nel suo ergersi a soggetto nella sfera del consumo e
del riconoscimento. Esso deve credere in sé stesso per essere sé stesso: questo il balsamo
dell’ideologia neoliberale che certo viene incontro ad un bisogno di riconoscimento dei soggetti
discriminati ma solo perché così sottrae loro le leve del cambiamento reale della propria condizione
di sfruttati. Alla pretesa di riconoscere la agency di questa o quella soggettività andrebbe piuttosto
sempre opposta la domanda: per fare cosa? Una agency che non è rivolta alla lotta contro il
capitale, nel luogo in cui questo produce sé stesso e il proprio dominio sociale, non è agency ma
passiva accettazione del corso del mondo. Ora si tratta di cambiarlo.
i
Il virgolettato è dovuto all’estrema farraginosità dell’animal advocacy italiana. Non che non sia possibile, in assoluto,
tracciarne alcune linee che la rendano riconoscibile, ma si nota fortemente la “mancanza di una precisa identità
collettiva: manca un “noi” essenziale e condiviso, e sono più spesso le logiche di area, quando non addirittura quelle di
gruppo, a prendere il sopravvento” (Niccolò Bertuzzi, I movimenti animalisti in Italia. Strategie, politiche e pratiche di
attivismo, Milano, Meltemi, 2018, pag. 118)
ii
La questione è posta esplicitamente in Marco Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Aprilia,
Novalogos, 2011. In particolare, si veda a pag. 23
iii
Cit. in David Nibert, Animal rights/human rights: entanglements of oppression and liberation, U.S.A.,
Rowman&Littlefield publishers inc., 2002, pag. 9
iv
https://www.linkiesta.it/2018/03/tutte-le-giravolte-di-salvini-il-militante-padano-che-si-e-scoperto-it/
v
David Nibert, Animal rights/human rights: entanglements of oppression and liberation, U.S.A., Rowman&Littlefield
publishers inc., 2002, pag.13
vi
“Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati
da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni
più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il
processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una
camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli
oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico”. Karl Marx, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,
2018, pag. 87
vii
Da “intersezionalità”, termine coniato dalla giurista e attivista statunitense Kimberlé Crenshaw, denota sia la
sovrapposizione di identità sociali (per es., il fatto di essere nere, proletarie e disabili) e l’effetto
sommatorio/moltiplicativo delle oppressioni di queste identità; sia la possibilità/opportunità e financo la necessità
della convergenza delle lotte di liberazione
viii
Giorgio Cesarale, “Dal popolo ai suoi soggetti: cittadini, denizens, lavoratori nell’epoca neoliberista”, Consecutio
Rerum. Rivista critica della postmodernità, 30 giugno 2020.
ix
Sul rapporto tra efficacia e coerenza, tra argomenti diretti e indiretti cfr. M. Maurizi, Antispecismo politico.
x
Sia detto per inciso che il nostro scopo non è difendere la carne coltivata, ma indicare che, ammesso e non concesso
che dovremmo opporci ad essa, spesso ci si oppone per i motivi sbagliati. Ci sembra, per esempio, molto più
significativo porsi il problema della sussistenza di almeno alcuni, piccoli allevamenti per il prelievo dei campioni
cellulari per i bioreattori; e dunque dello sfruttamento animale tipico degli allevamenti, che va dalla detenzione degli
animali allevati alla loro riproduzione forzata fino al mantenimento/manipolazione artificiale della razza onde
soddisfare le richieste del mercato in termini di gusto e varietà di scelta. Un’altra fonte di preoccupazione dovrebbe
essere la natura intimamente capitalistica dell’industria della carne coltivata, caratterizzata dalla contrazione della
produzione in sempre meno mani sia per via della complessità e della costosità della tecnologia utilizzata e di come
essa ben si presti alla brevettazione; sia per via della strutturale riduzione dei siti produttivi che essa comporterebbe e
che a sua volta implicherebbe una grossa perdita di posti di lavoro rispetto ad oggi
xi
Massimo Filippi, Questioni di specie, elèuthera, 2017, pp. 32-33
xii
Questo, ovviamente, senza nessun rimpianto per gli aspetti autoritari e criminali di quel modello: si tratta
semplicemente di constatare come l’esistenza di quella metà del mondo rendesse, con la sua semplice presenza,
l’orizzonte del socialismo una possibilità reale che non poteva essere ignorata.
xiii
Cfr. M. Maurizi, L’animale pandemico. COVID-19, crisi della razionalità ed ecosocialismo, su Voci Sinistre, 2021.
xiv
Cfr. M. Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza, Jaca Book, Milano 2018.
xv
È vero che, per esempio, l’apparato riproduttivo delle vacche è sfruttato dall’industria del latte, e che il fatto che
producano latte quando partoriscono viene messo a valore dal sistema. Ma non è messo a valore, come invece in
certe narrazioni antispeciste “intersezionali”, perché le vacche sono femmine. Piuttosto, perché è sfruttabile.
xvi
Si tratta di un “centro” ubiquo, situato nella sfera della produzione, non immediatamente identificabile per la sua
stessa natura totalizzante ma che va teoreticamente pensato come centrale se non si vuole perdere completamente
l’orientamento. “Essenza” e “totalità”, contrariamente a quanto ritiene la scialba filosofia post-strutturalista, non sono
“fissazioni” metafisiche del pensiero che andrebbero “decostruite” ma effetti oggettivi del capitale che si tratta di
superare praticamente. Cfr. M. Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza, cit.
xvii
In alcuni casi - pensiamo alle disabilità fisiche o psichiche - questo difficilmente può avvenire senza mettere in
discussione il modo di produzione vigente cui la performatività è essenziale: eppure, anche qui, il discorso sulle
disabilità e la neurodivergenza si incentra quasi sempre sui “vissuti” e sulla “discriminazione” rispetto ad un “modo di
pensare” dominante e quasi mai arriva a porre come obiettivo primario il rovesciamento materiale della società che è
alla base di quel modello di performatività.
xviii
Cfr. M. Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza, cit.
xix
Ovviamente l’antispecismo politico che noi difendiamo non ha questo problema, perché intende la dialettica
umano/non-umano in modo da pensare il “soggetto animale” come inserito in un processo globale di
autodeterminazione. Cfr. M. Maurizi, Al di là della natura, cit.
xx
Per quanto questo cambiamento, vogliamo specificarlo, sia certamente auspicabile, non è attorno ad esso che
possono porsi le basi per un lavoro e una lotta comune, né è soltanto attorno ad esso che queste basi possono essere
trovate e utilizzate già oggi. Si pensi alla questione ambientale e all’impatto degli allevamenti intensivi ed estensivi
sugli ecosistemi, una piattaforma di lavoro comune già pronta
xxi
Mark Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2018, pag. 33
xxii
Sulla teoria del capitale come presupposto-posto cfr. R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella
riflessione economicopolitica, Rosenberg & Sellier, Torino, 2020.
xxiii
Domenico Losurdo, Controstoria del Liberalismo, Bari-Roma, Editori Laterza, 2005, pag. 241
xxiv
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1999, pag. 15
xxv
Esistono approcci intersezionali socialisti, come quello del Combahee River Collective
xxvi
Nicole Constable, cit. in Freedom fallacy. The limits of liberal feminism, Australia, Connor Court Publishing Pty Ltd,
pag. 35
xxvii
Ivi
xxviii
S. de Beauvoir, Le penseé de droit, aujourd’hui, in Les temps modernes, Parigi, 1955
xxix
È per ragioni analoghe che anche il concetto di “resistenza”, che pure gode di gran credito presso gli ambienti della
sinistra radicale, compresi quelli antispecisti, ci appare sospetto. Come scrivono Nick Srnicek e Alex Williams, infatti:
“l’idea di resistenza viene oggi celebrata amplificandone la retorica del gesto radicale, ma oscurandone la natura
essenzialmente conservatrice: tutto quello che resta è resistere, mentre i progetti più concreti vengono considerati
nient’altro che fantasie”. Nick Srnicek, Alex Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Roma, Nero,
2018, pag. 73