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IL VASARI STORIOGRAFO E

ARTISTA - SINTESI DISPENSE


MARCONI
Tecniche Artistiche
Università degli Studi di Roma La Sapienza
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IL VASARI STORIOGRAFO E ARTISTA
Atti del congresso internazionale nel IV centenario della morte

BRUNO BEAZZI - LA TECNICA DELLA SCULTURA NEL VASARI


Si può affermare che Vasari, per quanto non sia stato scultore o fonditore, abbia collezionato un
complesso di conoscenze perle quali egli può essere classificato maestro anche in questo campo.
Vasari ha tramandato, in forma chiara e comprensibile, tutto quanto riguardava, in quei tempi, la
realizzazione di un’opera d’arte statuaria (in forma perfettamente tecnica).
Interpretando quanto Vasari ha scritto nel suo trattato Della scultura, si possono trarre particolari
tecnici interessanti per uno storico.
Vasari inizia il suo trattato affermando che, “La scultura è un’arte che, levando il superfluo, dalla
materia suggetta, la riduce a quella forma di corpo che nella idea dell’artefice è disegnata”. Poi
continua dicendo che le sculture devono poter esser osservate da ogni lato e che devono avere
“corrispondenza di parità di membra”.
Dopo consiglia vari accorgimenti che, nell’insieme, fanno sì che la scultura risulti perfetta; Egli
considera anche il caso della figura vista dal basso, la quale deve avere delle sproporzioni tali che la
vista di scorcio, compensandole, renda la figura ben proporzionata. Altro accorgimenti è quello
della finitura che deve essere greggia, in alcuni punti, affinché, osservando la statua da lontano,
risulti sfumata, per ottenere un certo stacco chiamato vibrazione del modellato.
Per eseguire una figura di dimensioni reali, o più grande, Vasari consiglia di eseguire prima un
piccolo modello, in modo tale da poter ridurre anche le misure del blocco di marmo da trasportare
fino alla bottega, effettuando una prima sgrossatura in cava.
Vasari ha un’ampia conoscenza anche delle statue in bronzo, infatti afferma che la terra da fonderia
deve essere mescolata con la “cimatura” (peluria che si ottiene cimando i panni). Suggeriva anche
di aggiungere della farina cotta per garantire una conservazione più duratura.
Vasari accenna a un metodo di modellatura di Donatello, poiché quest’ultimo, senza saperlo,
riesumò un metodo ellenistico che prevedeva il modellare la figura nuda e poi rivestirla con fogli di
cera grossa o panno tuffato nella cera.
Vasari descrive perfino gli utensili da usare per il marmo e per il bronzo e come “ripulire” per
ottenere la carnosità.
Altro dettaglio tecnico importante, di cui tratta Vasari, è la “forma a pezzi”. Per “forma a pezzi”
solitamente si intende uno stampo, solitamente di gesso, fatto di molti pezzi, in modo che ciascuno
di essi possa essere rimosso dal modello, nonché ricollocato al posto giusto senza difficoltà e senza
danneggiare il modello. Con questo metodo si ottiene la copia fedele di una statua, anche in cera
che riempita della suddetta terra, chiamata “anima”, permette la realizzazione della statua in bronzo

FRANCESCO RODOLICO - LESSICO PETROGRAFICO VASARIANO


• Cipollaccio: alcuni pensano che il termine si riferisca a un marmo greco che risultava fetido
alla frattura; altri ritengono invece che cipollaccio sia solo uno sdoppiamento del termine
cipollino, ma che si riferisca alla medesima materia (ovvero l’attuale cipollino).
Dal testo vasariano risulta che questa pietra è frequente a Roma, è eterogenea, di colore
verde, di durezza non eccessiva e che costituisce una delle più diffuse pietre antiche. Questa
descrizione sembrerebbe corrispondere al verde antico, la breccia ofiolitica della Tessaglia.
Resta però incomprensibile il nome Cipollaccio, utilizzato solo dal Vasari.
• Cipollino: si tratta di un marmo venoso che tende al verdaccio. Tutt’oggi chiamato
Cipollino. Esso veniva importato dai romani dall’Eubea, ma si può trattare anche di quello
apuano.
• Granito: le più acide tra le rocce magmatiche intrusive, costituita da “grani” ben visibili a
occhio nudo. Vi erano delle cave nell’Elba.
• Lavagna: lastre di uno scisto (roccia metamorfica a grana medio-grossa tendente a sfaldarsi
facilmente in lastre sottili) calcareo-argilloso plumbeo nerastro. Si trovava nella riviera di
Genova. Può essere utile a lastricare i tetti e a lavorare sulle pitture a olio.

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• Macigno: è la più tipica arenaria dell’Appennino settentrionale (molto presente nelle colline
tra Fiesole e Settignano). È molto bella da vedere, ma si logora e si sfalda se sottoposta agli
agenti atmosferici. Il macigno si distingue in varietà, ne vengono specificate tre, tute
provenienti dallo stesso luogo, ma probabilmente da strati diversi:
a. Pietra serena: caratterizzata da un colore azzurrino (venne usata da Brunelleschi S.
Lorenzo e Santo Spirito, a Firenze)
b. Pietra bigia: ve ne sono molte cave in Arezzo, ma anche a Firenze. Si pensa sia più
durevole della pietra serena. Presenta un colore deciso e uniforme tendente al bigio
c. Pietra del fossato: ha colore tendente al bigio, ma molto particolare ed è più durevole
delle altre due varietà. Anche la grana è eccezionalmente fine rispetto alle altre (strato
più profondo). Venne usata da Michelangelo per la sagrestia di S. Lorenzo.
• Marmo: i marmi considerati dal Vasari casualmente corrispondono al significato scientifico
attuale della parola ovvero; calcari compatti di bell’aspetto, si tratta dei marmi greci o di
quelli apuani, di marmi bianchi, bigi o venati di bigio
• Mischio: si tratta di conglomerati di diverse pietre congelate insieme, e amalgamate con il
tempo, dall’acqua. Però Vasari annovera tra i mischi alcune rocce che non sono davvero
clastiche (conglomerati), ma normali calcari, come i calcari rossi di Verona e quelli rossi di
S. Giusto a Monterantoli (vicino Firenze).
• Paragone: Vasari raccoglie sotto il nome generico di paragone tutte le rocce nere, o
comunque molto scure. Esse venivano usate per le sculture e per le decorazioni
architettoniche. Si possono suddividere in quattro gruppi, comprendenti rocce magmatiche
e sedimentarie:
a. La roccia sedimentaria silicea che tutt’ora viene chiamata pietra di paragone o pietra
lidia. Possiede un colore nero uniforme e si usa per saggiare (Valutare con procedimenti
chimici e fisici le caratteristiche chimico-fisiche di un corpo, di una lega, di un minerale)
l’oro. Questo procedimento consiste nello strofinare il presunto oro sulla pietra di
paragone e poi nell’applicare sulla “strisciata” lasciata dall’oro sulla pietra uno specifico
acido, se non avverrà alcuna reazione l’oro può essere considerato vero.
b. Alcuni calcari di colore nero o grigio scuro, come il paragone delle Fiandre (nero del
Belgio) o il paragone di Verona (marmi di intonazione plumbea, tendenti a seconda dei
casi verso il nerastro o il bluastro). Quando il Vasari cita come luogo di origine di essi le
Alpi Apuane, si riferisce a una roccia bardigliacea (si presta alla lucidatura, è di colore
bluastro o ceruleo chiaro e ne esistono tre varietà: comune, cupo e fiorito quindi con
molte venature).
c. Alcune rocce magmatiche effusive o sedimentarie molto scure, spesso adoperate dagli
Egizi, dure da tagliare, ma si prestano bene alla lucidatura.
d. La serpentina dei monti di Prato, detta comunemente verde o nero di Prato. Venne usata
anche per l’”incrostatura” di S. Maria del Fiore.
• Pietra d’Istria: si tratta del calcare cretaceo istriano di colore bianco livido
• Pietraforte: calcare arenaceo, nei pressi dell’Arno, a grana fine o finissima. Può avere varie
sfumature dal giallo bruno, al grigio, al azzurognolo. Inoltre presenta venature bianche
molto sottili. La pietra viene molto usata nell’architettura di Firenze e anche per alcune
statue.
• Piperno e Peperigno: si tratta di una pietra nericcia e spugnosa che si trova nella campagna
romana e con la quale ci si possono fare stipiti di porte e finestre. Probabilmente Vasari
unifica due rocce piroclaste diverse ovvero il peperino (peperigno), che si cava nei colli
Albani (Roma) ed il piperno, che si trova nei campi flegrei (Napoli).
• Porfido: oggi con porfido si intendono tutte le rocce più acide tra quelle magmatiche
effusive. Il Vasari invece intendeva il porfido rosso antico, proveniente delle cave
dell’Egitto.
• Serpentino: Il serpentino vasariano non ha nulla a che vedere con l’attuale serpentino o con
l’attuale serpentina. Vasari intendeva piuttosto il porfido verde antico, proveniente dal
Peloponneso.

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• Travertino: oggi come allora il travertino è la famosa pietra Romana. Si cava soprattutto
nei pressi dell’Aniene (Tivoli). Ha un aspetto spugnoso e bucherellato perché è un
conglomerato non solo di pietre, ma anche di terre, rami, ceppi, uniti dall’acqua gelida, nel
corso degli anni. È presente anche a Siena, mentre a Lucca e a Pisa vi è una pietra analoga
al travertino per genesi, ma dai caratteri diversi, perché si forma sulla riva del mare, infatti
viene chiamata panchina.

UGO PROCACCI - IMPORTANZA DEL VASARI COME SCRITTORE DI TECNICA DELLA


PITTURA
Le pagine introduttive delle Vite del Vasari, in cui si tratta dell’architettura, della scultura e della
pittura, vengono spesso lasciate in ombra. I capitoli sulla pittura contengono un completo trattato
sulla tecnica nel XVI secolo, descrivono in modo esaustivo le tre maniere di dipingere, ad affresco,
a tempera e a olio. Il testo vasariano ha un eccezionale importanza per la precisa conoscenza ce si
viene ad acquistare, soprattutto confrontandolo con il trattato di Cennino Cennini. Si potrebbe quasi
dire che il Della Pittura vasariano sia da considerarsi la continuazione e l’aggiornamento del Libro
Dell’Arte cenniniano.
Prendendo in esame quanto scritto sulla tecnica della pittura bisogna far cenno alla dibattuta
questione circa il ritrovamento della pittura a olio. È ben noto che il Vasari attribuisce il merito di
aver introdotto questa tecnica, a Jan e Hubert Van Eyck, mentre Antonello da Messina sarebbe stato
colui che avrebbe diffuso in Italia la tecnica in questione. Tale asserzione è stata messa in dubbio, in
seguito alla pubblicazione del libro del Cennini nel secolo scorso. Infatti si è notato che in esso si
parla della pittura a olio e alcuni hanno pesato quindi a un possibile errore da parte del Vasari
(inspiegabile dato che egli conosceva il Libro Dell’Arte). Però, se si esamina attentamente ciò che
Vasari ha scritto, si può concludere che quanto detto dal Vasari sia frutto di un suo ragionamento
specifico. Infatti, nelle Vite, si parla del testo cenniniano (anche in riferimento alla trattata pittura a
olio). Inoltre vasari fece leggere il Libro Dell’Arte a un suo amico, Borghi, il quale richiamò la sua
attenzione proprio su questo punto.
Altra possibilità è che il Vasari abbia ritenuto il testo cenniniano contemporaneo o posteriore
addirittura alle esperienze dei fratelli fiamminghi e di Antonello da Messina, in quanto la copia da
lui consultata era datata 1437 (ipotesi poco probabile). In fine, può anche darsi che il Vasari non
conosceva testi medievali di tecnica, trattanti la pittura a olio (es: Bartolomeo Facio), ma
sicuramente conosceva i trattati di Filarete e di Leon battista Alberi. Inoltre sembra molto probabile
che egli abbia avuto informazioni in proposito anche dalla stessa Fiandra (Domenico Lampson e
Lambert Lombard).
Il Vasari dunque, per testimonianza di antichi scrittori e per notizie avute dalla stessa Fiandra,
poteva asserire che Jan Van Eyck fu colui che per primo seppe utilizzare questa tecnica in modo
esclusivo e assoluto per la pittura, non fu il ritrovatore di questa tecnica pittorica (come affermava
Cennino Cennini).
Vasari riteneva che, tentativi di utilizzo della pittura a olio vennero fatti anche in Italia, ma con
scarsi risultati. Probabilmente però Vasari non prese in considerazione un fattore importante, ovvero
che in Italia questa tecnica non suscitava interesse, tra gli artisti del Trecento, per la cui pittura, che
voleva colori puri, solo in gradazioni diverse, si prestava molto bene la tecnica della tempera a uovo
o a colla (che, inoltre, si alterava e si scuriva meno, rispetto alla pittura a olio).
L’interesse del Vasari si manifesta nel trattato Della Pittura e in alcuni passi delle Vite. Spesso egli
nel guardare le opere si sofferma a riflettere sulla tecnica con cui erano state eseguite. […]
Inoltre presta molta attenzione alle novità tecniche che venivano introdotte [...] e alle particolarità
proprie di un artista, nella creazione dell’opera d’arte.
Una grande importanza hanno determinati capitoli del Della pittura, che verranno qui presi in
esame, perché ci fanno conoscere i grandi cambiamenti che si erano avuti dal tempo del Cennini,
sia nella tecnica, sia nel primo concepimento dell’opera, ossia nell’esecuzione di disegni
preparatori: tracciati in precedenza direttamente sull’arriccio o sull’ingessatura delle tavole, e ora in
piccolo su carta, per essere poi riportati, tramite la quadrettatura, nelle dimensioni desiderate, sul
supporto prescelto (servendosi della tecnica dei cartoni). Nel primo capitolo, di carattere generale,

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Vasari afferma che, bisogna esercitare a lungo l’arte del disegno (per esprimere bene qualunque
cosa ha creato la natura) e che le diverse gradazioni di colore si possono ottenere chiarendo o
scurendo il medesimo colore. Queste stesse raccomandazione le possiamo trovare nel trattato del
Cennini.
Il secondo capitolo è dedicato ai vari tipi di disegni, qui Vasari introduce una novità rispetto al
Cennini, ovvero lo schizzo; prime idee di un artista, impresse velocemente sulla carta, per tentare di
fermare l’animo del soggetto prescelto (come per Leonardo). Poi descrive l’ingrandimento del
disegno con l’ausilio della quadrettatura e, in fine, la trasposizione del disegno dal cartone
all’intonaco. Non si ha nessun cenno né dello spolvero (perché nel Cinquecento venne sostituito
completamente dal cartone) né del “velo”, tecnica inventata da Leon Battista Alberti,
probabilmente, che consisteva nel porsi un quadrettato davanti agli occhi per ritrarre, su foglio
ugualmente quadrettato, qualsiasi cosa si voglia. Tecnica, anche questa, ormai abbandonata
all’epoca.
Il quinto capitolo è interamente dedicato alla pittura ad affresco, molto cara, sia al Vasari, che al
Cennini. Nonostante ciò anche vasari si era ormai arreso alle più recenti tecniche a secco o mezzo
fresco (intonaco non freschissimo), in quanto i tempi di esecuzione erano sicuramente più rapidi.
Per quanto riguarda la tecnica di esecuzione dell’affresco non ci sono differenze tra la descrizione
che né da il Cennini e quella del Vasari salvo che per l’uso del cartone che aveva sostituito la
sinopia.
Il sesto capitolo tratta della pittura a tempera su tavola, su tela e su muro. Il Vasari, pur preferendo
la comune tecnica a olio, non disprezza la pittura a tempera che egli descrive, nel caso della pittura
su tavola, esattamente come scritto nel trattato del Cennini, ma nel Cinquecento le tavole non si
ingessavano quasi più e sicuramente non si usava più la tela tra la superfice del legno e
l’ingessatura.
Un’altra differenza si riscontra con ciò detto dal Cennini, per la pittura murale a tempera su
intonaco secco, in quanto all’epoca del Vasari non si usava più cospargere il supporto con chiara e
rosso d’uovo mischiati con acqua.
Il settimo capitolo tratta della pittura a olio. questa tecnica consisteva nell’ingessare la tavola (non
sempre), passarci quattro o cinque mani di colla dolce (non forte) e quando questa colla era secca,
stendere una miscela di colori seccativi (biacca, giallorino, terre da campagne, ecc.), in modo
uniforme (spesso veniva passata con le mani), quest’ultimo passaggio veniva chiamato imprimitura.
Una volta asciutta si poteva riportare su di essa il disegno per mezzo del cartone e in fine vi si
poteva eseguire la pittura con colori sciolti con olio di noce o di semi di lino, anche se il noce è
meglio perché non si ingiallisce.
Nel capitolo ottavo vengono descritti due modi per dipingere a olio su muro. Il primo consisteva nel
raschiare un preesistente vecchio intonaco levigato oppure passare su di esso due o tre mani di olio
bollito (se si voleva lasciarlo liscio). Dopo si doveva stendere l’imprimitura aspettando che l’olio si
fosse prima seccato, nel caso esso fosse stato passato. Poi vi si disegnava sopra e vi si dipingeva
(come per le tavole), avendo però l’accortezza di mescolare sempre ai colori un po’ di vernice, visto
che la pittura murale, al contrario di tavole e tele, non veniva in fine verniciata.
Il secondo modo consisteva, invece, nel fare un nuovo intonaco stendendo sull’arriccio un intonaco
fatto con stucco di marmo e matton pesto finissimo (quindi si chiamava intonaco arricciato), che
veniva poi raso col taglio della cazzuola per far rimanere il muro ruvido. Poi bisognava dare una
mano d’olio di lino e stendere una mistura di pece greca, mastico(mastice) e vernice grassa, dopo
averla bollita. Poi vi si passava sopra una mestola arroventata per intasare i buchi dell’arricciato e
rendere il muro omogeneo. Quando tutto era secco si dava la mestica o imprimitura e si procedeva
con nel primo metodo. Queste erano le due maniere usate all’epoca, Vasari però ce ne fa conoscere
una terza, sua personale e molto efficace. Egli faceva un arricciato alla vecchia maniera, ma
aggiungendo alla calce e alla rena anche matton pesto; una volta ben secco, vi si stendeva sopra
l’intonaco che però non era più di calce e rena, ma di calce, matton pesto, schiuma di ferro, chiara
d’uovo e olio di semi di lino. In questo modo si otteneva un risultato ottimale, bisognava solo aver
l’accorgimento di non abbandonare mai questo intonaco quando era fresco, ma passarvi sempre

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sopra la mestola altrimenti “fonderebbe in molti luoghi”. Il risultato finale sarà un intonaco
pulitamente disteso. Gli altri passaggi erano gli stessi citati per i casi precedenti.
Il nono capitolo è dedicato alle pitture a olio su tela. La preparazione consisteva nel dare tre o
quattro mani di colla, poi vi si stendeva una pasta di farina con olio di noce e un poco di biacca
(cosi si tappavano tutte le imperfezioni della tela). Poi venivano date due o tre mani di colla dolce
in fine la mestica o imprimitura. I passaggi successivi erano gli stessi delle tavole o delle pitture
murali.
Nel decimo capitoli viene trattato il dipingere a olio su pietra. Tecnica a cui fa riferimento anche
Cennini (capitolo 94). La pittura a olio per la sua maggiore viscosità si prestava bene per aderire
alla pietra. La tecnica era in tutto simile a quella della pittura a olio su tavola, su tela o su intonaco.
Per concludere si può dire che il Vasari è un conoscitore arguto delle varie tecniche pittoriche, tutte
da lui usate e sperimentate. Senza di lui, così come si può dire del Cennini, diverse tecniche del suo
tempo sarebbero rimaste a noi sconosciute. L’importanza dei suoi scritti è seconda, in questo
campo, solo a quella del Cennini.

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