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GUNTHER

ANDERS

Uomosenzamondo
Scrittisull'arte
e la letteratura

SPAZIO LIBRI EDITORI


Sul fotomontaggio
Discorso per/' inaugurazione
del/' esposi-.:ionedi Heartfield a New York, 1938

Millenovecentotrenta. ln qualche paese un bambino muore per


denutrizione. Perché?
Suo padre, un operaio, è disoccupato. Perché?
La fabbrica in cui lavora è chiusa. Perché?
La fabbrica non riesce più a reaLizzare dei profitti. Perché?
Un altro paese - lontano daJ luogo in cui muore il bambino -
riesce a produrre a costi più bassi. Perché?
U paese si può permettere di pagare salari più bassi. Perché?
In quel paese i sindacati non hanno potere. Perché? Perché?
Perché? Perché?
Quale che sia l'ultimo perché, la serie dei fatti, dalla morte
del bambino fino ai sindacati senza potere nel paese lontano, di
cui il bambino non ha mai sentito parlare, è una serie chiusa, è
"un mondo".
Supponiamo ora di pregare un artista, un pittore o un fotogra-
fo di raffigurare questa realtà. Che cosa potrà raffigurare? Forse
un medico che si china sul letto di morte del bambino? Oppure
uno sciopero disperso dalla polizia? Le immagini potranno anche
essere molto realistiche o naturalistiche - ma saranno soltanto
frammenti, mostreranno solo gli anelli della catena; ma non la
realtà della concatenazione. U nesso, vale a dire la realtà, resterà
quindi inl'isibile.
Heartfield parte da questa invisibilità e da questa inadegua-
tezza dell'oççhio !!_mano!Egli supera il principio del naturali-
smo, cioè raffigurare il mondo così come appare, perché egli sa
che la sua anpare_nzg_J_ Opubblico conosce questo
ill_l_annevole.
superamento grazie a tutte le teorie progressive. Il materialismo
progressivo non si affida aU'occhio quale testimone, ma ha biso-
gno dello strumento di pensiero della dialettica per mettere inste•
me i singoli pezzi visibili-e soltanto il singolo è visibile. I singo-
li pezzi sono anche per Heartfield irrealtà, anzi falsificazioni dell,
realtà. Per superare queste falsifica:ioni egli combina a live/1.
della visibilità. nella cornice limitata di un unico foglio di carta
quegli elementi che nella realtà sono connessi.
Ricordo come, circa vent'anni fa, di fronte alle prime opere a
eartfield, si dicesse che fossero delle falsificazioni; in sens<"
uperficiale ciò è certamente corretto. Soltanto che, se Heartfield
'falsifica",se sfigura la realtà per ricomporla in modo inconsueto
l o fa per correggerla. Se egli costruisce, non costruisce per a,-
are dalla realtà, come i costruttori dei soliti quadri fantast;
ci. Klingero BoclcJin o i surreali ti, ma per renderefi~almente vi
sibile il mondo reale che è invisibile a occhio nud(lj
Quali sono i frammenti usati da Heartfield? Fotografie docu
mentarie. In que to senso egli non abbandona definitivamente 1
dominio dell'occhio per sostituirlo con dei semplici segni, come
fanno per esempio gli statistici quando illustrano nessi di fan:
con una curva grafica. Certo, egli resta nel campo del visibile, ma
rende segni iframmenti \'isibili che combina: crea un oggetto che
unisce la verità della curva scientifica all'immediatezza del qua-
dro artistico:/ ocura all'occhio/' am i · ·.,~ Ile della ra ione.
-ade~ua l'occhio alla ragione. Questo motivo è già di per sé molto
notevole. Ma non ha alcun interesse scientifico per Heartfield.
Egli è un propagandista. E se suppone che il mondo sia invisibile.
allora non intende l'invisibilità geografica, il fatto che da qui, da
New York, non riesca a vedere Tokio. L'unica invisibilità a cui è
interessato e contro cui lotta è l'invisibilità prodotta dall'uomo
stesso: dall'uomo per l'uomo; l'invisibilità degli interessi politici
cb.!:_si nascondono dietro e.v.enti-ttppa,cntcfflellle trasparen\i. Ciò
/Che Heartfield aggiunge alle fotografie documentarie è sempre
la causa o il retroscena dei fenomeni raffigurati: il motore che si
nasconde dietro I'apparentemente onesta visibilità. Non è dun-
que casuale che il vero nemico di Heartfield sia il fascismo. Per-

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ché il fascismo non si accontenta semplicemente del grado di
visibilità, che è comune a ogni oggetto di questo mondo. li fasci-
smo, quando si mette in mostra, si rende appositamente visibile
per mantenere invisibili i suoi veri interessi. La sfiducia nei con-
fronti del mondo visibile deve essere tanto più grande nei con-1( >t
fronti del fascismo poiché esso usa la visibilità come paravento. #
Una manifestazione di maggio tedesca, per esempio, è tanto
mostruosamente visibile che dietro di essa sembra non esserci
più nulla. Mettere in luce gucsto "dietro", portare il nemico là
dove può essere colto in flagrante, è il compito di Hcartfield.
Perciò i suoi quadri hanno molto spesso due parti diverse. L'una
è quella nota a tutti, la parte visibile e facilmente identificabile.
L'altra metà del quadro è quella nascosta. Si vede per esempio
l'immagine montata del Fiihrer (all'inizio della dittatura hitleria-
na) che assicura con una mano alzata: <<Milioni mi sostengono».
Questa è la parte visibile. Ma dietro si vede quell'uomo che diede
a Hitler i milioni con cui finanziava le sue azioni di massa: Thys-
sen, che depone nella mano alzata i biglietti da un milione. La
stessa mano alzata diventa indimenticabilmente ambigua. Essa è
contemporaneamente la mano che saluta e la mano dell'agente
pagato.
Un ulteriore esempio che dimostra come Heartfield renda
sempre visibili i retroscena, è la sua trasformazione del famoso
'yquadro di Stuck la guerra. Questo quadro raffigura la guerra, é--
com 'è noto, con un eroico adolescente che cavalca nudo in mez-
zo a un campo di battaglia. Sul ronzino Heartfield fa sedere, alle
spalle dell'adolescente, anche il Fiihrer che incita alla guerra, cioè
la sua allegoria, colpendone le coscie con uno sperone. Questo
quadro è interessante perchè non smaschera soltanto il mondo
del nemico: perché solo ora che Hitler è stato inserito quale se-
condo cavaliere alle spalle della figura ideale dell'adolescente
diventa mostruosamente chiaro quanto fosse insignificante que-
sta allegoria di Stuck, in cui la guerra è semplicemente presente,
voluta da nessuno, lasciata galoppare verso nessun luogo; quanto

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la presunta inlenzione puramente artistica non fosse altro che u:-
patetico vuoto.
Un altro grandioso esempio di questa ambiguità, un esempi
in cui si dà di nuovo un doppio significato al saluto fascista, è 1
quadro deUa fucilazione di Rohm del 30 giugno 1934. li mod,
con cui Heartfield fa combaciare la mano del morente con un~
mano che saluta, così che ognuno vi può leggere: «questo salute
può uccidere anche me», è indimenticabile.
Oppure si osservi l'altro quadro, quel ritratto di cui non si pue:
dire se raffiguri Hitler o l'imperatore Guglielmo, e in cui le due
fisionomie si sovrappongono in modo indiscernibile. E parago-
niamo questo quadro con un'immagine normale di Hitler. Que-
st'ultima può essere terrificante o entusiasmante, ma non dice
niente. L'immagine di Heartfield dice invece: «Hitler è l'impera-
tore Guglielmo». Una frase che, di fronte all'Ostpolitik imperia-
lista inaugurata ora dalla Gennania, è diventata ancora più vera
di quanto non fosse al tempo in cui Heartfield montava questo
quadro. Si dirà che questo quadro non è più un quadro ma un
giudizio. Questo "ma" è sbagliato. In realtà Heartfie/d è il primo

é
a raffigurare giudizi e non semplicemente oggetti. Un quadro
comune, paesaggio o ritratto, non è né vero né falso e si tiene
fieramente - ma anche timidamente lontano dalla domanda sulla
verità, decisiva per l'uomo. Heartfield è riuscito sin dai primi
montaggi a riconnettere nuovamente l'arte figurativa alla "serie-
Jà della vita", cioè alla domanda: vero o falso. Se monta o con,-
le2n,~lo fa soltanto~r sottoQç>rrea.giudizio.ciòcbc sta i~eme
realmente; e se inventa, lo fa solo per scoprire e pe~trasmettere la
~ scoperta1 Questa fonnu~ventare per scopvire è probabil-
mente la fonnula più concisa per caratterizzare Heartfield. Ac-
canto ad essa ce n'è un'altra. HeartfieJd infatti non solo rende
visibile ciò che esiste - pur essendo invisibile; bensì traduce in
immagine anche menzogne, frasi e metafore per portarle all'as-
surdo attraverso un'esagerata tangibilità. A questo tipo di quadro
appartiene per esempio il montaggio in cui prende in parola, o

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meglio, "in effige", l'assicurazione di Hitler di essere socialista;
cioè quel quadro che in un certo senso è un doppio montaggio,
dal momento che vi è raffigurato Goebbels che sta mettendo al
FUhrer la barba di Karl Marx. Il montaggio di Heartfield sma-
schera qui il montaggio del nemico. È un contromontaggio.
A questo genere appartiene anche uno dei rari quadri di Heart-
field che oltre allo sdegno rivela anche dello humour; cioè il quadro
della famiglia divoratrice di ferro, che esemplifica quanto ha detto
Goring nel suo discorso ad Amburgo: «che strutto e burro fanno
al massimo ingrassare il popolo, il ferro invece fortifica». Osser-
vate per favore là suJ pavimento, il cane che si adatta al tipo di
cibo della famiglia.
Chi è dunque quest'uomo che ha introdotto questa nuova forma
artistica? Non è un caso che sia cresciuto con genitori già politi-
cizzati: morirono presto nell'emigrazione, rifugiati a causa delle
leggi sui socialisti. Jonny, come orfano, passò da una mano al-
l'altra, fu educato in convento-di qui il suo anticlericalismo-da
cui fuggì sedicenne nel 1905 in Germania. Praticò tutta una serie
di oddjobs, disegnò cartelli pubblicitari di un lucido da scarpe e
dei dadi da brodo, per poter studiare di notte all'accademia. Nel
1914 ha dimenticato tutto il passato socialista dei suoi genitori e
va in guerra da modesto pittore. Al ritorno fa fotomontaggio.
Ci dobbiamo rendere ben conto della situazione artistica in
cui si venne a trovare Heartfield quando fece ritorno dalla guerra.
La pittura borghese era in pieno subbuglio e divenne espressioni-
sta. Che cosa vuol dire? Vuol dire che gli artisti non avevano più
voglia di raffigurare e fissare il mondo così~ come appa-
re. Pensate al doppio significato della parol~essa signifi.;.
ca contemporaneamente rendere saldo e osservare. Ma per quan-
-;;;-,possa apparlfe facile, da atdsta hgurattvo diventare artista
politico risultava troppo difficile: perché nessun artista era pron-
to e nessuno di loro intuiva che il mondo, che vedeva nel suo con-
testo, fosse quello borghese. Quindi ognuno cominciava a prote-
stare contro questo mondo; gli uni protestavano diventando astrat-

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ti; gli altri gridando manifesti aJ mondo; ma ognuno era il
proprio manifesto, nessuno aveva da manifestare qualcos'a.
se non se stesso. Cominciavano ad "esprimersi" programma11~
mente, e così credevano di essere mostruosamente rivoluzion
Ma la funzione espressiva aveva a sua volta un intoppo reazion:m-
si può esprimere solo ciò che già si ha comufUJue dentro di
L'esprimerlo non cambia il mondo. Per chi ci si esprimesse \.
quale scopo si presentasse l'oggetto espresso - il quadro espn:
sionista - restava completamente all'oscuro. Dal momento e
non si voleva più lavorare per un pubblico borghese, pur sen
riuscire a immaginarsene uno diverso, per la prima volta si la,
rava davvero nel vuoto; l'artista espressionista traduceva in au
in un modo precedentemeate sconosciuto, l'estetica classlC
secondo la quale l'artista si trova in un ambito isolato dalla soc ..
tà. Si paragoni questa situazione con le circostanze in cui è nato
fotomontaggio. Heartfield stesso ne parla: la censura non pe
metteva di mandare a casa- sotto forma di lettere- le verità o J\.
dirittura i pensieri contro la guerra. I soldati aJ fronte usava!"
quindi tutte le astuzie possibili per informare i loro parenti. G
strumenti di cui disponevano i soldati erano pochissimi: giom ..
del fronte illustrati e opuscoli. Così ricorrevano ai seguenti ma
zi: incollavano delle fotografie per raffigurare, per esempio, qu ...
cosa come "gli eroi caduti in patria", utilizzando una qualsia,
immagine del giornale che illustrasse la 'vita parassitaria dell
classe dominante. Due o tre parole adatte completavano il qu ..-
dro. Le parole di per sé non erano da censurare. Le fotografie
erano tratte da materiale giornalistico ufficiale. E poiché la cen-
sura non aveva il tempo di pensare se tutto l'insieme fosse o po-
tesse significare qualcosa di pitì che la somma delle sue parti.
soldati potevano mandare a casa questi collages impunemente
Ma per nessun fenomeno è sufficiente nascere. Il modo con cui
Heartfield prese in mano questo neonato - che non era niente di
più che uno scherzo fatto alla posta militare- e ne fece un'arma
pericolosa, uno strumento che è stato adottato dall'iatera stampa

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borghese, dall'intera tecnica pubblicitaria dell'economia di mer-
cato, e addirittura dal fascismo, sarebbe una storia a sé. Possiamo
considerare senz'altro Heartfield come il creatore del fotomon-
taggio.
Ho spesso sentito dire che sarebbe del tutto casuale il fatto
che Heartfield fosse di sinistra. Egli sarebbe certo il più dotato fra
tutti i fotomontatori, ma solo come quello specialista che sfrutta
la nuova forma d'arte per la lotta politica della sinistra. Ritengo
questa teoria sbagliata. Esaminiamo dove e per chi altrimenti si
fanno fotomontaggi.
In un certo senso si può dire che i!Jotamontaggio è stato
~ntato dal nemi~utti conosciamo quelle immagini falsifi-
cate che vengono composte con diverse fotografie dagli uffici
stampa di tutti i paesi allo scopo di mostrare alla patria le atrocità
del nemico e i gesti amabili delle proprie reclute. In senso tecnico
queste immagini sono certamente fotomontaggi; ma è evidente la
differenza tra questi e i fotomontaggi di Heartfield: Heartfield
non dice mai che Goebbels ha applicato realmente la barba di
Karl Marx a Hitler; non è sua intenzione spacciare l'immagine
per una fotografia autentica. I montaggi di guerra confezionati
per la f~bbrica dell'opinione e per la produzione di entusiasmo,
miravano a montare in mod.R.tale che non si riconoscesse il mon-
taggio: dunque a fajsificare.lDalle suture delle loro pseudofoto-
grafie sgorga la menzogna e la cattiva coscienza.
Vediamo ora un altro tipo di montaggio: quelle forme di foto-
montaggio utilizzate avidamente quale mezzo pubblicitario in
Germania, in Inghilterra e in Olanda subito dopo la guerra mon-
diale. Che cosa viene montato in questi cartelloni? Il grafico
pubblicitario di una ditta automobilistica, per esempio, monta una
macchina in mezzo a un meraviglioso paesaggio della riviera. Il
montaggio significa: «con questa macchina ci puoi andare». Il
montaggio avrebbe potuto essere sostituito facilmente da un 'au-
tentica fotografia di una macchina che viaggia lungo la riviera.
Quindi non è altro che una semplice fotografia falisifcata.

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La seconda fonna di fotomontaggio borghese ha già più a e
fare, almeno storicamente, con il fotomontaggio autentico
Heartfield. Qui si vede per esempio l'annuncio di un gran
magazzino che vi garantisce di sommergervi di articoli di Of
genere. Oppure la pubblicità di un locale che promette di sco
volgervi con bevande, jazz e ballerine.
Il fotomontaggio pubblicitario consisterà quindi in un caos
strumenti jazz, bicchieri da vino, gambe di ragazze ecc. e
mostrerà lo stato in cui vi trovereste lì con maggiore autentic
di quanto potrebbe fare una fotografia del locale. Questo mo
taggio ha già qualcosa a che fare con la verità.
/Tn effetti la dissoluzione della realtà, l'anarchia di que,
fondo, può essere rappresentata meravigliosamente per men
del fotomontaggio. Il cosiddetto Dadaismo, quel movimento
/ cui, poco dopo la guerra, veniva fonnulata programmaticamen ~
l'anarchia del mondo, non è altro che un mezzo per raffigurar
attraverso 1111disordine del tutto arbitrario, il disordine del 111<
do. Dopo la guerra il mondo sembrava talmente scosso che pt
gli intellettuali nessun oggetto apparteneva più a un settore o a .
luogo detenninati. Nei quadri cercavano di raffigurare questa tota..
anarchia incollando indiscriminatamente teste, fotografie di nud
pezzi di giornale, immagini pubblicitarie, biglietti per il metr
Questi montaggi documentano certamentegiàJo chocsubìto da
l'intellettuale borghese, ed era un piacere continuare a spavent~
re i concittadini, sopranutto quando divenne chiaro che il mond
bo~ese non era affatto crollato. Il Dadaismo iniziò come rico-
noscimento da parte del borghese del suo mondo distrutto. Mu
diventò subito snobismo poiché questo mondo, malgrado tutto,,
teneva ancora insieme e la rivoluzione ebbe luogo soltanto sul u
carta. Storicamente, non è casuale che Heartfield ali 'inizio, quan-
do tornò dalla guerra, fosse molto vicino al movimento dadaistil
ma che se ne allontanasse poi quando il Dadaismo doveva tra-
sformarsi, per ragioni storiche, in snobismo e aderisse a un movi-
mento più grande.

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La cosa più interessante è naturalmente osservare il mezzo
artistico del montaggio, che è costruito sul principio della con-
tr·addizione dialettica (sulle contraddizioni tra teoria e prassi, tra
parola e azione, tra apparenza e realtà), quando cade nelle mani
del nemico, cioè nelle mani del fascismo che mira con tutte le sue
forze a coprire i retroscena e a negare l'ambiguità che costitujsce
la forza e l'aggressività di ogni montaggio. Esiste tutta una serie
di montaggi fascisti. Ma nessuno di quelli che conosco mostra
una collisione tra apparenza e reaJtà; piuttosto essi combinano
semplicemente due pezzi provenienti dal dominio dell'apparen-
za. Ciò suona molto astratto. Ma l'esempio che farò illustrerà
subito la fonnuJa astratta. Vediamo da una parte Mussolini e

l
dalla'altra una massa di fascisti che l'acclama. La giacca cli
Mussolini è fatta dj una massa entusiasta. Il tutto è in fin dei conti
soltanto un rebus, un'eroica cartolina postale scherzosa. E l'uni-
ca verità che l'immagine illustra controvoglia è la differenza di
grandezza tra il djttatore e la popolazione che pullula sul suo
petto. Se l'immagine, attraverso la giustapposizione di due pezzi
eterogenei, provoca un qualsiasi choc - e uno choc doveva pur
essere previsto, altrimenti si sarebbe potuta usare una semplice
fotografia - allora si tratta dello choc del comico.
D'altronde non è privo d'interesse constatare quando com-
parve il fotomontaggio nell'Italia fascista. Cioè nel momento in \
cui l'Italia era divenuta realmente una potenza altamente indu-
strializzata. L'amore per il fotomontaggio, in cui vengono as- \
scmblati frammenti di immagini come fossero pezzi meccanici e
in cui gli elementi dell'immagine non sono connessi organica-
mente, ma come parti dj un apparecchio, ha ampiamente a che
fare con l'apologia dell'industria, che è tanto più appassionata
quanto più è recente. Di qui anche l'entusiasmo per il fotomon-
taggio in Russia.
L'esempio italiano, mostrato precedentemente, dovrebbe
chiarire l'ambito ristretto in cui soltanto è possibile il fotomon-
taggio. Il fotomontaggio esiste per smascherare, non per celebra-

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re. Non si può usare la collisione che ha luogo eo ipso in ogni :
tomontaggio come elemento invitante. Lo choc, che è stato
ventato perché si spari con pallottole vere, non può essere use
per sparare mortaretti. C'è per esempio un fotomontaggio
Heartfield che rappresenta la seguente immagine: in basso si v
un quartiere, un tempo uno degli slums di Mosca, che è stato e
trasformato in un igienico e dignitoso quartiere residenziale.
alto si libra nel cielo un enorme ritratto di Lenin. In questa imrP
gine Lenin è concepito senza dubbio come il costruttore d.:
quartiere. Ma la sproporzione tra il ritratto sovrumano e la vi,
della città lascia subito presumere un contrasto contenutistic
Nonostante il suo aspetto amichevole, Lenin appare minaccio
Non credo di limitare troppo il fotomontaggio se affermo e:·
esso è fondamentalmente un mezzo da battaglia, un mezzo pre
voluzionario.
Mi è stato chiesto spesso dove si dovrebbe appendere un silTII
fotomontaggio. Certo non lo si può appendere in camera com
decorazione. Un Goya, per quanto possa essere violento, p1..
ancora essere immaginato come una diabolica decorazione ~
parete. Ma dov'è il luogo sociale del fotomontaggio? La domai:
da è del tutto legittima. Essa dimostra che Heartfield è riuscito
trasformare la funzione sociale del quadro come elemento declJ
rativo della casa borghese, una funzione rimasta indiscussa e ov,
sin dai quadri borghesi olandesi. Poiché questi quadri mirano al
trasformazione del mondo, non hanno alcun posto sociale dete
minato in questo mondo: né in chiesa né in salotto; e se posson-
essere esposti da qualche parte pubblicamente, ciò accade soltar
to perché l'ordine del mondo politico-economico del paese in ci:.
vengono esposti è ancora tanto saldo da poter permettere e tollt'.·
rare la propaganda contro se stesso. I quadri non sono assolut:.·
mente più quadri, nel senso artistico del secolo scorso. Invano
cercherà di immedesimarsi completamente nella felicità artisu
ca. Invano si cercherà !'"espressione artistica". Il quadro ha a,
sunto una funzione del tutto nuova. Esso non rappresenta la be ·

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lezza che si offre a distanza, ma è piuttosto come la testa della
Gorgone: l'immagine terrificante che viene tenuta davanti all'uo-
mo e che non lo attira, ma lo respinge. Lo respinge nella verità.
Questa nuova funzione dipende dal fallo che la differenza tra
originale e riproduzione, considerata naturale per secoli, diventa
ora del tutto inutile. Quello che vediamo in questa esposizione
sono certamente degli "originali". Ma per quanto possa sembrare
irriverente, affermo: «le riproduzioni sono gli originali». Già
davanti a una fotografia è impossibile chiedere: questa fotografia
è un originale o no? E sarebbe snobistico appendere nella stanza
il negativo come originale.
I quadri che si trovano appesi davanti a noi non sono concepi-
ti così da Heartfield. Sono stati concepiti come riproduzioni. Questi
quadri sono fatti per influire sulle masse. Questa è la loro tendenza
originale. Quello che vediamo di fronte a noi non sono dunque
gli originali, ma la produzione dei quadri nella loro penultima
fa e di lavorazione.
In che modo si produce quindi un fotomontaggio? A prima
vista può sembrare molto facile, e proprio i cosiddetti originali
sembrano dire: basta ritagliare due pezzi da un giornale illustrato
e metterli insieme a sorpresa. Anche Heartfield ha detto una volta:
«Spesso basta applicare soltanto un punto di colore insignifican-
te su una fotografia per trasformarla in un fotomontaggio».
C'è per esempio la fotografia della parete posteriore di un ca-
sermone. Sul davanzale di una finestra del terzo piano c'è un
piccolissimo vaso di fiori, da cui crescono una o due misere fo-
glie. Heartfield colora di verde queste due piccolissime foglie,
che non coprono neanche un millesimo della superficie del qua-
dro. Ali 'improvviso, grazie al puntino verde, tutta la parete della
casa che prima era priva di colore diventa colorata. E precisa-
mente di un colore grigio, indicibilmente grigio.
La produzione di un fotomontaggio, che sembra essere opera
rapida di forbici e colla, è il risultato di un lavoro attento e medi-
tato, che non è da meno di quello di un pittore, di un grafico, o di

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uno scriuore. A questo proposito vorrei riportare come retjak
(che nel 1935, in occasione dell'esposizione dell'opera omplc:
di Heartfield a Mosca, ha scritto sulla "Pravda" un 'app ofond
e arguta analisi della creazione di Heartfield) descrive I nasc
di un fotomontaggio. «Nel modo seguente», dice Tr tjakc
«Heartfield si è occupato a Mosca di un gruppo appartener,·
aJJ'Armata Rossa»: un figlio dà l'addio al padre che indossa u
maschera antigas. Nella prima fase del lavoro viene stabilita
dimensione della foto. Una copertina di un libro dovrà esse.
prodotta in una certa dimensione, una pagina di giornale in un '.:1
tra e un manifesto stradale in un'altra ancora. Ci si consulta
come si dovranno ritagliare le fotografie. Poi si passa a cercare •
didascalie che dovranno sottolineare il tema del soldato che vtl
ne mandato nella guerra coloniale. Si propone: «Stai bene e prc·
ga per coloro che mi ci hanno mandato». Una seconda propo,1
«Prega per quelli che strappano il padre ai suoi bambini». Lr
terza: «Fai la fame per coloro che mi hanno mandato via». Tuu
ciò era pensato come esclamazione del padre. Ben presto emc·-
geranno gli errori di queste didascalie. Primo: il padre parla attr; ·
verso la maschera antigas, il che è innaturale. Secondo: in que,1.
frasi c'è tanta devozione che non ci si può ritenere soddisfati
Terzo: la frase scivola con troppa calma, con un tono troppo~
maestro, dalle labbra del soldato in partenza. Se pur lascia de11
qualcosa al figlio, non dirà mai di andare a pregare. Una nuo,~
proposta: questa volta si cercano delle parole per il figlio: «P.:1
dre, perché sei vestito così?» E acuendo questa frase, la seguem,
variante: « Padre, dov'è la tua faccia?». Questa è un'ottima did.1
scalia. Lo è già per il solo fatto che la parola "faccia", oltre .lo
significato di "fisionomia", possiede un secondo significato. ~
cioè quello della faccia "interiore", del carattere. "Dov'è la tu.
faccia" significa contemporaneamente: «A chi hai permesso d
distruggere la tua faccia?», e il grido: «Rivela la tua vera faccia!
Oppure guardiamo il quadro Dirnitroff-Goring. Non bisogn~
pensare che Heartfield avesse a disposizione le figure in quest_

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proporzione. Per prima cosa doveva abbozzare le proporzioni delle
figure in modo tale che si trovassero in giusto rapporto tra di loro.
Dopo di ciò doveva farle fotografare; sempre che disponesse di
una fotografia della parte posteriore di Goring, il che mi sembra
improbabile; dunque doveva magari produrre una fotografia di
Goring da dietro; ma già prima di inventarla doveva avere in
mente le situazioni mostruosamente ingiuriose in cui Goring non
era degno di avere una faccia. Che indescrivibile raffinatezza
lasciarlo nondimeno parlare; dalla sua bocca si vedono affiorare
parole sconce. Che bravura ingrandire mostruosamente la figura
di Dimitroff oltre la cornice del quadro. Dimitroff, in un certo
senso, non ci sta in un unico quadro: mentre Goring, in un certo
senso, non è degno di stare completamente nel quadro, viene solo
chiamato in fretta a rapporto. La posizione chinata di Dimitroff è
magnifica: nella fotografia originale è la tipica posizione dell 'in-
tellettuale che si rivolge certo al pubblico, ma abbassa lo sguardo
per raccogliere in sé i pensieri. Questa posizione assume nel
montaggio una funzione del tutto nuova. Goring si trova nell 'am-
bito di potere di Dimitroff, la cui testa pende sopra di lui come la
spada di Damocle.
Dunque, sebbene i materiali del fotomontaggio - fotografie,
forbici, colla e parole - si trovino a disposizione di tutti, non
succede altrettanto per quanto riguarda il loro uso. Chi, con le
forbici, la colla e le parole, sa soltanto tagliare, incollare e parla-
re, sarà meglio che non osi cimentarsi con quest'arte politica. Si
deve saper disegnare con forbici, colla e parole. E si deve saper
disegnare le proprie vittime nello stesso modo in cui Dio dise-
gnava Caino: cioè in modo che restino segnate una volta per tut-
te. Jonny Heartfield lo sa fare. La parola a Jonny Heartfield.
DER SINN DES
HITLERGRUSSES
DER KRIEG

E,nGem.lde von Franzv. Stuck. Ze,tgemaBmonbertvon John HeMtf.eld


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I( ...
La "Morte di Virgilio"
e la diagnosi della sua malattia

Il contenuto delle oltre cinquecento pagine è presto detto: I' impe-


ratore Augusto porta con sé in Italia il poeta Virgilio ammalato-
si in Grecia. Dopo lo sbarco a Brindisi, il sofferente viene portato
attraverso il quartiere povero della ciuà al palazzo imperiale,
dove muore dopo vari tentativi di distruggere la sua incompiuta
Eneide, e dopo lunghi colloqui filosofici. Il libro è quindi quasi
privo di "azione" nel senso comune del termine. Chi lo legge per
intrattenimento resta deluso. Ma anche il filosofo ha le sue diffi-
coltà.
Perché questo libro sorprendente non sostiene alcuna tesi. E
certo non perché a questo libro manchino le tesi. Anzi, è pieno
come il mondo. Di apparizioni e controapparizioni; di sentimenti
e controsentimenti; vuole essere tulto: inno, filosofia morale, au-
toaccusa, dramma dialogico, romanzo; e dare tutto: uomo, ani-
male e pianta; religione e azione; amore, amore profano e amore
cristiano; natura, politica e cultura. Linguisticamente accade la
stessa cosa: la foresta di foglie di questo libro è infarcita come la
giungla, nessun sostantivo compare senza il suo aggettivo lussu-
reggiante, che a sua volta si ramifica in almeno altri due; non c'è
frase le cui ramificazioni non crescano sul viticcio di altre frasi o
addirittura si radichino di nuovo nel terreno. Le piante sarmento-
se e i millepiedi di questa prosa sembrano cresciuti per horror
vacui. E persino quell'intruso abituato a muoversi sul terreno
letterario più difficile, che osi penetrare nella giungla fosfore-
scente del libro, intimorito, sazio e senza fiato, ritorna all'aperto
e chiede: perché quest'ebbrezza di totalità?
Cosa può spingere un uomo a tentare tutto in un unico libro?

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Vi è una sola risposta: il panico di perdere qualcosa.
Che cos'è questo panico? È il panico di fronte all'abbondan-
za del mondo che non si è e che non si possiede. Ma questa paura
di perdere tutto colpisce solo colui che potrebbe essere "tutto··.
che è "interessato a tutto" perché egli stesso non è nulla di deter-
minato.
Tale sembra - non importa se a ragione o a torto - il Virgilio
di Broch: egli ha accompagnato il mondo, così ci confessa.
soltanto con delle parole: quindi non era un uomo che aveva
compiti determinati nel mondo; e quindi era un nessuno, una
mera possibilità, un congiuntivo; e nel congiuntivo lo assale tutto
ciò che ci potrebbe essere, che egli potrebbe essere. "Tutto" e
"potrebbe": abbondanza e congiuntivo vanno insieme e sono
soltanto le due facce di un 'unica esecrabile situazione umana.
Che Broch fosse capace di trasformare un tale panico in
un'opera voluminosa; che ogni giorno e per degli anni, scrupolo-
samente, riprendesse ogni mattino i miJle fili lasciati la sera
precedente, è un fatto psicologicamente quasi incomprensibile
ed esige il massimo rispetto.
Ma la paura di perdere qualcosa non è soltanto paura, è
insieme qualcosa di morale; è una sorella del rimorso, che vuole
recuperare ciò che ha perso. La "morte di Virgilio" è in realtà il
"rimorso di Virgilio". Ma egli rimpiange invano. Poiché rim-
piange in modo sbagliato: chi considera tutto come "occasione
perduta", chi rimpiange troppo, non arriva mai alla fine del
rimorso: mai alla riparazione. Così stanno le cose con il rimorso:
è avido, s'inebria con la propria abbondanza, si muta improvvi-
samente nell'elogio ditirambico dell'occasione perduta, quindi
del mondo, e diviene dunque nuovamente l'occasione perduta
della propria destinazione. Rimorso apologetico - questo è il
tono del libro di Broch.
L'eroe del Iibro è quindi un uomo che, stando alle sue parole,
o almeno a quelle di Broch, ha mancato, nonostante il suo
successo inaudito, !'"essenziale": l'essenza del poeta, perché

178
non è più un Omero, che aveva espresso con immediatezza il
"fondamento della sua epoca"; l'essenza del mondo, perché
invece di condividere l'amore aveva soltanto contribuito a deco-
rare epigonicamente la "superficie del mondo"; l'essenza del-
l'uomo, perché invece di agire o di partecipare alla costruzione
politica di Roma, aveva soltanto sprecato la sua vita con belle
parole. La convinzione dell'insufficienza "esistenziale" del poe-
ta è quindi il secondo motivo del libro. È un motivo autentico e
urgente. Ma il procedimento di Broch è circolare: nella dispera-
zione per la fatuità dell'esistenza poetica, fa di questa stessa ~
disperazione un poema. lnxece di una oluz.ione.delJa difficoltà,
ci restituisce la difficoltà in forma lirica.
~miglianza con la fùosofia esistenziale di Heidegger (al
cui fascino Broch chiaramente soggiace) è impressionante: se
daJla lotta contro la fùosofia accademica è nata con Heidegger
una nuova filosofia accademica delJa disperazione, in Broch la
convinzione dell'insufficenza dell'esistenza poetica è nata nella
forma di un poema sul poeta disperato. Entrambi - Heidegger e
Broch - abbandonano certo, e ci sembra in modo radicale, la loro
disciplina: ma non per imboccare la retta via della prassi, bensi
per svignarsela nella boscaglia della metafisica. S<\Pe tannolUo..
111tesae definiscono la.morte come.senso della vita.
Il rimorso di Virgilio è poco serio, perché si pente di troppe
cose. Ma ancora meno serio è il tentativo di trasformare il
rimorso in azione: la sua vittima. Le sue discussioni sul letto di
morte vertono esclusivamente sul pensiero di distruggere l 'Enei-
de, l'emblema della sua colpa, l'opera della sua vita, completa-
mente priva di poesia e di sostanza (cosi afferma insistentemen-
te). li puro esteta da una parte, il puro uomo d'azione dall'altra,
con i quali Virgilio lotta per l'essere o non essere della sua opera,
non capiscono dove il poeta voglia arrivare con il suo sacrificio.
Anche al lettore è poco chiaro perché mai la scomparsa dell'ope-
ra possa riparare o addirittura redimere una vita mancata o il
mondo sbagliato in cui questa vita si è svolta. Comunque sia, il

179
Virgilio di Broch prende solennemente sul serio questa mostru
sa, in un certo senso negativa, sopravvalutazione della letteran.
ra: egli ritiene il suo libro tanto importante che la sua distruzio1;:;
potrebbe già rappresentare un valore positivo, anzi potrebo:
introdurre una nuova era. Perché con esso compare la teoria dc
sacrificio in rapporto con l'idea cristiana del sacrificio, aJla qua.~
il sacrificio virgiliano doveva prepare il terreno. La quarta eglog-~
virgiliana, che a torto è stata interpretata sempre come messian
ca, presta a questi passi i suoi toni profetici. Che poi alla fine
sacrificio non abbia luogo, è un anticlimax religioso un po' dure
Virgilio, nondimeno, viene assolto. L'assoluzione stessa (l'inte-
ra parte finale del libro) ha luogo come un processo del tun
estraneo alla morale, come un passaggio attraverso ~i&te-Az;..
~. vegetai~ e minerale fino a g_iungere alla beata coinci-
d~on-essere - vale a dire: Broch rinnovai'Hae,e.;

-
erJf!_ing assolutorio puramente cosmico nello stile del diciannove-
simo secolo e compie così un ritorno al tardo romanticismo
-
Infatti anche Wagner voleva andare al di là della semplice arte. e
anch'egli usava la semplice "dissoluzione" dell'uomo come
"redenzione". «Hochste Lust unbewujJt» (il massimo piacere è
inconscio), viene detto alla fine di Tristano. «Perché essa [la
parola] era al di là della lingua», conclude il libro di Broch. M..
l'assoluzione, per non parlare della dissoluzione dell'uomo, non
si è mai potuta sostituire aJla soluzione dei problemi, e anche la
beata disintegrazione di Virgilio non dà alcuna risposta alla
domanda circa la funzione del poeta nel mondo.
Accanto a questi temi principali, "occasione perduta" e "sa-
crificio", vi sono ancora altri motivi ideali, anzi ve ne sono innu-
merevoli: ogni parola sembra carica di simboli: ogni cosa, ogni
evento, ogni gesto, stracarico di significato. Perché questa ab-
bondanza di significato?
li "troppo" significato ha la stessa radice del "troppo" mondo
di cui abbiamo parlato all'inizio. Le cose hanno "troppo" (o
"profondo") significato per quell'uomo che "non sa più che

180
farsene" nel sistema del suo mondo pratico; per chi è privo del
luogo da cui articolare il significato detenninato di ogni singola
cosa. Così accadeva al disoccupato Franz Biberkopf, che era nel
senso più concreto "senza luogo", in Ber/in Alexanderplatz di
Doblin: dal momento che, come uomo gettato fuori bordo, non
aveva più nulla da fare, ogni cosa gli sembrava dover possedere
un significato. E lo stesso capita al Virgilio di Broch e a Broch
stesso. Ma se ogni pezzo di mondo gli sembra essere tanto ricco
di significato, è solo perché nel pezzo spogliato di ogni significa-
to si può innestare, in via sperimentale, un significato qualsiasi. E
se sembra che ogni significato sia infinito, ciò avviene per la
stessa ragione per cui un segnavia con le indicazioni cancellate
sembra indicare l'infinito.
Per quanto riguarda lo stile di questa filosofia - in parte per il
suo tema classico, in parte per la sua pretesa religiosa-, è uno
stile solenne; un tedesco "elevato", che è difficilmente classifi-
cabile, poiché in realtà non corrisponde a nessun elevato strato
sociale e a nessuna elevata situazione sociale. Ma questa solenni-
tà da inno si incrocia con uno stile di provenienza completamente
diversa: lo stile dell'Ulisse di Joyce. Come nasce questo incro-
cio? Come mai Broch, come Joyce, stipa tutto nello spazio
ristretto di ventiquattro ore? Per una semplice ragione.
L'esistenza umana è per Broch puramente passiva; per cin-
quecento pagine l'eroe del libro re ta quasi immobile; la sua vita
è- morire. Ora, il metodo della dilatazione temporale è in Joyce
un metodo della tra fonnazione dell'attivo in passivo: ogni atto
umano viene diluito in una poltiglia di puro accadere, ogni
decisione in un'esperienza viscosa, ogni vita in un mero essere-
vissuto. A ogni minima impressione, a ogni sfumatura della
situazione corporea viene conferita automaticamente la massima
importanza. E altrettanto automaticamente il mondo è degradato
a semplice occasione di esperienze possibili. Già nel caso di
Joyce è irritante dover subire un'interminabile galleria di frazio-
ni di secondi in primissimi piani; ed è ancora più irritante che egli

181
raffiguri volutamente queste frazioni come vaghe, cangianti e
ambigue. Ma nel caso di Joyce questa irritazione non stona
Poiché egli mira soltanto alla "registrazione ingrandita" dell 'in
conscio umano, quest'unione tra pointillisme e primissimo piano
è coerente. Una combinazione fra dilatazione e solennità, tr.i
pointillisme e sacrificio, tra psicologia associativa ed età dell'o
ro, come la troviamo in Broch, non è più una combinazione, m..
una collisione; e il risultato è uno stile che difficilmente potreblx
essere più ibrido.
Ogni capriccio dell'anima si trasforma nel libro di Broch in
una tempesta metafisica, ogni stimolo della retina in visione. I
libro consiste veramente in migliaia di visioni, ognuna delle
quali è in sé un poema lirico, di questi centinaia sono grandiosi t
di estrema luminosità linguistica - ma a nessuno di questi lirism
è concessa la libertà di imporsi e di distendersi come questo e
nessun'altro stato d'animo; ogni lirismo trabocca nel successivo
Nietzsche propose una volta a un tale che aveva preso troppo aJIJ
leggera la sua critica a Wagner, di ritagliare dal Crepuscolo degl
Dei una voce di viola. Chi vuole misurare l'importanza di Brod
come lirico, dovrebbe accostarsi al libro con delle forbici.
Le cose più inconsuete sono però quei brani che descrivono la
totale decadenza: sono di una sensualità penetrante. Sembra che
il ribrezzo stimoli l'autore così come prima di lui aveva stimolato
Céline e Benn. Con un piacere selvaggio descrive quartier
poveri e putridi, che Virgilio non ha mai conosciuto e i cui odon
lo perseguitano beffardi e vendicativi fino alla morte. In un certo
senso è un sintomo della cattiva coscienza dello stile sontuoso di
Broch il fatto che di tanto in tanto si macchia intenzionalmente di
volgarità. È come se Broch lanciasse nel paesaggio classicista
del suo linguaggio mucchi di fango, palate di gergo. Ma senz ..
mai riuscire a insudiciare il paesaggio come avrebbe voluto:
perché il suo slang è socialmente tanto irreale quanto il suo stile
è elevato; in un certo senso è un "tedesco osceno in genere", un
idioma da fogna preparato accuratamente nella storia della lette

182
ratura, che non viene parlato da nessuna parte e il cui suono,
messo sulle bocche degli abitanti di Brindisi alle soglie dell'era
cristiana, suscita più sorpresa che scandalo.
Per chi è scritto questo libro sorprendente? La difficoltà della
lingua, la lentezza dell'azione, l'innesto di frammenti classici,
l'identificazione del mondo colto con il mondo, la voluta discon-
tinuità delle associazioni - tutto ciò sembra rendere utilizzabile
questo libro soltanto a un pubblico di lusso, in un certo senso
soltanto agli amanti di Joyce con educazione umanistica. Ma la
sua autoaccusa, i suoi inni, la sua teoria del sacrificio, ma soprat-
tutto la sua arringa in favore della realtà del potere, contro l'arte
e contro la parola - questi elementi escludono di nuovo il pubbli-
co di lusso. L'opera non si presta affatto a una lettura da intratte-
nimento, perché predica. Ma poiché predica tutto per la cattiva
coscienza di tralasciare qualcosa; e poiché predica nella forma
non del tutto consueta del delirio, difficilmente si troverà una
comunità di fedeli adatta al libro. Forse si rivolge principalmen-
te ai poeti in crisi; ma persino questa minoranza non troverebbe
alcun conforto nelle sue pagine; al massimo una relazione guar-
nita alla metafisica sulla propria malattia. Tanto ricco, tanto com-
plesso, tanto artistico, tanto profondo è questo libro -che diventa
un libro per nessuno.

183
..
,,
,l .........
..._
George Grosz

Se la sua opera appare stravagante,questo non


è il suo difetto.Perché ciò che gli dipinse sono
i nostri vizi. Ciascuno dovrebbe riempirsi gli
occhi dei suoi quadri, per imparare a vedere.
Frate Siquenza su HieronimusBosch

In che veste egli ci sta davanti?


Come l'artista grafico della Germania nei tristi anni della
Berlino dopo il crollo del 1918. Dico non un ma l'artista grafico,
perché il suo rapporto con questo tempo non si esaurì semplice-
mente nel suo esserne, al pari di altri, figlio; anche l'ammissione
che egli ne sia stato il figlio più tipico resterebbe insufficiente.
Decisivo è piunosto che questo tempo fu anche suo figlio. Inten-
do dire che l'energia con la quale ha registrato nei suoi quadri
questi anni, la loro vergogna e miseria, i loro vizi e piaceri, le loro
sofferte rivoluzioni e controrivoluzioni, fu tale che coloro i quali
hanno vissuto quell'epoca e si sforzano di richiamarla alla mente
mancano in un certo senso la presa, trattenendo nelle mani, anzi-
ché le immagini della propria memoria, quelle dei suoi quadri.
Un artista, che è capace di riprodurre il suo tempo in modo che il
suo messaggio figurativo agli uomini di domani diventi immagi-
ne del mondo di ieri, non è soltanto una parte interessante dello
ieri, bensì appunto un individuo che mette in forma la storia e dà
forma persino all'oggi: dunque un uomo che merita di essere ca-
ratterizzato come figura.

Colui, il cui volto egli disegnava, era "segnato". Colui, il cui tipo
egli centrava, era colpito come da un fendente. E colui che era

187
fennato dal suo tratto sembrava tenuto fenno per essere portato
via.
Come la vittima messa alla berlina si distingue da una statua.
cosi queste raffigurazioni di Grosz si distinguono da ciò che soli-
tamente s'intende per "pitture".
Non vi sono altre opere nella storia dell'arte - e nemmeno
quelle di Bosch o di Goya fanno qui eccezione - che si siano
allontanate di più dalla funzione decorativa dell'opera d'arte d1
\ 'quelle di Grosz. Esse sono "anti-pitture": non pretendono di gal-
leggiare come isole felici della "bella apparenza" nel grigiore
della quotidianità, ma al contrario servono a sospendere, come
isole di verità (terribile), l'apparente splendore o l'indolenza della
quotidianità. Dove la vita s1 adorna del lucente cellophane della
"serena apparenza", diventa compito dell'arte essere "seria", e
uindi, prendendosi la sua rivincita, lacerare e screditare la vario-
pinta continuità del quotidiano. Serena è la vita? L'arte diventa
in emale.
Certo, gJ.ulrtisti suoi contemJ?Oranei(anzi già i suoi predeces-
sori, visto che questa evoluzione-datapropàamente fin dal erimo
impressionism2) erano stati tutti impegnati, con l'ausilio dei più
div~zzi di corrosione, decostruzione e fusione, a ~issolve- •
re, scomporre, far es lodere, dissociare, in breve distruggere, il ,
._,_. .... .,_:;,;.;..;.;..~_..... ...,.a appunto soltanto il mondo dell' imma-
gine. E questo "soltanto", questo limitarsi alla distruzione del
mondo dell'immagine, rimaneva un'occupazione ambi~u~Per
quanto fosse indubbio che chiunque introducesse una nuova moda
distruttiva si ritenesse un rivoluzionario, altrettanto sicuro è però
anche, d'altro canto, che tutte queste rivoluzioni s'acconteQtaY/1·
no d'aver luogo sui cavalletti; e che il rischio di impetuose tem-
peste e di irreparabili catastrofi era tanto maggiore quanto più
fragili erano i bicchieri di vetro, entro i quali le si faceva scatena-
re. E in realtà gli avvenimenti esplosivi e catastrofici fungevano
ancor sempre da oggetti di fruizione estetica, veni vano trattati sul
mercato dell'arte, la continuità assicurata di queste rivoluzioni

188
:saurendo addirittura la vivace e soddisfatta vita artistica. Nessu-
na meraviglia se continuava a riaffiorare l'illusione, non importa
,e voluta o meno, che la distruzione rappresentasse una "maca-
lJraapparenza" (analogamente alla "bella apparenza"), unasorta
Ji accadimento tutto interno all'arte, appositamente escogitato
per convegni o riviste di cultura. Così in ogni modo la vedevano
e la vedono i consumatori raffinati. Appendersi alle pareti delle
ben solide e intatte ville, come elementi decorativi o pezzi di
valore, la sventura incorniciata frammenti surrealisti o infonnali,

-
era considerato chic. E lo è naturalmente ancora oggi.
Almeno per quanto concerne la sua persona, Grosz ha fatto
tabula rasa di questo illusionismo, che relegava la distruzione nel
mondo dell'immagine. Sotto questo profilo egli fu incomparabil-
mente più radicale di tutti i pittori suoi contemporanei. Più radi-
cale dello stesso Picasso di Guernica, perché in questo quadro la
distruzione (ancorché "stimolata" da macerie reali) viene ancora
una volta ritradotta in un eventoiigurativo; e jl àsult.uo diques.ta
ritraduzione consiste di nuovo in un quadro compiuto che, come
dimo trano le sue espos1Z1oniitineranti, non ha niente...iiu:omra,,.
rio, al pari clLunDelacroix, a farsiamrni(a& fruire e .:wpcrnare.
da intenditori e amanti dell'arte. $ fiorerebbe invece l 'insensatez-
ta affennare di Grosz che egli è stato, in questo senso occasiona-
le, "stimolato" dalla realtà. Lo era tanto poco, quanto lo è qualcu-
no che si appresti a colpire eventualmente provocato da nemici:
perché colpire e scagliarsi contro il nemico sono appunto la stes-
sa cosa. Ciò che ha portato Grosz a colpire, vale a dire a disegna-
re, non fu mai qualcosa di diverso dalla realtà o, più precisamen-
te, dal disgusto e dalla rabbia di cui la realtà lo riempiva, perché
ai suoi occhi essa consistevasoltanto di volgarità:di uomini brutali
e di brutalizzati, di distruttori e di distrutti Questa volgarità non
era uno "stimolo" occas1onaJe,ma piuttosto l'assillo del mondo,
al quale egli reagiva con sensibilità esasperata, e cioè tremenda-
mente "irritato". La sua musa, senza la quale i suoi quadri non
sarebbero probabilmente stati dipmti, era la "nausea": una musa

189
terribile, perché sorella delle furie; e insopportabile, visto cr.
non gli concedeva quasi mai un attimo di respiro.
Si obietterà che nausea e rabbia, per quanto possano rivest ~.
interesse per lo psicologo e lo storico, non hanno nulla a che fur:
con l'interpretazione di un opus. L'arte rientra in un altro capili
lo. Ma nelJa storia reale dell'arte le cose non procedono con que,
belle cautele da manuale. Se non si vuole mancare la comprer
-----~-------;---;-'-
sione dello stile di Grosz, ci si deve decidere a prendere sul ser _
·1 suo orrore del mondo. In esso trova spiegazione perlomeno
fatto che egli, praticamente unico fra i più importanti pittori de
suo tempo, seppe restare "concreto".
Perché l'orrore è incapace di rinunciare al suo mondo. 1 C'
brucia dal desiderio di colpire il suo nemico e smascherarlo, de.
guardarlo negli occhi, deve saper~trare (treffen). Con que,
termine (già prima impiegato) è detto quasi tutto. A chi cerchi'-
tradurre l'idioma dell'opera di Grosz in quello della lingua, no-'
può incorrere maggiore fortuna linguistica del doppio significai
di questo termine, vale a dire il fatto che i I termine 'treffen' de,
gna tanto la buona riuscita dell'azione dell'attaccante quan
quella del ritrattista. Watura!mente il senso bellicoso dellaJlllrl'
~llo ari&ioarig. E non è un caso che davanti a un "ritratto eh-.
colpisce" ci assalga l'inquietante sensazione che al soggetto "y
stata fatta effettivamente un po' di violenza con quell 'impressio-
nante somiglianza. 2 Qualunque possa essere stato il senso eh:-
mentare delle espressioni "somiglianza che colpisce" o "ritram
che colpisce" - e certamente ad essere "colpito" si riteneva eh.
fosse non la persona ritratta bensì l'osservatore-, ora Grosz pro
duceva "ritratti che colpiscono" in questo senso nuovo, vale ~
dire ritraeva le sue vittime effettivamente per colpirle. Egli 110
~
lera dunque soltanto un realista aggressivo, ma piuttosto era re
alista perché aggressivo.
Col che dovrebbe essere chiaro che nulla sarebbe più insensa-
to che accomunare Grosz, sulla base della sua "concretezza", con
quei paesaggisti accademici che sui pascoli alpini, nel loro attar-

190
dato angoletto di Montmartre o nell'atelier della casa del popolo
non hanno ancora sentito o voluto sentire il gran parlare che si fa
del carattere distruttivo del mondo contemporaneo, continuando
pertanto, scontrosi e imperturbabili, a dipingere il mondo come
"sano". Ma di fatto è oggi difficilmente immaginabile un'assun-
zione più inguaribilmente irrealistica di quella (che si presumeJ
realistica) secondo cui il mondo in verità sia, e anche si presenti
a noi, proprio come appare nel mattino, nel meriggio o nella sera. 3
Con questi "fi1istei dell'apocalisse" Orosz ha naturalmente ancor
meno da spartire che con i suoi contemporanei dell'avanguardia.
Se perseverava nel "concreto", era esclusivamente perché il suo
mondo 11011 era sa110ed egli non bramava altro che "colpirlo" e
metterlo alla gogna in questa sua mancanza d'integrità. A diffe-

l
renza dei pittori accademici, dunque, oggetto della sua arte non
era il mondo concreto, ma la distruzione del mondo concreto.
J.- '\-'
A fronte della sua opera rivoluzionaria la questione della
concretezza si riduce però a questione di second'ordine. Molto
più importante è che i suoi disegni non sono più "illustrazioni" in
senso tradizionale. Che cosa significa?
Fin dal tempo remoto in cui ebbe fine l'impiego della "apo-
tropeia" medusea, quindi degli strumenti d'intimidazione, rien-
trava fra i naturali caratteri di urbanità di tutte le opere d'arte il
fatto che esse ci invitassero cortesemente a guardarle. Anche il
~ublime si era ancora presentato in forma "invitante"; persino lo
..$COnvolgente prometteva (e anche procurava) ancor sempre
godimento.
Di un siffatto "invito" rivolto all'osservatore non si può ora
più parlare a proposito delle opere di Grosz: bensì soltanto di ter-
r.9rizzazione dell'osservatore. E questa procede con tale brutalità
che ora improvvisamente il soggetto prende il posto delJ 'oggetto
e l'oggetto quello del soggetto: i ruoli di chi guarda e di chi è
guardato sono scambiati. A guardare 11011siamo noi, ma le imma-) X
gini; siamo noi, e non le immagini, ad essere guardati. ~

191
L'evoluzione verso una siffatta inversione si manifesta ogg
ovunque. Nel modo più evidente nella pubblicità commerciale e
politica, che ci terrorizza e ci coarta con il mezzo dei manifesu.
che per un verso ci fissano con sguardo di medusa e per I'altre
esercitano su di noi una seduzione sirenica. Se noi ricambiam,
questo sguardo, non e pere e c1sentiamo ammessi come partner,
eguali e sovrani a un tete-à-tete di sguardi, ma soltanto perche
siamo disarmati, vale a dire privati della forza di sottrarci alla fa-
scinazione dello sguardo. Innumerevoli elementi del mondo del-
le immagini che oggi ci circonda, ad esempio le copertine de
rotocalchi, rientrano, nonostante il loro carattere sirenico, in quest.
---
Certamente non si può più parlare di "seduzione" in rifer
mento a Grosz: soltanto'di terrore. Il cammino dell'arte, che 1
tempi lontani si era discostato dal I'"apotropaion" meduseo e ave\.
condotto alla raffigurazione dell'umano, sembra ora attraver,
di lui ritornare all'antico punto di partenza meduseo. In ogni ca,
nessuno dei suoi lavori può più far conto su "fruitori compiacer
ti", bensì piuttosto su un pubblico poco disponibile, che nel sen,,
proprio della parola si rifiuta di rivolgere lo sguardo verso il mond
che essi ritraggono.
Ma appunto solo "nel senso proprio della parola". Perché
potere di fascinazione che esercitano consiste nel costringe_rcicc
munque a guardare in faccia proprio quei fatti, quelle infamie cl.:
cui appunto disto liamo lo sguardo non appena le incontriam
nella realtà. Questa è la sua straordinaria prestazione, I 'effer
che si solleva ben al di sopra di ogni mera realizzazione figurai
va. Altre raffigurazioni - quelle oggetto dello scherno di Platoll<
- possono essere una riproduzione di un mondo di apparenze g
di per sé visibile; queste, al contrario, rendono per la prima voi:
possibile, al pari di lenti o telescopi, la visibilità del mondo.
potrebbe dire che in questo modo cessano di essere "raffiguraz10
ni" per rientrare piuttostonella categoria deg!i strumenti. a ci
che qui conta non è la denominazione bens1 solta
Egli padroneggiava il mestiere come forse nessuno dei suoi
colleghi impressionisti o orientati alla nuova oggettività. Posse-
deva la più morbida, anzi la più classicistica precisione del tratto.
Ma era anche consapevole delle insidie di questa maestria, cono-
sceva la legge dell "'identità di segno e soggetto". Sapendo che
non ogni tratto si addiceva ad ogni soggetto; che il caratteredel
tratto agisce come un giudizio sul soggetto (rappresentato per
suo tramite) o addirittura come il carattere del soggeuo stesso;
che pertanto una linea morbida equivale, anche quando tratteggia
ciò che vi è di più volgare o brutale, ad una dichiarazione d'amo-
re verso l'oggetto, ne trasse le conseguenze, facendo di questa
sua maestria classicistica soltanto un uso limitato. Solo i maestri
possono permettersi di rinunciare a qualcosa che potrebbero
benissimo fare; i talenti rinunciano tutt'al più a ciò che non pa-
droneggiano.
In luogo del tratto morbido e preciso affinò una linea grafica
del turto nuova. Nella misura almeno in cui è lecito parlare di
"affinamento", visto che ciò che mise in opera consisteva al
contrario in una consapevole auto-brutalizzazione:egli si lascia-
va andare alla brutalità del soggetto che disegnava e se ne faceva
metodicamente contagiare. In effetti molte delle sue opere stan-
no in mezzo a noi come se egli avesse strappato ai suoi nemici i j
rozzi strumenti della violenza da lui tanto detestati, coltello, baio- .
~ netta, stivale, per poi usarli proprio come strumenti di lavoro.
Taluni dei suoi disegni sembrano graffiati sulla carta col coltello
dei carnefici che ritrae, altri calcati con i loro stivali militari. In
questa tecnica di auto-contagio egli sviluppò un così terribile vir-
tuosismo da poter in ogni occasione far sorgere il sospetto di non
essere in nulla migliore delle sue creature, non meno violento o
lussurioso - un sospetto non contraddetto dall'impressione per-
sonale che egli faceva, possedendo, da robusto pomerano poco
incline al sentimentalismo, la posa e la voce di quelli che fustiga-
va, senza invece assomigliare per nulla ai suoi contemporanei
pittori espressionisti, che denunciavano e deploravano la violen-

193
za del mondo. Indifferentemente da ciò che inventava, si trattava
d1 una sorta di "prender-parte", una "mimesi dinam_ica"simile a
quella che altrimenti ci è nota in riferimento agli attori\.al posto
Jo
della sem !ice "ri roduzione" egli poneva una "ripetizione"
Esempio estremo: le macchie I sangue, che è dato vedere in
alcune delle sue scene di delitto, non sono state "dipinte"; piutto-
sto egli ha trasfonnato il foglio in un secondo luogo dell'azione,
ha commesso ancora una volta in effige il delitto rappresentato.

Certo, questa caratterizzazione non sembra cogliere nel se


gno a proposito di tutti i disegni di ~ In molti ritroviamo
infatti un tratto minimo, come tracciato da un ago, esangue, simile
a una ragnatela, nel quale non solo si avverte la mancanza di ogni
forza di mimesi dinamica ma anche di quel minimo di bellezza d1
linee, segno calligrafico o impronta personale - un tratto dunque
che sembra quasi collocarsi all'estremo opposto dello stile appe-
na delineato. Come va intesa questa giustapposizione?
Non si tratta di una giustapposizione.
Come abbiamo detto, il tratto violento di Grosz si fonda sul-
!'idea (in verità non fonnulata, ma tenuta ben presente) della
~identità dj segna e soeeetto". Questa equazione ha però validità
generale. «Iracondo, dice una massima molussica, disegna con
mano iraconda, indolente con mano indolente». Il che significa
che un artista per il quale questa regola risulti ovvia farà dipende-
re l'impiego del tratto daJla dichiarazione che di volta in volta
intende fare sul suo soggetto.
In questo modo anche il "tratto minimo" di Grosz diventa
_comprensibiJé Il mondo, inf;rtil, che egli registrava come suo.
Qnfemo di Berlino dopo il 1919,non conteneva soltanto «il volto
della classe dominante», non solo i tipacci violenti, non solo i
rofittatori privi di scrupolo di quegli anni di crisi; brulicava anche
degli anonimi t1p1 a retrobottega della miseria, di affamati e
puttane da tre soldi, e degli infimi mezzi caratteri della meschini-

194
tà. Concedere alla raffigurazione di questi nessuno, il cui caratte-
re consisteva nel non averne, qualcosa di più o di più enfatico di
quel minimo di un tratto privo di espressione e di fisionomia,
avrebbe comportato (essendo segno e soggetto identici) una fal-
sificazione. Se dise nava questi tipi, lo faceva soltanto per raffi-
_gurarli come meschini e indifferenti, gente a nulla; soltanto per
_!!lOStrareche non valeva propriamente la pena di parlarne o di
ritrarli, in breve per liquidare senza pietà uesto s etta
passionevole. uaz1O11e "ritrarre=liquidare" era r
così dire la fonte giuridica , quc o che abbiamo chiamato"
tomini.mo".
Ciò che doveva venir "I iquidato" era in verità non solo questa
-
feccia, ma implicitamente anche il mondo la cui bancarotta por-
tava la responsabilità della sua esistenza. Ed è significativo che,
per quanto non vi fosse affatto rappresentata, la società si sentiva
attaccata e colpita da questi schizzi non meno aspramente di quanto
lo fosse mediante quei ritratti (della "classe dominante") che
direttamente miravano a lei. Con ogni probabilità le appariva
evidente che anche questi disegni riproducevano il suo "volto" e
che soltanto mediante l'impietosa indifferenza del tratto di Grosz
la sua propria impietosa indifferenza veniva reduplicata e attra-
verso questa reduplicazione resa espressamente visibile. I dise-
gni rappresentano pertanto, nella loro totaJità, attacchi in due di-
rezioni. E probabilmente non sarà mai possibile decidere che cosa
Grosz abbia fustigato più ferocemente: se quelle stesse miserabi-
li creature o se invece la società, della cui mancanza di pietà esse
offrivano testimonianza.
Resta superfluo osservare che ciò che Grosz con l'ausilio di
questo suo "tratto minimo" riusciva a fare, non era affatto, dal
punto di vista artistico, cosa da nulla. Al contrario: nella linea,
sottile come una ragnatela, di questi disegni era insita una tale
forza di destare orrore, che proprio essa ha assunto il valore di
sua inequivocabile cifra personale e lo ha reso famoso.

195
Accanto a Brecht fu l'unico artista tedesco degli anni venti
cui riuscì veramente di fare breccia: infatti non sfondò soltanto la
barriera del pubblico artistico del suo decennio, ma anche i con-
fini nazionali. Egli ha consolidato la sua posizione in Occidente
non meno che in Oriente.
In Occidente: intorno al 1930 incominciarono a fare il loro
ingresso nelle principali riviste satiriche, che fino a quel momen-
to erano quasi esclusivamente vissute dell'eredità dei Daumier e
dei Lautrec, figure di un genere nuovo: omini della strada senza
peso né ombra, un po' fantomatici, ma dal fascino evidentemente

.. irresistibile, se in un breve volger di tempo vennero ospitati an-


che nelle vignette dei più ammuffiti giornali di provincia. Da anni
ormai sono onnipresenti. La ragione del loro successo è facile da
intuire: forniscono all'uomo contemporaneo, che in essi si rico-
nosce, l'opportunità di percepire come qualcosa di divertente la
sua propria impotenza, fantomaticità, anonimità e nullità. Il di-
sprezzo di sé come merce edulcorata. Nessuna di queste figure
avrebbe mai visto la luce di questa pubblicità se in anni prece-
denti Grosz non ne avesse (certo con altre intenzioni) concepito
gli antesignani. Finora agli imitatori è riuscito di utilizzare per i
loro obiettivi di salace intrattenimento lo stile sarcastico distilla-
to dall'opera politica di Grosz. Dubito però che alla lunga ciò
continui a rimanere possib!~e, dal momento che la componente
della critica politica è altrettanto immanente allo stile sarcastico
di quanto questo lo sia rispetto a quella.
In Oriente: notoriamente già nel corso degli anni venti i tratti
fisionomici della "classe dominante" delineati da Grosz sono
diventati nella Russia sovietica, grazie a manifesti, riproduzioni
e rappresentazioni-Agitprop, archetipi del grande capitalista vio-
lento e incorreggibile. In que~odo è visto il nemico. Anche
qua ha avuto luogo un radicale mutamento di funzione, sia pure
in senso opposto: mentre in Occidente i tipi di Grosz vennero mi-
nimizzati, in Oriente conobbero la loro monumentalizzazione.
Potrà suonare paradossale il fatto che in questo modo essi venne-

198
ro parimenti privati della loro forza: ma le critiche, nella misura
in cui non vogliono perdere di incisività, non devono superare un
certo formato massimo, al di là del quale la dilatazione le rende
spuntate. Dal momento che le varianti orientali di Grosz hanno in
tutto e per tutto superato questo formato massimo (mirando ad
. esercitare un'influenza di massa), esse cessano di operare come
j critiche per diventare piuttosto idoli o gigantesche icone negati-
l:e. Del resto questi tipi sono emigrati ancora più a est. Così mi è
accaduto di vedere in Giappone, in un pe.lzo teatrale antiameri- )f
cano, attori giapponesi che si erano acconciati in modo da somi-
gliare alle imitazioni russo-sovietiche dei tipi di Grosz (che essi
verosimilmente scambiavano per gli originali). Con questa imi-
tazione della imitazione dei ritratti che Grosz aveva fatto durante
gli anni venti, prendendo a modello il tipo del capitano d'indu-
stria tedesco, l'Estremo Oriente ritraeva ora il capitalista ameri-
cano del 1958. Che dopo questo mutamento di funzione fosse
rimasto molto del carattere specifico dell'arte di Grosz, sarebbe
ora difficile dire: ma qualcosa dell'originale era ancora contenu-
to persino in questa falsificazione; e io non saprei di nessun altro
artista, dal tempo delle rivoluzioni figurative connesse alle mi-
grazioni delle religioni universali, che abbia esercitato su scala
così globale un'influenza simile nella produzione di modelli.
Escluso forse Disney.
~~~~
- Ripetutamente si è squalificato Grosz (proprio come Brecht)
in quanto "artista tendenzioso" (Tendenzkiins//er) e riper~
te si è cercato di dare a intendere a se stessi e agli altri di poter
gettare discredito sul suo successo facendo ricorso a questa eti-
chetta. Il che è altrettanto poco onesto che sensato. Perché se c'e
qualcosa che caratterizza gli artisti che vengono etichettati in quel
modo, è proprio il fatto che essi sono privi di caratteristiche e
fanno parte già di un movimento senza essere di per sé capaci di
plasmarlo. Ma non si fraintenda. In questo modo non s'intende
dire che Grosz non è stato un artista tendenzioso. Se fossi posto

199
di fronte ali 'alternativa: «si o no?», risponderei senza esitazione:
«Si, era un artista tendenzioso>JNiente mi è più lontano che il
pensare che la sua dottrina estetica debba essere salvata dimo-
strando la sua mancanza di tendenziosità. Chi si comporta così,
supponendo di farlo nell'interesse di Grosz o di Brecht, ha già
capitolato, perché in questo modo ammette implicitamente la
legittimità dell'espressione "arte tendenziosa" e con ciò a sua
volta la legittimità della svalutazione implicita in quell'espres-
sione. Il che appunto non si può ammettere, già in considerazione
del fatto che la connotazione svalutati va non è una semplice "con-
notazione" bensì l'esclusiva "raison d 'etre" del!' espressione; detto
in altri termini· perché non vi è nessuna espressione più tenden-
ziosa di quest_j Chi non è disposto a parlare di panettieri, poli-
ziotti, medici, politici "tendenziosi", non dovrebbe nemmeno usare
acriticamente l'espressione "artista tendenzioso". Sacerdoti che
predicassero senza perseguire le loro convinzioni (spirituali)
sarebbero degli ipocriti; e persino tali ipocriti respingerebbero
come stolta l'assunzione che il loro rango, la loro dignità e la
verità debbano consistere nella loro mancanza di convinzioni e di
obiettivi. Che si possa far valere questa puerile assunzione pro-
prio nei confronti di artisti, e soltanto di essi, risulta assai sor-
prendente, restando oscure le ragioni storiche di questo disonore-
vole monopolio. Ad ogni buon conto, nei confronti di artisti l'o-
pinione pubblica si sente autorizzata a conferire il titolo onorifico
"serio" solo quando questi (indifferentemente se in modo pro-
grammatico o meno) non annettono al loro messaggio alcuno
scopo o, quanto meno, non lo rendono manifesto; quando le loro
opere non intendono dire quello che dicono (e mettono ben in
evidenza questo "non") oppure non dicono quello che intendono
dire (e lasciano ben all'oscuro questo "non") - in breve, solo
quando è palese che essi rinunciano alla serietà. 1 È difficile per-
tanto immaginare un epiteto più diffamatorio che I"'assenza di
tendenziosità''. Se gli artisti tollerano di vedersi assegnati bei voti
per la loro assenza di tendenziosità, allora ciò non significa altro

200
che la loro disposizione a servire da alibi, 8 a trovarsi sempre
"altrove"; e "altrove" in questo caso significa: in una regione
nella quale essi restano incapaci di compiere scelte o si autoinibi-
scono l'accesso alla dimensione delle decisioni reali, limitandosi
- visto che questo è concesso, anzi persino richiesto - a commuo-
vere. In concreto ciò finisce sempre per condurre al sacrificio
della propria dignità e del diritto alla critica: dal momento che
non è mai successo che qualcuno sia stato screditato come "arti-
sta tendenzioso" semplicemente per le sue tendenze conformisti-
che. Solo coloro che dicono di 110 mai coloro che dicono di sì,
vengono considerati "artisti tendenziosi". Ma ancora più inde-
gni di quelli che accettano tale onorificenza sono coloro che fanno
propria l'espressione, votando se stessi (e per giunta "senza esi-
tazioni") alla massima dell 'a senza di tendenziosità. Perché in
questo modo essi s'impegnano solennemente a non alzare mai la
loro voce in modo che essa possa venir udita nella stanza attigua
della realtà; o quantomeno (se mai per sbaglio la loro voce do-
vesse essere intesa) a formulare ciò che dicono in modo da rima-
nere senza conseguenze, vale a dire senza il bisogno di essere
preso sul serio. Così essi dimostrano la loro "serierà" mediante il
loro "non-voler-essere-presi-sul-serio". Non sarà una bella ten-
denza, ma resta comunque incontestabile che anche questa è una
tendenza. 9 Ammettiamolo dunque tranquillamente: Grosz era un
artista tendenzio o.

In ampie cerchie esterne al mondo dell'arte Grosz ha acqui-


stato fama o notorietà non grazie alla sua partecipazione al movi-
mento dadaista né con la serie Das Gesichr der herrschenden
Klasse (che per dignità di nata Ii sta ormai accanto ai Desastres di
Goya e alle caricature di Daumier sul "Charivari"), bensl in se-
guito ali 'indignazione sollevata dalla sua acquaforte Gekreuzig-
ren mir der Gasmaske. 10 lo non credo che allora ci sia stato anche
un solo osservatore che abbia potuto fraintendere questo quadro,
che abbia cioè potuto vedere nell'odio che manifestamente aveva

201
guidato la penna o la punta da incisione di Grosz un odio verso
Cristo. Blasfemia - certo. Solo che questa non consisteva nel
disegno di Grosz, il cui soggeuo, da lui terribilmente stigmatiz-
zato, era appunto la diffamazione di Cristo. In effetti la condizio-
ne della maschera antigas corrispondeva - e grazie a questo para-
gone cade anche l'ultima possibilità di fraintendimento-a quella
della corona di spine: al pari di questa anche la maschera gli
veniva cacciata in testa come qualcosa che semplicemente non si
addice al Cristo, come "irrisione di Cristo". E come tale Grosz
avrebbe anche potuto titolare, secondo una buona vecchia usan-
za, il suo lavoro (per quanto questo non mostrasse coloro che
deridevano). Se lo avesse fatto (o voluto), sarebbe probabilmente
stato impossibile citarlo in giudizio - comunque non conosco in
tutta la storia della pillura un solo caso di artista che per aver
dipinto quell'episodio sia stato perseguito per diffamazione. Ad
ogni modo, ciò che Grosz rappresentava era l'irrisione del prin-
cipe della pace, e precisamente quell'irrisione che nel mondo
cristiano ha quotidianameme luogo nella blasfema santificazio-
ne della guerra. A chi chieda dove sono rimasti in questa raffigu-
razione dell'irrisione coloro che lo deridevano, gli uomini che
hanno messo a Cristo la maschera antigas, si dovrà rispondere:
proprio là dove in realtà sono, cioè nell'invisibilità. Perché la
tattica dei derisori, che Grosz aveva ben presente, consiste ap-
punto nel non mostrarsi in quanto tali, nel contestare di essere
derisori, non traducendo mai il loro scherno in parole ma sempre
e in linea di principio "soltanto" in fatti, come in questo caso
.Q armi, rovine, maschere antigas, morti. L'affermazione, pertanto,
·'0 secondo cui Grosz non avrebbe mostrato i derisori, deve essere

l
corretta: con quest'opera egli ha prodotto una sorta di "rebus so-
~ eia/e", nel quale l'assenza degli accusati era la cifra della loro
presenza. Più precisamente: ciò che ha mostrato, è il non-mo-
strarsi dei derisori. 11 Dunque, l'ipocrisia.
L'ipocrisia. Che una delle occupazioni preferite dagli ipocriti
consista nel reagire con ipocrita indignazione alle accuse di ipo-

202
crisia era più che chiaro a Grosz quando incise questa "irrisione
di Cristo": anzi egli mirava proprio a provocare una reazione del
genere. Con questo non intendo però dire che in tal modo abbia
soltanto voluto "épater", sollevando una becera ga12arra, provo-
cando uno choc, uno qualsiasi, per pura malignità; piuttosto che
egli mirava a "épater" in una maniera ben determinata. Egli ~
~
aspirava afar colpo per svelare la verità della sua raffigurazio-
ne. Il senso della sua iniziativa (che del resto gli riuscì perfetta-
mente) consisteva nel costringere quei derisori, che egli stesso
aveva "risparmiato", a entrare di loro iniziativa nel quadro e a
mostrarsi - "to come illfo the picture"; rendendo così completo,
con questa loro reazione, il suo quadro.Chesignifica ciò?
Nessuna opera d'arte, pertanto nemmeno un quadro, si esau-
risce nel suo "essere-oggetlo". Nella sua aspirazione ad essere-
accolta, nel perseguimento del suo obiettivo di comunicare o di
provocare qualcosa, ogni opera d'arte è piuttosto un'azione; in
quanto tale un processo; e di conseguenza tendenziosa. Un libro
mai letto resta incompiuto, nel senso che propri amen le non "c'è",
non si trasforma in un processo, non trova il suo coronamento
nella collaborazione dei letlori e nell'appropriata risposta ai suoi
messaggi. Parlo di "appropriata risposta" perché ogni opera mira
a suscitare una determinata reazione, invita ad una "risposta idea-
le"; risposte sbagliate dimostrano soltanto che l'opera non è stata
accolta, cioè che presso il destinatario, "at the receiving end", si
presenta una figura che non è identica aJ messaggio inviato.
Ora I"'azione" messa in moto dal quadro di Grosz consisteva
nella fustigazione dell'ipocrisia. E anche questa invitava a una
collaborazione o a una "risposta ideale", che doveva consistere -
per quanto ciò possa suonare strano, ma in ciò sta appunto l'ele-
mento dialettico del caso - in un rifiuto, in una reazione negati-
l'a. Perché ciò che Grosz desiderava era proprio provocare gli
ipocriti a reagire con ipocrita indignazione alla raffigurazione della
loro indignante ipocrisia, mettendosi da soli alla berlina e confer-
mando con questa loro autoaccusa la verità del messaggio.

203
Ed essi accolsero questo invito. Senza esitazione corsero nella
sua rete, cogliendo alla cieca l'occasione di esibire ora pubblica-
mente quel l'ipocrisia che fino a quel momento avevano praticato
soltanto in absentia; e di esibirsi per così dire in flagranti. Indi-
gnati si scagliarono sulla (loro stessa) profanazione, da Grosz
12
rappresentata, come se lui stesso se ne fosse reso responsabile:
e portarono così a felice compimento il processo che aveva avuto
la sua prima fase nella produzione del quadro. Come accusatori
ultimarono dunque la raffigurazione dell'ipocrisia; con le loro
grida di rifiuto confennarono il diritto della sua accusa.
L'attacco di cui fu oggetto non era di conseguenza un sempli-
ce incidente incorsogli per aver reso pubblico il suo quadro, ma
un evento che ad esso apparteneva in quanto "reazione ideale" e
che non meno del quadro stesso portava come firma il nome di
George Grosz. Poiché però il "processo" 13 che ne seguì assunse
la forma di un vero e proprio processo giudiziario, avvenne qual-
cosa che ne!Ja storia dell'arte non si era mai verificato prima:
'f, [infatti, ora, non solo il quadro era divenuto parte della realtà,
"j, bensì anche la realtà parte del quadro; e non solo il quadro una
'p riproduzione del reale, bensì anche il reale una riproduzione del
quadro.

La sua opera degli ultimi trent'anni è praticamente sconosciuta in


Gennania e in Europa (se si prescinde dai lettori della sua auto-
biografia che è stata pubblicata anche qui). A torto. Infatti essa
non solo è storicamente interessante, ma contiene anche pezzi di
notevolissimo valore estetico. Storicamente: il mondo, fustigan-
do il quale egli era divenuto famoso come enfant terrible del suo
tempo, era onnai scomparso, facendo posto in parte alla fugace
normalità degli ultimi anni venti, in parte a un mondo nuovo, che
già lasciava presagire la catastrofe. Nessuno percepì in modo più

204
chiaro dello stesso Grosz quanto sarebbe stato ridicolo continua-
re ostinatamente a colpire quelle vittime che ormai erano diven-
iate tipi del passato o fantasmi dimenticati. Non vi è stato proba-
bilmente nella storia nessun altro artista che sulla base del mutare
delle circostanze abbia cercato con altrettanta mancanza d 'indul-
genza di distruggere il proprio stile, come Grosz ha fatto. Se
paragonate alla radicalità con cui egli, dopo essersi separato dal
vecchio mondo, prese le distanze da se stesso e mise a tacere il
cinico che era in lui, le metamorfosi di Picasso o di Stravinskij
assomigliano a capricciosi cambiamenti di costume. Certo non si
può dire che questa autodistruzione e i suoi documenti siano stati
pienamente soddisfacenti. Al contrario: dal momento che egli
era davanti a se stesso non meno privo di scrupoli che nei con-
fronti dei suoi peggiori nemici, sarebbe necessaria l'acutezza del
suo tratto per ritrarlo convenientemente. In modo del tutto consa-
pevole egli si sforzò di fare la persona per bene, adeguandosi aJla
domanda e al corrente ottimismo del nuovo continente, e trasfor-
mandosi dal giustiziere implacabile che era in un produttore di
"slick products", di facili abborracciature, in un compiacente
fornitore di disegni, che poteva entrare in concorrenza - per altro
con successo, la sua maestria tecnica tenendo benissimo il passo
con la sua disposizione al sacrificio della personalità - con gli
artisti professionali delle riviste illustrate; e non mancò di regi-
strare con maligno compiacimento le fasi della sua autodistruzio-
ne. Parallelamente a questa derisione del suo precedente ruolo di
sbeffeggiatore si aprì ora una nuova possibilità: quella di deride-
re i suoi nuovi compari, i quali appartenevano in tutto e per tutto,
magari in qualità di suoi parassiti, a quella "classe dominante"
che in passato era stata oggetto dei suoi strali. Il fatto che proprio
coloro che si trovavano dalla parte sbagliata diventassero ora gli
uomini che facevano per lui, non è che una componente della sua
autodistruzione. Ai suoi occhi essi risultavano ridicoli proprio
perché attribuivano valore all'essere in rapporto con lui. Ridicoli
i più audaci fra loro, che consideravano un "riot" passare le notti

205
6-,'ltJ~ v~
bevendo in scandalosa compagnia di un ex comunista; ancora più
ridicoli gli ignoranti ingenui e gli esteti fanfaroni, artificiosi e
disarmanti, che si limitavano ad ammirarlo, a chiacchierare con
lui su problemi dell'arte moderna e a prendere per moneta con-
tante i suoi prodotti artistici.
Moneta contante. Che questa non fosse sgradita a Grosz è
certamente plausibile. Ma il suo vero divertimento consisteva in
ciò, che egli, l'artista, per moneta "contante" intendeva proprio
solo, con chiassosa franchezza, "moneta sonante", mentre quelli.
nella loro sprovvedutezza, avevano sempre in mente anche "c11/-
1L1ralval11es"e pensavano di aumentare il loro prestigio sociaÌe
con l'ausilio di quest'arte autenticamente continentale. Il culmi
ne del divertimento - e spesso questo era provocato espressa-
mente- veniva poi raggiunto quando quelli gli si accostavano fa-
cendo uso di una pretenziosa tenninologia estetica e lui, al con-
trario, poteva assumere il ruolo dell'autentico yankee, che di tait
astruse chiacchiere intellettuali, di tale "highbrowish stuff', non
voleva proprio saperne. Nessun dubbio, questo "qui pro quo",
che avrebbe potuto scaturire da una commedia degli errori brech
liana, era irresistibilmente comico, direi quasi di grandiosità
gargantuesca.
Soltanto, appunto, non dignitoso. E se qualcuno, suddividen-
do la produzione di Grosz, affennasse che nel suo primo periodo
berlinese egli aveva trionfato con la rappresentazione della vol-
garità criminale, mentre il suo secondo periodo americano, quel-
lo del più o meno completo suicidio, aveva visto il trionfo del suo
_ cinismo, non gli si potrebbe certo dare torto.
E tuttavia fu una fortuna che questo "suicidio" mettesse Gros,
in condizione di arredare in qualche modo confortevolmente la
sua vita postuma. Perché era ancor lungi dal l'essere un artista fi-
nito, grandi compiti stavano ancora davanti a lui. La sua diserzio-
ne dal mondo della volgarità e dell'orrore non lo aveva infatti
sospinto solo verso un ricercato confonnismo o iparties, ma anche
verso un'altra sponda, sulla quale altrettanto spesso approdava;

206
un territorio che non pretendeva però da lui nessuna capitolazio-
ne artistica (per quanto sembrasse esci udere 1a possi bi 1ità di quel-
1'onesto sarcasmo che gli era congeniale): nella sua fuga dalla
politica in cerca della regione da e_ssapiù lontana, Grosz scoprì la
natura. E la sua rappresentazione, o diciamo pure la sua riprodu-
zione "realistica", era così grandiosa, la sua cura del particolare
così impressionante, che non dobbiamo aver soggezione di acco-
stare i suoi disegni a quelli d~bein, Seghers o lngres. "Ripro-
duzione" e "rappresentazione della natura": ciò suona oggi, nel-
1'epoca dell'arte astratta o surrealista, largamente anacronistico;
e il dubbio che come "realista" Grosz non sia stato all'altezza del
suo tempo è stato spesso formulato davanti ai suoi disegni. Ma a
torto. Perché queste rappresentazioni appartenevano (anche se
Grosz stesso ha raramente impiegato questa espressione, e per
quanto con la sua fuga nella natura abbia potuto avere in mente
proprio il contrario) a quel genere senza il quale la defattualizza-
zione dell'arte, e persino il surrealismo, non sarebbero mai dive-
nuti possibili. Vale a dire il genere della "nature morte". Che tra
lui, che innumerevoli volte ha ritratto la morte, e questo genere,
che già col nome richiama la morte, sussista un 'affinità, non è
poi così sorprendente. "Affinità" è anzi un termine troppo debo-
le. Si dovrebbe dire piuttosto che mediante Grosz questo genere
ha assunto una grandiosità che prima gli era quasi sconosciuta;
soltanto grazie a lui esso si è realizzato in tutte le sue potenziali~
Ma vi è morte e morte. E vicino alla morte, che nei disegni di
Grosz sta alla testa del suo reggimento, la mancanza di vita che
domina i quadri di nature morte a noi familiari appare qualcosa di
innocuo. In certi quadri di Chardin, de Kalf, anche Van Gogh, le
cose appaiono come "mortes" perché sono state liberate dal tes-
suto della vita umana e vengono presentate a sé, nella loro muta
e tranquilla esistenza; e in quadri di maestri minori si presentano
come morte perché appunto sono oggetti, che si considerano
"inanimati" nel senso della scienza della natura. 14 Essi sono morti,
senza aver propriamente mai vissuto: e la loro mancanza di vita è

207
piuttosto una forma particolarmente quieta di essere, sia pure -
visto che in fondo fungono da allegorie della "vanitas" - di un
essere transeunte. Nell'universo di Grosz la morte non si accon-
tenta di questa forma di essere quieto e silenzioso, nei confronti
dei suoi oggetti la consueta espressione "nature morte'i app:
inadeguata e deve essere sostituita con la più calzante 'nature
assassinée". Voglio dire che, se gli oggetti dell'universo di Grosz
s mbrano re uti senz'anima, è perché sono stati fatti fred-
di, muti e privi di anima, e appaiono come se fossero ca ut, vitti-
;;:;-di una violenza o di un assassinio. Forse si potrebbe persmO
Oire: le cose del suo mondo figurativo hanno l'inesorabile appa-
renza delle cose violentate o quanto meno violentabili Comun-
que Grosz a bia potuto conseguire questo effetto (la ricostruzio-
ne delle sue tecniche richiederebbe un'analisi a sé) resta il fatto
che quello che si presenta al nostro occhio è un universo che non
soltanto non conosce la "morte naturale" (a meno che non si in-
tenda per morte naturale, nel senso ferino di Hobbes, proprio la
morte violenta), ma che fa dell'essere-ucciso la più naturale e la
più di sa modalità dell'essere. "Essere" = "Essere-vittima". '
Questa quazione on am ra va ere non solo per
l'uomo di Grosz, bensì universalmente per tutte le cose e le crea-
ture del suo mondo figurativo; e per questo nella sua totalità.

Ali' orecchio del "common sense" ciò suona naturalmente privo


di senso: ciò che è morto non può essere ucciso. 15 Ma questa
obiezione è debole. Al contrario mi sembra che il senso di questi
dipinti salti agli occhi. lo perlomeno non ne conosco altri, il cui
significato di smascheramento sia altrettanto evidente; e in cui il
nostro mondo attuale (il che nella nostra situazione apocalittica
significa: la meschinità e la totalità dell'annientamento attual-
mente possibile del mondo) sia stato reso visibile con altrettanta
radicalità, riconoscendo in tutta la sua portata l'equazione di
"essere"= "essere-vittima". Essi smascherano la meschinità: in-
fatti questa consiste nel! 'annientamento degli inermi; e incarna-

208
zione dell'inerme e appunto la cosa priva di vita. E smascherano
la totalitcì: la quale consiste nel fatto che, in caso di apocalisse,
non soltanto noi ne risulteremmo vittima, ma insieme a noi anche ~
il nostro mondo, anzi persino quel mondo che "nostro non è":
cioè la natura. Non senza motivo abbiamo proposto l'espressione
"nature assassinée". 16
Ma così è svuotata anche l'altra obiezione, secondo cui Grosz,
in quanto "realista", non sarebbe stato "all'altezza del nostro
tempo". Al contrario, anticipando lo stato apocalittico del mondo
ancor prima che questo divenisse riconoscibile, egli si è rivelato
profeta di sventura; in rapporto a questo suo "avanguardismo" il
concetto di "avanguardismo" inteso in senso puramente estetico
si riduce ad un mero concetto alla moda. Se Grosz non è stato
"all'altezza del suo tempo" è semplicemente perché quello che
ha anticipato non ne era un punto alto, bensl una profonda de-
pressione.
Occorre però ponderare "pro" e "contra". È infatti quanto meno
singolare che proprio da lui, che si trovava in fuga davanti ai fatti
del politico e della violenza e che tentava di sopravvivere in un
territorio più neutrale e accogliente, tra la disperazione e il com-
piacimento, sia stata raggiunta questa estrema coerenza e
veridicità. Qui ci si deve realmente chiedere se si trattasse, in un
più ampio senso morale, di un "successo", o se non sarebbe al-
trettanto legittimo vedere in queste opere testimonianze di una
sconfitta divenuta feconda, documenti, grandiosamente riusciti
dal punto di vista artistico, della reazione al suo tentativo di fuga.
Chiedersi cioè se questo assumere da parte di ogni cosa I'appa-
renza della vittima e del carnefice non fosse, per così dire, la pu-
nizione che egli scontava per aver rinunciato a stigmatizzare la
natura criminale del l'uomo e a rappresentare le vittime della vio-
lenza, come aveva sempre fatto in passato. In ogni caso a me
aJlora sembrò che egli fosse inseguito come un disertore dalle
furie al cui servizio originariamente era stato e il cui servizio
aveva ora abbandonato; come se quelle, con piacere perverso, lo

209
avessero condannato a vedere ogni cosa secondo il suo vecchio
schema che prevedeva soltanto "vittime e violenza". Anche la
pietra, anche il mollusco.
Al di là di ogni immagine: nonostante rutti i suoi sforzi di
autodistruzione Grosz non era comunque riuscito a rovinarsi to-
talmente. E nonostante il suo manifesto mutamento di soggetto
egli era in definitiva rimasto ciò che era. Anche se le radici stori-
che della sua aggressività erano ormai estinte, le sue stesse fooe
aggressive erano rimaste intatte anche negli anni dei suoi com-
promessi. Simile ad un carnefice che, gettato su un'isola deserta,
per mancanza di preda migliore si scaglia ora sugli alberi per de-
capitarli, o ad un adolescente che, non potendo mai scaricare la
sua rabbia sui colpevoli, la sfoga sulle innocenti sedie di una
stanza, egli utilizzava ora i suoi "soggetti" come "subordinati"
(nel senso di "sudditi"). Parlare di "successo" sarebbe fuori luo-
go. L'espressione "soddisfazione compensativa" sarebbe più ap-
propriata; e così pure l'espressione "capitolazione". Perché an-
che questa mette allo scoperto il suo "realismo".
Il realismo non è mai soltanto uno stile artistico, ma contem-
poraneamente anche sempre una testimonianza della posizione
che l'artista assume nei confronti della realtà. Per molti decenni -
e nell'epoca Courbet-Zola ciò era perfettamente giustificato - la
connessione del realismo con un orientamento più o meno rivo-
luzionario era stata un dogma inattaccabile. Mavi sono ali 'oppo-
sto anche epoche, nelle quali il realismo indica proprio il contra-
rio; nelle quali coloro che come realisti registrano il mondo issa-
no la bandiera bianca; e così facendo proclamano la loro resa o la
fine della loro resistenza contro la fattualità e concedono alle cose
di essere incontestabilmente e irrevocabilmente così come ora
sono. Un ribelle che originariamente ha guardato e trattato il
mondo come qualcosa di fondamentalmente bisognoso di muta-
mento e insieme come qualcosa di modificabile, mentre adesso si
fa avanti come autore di una "geografia fisica", riconosce in questo
modo, per quanta accuratezza ci sia ancora nella sua opera, anzi

210
proprio per questo, la sua sottomissione. Com'è appunto il caso
di Grosz.

«Nessuno ha più urgentemente bisogno dell'uomo che l'an-


tropofago» (proverbio molussico).
Certo, la decisione di Grosz di soffocare la propria vena sati-
rica fu originariamente dettata dal suo desiderio di comodità; una
volta tanto anche lui ha voluto poter percorrere la via della mino-
re resistenza. Ma il suo conto non tornava, aveva sbagliato nel
valutare se stesso. Ad un uomo che è venuto al mondo con una
vena satirica, il tentativo di accontentarsi sempre solo di vittime
surrogatorie non può alla lunga riuscire. Ciò che era stato proget-
tato come comodità dovette presto diventare scomodo, ciò che
era stato avviato come keep smiling si trasformò rapidamente in
un girare a vuoto; e l'arrendevolezza quotidiana esigeva una co-
stanza ascetica che avrebbe messo a dura prova anche individui
asceticamente più dotati.
Se almeno si fosse ancora trattato di un'epoca relativamente
tranquilla o magari stagnante, un 'epoca che dopo le scosse della
prima guerra mondiale e dopo la miseria del dopoguerra avesse
meritato di essere accantonata come futile e non degna di discor-
so o di raffigurazione: ma di ciò non si poteva neanche parlare.
Proprio al contrario la nuova epoca divenne sempre più terribile,
fino al punto che quelle immagini, da cui si era allontanato e che
aveva voluto dissolvere, apparivano ora nei suoi confronti quasi
innocue e potevano davvero cancellarsi. Poco ha giovato a Grosz
l'essere rimasto geograficamente lontano dai luoghi del delitto e
dal teatro del nuovo terrore: egli non poteva sottrarsi al suo tem-
po. Anche se cercava di sedere nella sua torre d'avorio riempien-
do con indifferenza i suoi fogli, concentrato nell'osservazione di
sassi o molluschi, il clima del suo tempo penetrava attraverso le
pareti della torre, sgretolandole; il vento della catastrofe, che
avrebbe voluto lasciar fuori, tornava a soffiare dalle crepe dei
muri; e con lui tornava ad affacciar i il popolo delle vittime.

211
Con quelle vittime che un tempo avevano animato i suoi quadri
degli anni di Berlino, questo popolo non aveva a dire il vero quasi
più nulla in comune: né con coloro che aveva raffigurato nel loro
miserevole ruolo di vittime, perché tali erano state veramente; né
con quelli che aveva posto sotto accusa e stigmatizzato perché
erano stati i colpevoli. Le linee di confine tra classe e classe, tra
dominanti e dominati, tra violentatori e violentati (che allora erano
state così chiaramente marcate da rendere apparentemente super-
flua ogni esplicita presa di posizione morale), erano ora confuse
al punto da risultare irriconoscibili. Certo, agli inizi del periodo
del terrore coloro che originariamente avevano avuto interesse a
collocarsi dietro la nuova dittatura hitleriana erano ancora facil-
mente identificabili; ma presto il male imperversò, milioni ven-
nero irretiti nella colpa; e le innumerevoli singole azioni e omis-
sioni criminali, di cui era intessuta la quotidianità della dittatura,
non tardarono a smentire la tesi di una colpa esclusiva dei primi
colpevoli. Presto divenne impossibile, anche per gli stessi inte-
ressati, distinguere chi era infame e chi soltanto era reso infame,
chi era assassino e chi soltanto complice. Che fosse in questione
la conduzione della guerra, il trattamento degli ebrei, degli inter-
nati o di altri individui cui non si riconosceva il diritto alla vita
ciò che contava era soltanto il fatto che milioni erano irretiti, il
che significa: collaboravano. L'elemento infernale del principio
controrivoluzionario consiste proprio nel fatto che i milioni di
individui che devono essere privati di ogni potere, non solo ven-
gono sottomessi ma completamente disorientati; e in maniera così
radicale che, plagiati dall'illusione di partecipare al potere, ardo-
no del desiderio suicida di compiere loro stessi l'opera della
propria sottomissione, mostrando addirittura riconoscenza per
averla potuta compiere. Controrivoluzione significa appunto:
istigazione al suicidio e corresponsabilizzazione delle vittime nella
colpa.
E non basta. Questa perdita di contorni non rimase infatti un
fenomeno interno alla Germania. Non meno confusa appariva la

212
(W"'- F" -~
linea al conline tra i due sistemi che si trovavano in guerra: la de-
pravazione dell'uomo, il terrore poliziesco, l'assenza di dirillo
sembravano nella Russia sovietica non essere da meno rispello
alla Germania hitleriana; e anche se aggredito, Stalin non era certo
soltanto una vittima. on vi è dubbio che lo choc subito da Gro~z,
l'ex estremista di sinistra, ad opera della profanazione del paese
in cui si lavorava alla costruzione del socialismo. ebbe su di lui
un effetto disorientante eguale se non persino superiore a quello
causatogli dall'evoluzione del suo paese; e che egli cercasse di
rimuovere nel chiassoso cinismo così tipico dei suoi anni ameri-
cani non solo la realtà della Germania hitleriana bensì anche il
«God who hadfailed» e la fiducia che un tempo aveva riposto in
questo dio. :::---

Dopo que ta retrospettiva su quegli anni non verrà, credo, in


mente a nessuno che si trovi a guardare i suoi lavori di allora, di
considerare i branchi di creature che li invadono aborti di una
patologica fantasia infernale. Perché questa miserabile canaglia
dalle fattezze di iena, che se ne va allo sbando con il coltello fra
i denti, è appunto l'umanità che abbiamo appena descritto: l'u-
manità che, privata di tutte le differenze (e non solo di classe), si
trova ad essere, in una, colpevole e innocente, piena di cupidigia
e degna di compassione, ebbra di potere e impotente, criminale e
vittima. E poiché questi '·non-più-uomini'", questi bellimbusti in-
sanguinati, non hanno soltanto perduto le loro qualità umane, ma
anche (visto che ci troviamo già nel periodo dei bombardamenn ....
to) 11loro mondo e la loro proprietà. vagano in una giungla

Natur mente questo inferno del/' inferiorità non poteva farsi


immagine in nessuno dei suoi precedenti stili, né in quello ag-
gressivo della prima fase. né nel più compiacente idioma succes-
sivo, né infine nel genere delle nature morte. Dal punto di vista
tecnico si tratta qui per lo più di acquarelli slavati, i cui colori
acquosi e velenosi non solo mirano all'effello dell'imbrattamen-

213
to (che ottengono nel modo più disgustoso), ma servono altresì.
invadendo le superfici senza rispettare i contorni, a far apparire
questi come instabili, arbitrari e in procinto di dissolversi. Non
ha molta importanza il nome che vogliamo dare a questo stile.
Ma consistendo di fatto la sua pittura nella rappresentazione del
negativo, della nullità e dell'abjezjone, dell 'annientabilità e della
brama di annientare dell'uomo, non andiamo lontani dalle sue
intenzioni se, prendendo a prestito un 'espressione fotografica.
parliamo di produzione di "negative", tenendo però presente che
Grosz, dal momento che vedeva la verità del suo mondo nel trion-
fo del negativo, a differenza del fotografo pensava di rappresen-
tar~, con le sue "negative", la "cosa _stessa".17
I~
1
ettivamente visibile il negativo?
rvo dell arte figurativa. In atti 'ar-
tista figurativo - anc e se curiosamente questa difficoltà non e

-
mai stata presa 10 considerazione dalla filosofia dell'arte figura-
tiva - si trova in una situazione fatalmente svantaggiata.
Per quale ragione? Perché egli "è condannato alla positivi-
tà". Ma che significa ciò?
Come uomini produttori di immagini noi non possediamo tutte
quelle possibilità (le cosiddette "modalità dossastiche") che ca-
ratterizzano l'uomo come essere parlante: ossia la possibilità di
negaredelle circostanzedi fatto, di presentarlecome possibili
oppure probabili, per non dire della possibilità di parlare del nuJla.
U pittore invece conosce soltanto l'affennativo, è un prigioniero
di Parmenide, non ha a sua disposizione correlati ottici per espri-
mere la negatività o la probabilità. Non è in grado di ritrarre un
uomo assente né di tradurre sulla carta la probabilità della sua
venuta; ritrae un uomo e basta; al pari di Mida trasforma ciò che
tocca in qualcosa, in qualcosa di positivo. 18
Dobbiamo essere consapevoli di questa difficoltà se voglia-
mo capire Grosz. Perché ciò che lui cercava di rappresentare, a
dispetto di questa "positività coatta", era appunto ciò che non è.e
non ha valore, il nulla; e nient'altro che questo. Come riusciva ad
aprirsi il varco, superando questa difficoltà? Mediante un 'opera-
zione di violenza grafica, alla quale nessun teorico avrebbe mai
pensato di fare ricorso; mediante una tecnica che poteva essere
messa a punto soltanto ncll 'ano stesso del dipingere, soltanto nella
lotta disperata contro quella coazione: la tecnica dell'·'omissione".
I li termine non suona nuovo. «Disegnare , uol dire ,acrifica-
----~-:--:r="".,..,......,....,...,....,,,-~
re» aveva insegnato Liebermann. intendendo (oggi possiamo ben
"ilggiungere: nel modo più trad1z1onale) che ogni dettaglio ines-
senziale o privo di significato doveva essere ··sacrificato" alla
rappresentazione dell'e senziale. on è però questo che Grosz
intende. Al contrario: ciò che egli omette è proprio I"'esse11:a".
Ed omette proprio l'essenza, per mostrare, tramite la sua asse11-
:a, che/a parte della 11at11ra dell'uomo di oggi il sacrificio della
sua "essen:a". È difficile immaginare una differenza più radica-
le tra le due forme di "omissione". Il fatto in sé già singolare che
Liebermann e Grosz si siano trovati a vivere contem
te nella stessa città, Berlino, appare quasi fantastico, se si e
n . poc e sembrano separare i due.

Come si configurano ora in concreto le omissioni di Grosz?


Come buchi. Più esattamente: sono buchi.
Dal momento che nell'arte figurativa il corpo visibile del-
1'uomo rappresenta l'uomo, la rappre entazione dell'uomo di-
strutto, che non è "nulla e nessuno". può aver luogo soltanto me-
diante la rappresentazione del corpo distrutto. In pratica ciò si-
gnifica che, quando Grosz vuole dire o mostrare che le sue crea-
ture non hanno più identità, o che il loro essere è costituito dal
loro non-essere, le co truisce disseminando intorno i/ nulla, bu-
chi, cavità di finestre, facendo in modo che i corpi ervano da
comici a tali cavità vuote (sfrangiate e dentellate nel modo più
casuale e arbitrario): un po' come una struttura muraria può ser-
vire da cornice a finestre bruciate. Anzi, non «un po' come», ma
«proprio come»: e infatti l'analogia non è mia, ma dello stesso
Grosz - anche se naturalmente non penso che Grosz abbia inter-

215
pretato esattamente così le sue creature traforate, ma soltanto che
queste non ci lasciano la libertà di vederle altrimenti. Esse s1
aggirano infatti in un "habitat" (ammesso che si possa chiamare
così ciò che appare semplicemente inabitabile) perfettamente
adeguato e omologo, vale a dire in un medium di cose traforate;
non solo fra spezzoni di rovine (che le assomigliano), ma in un
.Jl)QQdo interamente diventato rovina. E quando, come talvoTiiì
qui accade, la prospettiva ci consente di vedere attraverso I'aper-
tura di una di queste "finestre umane" qualcuna delle cose andate
in frantumi, permettendoci di abbracciare contemporaneamente
con lo sguardo due rovine, allora la precisione dell'equazione
raggiunge il culmine, perché il messaggio «l'uomo è una rovina»
(ovvero «l'uomo è un nulla») non potrebbe essere comunicato in
~niera più incisiva.
Ma nemmeno così siamo ancora riusciti a formulare il mes-
saggio propriamente nichilistico che questi disegni ci trasmetto-
no. Perché qui si tratta del messaggio ontologico secondo cui
"essere" e "non-essere" d'ora in poi sono divenuti intercambiabi-
li. Dal momento che le cose superstiti del mondo, le rovine umane
e inanimate, comunicano la sensazione di essere soltanto parti
del "non-ancora-nientificato", ci appaiono come interruzioni del
vuoto, come "lacune nel non essere". 19 L'ontologia di Grosz ci
appare (analogamente alla "messa nera") una "ontologia nera".
Essa culmina-col che risulta definitivamente confermata la nostra
tesi relativa alla produzione di "negative" - nella proposizione:
«non ciò-che-non-è è la negazione di ciò-che-è bensi al contra-
rio ciò-che-è è la negazione di ciò che-non-è».
+- Come ho detto, il simbolo dei buchi non è semplicemente
"escogitato". La produzione simbolica non procede in questo
modo. Se si trattasse di un trucco iconografico, di qualcosa di
elucubrato a tavolino, queste immagini dell'orrore non risulte-
rebbero tanto illuminanti e non provocherebbero immediatamen-
te in noi tanto raccapriccio. È semplicemente impossibile dubita-
re della spontaneità della genesi di queste "negative". Come per

216
Kafka era la cosa pili naturale del mondo prendere alla lettera
metafore e modi di dire, dilatandoli fino a fame delle favole, al-
u:enanto naturale eraper Grosz tradurre in immagini le immag1-
1
ni della lingua: 20 anzi, non solo naturale, ma inevitabile. Nel senso
·-~ ..
che nell'atto della creazione gli era semplicemente impo~sibile
attribuire alle sue creature (che egli chiamava in vita al solo sco-
po di poterle così annientare) anche soltanto un minimo di digni-
tà anche soltanto la volgare modalità d'essere di una massiccia
"res extensa"; nel senso che la sua penna si rifiutava di conferire
alle cose, mediante un contorno troppo nitido, una identità troppo
definita, e il suo pennello falliva nel dar loro, mediante un colore
troppo corposo, l'eccessiva consistenza dell'essere. Ma in questo
1~aso non si trattava di un "fallimento", bensì di un colpo perfetta-
Lmente mandato a segno.

Se consideriamo come suo primo stile quello delle prime


celebri caricature e come secondo quello degli "stick products" e
delle "riproduzione realistiche", allora questa tecnica delle
"negative" rappresenta il suo terzo stile. Ma non l'ultimo. Perché
Grosz ha compiuto una metamorfosi ulteriore, che non solo ci
sorprende ma anche ci commuove. Nei quadri dei quali ci resta
da parlare ora, in conclusione, anche quella estrema negatività è
superata.
Ciò suona come l'annuncio di una conversione. Ma occorre
procedere con prudenza. Da un uomo che aveva alle spalle un
opus così tenebroso non ci dobbiamo aspettare che possa tornare
a dipingere quadri in majorem mundi gloriam, come se il mondo
fosse ancora tollerabile o ad · ittura bello. E nemmeno possiamo
ri enre a cunché intorno a uno spettacolare corto circuito interio-
re, una sorta di conversione del tipo di quella che negli Stati Uniti
era parsa tanto chic. Nulla di simile. Gli unici testimoni cui pos-
siamo appellarci parlando di una metamorfosi sono i suoi nuovi
quadri: e questi parlano una lingua così esplicita da escludere
ogni fraintendimento. Grosz stesso non avrebbe potuto convin-

217
cerci se, per fierezza o pudore o qualsiasi altro motivo, avesse
voluto negare ciò che i suoi quadri rivelano.
Che cosa rivelano dunque questi nuovi quadri? Un nuovo
sentimento di lutto e dolore, con cui egli guarda nel suo mondo
tenebroso, ancor sempre privo della più piccola luce. Dopo tanto
gelo, scherno e tenebra, si esita a scrivere questa parola umana,
l dolore, come ultima parola su Grosz. Ma non sembra possibile
sceglierne una migliore.
Ci si chiederà come questa metamorfosi fosse possibile, e
attraverso quali avvenimenti la fiamma della sua passione, che si
era accesa come un fuoco di scherno, abbia da ultimo potuto tra-
sformarsi in un 'ardente sofferenza. A questa domanda non posso
rispondere con dei fatti, ma soltanto con una supposizione. La
seguente.
L'epoca in cui nacquero queste nuove opere era quella della
rovina della Germania. Ritengo che Grosz, il vecchio roué del
negativo, fra i pochi capaci e disposti a pensare e a rappresentare
senza infingirnenti l'idea della rovina, abbia considerato allora
totale l'estensione della rovina e definitiva la devastazione, abbia
dunque veramente pensato alla fine. Se allora fra noi che in paesi
lontani sedevamo sbigottiti davanti alle desolate fotografie delle
città distrutte ci fosse stato qualcuno che avesse parlato di «por-
tar via le macerie» o di «ricostruire» o avesse considerato possi-
bile o probabile che un giorno quella desolazione potesse essere
dimenticata -e questo persino nel giro di pochi anni-, avremmo
considerato quest'uomo non solo uno stolto ma addirittura un
minimizzatore dell'apocalisse e gli avremmo indicato la porta. E
così pure Grosz. Per quanto nel corso della sua vita egli possa
essere stato un rourinier del cinismo, era però in un certo senso
ancora un cinico vecchia maniera. Voglio dire che il suo cinismo

l si esauriva pur sempre nella massima «rutto può essere annienta-


to». Ma questa massima iniziava proprio allora ad invecchiare,
dal momento che un nuovo genere, assai più distruttivo, di cini-
smo stava facendosi strada e si preparava a trionfare con la sua

218
ova massima: «Tutto può essere ricostruito, la distruzione

G rtanto non e poi quel gran male, an:i può risultare opportu-
». Non ci sono elementi per sostenere che questo nuovo cini-
smo avesse contagiato anche Grosz (perlomeno sul finire della
guerra, quando io lo conobbi). Credo piuttosto che ai suoi occhi
quello fosse veramente il tramonto, e non un tramonto; dunque
qualcosa di assoluto. E che questo assoluto sia stato la forza d'urto
della sua svolta.
Comunque dovessero pareggiarsi sulle colonne del libro di
un giudice onnisciente la colpa e la pena, l'infamia e la miseria,
la collaborazione e la rassegnazione - iI conto apprestato da Grosz
(e che ci sta appunto davanti nelle sue "luttuose raffigurazioni")
sanciva che in confronto all'irreparabilità della devastazione e
ali 'immensità delle sofferenze, l'enormità dell'infamia e di tutto
ciò che nel corso della sua vita aveva odiato, attaccato e fatto
oggetto di scherno, era diventata irrilevante; e che forse persino
olta sotto le macerie e in uesto modo canee!-
nque che il crollo delle città da lui lontane
migliaia di miglia aveva trascinato con sé e sepolto sotto di sé
anche il suo sarcasmo. Ovviamente «fine del sarcasmo» non
significa ancora inizio della fiducia: e i messi della speranza non
fanno la loro comparsa nei suoi quadri. 21 Ma i colori velenosi e
sbiaditi delle sue "negative" sono ora scomparsi; una luce più
calda trapela tra le rovine: e in mezzo alle macerie, al sangue e ai
calcinacci sembra alzarsi, appena percettibile, una voce di com-
miserazione per gli uomini. Dunque dolore. Quanto meno dolore
per un'occasione ora per sempre perduta; anche se non dolore
per un mondo che egli avesse amato.
Il quadro intitolato Triimmerbild chiarisce meglio delle mie
parole ciò che intendo. In questa rappresentazione delJ'ultimo
uomo che dai sotterranei di un mondo distrutto risale alla luce,
sia pure ancora alla luce di focolai d'incendio, nessuno oserà
avvertire anche solo un'ombra di odio, sarcasmo o gioia mali-
gna; a nessuno del resto sarebbe possibile ravvisarvi qualcosa del
genere. E se anche non scorre una lacrima, è soltanto perché quel
che è successo è qualcosa di troppo enorme perché lo si possa
iangere. Ma proprio questa enormità e questa mancanza di la-
crime divengono oggetto di compianto in questo quadro~
dolore per le lacrime non versate si cela il primo raggio di nna-
scente uman · '
Non so se questa sia stata veramente l'ultima fase di Grosz (o
se soltanto l'ultima che molti anni fa ho potuto seguire). Qualsia-
si cosa sia comunque potuta venire dopo, in un senso non mera-
mente cronologico questa è certamente la sua ultima fase - per-
ché all'ottimo non può seguire nulla di meglio. Egualmente non
so se Grosz sia stato veramente consapevole della profondità della
sua trasformazione. Ritengo del tutto plausibile che l'inasporta-
bile callosità, da tempo indurita sul suo cuore senza speranza,
abbia completamente ricoperto la ferita apertasi nel profondo; e
che egli stesso non l'abbia vista. Mutato o addirittura trasforma-
to, come dopo una conversione, allora non sembrava affatto. Ma
anche questo sarebbe irrilevante e non ci potrebbe interessare.
ICiò che ci tocca è soltanto la voce dolente che si leva dalla sua
Lopera. E a questa va il nostro rispetto.

Note

1. Altret1aato incapace dell'amore. Non conosco una sola pittura astratta che
dia prova di amore o odio nei confronti del mondo. L'alibi sembra perfetto.
È altresl da attribuire a questa neutralità emozionale il fat10 che l'arte astrat-
ta abbia goduto così spesso di patrocinio politico.
2. E viceversa è un rischio ricorrente del ritratto affettuoso che esso possa
diventare inavvertitamente rroppo "raccante".
3. Si veda dell'autore Die Krise der Phamasie,"Die Sammlung", X, 1951, pp.
122-34.
4. Si può qui lasciare aperta la questione se in questo modo venga portato un
argomento contro la diffidenza oppure contro la pittura. Platone ad esempio
ha preso posizione contro la pinura. L'ha infan i stigmatizzata come assolu-

220
iamente antifilosofica. dal momento che i pittori, producendo immagini, si
accontentano della produzione di un'"apparenza dell'apparen.i:a", (Politcia
597-98).
5. Come i pillori platonizzanti abbiano superato questa difficoltà lo mostra la
storia dell'ane classicistica in Europa.
6. Che in questo modo essi siano osceni può ben essere vero. Ma comunque
non piÌI di quanto possa essere atroce rendere visibili delle atrocità o mgiu•
sto rendere visibili delle ingiustizie.
7. Benvenuta e popolare è invece quella serietà, preferibilmente denominata
"demoniaca" che non consiste in altro che in un malumore grave e solenne,
il quale di solito fa da contraltare alla mancan,.a di orientamento. Questa
serietà "consentita" ha trovato la sua ma~sima espressione nella maschera
tragica di Beethoven (la quale non ha nulla a che vedere con la sua maschera
funebre), che sta appesa sulla maggior pane dei pianofoni della maggior
pane delle nazioni.
8. L'alibi migliore l'ha sempre fornito la musica, perché di lei non si è mai
potuto dire che avesse da trasmettere un messaggio concreto. Per questa
ragione la musica fioriva nell'Austria di Metternich. Dal punto di vista morale
la meravigliosa. inesauribile «mancanza di oggetto della musica» è uno scan-
dalo. Che una sinfonia di Beethoven possa essere utilizzata da qualsiasi
governo come mezzo per celebrare la sua esistenza e i suoi fini è un fatto che
parla terribilmente a sfavore del linguaggio musicale.
9. Ammessi e ben visti erano invece gli "ideali", cioè quei "fini", a proposito
dei quali è chiaro fin da principio che, in vinù della loro sublimità, possono
essere soltanto desiderati ma non voluti. Il rischio che qualcuno tentasse
effettivamente di realizzarli, e in questo modo di contaminarli non veniva
preso in considerazione. La loro sublimità si fondava sul tabù della loro at-
tuazione. Niente rivelava meglio la serietà politica degli anni venti del fatto
che il termine "ideale" che i nati nel secolo precedente avevano ancora usato
in modo più o meno innocente, scomparve dall'uso linguistico. La parola
potrebbe ora meritare un posto d'onore nel «Di.i:ionario dei termini in estin-
zione». In sua vece subentrò allora il "fine", per il quale si scendeva real-
mente in campo e si combatteva (nella lotta fra paniti). Ma anche questo ap-
partiene già al passato: perché nel fra11empoè diventata prassi corrente genare
il bambino insieme all'acqua del bagno, vale a dire i fini insieme con gli
"ideali", al punto che non si avvene nemmeno più ciò che non si ha. Risul-
tando cosl indebolito ogni rappono nei confronti del futuro, ciò che rimane
agli uomini di oggi è soltanto il puro (il che di fatto vuol dire impuro) pre-
sente.
IO. Questa è comunque lungi dal rientrare nel novero delle più traumati:uanti
rappresentazioni del Cristo nella storia dell 'anc. In quella classica ve ne

221
sono state di infinitamente più scandalose. Ad esempio il Cristo morto di
Mantegna (a Brera). R.ispeno alla libertà che in esso Mantegna si era presa
(riducendo, mediante la prospeniva schiacciala il cadavere di Cristo ad un
ammasso esclusivo di piante dei piedi e cassa 1oracica e trasformando quin-
di il Cristo della morte sacrificale in una viuima delle leggi di contrazione
onica) rispetto a tali arditezze quanrocenleschc. L'immagine di Grosz, che
conserva immutato il tradizionale schema della crocifissione sembra parti-
colam1ente benevola.
11. Già qui si vede chiaramente come Grosz abbia inventato una strumenwio-
ne dialettica per rendere visibile il ncga1ivo. Questa forza in direzione del
negativo è qualcosa di cosl insolito nell'arte figurativa, che più avanti vi
torneremo più diffusamente.
12. Se si volesse ridurre a una formula la massima della loro aggressione, que-
sta suonerebbe: «Colpevole11011 è citJche è mostrato, ma ci,i lo mostra». In
essa si delinea già chiaramente il principio che un paio d'anni più tardi
sarebbe stato sistematizzato con maestria da Goebbels.
13. Non a caso allora il diba11ime1110 giudiziario svolse anche nella le11era1ura
~ un ruolo centrale. Al com un denominatore giuridico si lascia ricondurre una
i~ yJL, [ considerevole parte della leueratura di allora, dal filone "religioso" (Kafka)
~,,X- a quello politico (Brecht). I pezzi teatrali di Brecht vivono pra1icamente di
processi. Egli non li assunse soltanto a soggetti, ma concepl anche i suoi
peu.i teatrali come processi intentati contro la realtà; e se essi avessero tro-
vato coronamento in reali dibanimenti giudiziari, ciò non sarebbe loro in-
corso come un infortunio «estraneo alla cosa» bensl come il loro compi-
mento. Per coloro che non disponevano di più direne possibilità d'interven-
to nella realtà, l'accusa, o even1ualmen1e il farsi-accusare, costituiva. in
mancanza di meglio, una modalilà d'azione.
14. Frammenti abbandonati di oggeni traili dal mondo della "11aturtmorte", ad
esempio di chitarre rimasero ancora a lungo sospesi, come simboli origina-
ri, fra gli angoli e le ramificazioni di molte opere d'arte cubiste, astrattiste e
surrealiste.
Non è un caso che la distruuonc di ciò che è morto, vale a dire la profana-
zione del cadavere, sia sempre stata considerata il culmine della disumanità.
( i'!'\ Assieme a li 'osceno: in quanto questo consiste nel piacere della degradazio-
~' ne dell'inerme; soprattutto nel piacere di esibire 1ale degradazione. E per-
tanto non è un caso che anche in Grosz, che ci mette a contatto con un
mondo degradato, l'osceno svolga un ruolo siffatto: il suo mondo di vittime
appare come qualcosa di pornografico. Ciò non va affatto inteso come rim-
provero fariseo nei suoi confronti, ma al contrario come riferimento alla
serietà e alla coerenza interna della sua opera. Perché se ai suoi macabri
quadri mancasse l'elemento pornografico, sarebbero privi dell'elemento fon-

222
damentale: la meschi11itàdel temibile. Goya ne sapeva qualcosa: i suoJ•
Désastres erano osceni e grandiosi. Stuck al contrario non aveva idea di ciò:
il suo celebre Krieg resta, proprio perché privo di oscenità, unamalinconica
gigantografia.
16. A ciò si aggiunge che nelle opere d'arte, in particolare in quelle moralhti-
che, spesso regna la ··Jegge dell'inversione». li che significa che 11messag-
gio dell'opera esige di essere inteso al contrario (si veda dell'autore Kafta -
pro u11dco111ra, Monaco 1951,p. 37). Quando Brecht nella Dreigroschl'IIO·
per dice: «l banditi sono dei borghesi» intende dire (e cosi noi lo intendiamo
immediatamente) «I borghesi sono dei banditi». È indifferente se Grosz
fosse o meno consapevole di questa inversione,ceno è però che questa regola
non gli era sconosciuta, essendo stato in passato vicino a Brechl. Applica-J
zione: se i suoi quadri ci dicono «Anche le cose p0ssono essere assassinate
come se fossero uomini», ciò che intendono è: «Le attuali possibilità di
sterminio trattano noi uomini come se fossimo soltanto cose».
17. Non è un caso che nello stesso decennio fotografi un p0· snob incomincia-
rono a presentare come quadri negative fotografiche (nelle quali chiaro e
scuro risultavano scambiati). Questa è la versione non seria di quanto era
inteso da Grosz in modo maledettamente serio.
18. Non deve sorprendere se i geroglifici harmo finito sempre per trasformarsi
in scrittura: la p0sitività coatta dell'immagine era sempre insostenibile, la
liberazione da essa sempre inevitabile.
19. Effetti analoghi ottiene anche la musica p0st-webemiana: infatti in essa
accade che i suoni diano l'impressione di buchi nel silenzio e che l'opera
musicale funga da setaccio che dà forma e articola7ione al nulla che lo attra-
versa.
20. E naturalmente altrettanto inevitabile. Visto che di questi disegni ne esiste
un grandissimo numero dobbiamo ritenere che le sue "creature traforate" lo
hanno perseguitato con ostinazione pari a quella dei fantasmi di Kaflca.
21. Fatta eccezione per un solo quadro, nel quale un uomo che guada una palude
si muove verso un 'alba appena percettibile. Ma in questi suoi unici e picco-
lissimi «primi passi di speranza• Grosz è rimasto estremamente prudente:
non è certo un caso che egli abbia raffigurato l'uomo di spalle, non osando
mostrare direttamente il volto della speranza. Questo è il suo quadro più
umano: perché non vi è nulla di più commovente che la tardiva timidezza di
un uomo che nel corso della sua vita non aveva mai esitato davanti all'ingiu-
ria.

223
Prefazione all'Ecce Homo

Ecco di nuovo questo volume infernale che, quando apparve la


prima volta, ci aprì gli occhi, a noi che avevamo vent'anni o poco
più, e ci istruì su quel mondo che allora credevamo "desolato" e
in cui dovevamo vivere. Avevamo certo visto la brutalità, la
vo\garità,\'ipocrisia,\a stupidità,\'avidità, \a meschinità,\a
miseria, la mancanza di speranza, l'indolenza e i vizi di coloro
che erano sopravvissuti al fallimento della tiepida rivoluzione
del 1918: i presunti vinti che alzavano nuovamente la cresta; e i
presunti vincitori: il popolo, che doveva continuare a vivere la
sua mancanza di libertà, anche se in forme diverse, quelle della
disoccupazione o della miseria provocata dall'inflazione - in
qualche modo tutto ciò lo abbiamo visto anche senza il suo aiuto,
però non avremmo potuto percepirlo al punto da poter dire:
«Ecce, questo dunque è il nostro mondo». Cosa che accadde solo
nel momento i_ncui Grosz cominciò a prestarci i suoi occhi. Ma
che vuol dire cominciò? Vuol dire che da un momento ali 'altro -
ricordo ancora chiaramente il giorno -, dopo aver visto i primi
fogli del Viso della classe dominante e dell'Ecce homo, comin-
ciammo a vedere con i suoi occhi e non riuscimmo più a vedere
altrimenti - una condizione definitiva, tanto che se noi, oggi,
dopo più di quarant'anni, chiudiamo gli occhi per ricordare come
eravamo, il mondo che allora abbiamo vissuto di persona ci
appare di nuovo attraverso gli occhi di Grosz. E così, visto
attraverso la sua lente, il pezzo di storia che chiamiamo Berlino
tra il 1917 e il 1922, entrerà probabilmente nella storia. Egli
quindi non fa soltanto parte della storia dell'arte, ma anche della
storia tout court.
Il primo contatto fu naturalmente segnato da un attimo di sbi-

225
gottimento, per non dire: di spavento. Ma tuttavia di uno spaven-
to che, per quanto possa sembrare strano, fu anche liberatorio -
semplicemente perché ci sentivamo improvvisamente messi a
confronto con la verità nuda, o meglio: con la verità della nostra
epoca completamente messa a nudo. Perché ora credevamo di
sapere che ci stavamo a fare; e perché ci sembrava semplicemen-
te escluso che una condizione del mondo messa tanto duramente
alla berlina e colta con tanta precisione, potesse continuare a
esistere ancora a lungo.
Ora, se fossero stati brutali e crudi soltanto i soggetti, i suoi
fogli non sarebbero probabjlm~spaventarci tanto
profondamente. Sudiciull]( irtiseria, fame e umi}iazione erano
stati illustrati già prima di Ìui, Kiithe Kollwitz doveva la sua vasta
celebrità alla monumentalizzazioJ1e della cruda miseria proleta-
ria. Ma anche la monumentalizzazione può risultare una sorta di
abbellimento o di minimizzazione. In Grosz c'era evidentemente
qualcosa di completamente diverso: e cioè uno stile che, invece
di monumentalizzare, si lasciava contagiare consapevolmente e
volutamente dalla brutalità, dalla mediocrità e dall'infamia dei
suoi soggetti, e che così riuscì realmente ad essere sempre all'al-
tezza della negatività dei suoi soggetti; una firma che aveva il
coraggio (o l'impertinenza o il piacere - probabilmente entram-
bi) di essere ripugnante e di suscitare ribrezzo; e che otteneva,
proprio perché mostrava il meschino come meschino e il mo-
struoso come mostruoso, una propria forma del tutto nuova e di
terrificante grandiosità. Se si pensa (allora non ne ero al corrente)
da dove proveniva artisticamente Grosz -per un verso dall'acca-
demia delle belle arti, molto professorale, di Dresda e per un 'al-
tro dalla sfera d'influenza degli ultimi candidi illustratori Ju-
gendstil - l'affermazione rapida e sicura del suo violento stile
personale sembra quasi un miracolo, e in ogni caso dimostra
assai più che una semplice indipendenza artistica. Però Grosz
non aveva frequentato soltanto le scuole d'arte ma anche la
scuola del mondo, i cortili delle caserme, i mattatoi, i campi di

226
banaglia e gli ospedali militari, le abitazioni della povera gente,
le associazioni patriottiche di provincia, i bordelli e le balere
della Berlino degli anni di guerra e del dopoguerra - e proprio là
aveva imparato a vedere, là dove non si riusciva più a trovare
neanche l'ultimo briciolo di quella bellezza che gli era stata
inculcata quando aveva dovuto abbozzare le composilioni clas-
sicistiche del diluvio universale, e là dove l'estetica accademica
risultava semplicemente ridicola. Là dunque aveva imparato a
disegnare, là disegnava ora senza interruzione, addirittura in
modo ossessivo, per confutare e cancellare ciò che gli era stato
insegnato come valido; e per cancellare non solo quel pregiudi-
zio, relativamente irrilevante, della bellezza accademica di cui
era stato reso edotto davanti alle Giunoni di gesso, ma insieme a
questo - facendo in certo senso piazza pulita-'- anche il mondo
piccolo borghese della Pomeriana, che era fatto di mille pregiu-
dizi, ipocrisie, brutalità e musonerie e da cui egli proveniva e che
portava dunque dentro di sé; e con esso di nuovo tutto il mondo
pre- e post-bellico. Era un grande critico e canee/latore.E se già
i suoi primi fogli avevano un effeno micidiale, ciò era dovuto al
fatto che le linee con cui abbozzava le sue figure sulla carta, in
fondo non miravano ad altro che a cancellare questi modelli, e
non erano altro che fili di spada - strano procedimento: perché
distruggere le immagini dei nemici per distruggere i nemici
stessi, è un atto noto dai primissimi tempi della magia; ma non
altrettanto produrre appositamente, come faceva Grosz, delle
immagini a tale fine.
Nulla può dimostrare meglio la sicurezza della mira di questa
sua arte canee/latricee distruttrice che la rapidità con cui, appena
ebbe cominciato a disegnare, migliaia di persone iniziarono a
riconoscere nell'umanità che le circondava l'immagine dei suoi
quadri. Se non addirittura centinaia di migliaia di persone. Per-
ché i tipi che andava creando (si pensi: un giovane tra i ventitré e
i ventotto anni) sui manifesti, sui giornali e sui giornali umoristi-
ci, passavano presto i confini, sia a ovest che a est, e diventavano

227
da un giorno ali 'altro, per quanto fossero addolciti o appesantiti,
degli slogans ottici internazionali, e in un batter d'occhio riusci-
vano a sostituire quei tipi che per decenni avevano dominato
come modelli sui giornali satirici, Daumier, Lautrec, del Punch o
del Simplicissimus. E questa vittoria non fu soltanto un fuoco di
paglia. Perché anche negli anni in cui Grosz stesso non ne poteva
più dei tipi che aveva creato quarant'anni prima, quelli stavano
ancora trionfando persino nei paesi in cui Grosz non aveva mai
messo piede. Ancora nel '58, in Giappone, ho visto in uno
spettacolo teatrale delle maschere che imitavano i suoi disegni,
maschere che ora però stavano per le facce della classe dominan-
te americana (cosl folle è la storia). Ma anche una follia di questo
genere -che sarebbe certamente piaciuta a Grosz -è un 'ulteriore
prova di trionfo.
Ora, Grosz non fu naturalmente l' nico cancellatore. Erano
anni febbrili. A pochi chilometri aveva to luogo una rivolu-
zione mondiale. Ed esistevano allora dei movimenti, per non
parlare del marxismo, i cui seguaci criticavano, per non dire can-
cellavano, il mondo, cQD..eStrema-radiealitài~i rappresen-
tarlo o addirittura di lodarlo, oJnvecedi prendetlo espressionisti-
camente r il collo. E Grosu~to.al pi~catorio
dl9uesti movimenti, a quello dei dada~li. ÌI loro ruolo non è da
sottovalutare. In ogni caso è co.nfortante-d1&, doPQ La prima
esperienza di un vero e proprio annientamento di massa: cioè
dopo i massacri lungo la Somme e davanti a Verdun, in cui
milioni di uomini sono stati mandati a morte senza alcun senso,
morti dissanguati, ci fosse almeno un piccolo gruppo che, fuori
di sé e malinconico di fronte alla gigantesca assurdità della
nostra epoca, trovasse il coraggio per delle formulazioni cruda-
mente nihilistiche e facesse programmaticamente le scemenze

I più assurde (oggi si direbbe organizzare happenings) per mettere


finalmente quest'assurdità sotto gli occhi dei contemporanei che
non avevano ancora capito o non avevano voluto potuto o
1

228
-
dovuto capire ciò che avevano contribuito a fare.
- in realtà
Grosz partecipò molto attivamente a questo movime,}(o, che
divenne molto più politico nella febbriciante Berlino rivo\uzio-
naria e controrivoluzionaria, che a Zurigo, dove era stato fondato
durante la guerra da scrittori disperati. Ma ciò non fu cas aie.
Perché la sua metodica grafica era molto affine a quella dei
dadaisti: così come questi cercavano di rappresentare l'esib·· io-
ne scioccante e l'esposizione di assurdità, l'assurdità stessa ella
reaJtà, cosl Grosz cercava - e non tradì mai questo metodo di
rappresentare violentemente, con l'esibizione di crudeltà,
diocrità e meschinità, la crudeltà, la mediocrità e la mese
ave\laA&occhi per ~
._!àdel mo_!!g_o...a.col-0ro-d,e...ooo 1

Ora, la dimostrazione del suo rapporto con i contemporanei


non significa naturalmente ridurre la sua originalità artistica. È
superfluo ricordare che il suo stile apparteneva solo a lui, che ciò
che produceva - chiamiamolo pure, in assenza di un termine
ufficiale della scienza dell'arte, "imitazione motoria" - era sua
invenzione e suo merito personale. Con imitazione motoria in-
tendo che Grosz coglieva sempre quel tratto (o meglio che gli ca-
pitava di disegnare sempre quel tratto) che corrispondeva al ca-
rattere, al tipo di movimento o al destino del suo soggetto. Quello
che faceva era sempre una partecipazione, solo che, a differenza
dell'immedesimazione simpatetica, la sua aveva origine dall'o-
dio e dal ribrezzo, daJ bisogno di cogliere i suoi soggetti in
flagrante nelle loro debolezze e nei loro vizi; e dalla speranza di
renderli insopportabili agli occhi del mondo attraverso il loro
scimmiottamento motorio. Esempi: gli ipocriti li descriveva con
incredibili arabeschi. Gli sporcaccioni li spalmava, senza alcun
riguardo ai profili, con dell'inchiostro maialescamente rovescia-
to sul foglio. Mai avrebbe dipinto i colpevoli e le vittime con
l'identico tipo di linea, a meno che non volesse significare la loro
intercambiabilità. Se raffigurava un assassino, lo scarabocchiava
con una linea micidiale, in un certo senso con un coltello o con un
tacco dello stivale, sulla carta; si rendeva cioè graficamente
complice dell'assassinio - cosa che lo metteva in grado di confe-

229
~~ o!J.l_,JJb~'9"'~

~
rire una micidialità persino agli oggetti morti e di trasformare un
qualsiasi luogo (Benjamin notò questa ca_eacitàin Julien Green)
~'lu.QBO del delmo vlrluale". e eseguiva invece delle figure
in cui voleva dire che, abusate e sfibrate, già non contavano più,
e che già domani sarebbero state messe da parte o eliminate, le
disegnava con una linea effimera o con un gesto negativo o
indifferentemente evanescente come se realmente non fossero
più sul foglio; così come - e con ciò saltiamo per un attimo dalla
sua arte alla sua antropologia - concepiva noi uomini non più
come mortali, ma come assassinabili, o meglio: come esseri
costretti ad assassinare ed ad essereassassinati 2
il chei.iilfuiao
Jgm"-apparetanto radj~ale e sorprendente dopo che dieci milioni
.aj__uominisi sono annientati a vicendayer ordjni ricevu ·. Era
invece sorprendente, e resta anche oggi incomprensibile, che
Grosz si trovasse solo con questa suafilosofia radicale sul vasto
campo cosparso di cadaveri del suo tempo; e che (per citare il più
famoso controesempio tedesco) in quella filosofia che nasceva
esattamente nello stesso periodo dei disegni di Grosz, che era
anch'essa un'eco della guerra mondjale e che passava addirittura
per la filosofia più radicale del suo tempo; che nella filosofia
heideggeriana della morte si muoia soltanto nel modo più anti-
quato; dunque il fatto - non proprio invisibile..durante.la-guerra -
cli'e Ci accU:llàmo a vicenda e che sia~costretti a uccidere e a

esere uccisi, passa sotto silenzio, almeno nell'aula di Heidegger.
Il sangue suj campi di battaglia non si era ancora seccato, ma
ricordare questo spargimento di sangue era considerato evidente-
mente, ancora od' tro o "ros o". Come si vede, djstin-
guere nei disegni rte, filosofia e politica, ' im,g,ossib,ik e.fitrlo/
sarebbe molto artificioso. Ritorniamo guindi all'artista Grosz.
Egli passa per~e1 pocfu artisti ''figurativi" nell'epoca
della pittura astratta. Che cosa significa?
Innanzitutto è naturalmente vero che Grosz non ha djstrutto
l'aspetto del mondo come fecero la pittura astratta e gli stili
successivi. Ma questo non significa che egli fosse, in confronto

230
~.JLo__&:~~~\J
A~

.ii suoi contemporanei, un conservatore o addirittura un reaziona-


-io; al contrario, significa che stava ali 'opposizione: cioè che egli
~va della distruzione il suo sogggtto, mentre i suoi colleghi
partecipavano incoerentemente, acriticamente, orgogliosamente
e fieri del loro avanguardismo alla distruzione del mondo che era
n atto intorno a loro. Però Grosz non raffiguravacertamente_a_--J
distruzione del mondo al modo dei pittori figurativi di una volta
o dei pittori figurativi d'oggi nella Russia sovietica. Quei mezzi
·1gurativi che presuppongono un rapporto normale dell'osserva-
tore con l'oggetto non li ha quasi mai usati e semmai solo in
modo sommario. Invano si cercherà per esempio la prospettiva
del punto di fuga poiché questa coordinerebbe e metterebbe gli
oggetti raffigurati in una relazione ordinata con l'osservatore.
Poiché Grosz mirava invece a smascherare il mondo, come
1rdine distrutto, come caos, come mera adiacenza 3 (di uomo e
uomo, di casa e casa, di splendore e miseria, di ambizione e
realtà), l'insistere su li 'uso dello schema prospettico, benché esso
avesse inaugurato il realismo europeo, gli doveva apparire irrea-
istico, la simulazione di un ordine inesistente. Invece di un
rapporto coordinato Grosz presentava spesso la mera adiacenza,
che talvolta è portata cosi all'estremo che i suoi disegni ci
appaiono come comuni schizzi preparatori, come se avesse sca-
rabocchiato per caso un soggetto accanto a un altro; a meno che
non dobbiamo vedere il soggetto proprio in questo accanto, in
questa mera adiacenza dei soggetti.
Altrettanto poco si preoccupava delle proporzioni dimensio-
nali dal primo piano allo sfondo, inscindibili dalla prospettiva del
punto di fuga. Ciò che nei suoi quadri appare grande, non lo è
quasi mai perché si trova per caso in primo · io del
quadro, ma perché salta all'occhio per la
dal punto di vista ottico per Grosz può essere
concepito come grande non solo otticamente, quindi il dominan-
te, il cattivo. La prospettiva, in Grosz, appartiene alla morale, e
non ali' ottica fisica o fisiologica.

231
Per quanto riguarda invece quegli esseri che vengono presen-
tati come vittime, essi sono spesso non soltanto vistosamente
piccoli, ma anche - cosa che deve irritare in particolar modo i
realisti convenzionali - completamente privi di volume.
Anche per questo c'era ovviamente una buona ragione. Se
alcuni uomini sono dei nessuno - e la maggior parte di quelli
presentatici erano intesi come dei nessuno - per i dominanti sono
aria, vale a dire: sono trasparenti. Raffigurarli come res extensas
compatte, opache, ineliminabili - così come avrebbe fatto ogni
realista convenzionale e quindi anche ogni realista socialista -
sarebbe stato agli occhi di Grosz socialmente irrealistico. 4
Certo, la questione della trasparenza radiografica delle sue
creature aveva anche un altro aspetto - e qui interviene innega-
bilmente il marxismo, e innanzitutto la celebre teoria dell 'ideolo-
gia, che assunse allora per Grosz un'importanza addiritmra gi-
gantesca, un'importanza che va molto al di là dell'originale
contenuto di questa teoria. Quello che voleva dimostrare con la
sua radioscopia spesso indicibilmente oscena di case, vestiti e
figure, era che l'aspetto del nostro mondo e quello dei nostri
concittadini è ideologico, che 1:.apparema~e

~uale s1 nasconde e si rende invisibil~a re~cena



soltanto un'apparenza ip.gaoo&Vote~umrfaeciata--decorosa
rappresenta
dietro
(e non
oltanto in senso sessuale); che quest'apparenza, essendo ideolo-
gica, non merita dì essere rappresentata, ma smascherata o radio-
grafata. Non è esageratopc;,........,~chese Grosz avesse scritto una
ebbe post ome attributo dell'esisten-
come stru scenza. Ora è facile dirlo.
one simile è già abbastanza scomoda anche per un
filosofo. Ma per un pittore è addirittura catastrofica, e precisa-
mente perché è costretto, come creatore di immagini - a meno
che non voglia limitarsi alla produzione di semplici arabeschi-a
credere in una qualche corrispondenza tra essere e apparenza. Al
giovane Grosz non era concessa neanche una briciola di questa
fede. Che nonostante questo dilemma sia riuscito a diventare e a

232
rimanere un creatore di immagini, è molto notevole e a _prima ~
vista sembra addirittura un mistero. Affennare semplicemente '
che egli sarebbe stato~nte dotato dal punto di vista
grafico (il che è certamente vero, perché dai tempi di Menzel non
era esistito alcun grafico della sua grandezza) e non sarebbe
quindi riuscito a resistere a questo talento o a questa mania
grafica, non spiega naturalmente nulla. Perché uno che considera
ideologico l'aspetto del mondo dovrebbe divertirsi a ripeterlo e
avere l'ossessione di raddoppiare la menzogna?
No, a una conclusione corretta si arriva solo procedendo in
\enso contrario. La passione con cui Grosz inseguiva i suoi
oggetti, l'intero mondo visibile, nasce da un diverso furore. Egli
era un "platonicoal/' incolltrario".Che cosa significa?
Se idealizzazione- Platone naturalmente non ha mai usato
questa espressione- significa presentare le apparenze cosl come
apparirebbero se corrispondessero con precisione a quei modelli
di cui sono le presunte copie, e non soltanto approssimativamen-
te, aJlor~~~~Grosz consisteva in un'attività opposta:
cioè nel 'e-idealizzèh.e.Questa espressione implica che Grosz
considerav · I'tt etto del mondo come idealizzazione, che vi
vedeva, in confronto a ciò che il mondo è in realtà, solo una bella
apparenza, trqppo carina, troppo ingenua, una distorsione dolcia-
,tra. li suo furore creativo era soltanto P!!,!'rcorri$er la nature;j
vale a dire: pe.i:__smentirequesta bel~renza, per confutare
questa idealizzazìÒne,per daré al mondo, almeno in effige, quel- ~
f aspetto infernaleo volgare o banale che spel(erghhealla real
1à; J!.erraffigurarlo così come apparireb e se apparisse co.

L'af ermaz1one che Groszavre


di assolutamente falsa, benché Grosz stesso si sia più tardi unito

----
al coro dei criticoni. Vero è soltanto che odiava l'aspetto del
mondo, in quanto sua deformazione, e che non sopportava di
viver.e senza deformare a sua volta questa defom1az1one1 per _
ottenere attraverso questa doppia negazione la verità.

233
Quindi, nel 1966, ancora Grosz. Oppure, di nuovo nel 1966.
Coloro che oggi si preparano a esprimere il loro pubblico
sdegno per la spudoratezza di Grosz o, disgustati e indignati, di
voltargli pubblicamente le spalle; oppure di metterci in guardia,
perché, come artista negativo, nihilistico, osceno, cinico e così
via, avrebbe sputato nel piatto in cui mangiava - ora che la sua
fama sta di nuovo crescendo, crescerà anche il numero di questi
detrattori - tutti costoro devono stare attenti. Con l'esagerata
serietà o con l'ipocrisia del loro attacco postumo gli potrebbe
capitare qualcosa di terribile, una metamorfosi omerica: si po-
trebbero trasformare ali 'improvviso in quelle creature che Grosz
presentava in queste pagine quarantacinque anni fa. Chi intende
criticare, dovrebbe prima esaminare l'opera e vedere se la sua
figura nòn sia stata già prevista, per una sorta di vendetta antici-
pata; se non sia stato già registrato in una di queste pagine _come
borioso o come borghesuccio, come bruto o come bugiardo; se
forse il gesto del suo sacro sdegno non sia stato già registrato.
Non è affatto impensabile che qualcuno di noi ritrovi in questo
volume, che ha ormai quasi mezzo secolo, il proprio ritratto; e
che noi, se ci comportiamo davvero così come ci ha raffigurato
nel suo album segnaletico, non rendiamo ancor più veri e più
attuali i suoi quadri di quanto lo siano già.

Note

' /1.
~ .
--U rapporto di questa dimostrazionecon quelle che fecero la loro comparsa
nel teatro politico di allora e con i metodi di Brecht (con il quale G.
collaborò per un certo periodo) è evidente.
\. E di conseguenza il paesaggio del nostro mondo non come lllllllre morte ma
come nature assassinie.
3. Non è un caso che un'opera teatrale contemporanea a Grosz (di Bruckncr)
portasse questo titolo. E la semplice contemporaneilà di eventi non coordi-

234
nati tra di loro era infatti uno dei temi principali del cinema di allora e dei
romanzi di Dos Passos e di Doblin.
4. Il metodo di cui si serviva quando disegnava la metafora questi sono aria
per gli altri, era evidentemente lo stesso che serviva in quegli anni a Kafka
(che morl un anno dopo l'Ecce Homo) quando prendeva alla lettera veri
modi di dire e li trasformava in favole realistiche.
Notizie sui testi e sulle immagini

I lesti pubblicati in questa raccolta sono contenuti nel volume Mensch o/me Welt.
Schriften zur Kunst 1111d Literatur, C. H. Beck, Mlinchen 1984.ln esso, Anders ha
incluso anche il saggio Kafka pro 1111d comra. Die ProzejJ11111erlage11,
C. H. Beck
I951 (I 972'), già tradotto in questa collana (Rithimorum I; Corbo, Ferrara 1989).
Riproduciamo l'elenco delle fonti originarie indicate nel volume tedesco:
Ben Brechr.Gespriiche 1111d
Eri1111enmge11.
"Die Arche", Ziirich 1962.
Brechts "Leben des Galilei". Progran1mheftdes Burg1hea1ers,Wien 1966.
Berto/d Brecht. Geschichten vom Herm Keuner. "Merkur" 9/1979.
Der venviistete Mensch. Uber Welr- und Sprachlosigkeit i11Dobli11s. '"Ber/in
Alexanderplatz ". Fes1schrif1zum achlzigsten Geburstag von Georg Lukacs.
Herausgegeben von Frank Benseler. Luchterhand, Neuwied und Berlin 1965.
Uber Broch. Der "Tod des Vergil" 1111d
die Diagnose seiner Kra11kheit."Austro-
American Tribune" 1945/46.
George Grosz. "Die Arche", Ziirich 1961.
Gorge Grosz "Ecce Homo". Vonvort. Rowohlt, Reinbeck 1966.
ì
Le immagini riprodone alle pp. 24, 28, 60, 11Oe I76 fanno parte della raccolta
inedita Pariser Skizzen /923-1927 di Gilnther Andcrs (alias Giinther Stem).
I fotomontaggi di Jolln Heartfield sono stari riprodotti da John Heanfield, Krieg

( im Frieden. Fotomo111age11
Frankfurt I982.
zur Zeir 1930-1938. Fischer Taschenbuch 3465,

Le immagini di George Grosz (p. I86e 235) sono tratte dalla rivista "Die Arche";
"Friedrichss1r." (p. 224) è inclusa in Ecce Homo.

Le traduzioni dei tes1idi questo volume sono di Andras Aranyossy, con I'eccezio-
ne del saggio su George Grosz, tradono da Pier Paolo Portinaro e già pubblicato
sulla rivista "Comunità" XL(l 986), n. 188,pp.53-80: aP.P. Portinaro,al direttore
e all'edilore di "Comunità" va un sentito, doveroso ringraziamento.
I~DICE

3 Prefazione di Stefano Velotti

UOMO SENZA MONDO

27 Introduzione

Doblin
61 L'uomo devastato
95 L'ultimo romanzo

Brecht
111 Colloqui e discorsi
133 Vita di Galileo
139 Storie del signor Keuner

Heartfield
157 Sul fotomontaggio

Broch
177 La "Morte di Virgilio" e
la diagnosi della sua malattia

Grosz
187 George Grosz
225 Prefazione all'Ecce Homo
P.\L .\1.\R
<lia-loghi
Titoli originali dei saggi:
Homeless Sculpture; Thesen uber «Bedur/nisse», «Kultur», «Kult
bedur/nisse», «Kulturwerte», «Werte»; Ober die Esotertk der p
lophischen Sprache; Ober philosophische Diktion und das Probl,.-
der Popularisierung; Emotion and Reality.

SERGIO CAVENAGHI ha tradotto dall'inglese i saggi:


Scultura senza casa e Emozione e realtà.

ANTONIO G. SALUZZI ha tradotto dal tedesco i saggi:


Tesi su «bisogni», «cultura», «bisogni culturali», «valori cultura/,
«valori»; Sull'esoterismo del linguaggio /iloso/ico; Sulla dizione fil
so/ica e il problema della popolarizzazione.

© Palomar di Alternative s.r.l.


Via Cairoli, 105 • 70122 Bari
alternative.srl@libero.it

Ottimizzazione: Messaggi s.r.l.

ISBN 88-88872-19-1

È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qual-


siasi mezzo effettuata, non autorizzata.
SCULTURASENZA CASA*

1. Essere senza easa


«Cose» - Dinge. È con questa sobria parola che Rainer
Maria Rilke cominciò - circa quarant'anni fa - il famoso di-
scorso sul suo maestro, quella parabola che rese possibile ad
un'intera generazione di vedere, di comprendere e di frain-
tendere Rodin. Quando Rilke pronunciò questa parola, si
aspettava e in effetti riuscì a provocare una sorta di religioso
silenzio nel rumoroso mondo di oggetti che ci circondano.
La generazione del 1907 rimase profondamente impressio-
nata da questa parola magica, sebbene non sapesse perché.
Oggi siamo abbastanza distanti dall'inizio del secolo. Oggi
possiamo vedere che cosa realmente abbiano significato que-
sta parola sobria ed il suo effetto stranamente magico.
L'umanità intorno al 1900 stava vivendo in un mondo
che aveva reso tutto, l'uomo, il tempo dell'uomo e le relazio-
ni tra uomo e uomo, elemento di scambio in un sistema di
beni. Possibilità di scambio significa: ormai nessuna cosa più
è uguale a se stessa, ma viene determinata e definita dalle re-

* Questo discorso è stato pronunciato alla galleria Vigovino, Brent•


wood, California, il 13 marzo 1943. Il saggio HomelessSculptureè comparso
in «Philosophy aod Phenomenological Research», 2, dicembre 1944. I ri-
mandi iconografici in parentesi tonda si riferiscono al libro di RAINER MARIA
RILKE,Auguste Rodin, Insel Verlag, 1920.

7
!azioni tra i beni, dal mercato. Diviene, come dicono i socio-
logi, «alienata».
È ovvio che per l'uomo medio della società una strenua
lotta contro questa alienazione era fuori questione. Poiche
l'alienazione era il diretto risultato del sistema di sussistenza
la lotta poteva essere intrapresa solo in via indiretta. Solo
mediante il «rifiuto» o il nascondersi.
Quindi la filosofia, l'arte, la musica e la poesia cercarono
furiosamente di glorificare la vita e di enfatizzare la differen-
za che esiste da un punto di vista metafisico tra «Persona»
e «Cosa», e di accompagnare fedelmente la sempre più acu-
ta « reificazione» dell'uomo con un sempre crescente ro-
manticismo che non aveva mai cessato di tenerle il passo
Uno di questi fu Rilke.
Ma lui disse «Cose». «Cose» è stata la parola prescelca.
Perché non piuttosto« Vita» o «Anima» o «Redenzione»?
Non è proprio «Cosa» la parola che designa la «reifica-
zione» del mondo che Rilke cercava di rifiutare? Che con-
traddizione! Non vi è contraddizione.
Non era soltanto l'uomo in sé ad essere alienato dall'uo
mo, ma tutte le cose care al suo cuore; tutte le cose con le
quali egli ha a che fare; le cose con le quali lavora - le mac-
chine - non sono le cose che usa o con le quali vive la sua
quotidianità; le cose che usa, i beni, non le ha fatte lui. Quin-
di produzione e uso erano alienati l'uno dall'altro e il mondo
dell'uomo era diviso in due regioni.
Se Rilke fosse stato un filosofo, avrebbe detto: non ci so-
no più «cose», ma soltanto macchine e beni. Casa e giardino
sono andati persi. Rilke vuole riscattarle: vuole rimetterle al
loro «giusto» posto; reinserirle recidendo quei legami che le
collegano, come dice lui, alla « spaventosa cela di ragno del
mondo» e che le privano della loro identità. Di fatto, queste
cose semplici appaiono continuamente nella poesia di Rilke
con uno strano richiamo nostalgico, persino evocativo; un ri-
chiamo che ci ricorda la canonizzazione che ha fatto Gandhi

8
del filatoio. Perché nel regno innocuo e vago della poesia an-
che Rilke fu un distruttore di macchine.
Ma, piuttosto stranamente, estrapolando le cose dal loro
«contesto alienante», egli le ha alienate di nuovo; e questa
volta definitivamente. È vero, egli non vedeva più il bricco
come un bene, ma non lo vedeva più neanche come un boc-
cale per la birra - bensì come una cosa deprivata di qualsiasi
relazione. Tagliando fuori il suo carattere di bene, egli attri-
buiva alla cosa una identità isolata. Il bricco nelle sue mani
non era più un bricco ma un «pezzo» di antiquariato o per-
sino una sorta di talismano.
Il suo non era un capriccio individuale. L'intero movi-
mento della Natura morta presagito dal grande Chardin, rin-
novato da Cézanne e Manet, seguito poi dal cubismo e dal
surrealismo, è un movimento di venerazione delle cose. Tutti
«rubano» le cose dal loro contesto, Van Gogh la sedia, Cé-
zanne la sua famosa tazza, per restituire loro una realtà - o
addirittura una sur-realtà - che avevano perso una volta in-
serite nel loro contesto e scopo pragmatico.
Quando Rilke cominciò il suo discorso con la parola ma-
gica, ovviamente intese evocare il regno del bello. Cos'ha a
che vedere con il bello questo «estrapolare una cosa dal suo
contesto»?
Appendete un tappeto o un pugnale alla parete e all'im-
provviso vi apparirà come un'opera d'arte. Estraendo un og-
getto dal suo contesto pragmatico, lo si estrae dal sistema dei
nostri bisogni. Ora lo guardiamo come uomini liberi dal bi-
sogno. Poiché non lo desideriamo più, ci troviamo in una di-
sposizione estetica.
Non è difficile notare che la parola «cosa» è particolar-
mente indicata a descrivere i lavori di uno scultore. Per due
ragioni: una volta che il prodotto dello scultore è stato ese-
guito, esso consiste in un massiccio oggetto tridimensionale
in mezzo ad altri oggetti del mondo e reclama il suo posto -
mentre il lavoro pittorico, l'illusione bidimensionale di tre

9
dimensioni, non occupa un vero posto nel mondo reale tri-
dimensionale. Inoltre, lo scultore è l'artista che isola; mentre
il pittore è in grado di offrire un intero mondo - un paesag-
gio, gente tra gente, cose tra cose - lo scultore estrapola un
oggetto, per lo più il corpo umano, dall'universo degli og-
getti.
Questa osservazione sembra vera. Ma è vera solo a metà
Fino al diciannovesimo secolo, lo scultoreisolavasolo alfim
di integrare.Egli era sempre l'aiutante in secondadell'arch1-
tetto. L'architettura costruiva oggetti reali per la società; e
qualsiasi scultura conosciuta fino al secolo scorso - ciascun
pezzo - era concepita per un particolare posto all'interno d1
una architettura, quindi all'interno di una società. Come ele-
menti di «sollievo» erano ancora elementi architettonici, co-
me vere e proprie sculture venivano riparate in nicchie.
Ora passiamo al diciannovesimo secolo, al mondo dopo
la rivoluzione borghese in Francia. Le due istituzioni sociali
- Chiesa e Corte - che avevano primeggiato nel costruire
edifici di rappresentanza e che avevano ordinato allo sculto
re glorificazione e immortalizzazione, avevano perso molta
della loro importanza. Glorificazione ed immortalizzazione,
i due motori della scultura, apparentemente contraddiceva-
no i principi della società borghese. L'eguaglianza degli uo-
mini, seppure solo come ideologia, non ammette eroi di mar-
mo. E la casa di un borghese non permette l'erezione di un
monumento.
Di fronte alla Duke University potete vedere la statua di
Mr. Duke, creatore della sigaretta Chesterfield e fondatore
dell'Università, che fuma un sigaro metallico che non potrà
mai ardere della sua propria marca e che dimostra che l'im-
mortalizzazione scultorea del borghese si riduce ad una
farsa.
Perfino i pittori del diciannovesimo secolo (con l'ecce-
zione di Delacroix e Puvis) furono esclusi dal contribuire al
lavoro pubblico; e la maggior parte di loro ad un certo punto
non sapeva più per chi o per che cosa dipingere. I loro dipin-
ti andarono immediatamente alle mostre (al fine di diventare
beni e di sparire da qualche parte) o, in casi rari, andarono
nei musei, principali case degli oggetti del passato che non
hanno più una dimora. Mentre le opere d'arte delle epoche
precedenti trovavano la loro via per i musei solo dopo che il
loro primo domicilio aveva fatto il suo tempo, le opere del-
l'ultimo secolo nascevano senza casa. Esse avevano nella so-
cietà lo stesso indefinito posto che avevano gli artisti - artisti
che ora avanzavano da un definito, benché basso, ceto socia-
le (ora conquistato dai fotografi) al rango di paria divini.
Ciò che si applica alla pittura, a maggior ragione si appli-
ca alla scultura. Gli scultori dell'ultimo secolo (con l'eccezio-
ne di pochi accademici che non contano), eseguivano le loro
sculture per un posto non determinato, per una funzione
non determinata. Erano costretti a fare cose isolate. Ora, fi-
nalmente, siamo arrivati al mondo di Rodin; ed ora, final-
mente, capiamo perché Rilke cominciò il suo discorso su Ro-
din con la parola Dinge.

2. Rifugio
Guardate il famoso Torso di Adele dell'anno 1882 (vd.
fig. 1). Il corpo non è «eretto» come in una normale scultu-
ra, ma giace come un corpo reale su un lenzuolo di velluto
reale. Non c'è piedistallo, né ponte, né tentativo di connet-
tere architettonicamente il corpo con il mondo, con un po-
sto al quale dovrebbe appartenere, perché in realtà non c'è
un posto al quale appartiene.
(Per inciso, l'effetto è già, anche se non intenzionalmen-
te, surrealistico, poiché il surrealismo consiste nel mettere in
risalto il contrasto di due dimensioni contraddittorie della
realtà. Immaginate questo corpo di marmo in un letto reale,
ed ecco un soggetto per Dalì.)
Cercate ora di immaginare un posto socialmente accetta-
bile per questo Torsodi Adele. Una chiesa? Un edificio del

11
Governo? Una casa borghese? Una piazza pubblica? Tum
ugualmente impossibili. Un giardino? A stento. La natura~
Forse.
Infatti, questa è la teoria di Rodin. Dato che non esiste,·..
un luogo sociale adatto a contenere le sue sculture, egli finst:
o realmente credette di averle destinate alla natura. Voleva
per esempio che il suo famoso Citoyens de Calais (vd. fig. 2
fosse eretto sul tappeto d'erba di una piazza di Calais, in più
senza piedistallo, al livello del suolo; e voleva persino che 1
ragazzi di Calais girovagassero tra le figure come se fossero
alberi. La municipalità filistea rifiutò questo sorprendente
progetto, allora Rodin insistette per porre il gruppo su una
roccia grezza, giusto in fronte al cielo, al mare, allo spazio li-
bero, dal momento che nessuno spazio sociale era adatto a
contenerlo. Nuovo rifiuto. Se alla fine il gruppo venne eret-
to, nel 1895, undici anni dopo che era stato ordinato quale
decente e normale monumento patriottico, Rodin lo dovette
al finanziamento segreto della famiglia Rotschild.
Questo esempio parla per tutti. Egli dovette sempre di-
sporre le sue opere «fuori dal mondo», o nel suo giardino
o in uno dei suoi musei. In occasione dell'Exposition Mon-
diale a Parigi, Rodin non trovò e non riuscì a trovare nessun
posto dove le sue opere si adattassero. Perché la mostra era
già una sorta di Exhibition Industrielle. Perciò egli aprì,
qualche centinaio di metri dall'area dell'Esposizione, una
mostra speciale, una sua individuale Exposition Mondiale.
Rilke aveva già individuato ed espresso questo « essere
senza casa», seppure con accenti che implicavano che questa
impossibilità di mettere dimora fosse una qualità divina an-
ziché un'anomalia sociale. In ogni caso, questa categoria
dell' « essere senza casa» è la chiave con la quale tutte le scul-
ture di Rodin possono essere aperte all'interpretazione. Pro-
viamoci.
Poiché non esiste un «terreno sociale» o un ambito o un
rifugio architettonico per le sue sculture, Rodin deve provve-

12
dere lui stesso a crearsi un Ersatz [surrogato]. Quindi dota
la maggior parte delle sue sculture di un pezzo di mondo al
quale appartengono - dal quale esse sembrano scaturire-,
per così dire un pezzo di caos pietrificato. Guardate per
esempio la Madre con bambino o il famoso Busto di Mozart.
Altre volte cerca di riporre le sue sculture in una nicchia
che fa parte della scultura stessa (Rilke, pag. 43). Guardate
il Monumento a Vieto, Hugo (vd. fig. 3). I tre Gem'esde la
Poesie proteggono la figura di Hugo come una conchiglia.
Tuttavia, questi tentativi di riporre la scultura dentro la scul-
tura stessa sono poco soddisfacenti. È vero, ora la figura
principale usufruisce di una specie di nicchia, ma la nicchia
stessa rimane senza protezione, una nicchia nello spazio vuo-
to. Questa frustrazione ricorda la triste storia di Le Mille e
una notte, in cui un uomo perso nel deserto cerca per ore ed
ore di coricarsi sulla propria ombra.
Tuttavia (e ciò che sto per dire si applica a tutto il mio
scritto), non prendiamo tali osservazioni come critiche al Ro-
din artista. Le manchevolezze di cui stiamo discutendo sono
le manchevolezze di un'epoca che non dispone di un'archi-
tettura o di uno spazio per lo scultore; ma non sono manche-
volezze di Rodin. Al contrario, è proprio la disperata condi-
zione di «senza casa» delle sue figure, la sua incessante fa-
tica nel cercare di superare questa condizione, che lo rende
così incomparabilmente superiore a tutti i suoi contempora-
nei. Egli fu l'unico scultore a vedere i «segni del tempo» ed
a rendersi conto di quanto infantile fosse il procedere come
se nulla fosse cambiato nella/unzione della scultura. Parago-
nato al grandioso fallimento di Rodin, il successo di alcuni
suoi contemporanei classicisti è come un aneddoto decorati-
vo; proprio come Bizet è un aneddoto paragonato al gigan-
tesco fallimento di Richard Wagner.
Torniamo alla scultura di Rodin. Arriviamo ora al suo
terzo tentativo di superare la mancanza di casa delle sue
sculture.
Egli ha creato da sé architetture come rifugio alle sue

13
sculture. TIpiù famoso di questi rifugi - un posto corrispon-
dente alla tomba di Giulio, nella quale Michelangelo voleva
riporre le sue figure - è il cosiddetto Gate o/ Hell [Porta del-
l'Inferno], una porta affollata con molti suoi pezzi famosi.
come Il pensatore(vd. fig. 4) e le Ombre, per non parlare del-
la folla anonima. Lì essi hanno trovato il loro posto, ma co-
me naufraghi salvati da un battello che si è perso a sua volta
nell'oceano. È vero, esse sono diventate figure su una porta.
ma dove questa porta ha trovato il suo posto? Ancora una
volta, da nessuna parte. Mentre di solito una porta è un'a-
pertura in una costruzione, la porta di Rodin è una costru-
zione in uno spazio aperto; non porta da nessuna parte, è
pura finzione.
Quando abbiamo detto che Rodin ha assemblato le sue
sculture in questo Gate o/ Hell, non volevamo affermare che
il risultato fosse stato una «composizione». Rodin non pia-
nificò mai il tutto in anticipo; ogni figura era venuta al mon-
do come un essere disperatamente individuale. Solo più tar-
di divenne un abitante del Gate o/ Hell. Di fatto, la società
nella quale esse entrarono a far parte, era il perfetto specchio
della società liberale; ogni figura era a sé stante, la loro co-
ordinazione del tutto casuale; la loro armonia, se ce n'era
una, doveva risultare automaticamente e non si sa da dove.
Rodin stesso confessò di non essere mai stato soddisfatto
della disposizione delle figure del suo più grande gruppo
scultoreo, i Citoyens de Calais.
L'altro tentativo di porre in salvo i suoi pezzi naufraghi
è il cosiddetto Tour de Travail (Rilke, pag. 65). Ancora una
volta, Rodin non attribuiva a questa torre un reale scopo so-
ciale, ma solo il significato di un simbolo, un gigantesco nin-
nolo. Perciò rimase sempre solo questo piccolo modello ar-
chitettonico.
Neppure un modello architettonico. Perché Rodin era
così profondamente scultore che abbozzò questa architettu-
ra come se fosse un essere vivente, come un organismo a spi-

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rale, che simula di essere cresciuto invece di essere stato co-
struito. Di fatto, Sauvage pretendeva di avere scoperto un
nuovo stile architettonico quando imitava la struttura delle
foglie, dei rami e degli animali. Era contemporaneo di Ro-
din. La Tour de Travailnon è architettura, ma una scultura
per riporvi sculture.
Vi renderete immediatamente conto che questa interpre-
tazione non è esagerata.
Come sapete, Rodin era, a modo suo, profondamente in-
teressato allo « Stile Gotico» sul quale scrisse anche un libro.
In che modo egli lo vede e lo interpreta?
Guardate queste mani. Egli le chiamò Cattedrale(vd. fig.
5). Il titolo dimostra sufficientemente la sua convinzione che
il motivo architettonico dell' «Arco Acuto» può essere tra-
sposto nella scultura, può essere espresso in termini di corpo
umano. Ed è esattamente questo pan-sculturismo che avevo
in mente quando ho chiamato la Tour de Travailuna «scul-
tura per riporvi sculture».
Vi ricorderete lo stile europeo tra gli anni Ottanta ed il
1910, in particolare il cosiddetto Jugendstilche faceva sì che
qualsiasi sputacchiera potesse trasformarsi in un germoglio
di giglio. Vi ricorderete del Goetheanum di Dornach o della
Torre Einstein di T eltow che mostrano balconi a forma di
seni e finestre a forma di bocca. La società, basata su fonda-
menti puramente materialistici, considerava una disgrazia
avere bisogno di beni puramente materiali e di arnesi pratici
e li travestiva da piante aggraziate e da animali fantastici.
Ogni oggetto doveva sembrare senza scopo pratico, perché
gli scopi pratici ricordavano all'uomo le sue necessità. Per
ultimo la società aveva vergogna del suo modo meccanico di
produzione e lo nascondeva con la foglia di fico della natura.
A questa generazione appartiene Rodin, come un genio con-
dannato alla mostruosità.
«La ricerca entro le forme della natura», diceva Boccio-
ni trent'anni fa nel suo Catalogo della Prima Esposizione Fu-

15
turista, «distoglie la scultura dal suo scopo originario e fina-
le: l'architettura. L'assenza assoluta di architettura è il grave
errore della scultura Impressionista». Non vi è dubbio che
queste parole erano rivolte a Rodin. E molto presto comin-
ciò la reazione estrema. Molto presto potete vedere il pan-
sculturismo di Rodin sostituito da un rno\'imento che rese
persino la scultura una sorta di edificio e <li ingegneria.
Torniamo a Rodin. L'altro modo con 11quale cerca di su-
perare la mancanza di casa dei suoi pezzi è l'invenzione di un
«gesto» sacrale. Cosa intendiamo dire?
Pensiamo ad una scultura del Verrocchio. o di Prassitele
o del Bernini o di qualsiasi altro scultore. Le figure rappre-
sentate o stanno semplicemente lì. solo per farsi guardare,
offrendo la loro esistenza così com 'è, oppure sono chiara-
mente occupate a fare qualcosa: danzare, come la famosa
scultura di Carpeaux all'Opera di Parigi, o usare il martello,
come le sculture di Meunier, e così \·ia.
Le sculture di Rodin non appartengono né all'una né
all'altra di queste due categorie. Guardare la cosiddetta Om-
bra (vd. fig. 6). Questa Ombra è ben lontana dal «fare mo-
stra di sé»; ma cosa sta facendo? Difficile dare una iisposta.
Già la parola «fare» sembra inadeguata Essa sta piuttosto ...
parlando con il suo corpo. Ma questo «parlare» è denso di
quella malinconia ed intensità dell'animale o del muto, che
è l'effetto della frustrazione e della disperazione. l'effetto del
non poter parlare. Essa quindi non sta facendo niente, sta
solamente ... esprimendosi.
Essa si sta esprimendo, ma per nessuno. Sta comunican-
do, ma senza alcuna controparte. Sta pregando, ma a nessun
Dio.
Con l'inaugurazione di questo strano gesto « senza
partner» Rodin ha fatto storia: l'intera danza moderna, in
particolare la Mary Wigman's Art, vive di questa sorta di ge-
sto «puro» in qualche modo narcisistico. Tra il 1900 ed il
1943 lo avete visto innumerevoli volte: ballerini rhe sembra-

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no «dare»... ma senza nessuno che riceva; che sembrano
«portare» ... ma senza il peso; chiedere ... ma a nessuno; ama-
re ... ma senza l'amante. Questa divenne la grande moda, per
un motivo ben strano. Dato che la comunicazione, espressa
nei gesti, è senza controparte, essa sembra suggerire un part-
ner invisibile al quale è indirizzato il gesto. E questo il mo-
tivo per il quale ho chiamato il «gesto» un mezzo per rom-
pere l'isolamento. Accennando ad un partner invisibile, il
gesto diventa «in qualche modo» religioso. La mancanza di
integrazione sociale della figura muta in una consolante, sep-
pure vaga, integrazione cosmica o religiosa.
Suona paradossale che Rodin, l'eminente artista naturali-
sta, sia stato un prete travestito. Ma nel diciannovesimo
secolo questa combinazione era tutt'altro che improbabile.
Quando Richard Wagner intese produrre una situazione sa-
cra e soprannaturale «imitando» naturalisticamente le emo-
zioni nel linguaggio della musica, anche lui apparentemente
combinò le due attitudini contraddittorie. L'analisi di questa
strana mistura richiederebbe un'interpretazione dell'intero
paradossale diciannovesimo secolo.
Torniamo al «gesto». Le figure di Rodin non «fanno»
alcun gesto; esse sono i loro gesti. Ogni figura è, nonostante
la magistrale esecuzione naturalistica, solamente il campo o
persino il pretesto per il gesto. Altrimenti le sculture di Ro-
din, come per esempio l'Uomo che cammina (vd. fig. 7), non
si riuscirebbero a capire. Qui Rodin mostra «il camminare»
senza la persona che cammina ... e pertanto può fare a meno
della testa della figura 1• •
Comunque il più ingegnoso ed impressionante metodo
che Rodin usa per superare l'isolamento e la mancanza di ca-
sa delle sue figure è strettamente connesso al contenuto delle
1 Dato che l'uomo senza testa non può starci di fronte, egli in realtà è

una ... cosa.Egli è anche isolato da noi, gli spettaton·,isolato come un animale
che va per la sua strada senza curarsi di nulla, non ha nessuna importanza
quanto insistentemente cerchiamo di farci notare da lui.

17
sue sculture. Egli trasforma l'isolamento in qualcosa di posi-
tivo, nel desiderio - desiderio di rompere l'isolamento.
Quindi il «Desiderio» (nella forma di desiderio sessuale) di-
venta quasi l'esclusivo leitmotiv dell'intera opera di Rodin
(Rilke, pag. 24-25). Guardiamo questi pezzi. Sono molto si-
mili agli esseri descritti da Aristofane nel Simposio di Plato-
ne, esseri che sono stati tagliati in due metà ed ora bramano
di ricongiungersi gli uni con gli altri. Mentre la maggior par-
te dei pezzi di Rodin resta in questa situazione simile a quella
di T amalo, alcuni sono più fortunati. Perché una volta ogni
tanto Rodin recita la parte di Dio e dona un partner ad una
delle sue statue, poiché «non è bene che l'uomo rimanga so-
lo. Farò per lui un compagno di sorte».
Oppure integra la figura isolata moltiplicandola per tre o
per quattro, e quindi dandole almeno la consolazione della
propria compagnia. Come si può vedere, le tre figure sono
assolutamente identiche, come sono identiche le ragazze di
Tiller 2 •

3. Deumaniv,azione
La religiosa glorificazione del sesso come la troviamo in
Baudelaire, Wagner, Rodin (e anche nel tardo Goethe, che
ci dice che non è Cristo, ma «l'eterno femminino», dasewig
2 Non è una semplice coincidenza che queste poche figure, i cui movi-
menti non puntano in una direzione al di fuori di se stesse, siano divenute le
più popolari nella Francia classicista. Una è L'età del bronzo,dove il gesto del
braccio rifluisce nel corpo. L'altra è I/ pensatore,curvo su se stesso. La terza
è Eva che, incarnazione della vergogna, cerca di strisciare dentro se stessa.
L'ultima è il cosiddetto Idolo Eterno,quel famoso gruppo nel quale l'amante
ha effettivamente trovato la sua amata; devo confessare che ritengo questo
gruppo la più insignificante delle opere del grande Rodin, un lieto e nudo fine
che, dopo la ferocia del desiderio precedente, ci colpisce con la sua strana ri-
spettabilità. La discrepanza tra il desiderio animale e la sua timida soddisfa-
zione, tuttavia, non appartiene soltanto a Rodin. La stessa strana mistura di
desiderio e rinuncia la troviamo in Wagner. Tutti e due amano più il desiderio
che la sua soddisfazione. E le regole del gioco della società sono per lo meno
preservate.

18
Weibliche, che ci innalza), questa glorificazione del sesso è
abbastanza comprensibile come ultima scappatoia per l'uo-
mo del diciannovesimo secolo. La crescente mancanza di re-
ligiosa «comunione» da un lato e la mancanza di integrazio-
ne sociale dell'uomo, particolarmente dell'artista, dall'altro,
lascia il sesso come ultimo mezzo che ha l'individuo per per-
dersi in qualcosa che è più, e più generale, di se stesso. C'è
una frase di Simmel: «Musica ... la ·religione di oggi». Po-
trebbe essere integrata con l'altra: « Sesso, la santa comunio-
ne di oggi» o, meglio, di ieri.
Qui la somiglianza tra Wagner e Rodin diventa più sor-
prendente, nonostante la loro diversa collocazione storica.
Prendete il caso di Isolde. Sarebbe assolutamente impossibi-
le descrivere i suoi «problemi», il suo «carattere» o il suo
«sviluppo» ... lei non è altro che desiderio e amore - morte.
Allo stesso modo gli esseri di Rodin non hanno carattere, né
significato drammatico; non sono neppure se stessi. Sono so-
lo desiderio>. Le loro nature, puramente fisiche, sono torsi;
e quando Rodin le rappresenta come torsi, la loro forma in-
tenzionalmente frammentaria concorda pienamente con la
loro natura di torsi.
L'essere senza testa di alcune delle sue sculture, che ab-
biamo interpretato prima, non è comprensibile senza questa
de-umanizzazione.
Mentre nelle precedenti epoche dell'arte l'unico torso
eseguito premeditatamente consisteva nella testa, perché la
testa è l'uomo, Rodin ci offre ritratti negativi: la gloriosa in-
decenza del corpo animalesco di un uomo o di una donna
senza testa.
L'uomo ha un corpo animalesco - sì, siamo alla fine del
secolo nel quale Darwin ha diffuso l'idea che l'uomo è solo
un animale tra animali; e Rodin è il suo messaggero in termi-
ni di scultura.
3
È storicamente importante sottolineare che nella sua scultura la donna
ha lo stesso diritto al desiderio dell'uomo; non è più solo il bel corpo, preda
del desiderio dell'uomo. La democrazia del sesso è chiaramente stabilita.

19
Il più illuminante esempio di deumanizzazione sembra
essere il grandioso Penseur;molto probabilmente perché ha
la pretesa di essere spirituale. Guardiamo i suoi bicipiti, è
sorprendente. In verità questo metafisico sembra un pugile
triste che si riposa tra una ripresa e l'altra; un pugile a cui
non piaccia l'idea di essere condannato ad un fisico cosl po-
tente. Se lo guardate vicino al famoso Boxeur del Museo Na-
zionale, questo pezzo di scultura greca latinizzata, potreste
crederlo un suo pericoloso concorrente. Non è altro che po-
tenza. Perché oltre al desiderio, la potenza è l'unica caratte-
ristica di questa umanità creata da Rodin. Persino la melan-
conica Ombranon può esimersi dall'essere provvista di brac-
cia simili a mazze.
Già, siamo alla fine del secolo in cui Nietzsche aveva for-
mulato l'idea biologica del superuomo, e l'idea di una« Vo-
lontà di Potenza», e Rodin è il suo messaggero in termini di
scultura.

4. Nudismo
Tuttavia, l'importanza del sesso nei lavori di Rodin ha
anche altri motivi. Come abbiamo visto all'inizio della nostra
analisi, il borghese non si presta ad una glorificazione scul-
torea. Pertanto, se per caso viene rappresentato, deve essere
denudato della sua realtà sociale fatta di colletti alti e cappel-
li duri. Deve essere mostrato nudo. Quindi Rodin lo spoglia
e lo rende una sorta di figura mitica, di «primo uomo»; e
non è per nulla una coincidenza che egli abbia chiamato la
sua prima statua L'età del bronzo (vd. fig. 8).
Ma l'uomo del mondo borghese non è solamente inadat-
to ad essere immortalato nel marmo; una candida rappresen-
tazione dell'uomo, così com'è, della società, così com'è, au-
tomaticamente assumerebbe il significato di una sorta di ac-
cusa. Ora, Rodin era ben lungi dall'essere un coraggioso ac-
cusatore; il suo comportamento più che equivoco durante
l'affare Dreyfus è abbastanza noto. Quindi egli deve evitare

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o nascondere la realtà sociale dell'uomo. Dato che è sempre
più permesso svelare i tormenti della carne piuttosto che
quelli causati da un sistema sociale, egli evita di mostrare la
realtà sociale dell'uomo e mette in esposizione la sua realtà
naturale. Egli nasconde l'uomo nella sua nudità, mentre Zo-
la, che fece un tentativo sincero di dire la «nuda» verità, mo-
strò l'uomo tra le vestaglie e i tappeti della sua epoca. Ora,
nella società senza classi della sua colonia nudista, tutti i pro-
blemi sociali scompaiono; tutte le maledizioni sociali, i vizi,
le miserie se ne vanno; e l'unica cosa che rimane è desiderio
e potenza.
Si potrebbe obiettare che il corpo nudo è il tema naturale
della scultura. Ma è errato. Pericle o Socrate o Platone non
hanno mai visto in vita loro la scultura di una donna nuda.
Mirone, Policleto o Fidia non hanno mai pensato di mostrar-
la. Se hanno mostrato uomini nudi - bene, c'è nudità e nu-
dità. In Grecia, il corpo nudo giocava un ruolo ben definito,
un ruolo solenne nella realtà della vita greca. Era il corpo
dell'atleta che era stato premiato alle Olimpiadi, dove aveva
veramente combattuto nudo. Questa nudità non era mono-
polio della scultura, ma una realtà sociale al di fuori dello
studio dello scultore.
Adesso prendiamo la nudità del diciannovesimo secolo,
il secolo del corsagee del cu. Se esisteva una nudità al di fuori
dell'atelier,non era certo quella destinata ai Giochi Olimpi-
ci. Dato che il suo ruolo nella realtà era inequivocabile, lo
era anche il suo ruolo nell'arte. Naturalmente, nel lavoro di
Rodio, non significava più la vie galantetout simple. Comun-
que, Boucher non è ancora del tutto dimenticato. Anche se
quello che intende Rodio è la vie galante dell'universo inte-
ro ... una versione panteistica di Boucher.
Si potrebbe anche obiettare che le intenzioni di Rodio
quando mostrava l'uomo nudo erano altre da quelle natura-
listiche. Che egli voleva elevarlo ad una sorta di eternità, o
qualcosa di simile. Certamente lo voleva. Tuttavia è a dir po-

21
co molto strano che oggi, nel reame recintato e irreale della
sua colonia nudista, egli è diventato il maestro del naturali-
smo che ci fa dimenticare la irrealtà del reame stesso. Il suo
naturalismo era così marcato che si sospettò che la sua prima
statua, L'Età del bronzo, fosse stata eseguita da un calco in
gesso. E quando modellò il suo Balzac (vd. fig. 9), non lo fece
come lo vedete qui, ma come un uomo nudo, molto simile
a questo Hugo che non è nudo ma ovviamente svestito.
Successivamente sistemò vestiti reali intorno alla figura e
li ingessò 4 •
Per quanto Rodin abbia presentato naturalisticamente la
ferocia del desiderio e del sesso, egli si sentì sempre in qual-
che modo inibito dal chiamare le cose con il loro nome. Qui
notiamo ancora la sua cautela. I titoli che inventa sono per
lo più presi dalla mitologia greca; le realtà brutali vengono
sempre mascherate da simboli, e più di un seno viene camuf-
fato da metafora.

5. L'Orco
Solo una volta Rodin cercò di glorificare l'uomo della so-
cietà borghese: nel suo grandioso monumento a Balzac del
1897, che si erge unico nel suo secolo. Qui per la prima volta
nella storia della scultura l'uomo non è rappresentato come
un dio o un eroe o come una beltà o come un idolo imperia-
le, ma come una specie di orco glorificato. Come un orco il
cui potere fisico e intellettuale assume tratti pronunciata-
mente volgari. Questo uomo Balzac è un miscuglio tra ungi-
gante e un contadino dell' Auvergne. È lontano dall'essere
nobile; è piuttosto il potere minaccioso del troisième état.
L'ho chiamato un orco: questo è vero fino all'ultimo detta-

• Per inciso, questo processo di produzione delle sue figure è già sur-
realistico; il vestito reale su una figura irreale provoca il contrasto che noi
abbiamo descritto come surrealista; sebbene il risultato, la figura in sé, sia,
naturalmente, ancora pre-surrealista.

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glio. Guardate i suoi occhi, sono gli occhi di una maschera;
e le maschere non sono mai fatte per dilettare, sempre per
terrorizzare. Non c'è da meravigliarsi che l'Associazione de-
gli Scrittori che aveva ordinato «solo una statua di Balzac»
e si aspettava una sorta di poeta re, rifiutò quasi all'unanimi-
tà di accettare questo lavoro.
È vero, la bruttezza come valore estetico era stata scoper-
ta molto prima. I pittori avevano assaporato la delicata rap-
presentazione di facce brutte fin dal quindicesimo secolo.
Van Eyk era stato maestro in bruttezza - per non parlare di
Velasquez, Brower, Bruegel e così via. Ma quando questi pit-
tori mostravano la bruttezza, lo facevano o per mostrare una
personalità caratteristica, o per indicare la corruzione del-
l'uomo.
Il Balzacdi Rodin non ha queste intenzioni. Egli glorifica
la bruttezza, ne fa un monumento. In termini di storia, Ro-
din fa del volgare uomo l'eroe del secolo. E quando questo
Balzaccompare, lo fa con un significato eminentemente so-
ciale.
Una breve aggiunta storica. Già nel 1~91, Rodin aveva
fatto i primi schizzi per questa opera grandiosa. Nel luglio
1939, 48 anni dopo, esattamente tre settimane prima dell'ini-
zio di questa guerra, la Repubblica francese decise di erigere
la statua - sulla famosa congiunzione del Boulevard Mont-
parnasse con Raspail. Il più corrotto governo di Francia fu
abbastanza cinico da celebrare il più grande smascheratore
di corruzione.

6. Deizzarsi
Quando vi ho detto che ogni tanto Rodin dava un com-
pagno alle sue solitarie figure, ho aggiunto che si atteggiava
a Dio. Questo deizzarsi ha comunque implicazioni molto più
vaste.
Un artista, che lavora su ordinazione, che fa figure per
una chiesa, o monumenti equestri per una piazza pubblica,

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è da un punto di vista sociale un individuo normale quanto
un artigiano, che fa un candelabro per una cappella o una
panchina per un parco. Egli contribuisce. Invece un artista
che non intende il suo prodotto come una parte integrata nel
mondo sociale esistente, si deve sentire come un alienato o
come un uomo che, al posto di contribuire al mondo, deve
crearsi un mondo tutto suo; in breve, come un Dio. E così
si senù Rodin. È questa la ragione per cui l'Ottocento fu così
pieno dei cosiddetti «geni». Non, come vuol farci credere
Emil Ludwig, perché ci fu un'improvvisa pioggia di meteore;
ma perché l'artista, restando al di fuori del mondo sociale,
divenne fuori dal comune. In ogni caso, dato che la ragione
di questo sentirsi simile a Dio deriva dal ruolo generale del-
l'artista nel diciannovesimo secolo, Rodin non fu certo l'uni-
co a «Deizzarsi».
Ma senza dubbio Rodin si spinse molto più in là degli al-
tri. Ritrasse persino se stesso come Dio. Parlo di quel fanta-
stico lavoro che non è chiaro se intende rappresentare la ma-
no di Dio o la sua stessa mano che crea l'uomo. La più im-
pressionante testimonianza di auto-deificazione dell'uomo.
Chiunque incontrò Rodin e lo vide al lavoro lo descrive
come simile a Dio. Isadora Duncan, per esempio, racconta
un aneddoto imbarazzante da ripetere ma troppo caratteri-
stico per venire taciuto. Quando andò a posare per lui, egli
cominciò a manipolare il suo corpo come fosse creta che
avesse un forte bisogno di essere modellata. Se crediamo alla
Duncan, questa manipolazione era solo per modellare e nul-
la più. E se anche fosse stato equivoco, il mito di Pigmalione
dimostra che i due significati non sono poi così distanti tra
loro.
Comunque, nessuno scultore greco avrebbe chiamato il
proprio lavoro «creazione». Faceva soltanto la sua opera
d'arte. E la parola greca per «arte» è techne, tecnica. Solo
nel momento in cui l'artista perse la sua funzione sociale pre-
cisa, egli distinse socialmente il suo modo di produzione da

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qu,ello ordinario. E solo allora la sua attività venne chiamata
«auto-espressione» o «creazione».
Capirete cosa intendo se osservate l'industria cinemato-
grafica. Poiché il loro lavoro è socialmente integrato, poiché
ha una funzione sociale definita (che ci piaccia o no), nessun
produttore o regista direbbe: « Scusatemi, sto solo esprimen-
do me stesso»; o «Spiacente, sto solo creando».
Tra parentesi, gran parte del vocabolario di massa ri-
guardante l' «auto-espressione» e la «creatività» dell'artista
(che tuttora regna sovrano nelle teorie educative ed estetiche
americane) deriva indirettamente da Rodin. Oggi si suppone
che ciascuno abbia diritto all'auto-espressione; e quando
produce qualcosa che non è direttamente utilizzabile dalla
società, è fiero di «creare». Ciò è facile da capire: la produ-
zione odierna è stata talmente alienata e meccanizzata che
difficilmente un lavoro quotidiano è direttamente connesso
con chi lo ha eseguito. Per controbilanciare questa « aliena-
zione» e questa «obliquità» del lavoro, l'uomo cerca di tro-
vare un'attività interamente umana: creazione espressiva; la
quale prova di essere solo l'opposto estremo del fenomeno
dell'alienazione. Per otto ore l'uomo è solo un arnese mecca-
nico: di sera, come hobby, diventa un genio creativo - un
dualismo che già oggi si sta dimostrando una catastrofe per
l'umanità.

7. Cartoni animati
Fin dal tempo della tecnica eg1Z1ana di conservare le
mummie, la scultura è stata una tecnica per immortalare,
una tecnica studiata per contrapporsi alla decadenza della
vita. Da questo punto di vista, tempo, movimento, divenire,
sono solo qualità negative della vita che la scultura cerca di
paralizzare. Il «divenire» doveva essere trasformato in « es-
sere».
Ora guardate le sculture di Rodin. Ciò che egli vuole im-
mortalare è proprio il divenire stesso, lo stesso fattore tempo

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della vita. Vuole persino di più. Cerca di ritradurre la stabi-
lità del corpo in termini di divenire. Le ceste che avete visco,
non sono sostanze, ma processi; ogni faccia sembra essere
una specie di terremoto: colline e valli non hanno ancora tro-
vato la loro forma definitiva, gli scarti della creazione non so-
no ancora stati rimossi; il settimo giorno della creazione non
ha ancora albeggiato.
Di nuovo: Rodin non è certo l'unico a ritradurre «esse-
re» in «divenire».
Fino a un certo punto l'intero movimento impressionista
dissolse l'intero universo sostanziale in un processo, il pro-
cesso di onde luce. Van Gogh dipinge il mondo intero come
se avesse la stessa viscida consistenza della pittura a olio fre-
sca uscita dal tubetto. Ciò che si applica alla pittura, si appli-
ca all'intera civiltà dell'epoca: essa si autodefinì «dinamisti-
ca». La scienza ad esempio, come il filosofo Cassirer scrisse
nel suo libro Substanz-und Funktionsbegri/f[Il concetto di
sostanza e di funzione], ritrasformò la sostanza in funzione.
Il filosofo Bergson, nel 1889 (contemporaneamente alla deu-
manizzazione delle figure da parte di Rodin), aveva interpre-
tato gli organismi come meri argini entro i quali scorre l'eter-
no fiume del plasma germinale dell' élan vita/. Lo stesso si as-
serisce nelle dottrine della vita sociale. La maggior parte
dell'umanità considerò se stessa non come qualcosa che è,
ma come qualcosa che automaticamente diviene, progredi-
sce. Infine: più dura diventava la vita reale, più la vita in se
stessa, il movimento in se stesso venivano deificati - un'atti-
tudine che fu infine adottata e sfruttata dai movimenti fasci-
sti di varie specie.
Dunque, se Rodin è soltanto uno tra queste migliaia di
«dinamisti», perché dovremmo prenderlo così seriamente?
Perché egli è la crisi; perché è l'unico che contribuisce a
questo movimento con mezzi paradossali; con pietra e bron- \
zo cerca di rendere il mondo fluido; vuole nuotare in un
oceano di pietra. Giudicata da questo punto di vista la sua

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intera opera è un gigantesco documento di frustrazione. Ed
è proprio questa frustrazione ad essere così illuminante ed
immensamente espressiva.
La sola cosa che egli vuole trasmettere è il movimento.
Siccome la solidità e la compattezza della figura esclude rea-
le movimento, ci si aspetta che lo spettatore, voi, provvediate
a ciò; siete voi che dovete ritrasformare la «sostanza» in
«funzione»; da voi ci si aspetta che giriate intorno alla figura
e ammiriate il continuo cambiamento di luce, ombra, e for-
ma che si attua durante il vostro movimento. Quindi ognuna
delle sue figure è, per così dire, un involucro di tempo vir-
tuale. Noi dobbiamo realizzare questo tempo.
Poiché ben poche di queste sculture sono concepite per
essere erette e guardate da un punto di vista particolare, tut-
te le parti diventano ugualmente importanti e la scultura
perde il suo fronte principale. Il retro non esiste più (Donna
reclinata)(vd. fig. 10). È semplicemente impossibile scoprire
da che parte la Donna reclinatavuole essere vista, perché an-
drebbe vista da tutte le parti. Mentre il David di Michelan-
gelo o il famoso Laocoonte,per esempio, sono sempre ripro-
dotti frontalmente, tutte le pubblicazioni su Rodin differi-
scono per i punti di vista da cui le sculture sono fotografate.
Se avesse potuto, Rodin avrebbe appeso le sue figure in
spazi vuoti perché le si guardassero da tutte le parti. Questo
non è uno scherzo. Guardate la Figuravolante in cui cerca
di fare a meno della legge di gravità. L'audacia di questo
esperimento non può essere superata; benché possiamo dif-
ficilmente affermare che sia veramente riuscito a rendere l'i-
dea del «volo». La famosa Nike di Samotracia,che pur toc-
cando il suolo sta per sollevarsi verso le nuvole, è molto più
volante di questo pesante bronzo.
È facile capire che fu una tortura per Rodin avere biso-
gno di settimane o mesi o persino anni per fare una singola
istantanea in marmo. La lunghezza del tempo impiegato era
in contrasto con l'effetto del tempo che intendeva dare. Per

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cui egli ricorse a un'altra forma d'arte - aa una wuua -..ieri-
chiedeva soltanto pochi secondi - al disegno. Lo faceva di
sera, come premio per l'afflizione della scultura, per così di-
re. Circondato da una schiera di modelli nudi, girava intorno
a caccia di istantanee ... Instantanés, come le chiamava lui
stesso. Ciò che disegnò, non fu mai un essere umano, solo un
gesto momentaneo.
Guardate quei volti, se ve ne sono, sono soltanto pretesti
per il loro movimento. Guardate quei contorni; sono doppi,
tripli; sono una specie di quadro animato; due o tre differen-
ti contorni per descrivere due o tre differenti fasi del movi-
mento. Cercano di guidarci attorno al corpo. Guardate l'ac-
querello: non copre mai esattamente i contorni; se lo facesse,
proporrebbe una posizione statica in modo troppo definito.
Sono documenti tragici: documenti della disperata gara
tra il movimento della mano che disegna e il movimento vo-
lante del modello.
Schizzi? No, non sono schizzi. Gli schizzi sono fatti co-
me prima veloce preparazione per un quadro elaborato.
Non ci sono pitture elaborate di Rodin. La fretta è, al con-
trario, intesa come il vero e unico modo di cogliere la velo-
cità del modello. Lo schizzo è il quadro stesso.
Si potrebbe chiamarli cartoni animati, tranne per il fatto
che è sempre lo stesso insieme di disegni che Rodin gettava
su un unico foglio.
So che sembra di cattivo gusto nominare insieme August cgl\
Rodine Walt Disney. Non è forse vero che Rodin, malgrado cht
i suoi tentativi rivoluzionari e le sue conquiste, appartiene al- OOI
la genuina tradizione classica? Quei corpi meravigliosi non ail
ricordano le figurine ellenistiche o Tanagra? È vero. Lo fan- ren:
no. Ma lo fanno per l'ultima volta. to
Guardateli. Non sono quadri, né schizzi, e neppure car-
toni animati. Sono la testimonianza unica di un momento
unico nella storia. E qui, per una volta, siamo circondati da ,.
questo unico momento. Cogliamolo. chgd
\erb

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