worth-of-heat-per-second.html e http://www.skepticalscience.com/4-
Hiroshima-bombs-per-second-widget-raise-awareness-global-
warming.html. Un commento al post di John Cook citato sopra
ricorda che John Lyman (University of Hawaii) aveva già utilizzato il
riferimento alla bomba di Hiroshima nel caso della temperatura
dell’oceano, in un’intervista sul suo studio pubblicato sulla rivista
Nature (Lyman et al. 2010); si veda, per esempio:
http://www.livescience.com/6472-study-ocean-warmed-significantly-
16-years.html.
9 Per un’illustrazione della relazione fortemente simbolica – diceva
accelerating-ice-
collapse/utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaig
n=Feed%3A+climateandcapitalism%2FpEtD+%28Climate+and+Cap
italism%29; 2) http://climatecrocks.com/2014/06/02/new-video-
meltwater-pulse-2b/; 3) http://www.skepticalscience.com/global-
warming-vulnerability-greenland-ice-sheet.html; 4)
http://mashable.com/2014/05/20/antarctia-collapse-ice-sheet-how-
worried/?utm_cid=mash-com-Tw-main-link.
6 L’hockey stick graph, concepito da Michael Mann per
“Ogni tanto […] la natura decide di dare un bel calcetto alla bestia
climatica. E la bestia risponde, come fanno le bestie, con violenza e
in modo abbastanza imprevedibile”. Vedi come Chakrabarty riprende
questo passaggio nel suo testo raccolto in Hache 2014.
13 Vedi il capitolo “10.000 a.C. La geologia della morale (per chi si
prende la Terra?)”, in Deleuze e Guattari 2006. La datazione fa
chiaramente riferimento alla Rivoluzione Neolitica e all’inizio
dell’Olocene.
14 Si veda la recente e monumentale sintesi di Brooke 2014.
15 Il termine era già stato suggerito nel 1873 da Stoppani (in Pállson
1996. Ancora una volta vedi Gaston 2013: 99 sgg., per un’analisi
dell’affermazione di Derrida secondo cui la morte dell’Altro è la fine
del mondo.
22 “Bisogna ricordare che l’espressione ‘mondo reale’ è come ‘ieri’ e
‘domani’, in quanto altera il suo significato a seconda del punto di
vista [standpoint]” (Whitehead 1965: 159).
23 Per la distinzione tra il concetto “relativista” di mondo-per-un-
vede chiaramente nella prima parte del film (cfr. Shaviro 2012). Tutto
accade un po’ come ne L’angelo sterminatore di Buñuel, dove un
gruppo di grandi borghesi è rinchiuso in un luogo lussuoso da cui
non riesce a uscire, per motivi altrettanto inesplicabili di quelli del film
di von Trier. (Tuttavia, il contrasto è tra le metaforiche pecore
borghesi del finale del film di Buñuel e i metonimici cavalli apocalittici
di von Trier).
15 Un tipi conico come quello degli indigeni delle praterie
Gil e Patrice Maniglier (in corso di stampa) che, inter alia, apre una
nuova possibilità interpretativa dell’oggetto focale del film, la
capanna magica all’“interno” della quale i personaggi accolgono
l’Evento.
17 L’espressione “regressione tanatotropica” è di Brassier, che la usa
tuttavia in un altro contesto, con un senso principalmente
psicoanalitico, avendo come riferimento la pulsione di morte
freudiana.
18 In questo contesto, vedere i riferimenti di Shaviro (2011) ai lavori
avuto luogo a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. Perlomeno, è ciò
che suggerisce Ubik (pubblicato nel 1969), che inizia con queste
parole: “Alle tre e trenta della notte del 5 giugno 1992, il miglior
telepate del Sistema Solare scomparve dalla mappa situata negli
uffici della Runciter Associates a New York City” (Dick 2003). La data
del 5 giugno, grazie a una delibera dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, è stata fissata (nel 1972) come Giornata
Internazionale dell’Ambiente.
8 Viveiros de Castro 2004.
9 Un altro classico della fantascienza che deve essere qui
umana.
16 Il tema della Singolarità (“il futurismo della West Coast”, Farman
14.
24 Come, per esempio, il 1977, anno drammatico per l’Autonomia
di un sistema dinamico dal suo stato, per cui esso tende a un nuovo
stato di equilibrio accelerando i processi.]
28 Intervista rilasciata a Pierre Gaultier sul libro L’Hypothèse
communiste: http://www.legrandsoir.info/L-hypothese-communiste-
interview-d-Alain-Badiou-par-Pierre.html.
29 Forse Badiou stava pensando a questa frase di Sloterdijk (che per
in questo brano a pagina 77: “Non c’è […] città, ma una grotta dei
filosofi […] una grotta spaziosa dalle prestigiose cristallizzazioni
amorosamente distillate, e simulanti vagamente, con un po’ di buona
volontà, ogni specie di belli oggetti […]. Eppure, tale e quale, simile
fino in fondo alla filosofia che essa accoglie, quest’ampia caverna
[…]” ecc.
34 Il brano evoca varie figure proprie del pensiero di Latour, come
1991: 49).
36 Come in tutti i racconti in cui l’umanità si trova di fronte a
Sudamerica) esiste una parola che può essere tradotta sia come
“essere umano”, sia come “popolo” o “persona”, e che
frequentemente riveste la funzione sintattica o pragmatica di un
pronome (“noi”), prima di essere un sostantivo.
3 Con un certo miglioramento dal punto di vista della morale: il vero
oggi quasi sempre con intento critico (ma vedi l’importante difesa di
Hastrup 1990), lo stile narrativo classico della disciplina, che situa le
descrizioni monografiche in un presente atemporale piú o meno
contemporaneo alla testimonianza dell’osservatore, o che “finge” di
ignorare i “cambiamenti storici” (colonialismo ecc.) che hanno
permesso l’osservazione etnografica. Tuttavia, utilizzeremo
l’espressione in un senso doppiamente inverso a questo, per
designare l’attitudine delle “società contro lo Stato” di fronte alla
storicità. Il presente etnografico è cosí il tempo delle “società fredde”
di Lévi-Strauss, le società anti-accelerazioniste o società lente (nello
stesso senso in cui si parla di “slow food” o di “slow science” –
Stengers), secondo le quali tutti i cambiamenti cosmopolitici
necessari all’esistenza umana hanno già avuto luogo, e lo scopo
dell’ethnos è di garantire e riprodurre questo “sempre-già”.
9 Un metafisico amazzonico potrebbe chiamare questa tesi
vedere un esistente di un’altra specie come umano, ciò vuol dire che
il primo sta per abbandonare la sua posizione di soggetto divenendo
un potenziale oggetto di predazione per l’altro esistente, diventato
soggetto-predatore.
15 La questione di sapere se gli animali sanno che noi sappiamo è
gara delle emissioni pro capite, nel 2007 la Cina ha superato gli Stati
Uniti divenendo il maggiore produttore di anidride carbonica in
termini assoluti. Per una desolante proiezione dell’aumento delle
temperature globali in uno scenario che prende in considerazione la
crescita rapida delle emissioni in paesi come la Cina e l’India, si
veda Anderson e Bows 2011. Gli autori mostrano che, considerate
tali emissioni, gli obiettivi di riduzione stabiliti per i cosiddetti paesi
dell’Annesso I sono irrisori e incapaci di evitare un aumento della
temperatura ben superiore ai 2°C, che è inoltre lontano dall’essere
un limite “sicuro”, come si è creduto finora. Nel panorama mondiale,
il Brasile si è cullato fino a oggi sugli allori della riduzione delle sue
emissioni derivanti dal calo della deforestazione avvenuto tra il 2004
e il 2012; tuttavia, al di là della possibile ripresa dell’aumento della
deforestazione a partire dal 2013 (grazie, tra gli altri fattori,
all’adozione del Novo Código Florestal), le emissioni prodotte dal
settore energetico hanno assunto un’importanza relativa sempre
maggiore. Vedi il sito dell’Observatório do Clima:
http://seeg.observatoriodoclima.eco.br. Osserviamo come l’accordo
di Parigi non menzioni la classificazione dei paesi presente
nell’Annesso I e nell’Annesso II, facendo semplicemente riferimento
a “paesi sviluppati” e “meno sviluppati”.
4 Il celebre entomologo Edward O. Wilson, padre della sociobiologia
species is”).
6 Vedi il paragrafo iniziale della “seconda fase” del Libro
capitolo.
12 Non sarebbe assurdo argomentare che l’immagine dell’umanità, in
tempo della Guerra Fredda, anche nel testo di Anders l’unica specie
la cui estinzione sembra essere in gioco nell’apocalisse atomica è
quella umana. Si veda Danowski 2012a.
14 Oltre al fatto di aver costretto il bestiame a diventare cannibale
(Lévi-Strauss 2001).
15 Questo non ha impedito ad Anders di sottolineare anche una certa
zona grigia nella linea di divisione tra le due “umanità”, visto che, nel
caso della corrida atomica, il fatto che un paese possedesse la
bomba lo trasformava in obiettivo prioritario di altre potenze
atomiche, creando un’insicurezza interna uguale o maggiore di
quella che si incontrava nei paesi che non la possedevano (Anders
2007: 39-40). Nel caso dell’Antropocene, al contrario, la diversità
delle condizioni è, almeno all’inizio, molto piú chiara – i paesi che piú
contribuiscono al riscaldamento globale sono quelli che si trovano,
perlomeno temporaneamente, in una situazione di maggiore
sicurezza, dovuta alle piú ingenti risorse economiche che
permettono di mitigare gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici
sui loro territori.
16 Presso alcuni popoli amerindi, gli incubi devono essere raccontati
di una geohistory.
24 Latour sostiene che anche chi accetta questo consenso, troppo
indigenous peoples?”:
http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/5session_factsheet1
.pdf.
35 Vedi anche Vidal 2003, e alcune foto eloquenti in
https://catracalivre.com.br/geral/arquitetura/indicacao/a-
desigualdade-social-pelo-mundo-captada-em-6-imagens-aereas/#jp-
carousel-649248.
36 [n.d.t.: Recentemente la Nuova Zelanda ha respinto la richiesta di
http://www.foodprocessing.com/top100/top-100-2013/.
51 Si veda un riassunto del dibattito, ancora acceso, sulla
della fine del mondo, il crollo di uno Stato, la fine dello Stato, seguita
dal ritorno all’autodeterminazione dei popoli che gli erano
sottomessi? Se ogni documento culturale, come diceva Walter
Benjamin, è allo stesso tempo un documento della barbarie, allora
ciò si applica ugualmente alle grandi opere, ai monumenti e alle
conoscenze delle civiltà mesoamericane e andine.
54 Ecco cosa pensava il grande teorico del nomos della Terra su
questo processo: “La preminenza spirituale era tutta dalla parte degli
europei, e in maniera cosí evidente che il nuovo mondo poté
semplicemente essere ‘preso’” (Schmitt 1998: 151). Sarebbe un’eco
della perversa formulazione hegeliana secondo cui la civiltà
americana “doveva soccombere non appena si approssimasse allo
Spirito”?
55 Vedi Viveiros de Castro 2011b.
Il mondo in sospeso
Volere la guerra contro le guerre future e passate,
l’agonia contro tutte le morti, e la ferita contro tutte
le cicatrici, in nome del divenire e non dell’eterno.
Deleuze e Guattari
Fino a qui, abbiamo evocato tre autori che ci hanno guidato per
buona parte del nostro percorso, ma dobbiamo attirare l’attenzione
su un ultimo nome del tutto essenziale, quello di Isabelle Stengers. È
da qualche anno, perlomeno dopo il suo libro Au temps des
catastrophes. Resister à la barbarie qui vient (Stengers 2009), che
questa pensatrice ha messo in evidenza, cosí come Latour1, la
figura ambigua e complessa di Gaia, personaggio chiave per la
comprensione del significato di questo nostro “tempo delle
catastrofi”. La Gaia di Stengers, tuttavia, non è la stessa entità
evocata da Latour. Innanzitutto è il nome di un evento, l’“intrusione”
nella nostra storia di un tipo di “trascendenza” che non possiamo piú
ignorare: l’orizzonte cataclismico definito dal riscaldamento globale
antropogenico. Gaia è l’evento che mette in pericolo il nostro mondo,
il solo che noi abbiamo, e dunque… (Stengers 2013b: 135). Come
vedremo, è precisamente di fronte a questo “dunque” che bisogna
fermarsi a riflettere; pensare alle conseguenze, strettamente legate
all’estensione politica che dobbiamo dare a questo “noi”, che si
possono trarre da tale dunque.
Gaia è la trascendenza che, in maniera brutalmente implacabile,
risponde alla trascendenza, altrettanto indifferente perché
brutalmente irresponsabile, del Capitalismo. Se l’Antropocene, nel
senso di Chakrabarty o Latour, è il nome di un effetto che riguarda
tutti gli abitanti del pianeta, la Gaia di Stengers2 è il nome di
un’operazione, nel senso di un effetto che, a sua volta, tale effetto
deve suscitare su coloro che lo hanno causato:
Il disordine climatico e l’insieme degli altri processi che
avvelenano la vita sulla Terra e che hanno un’origine
comune in quello che si [on] chiama sviluppo, riguardano
certamente tutti coloro, dai pesci agli uomini, che la abitano.
Ma nominare Gaia è un’operazione che si indirizza a “noi” [i
Moderni], che cerca di suscitare un “noi” al posto di un “si”
[on]. (ivi: 115)
Stengers attira qui l’attenzione sulla Grande Divisione che ha
opposto, nel corso degli ultimi secoli, i “popoli” che vivevano una
relazione onirica, fantasmatica con la Terra, e un “noi” che credeva
di essere un “si” impersonale (in francese on), una Terza Persona
astratta, un punto di vista anonimo da cui si, o meglio, da cui homen
– il pronome indefinito del portoghese arcaico apparentato al
francese on 3 – apprendeva l’essenza reale della natura, e del quale
i Moderni erano gli attenti custodi. “Gaia”, dunque, ci riguarda: prima
di tutto riguarda “noi uomini”, coloro che si sono considerati le teste
pensanti dell’umanità e che si sono dati come missione quella di
civilizzare e modernizzare tutti gli altri popoli del mondo –
ricavandone dei buoni profitti, beninteso. Stengers, in una formula in
cui si incrociano il discorso di Latour e un’affermazione cruciale di
Deleuze e Guattari, sembra dire: è tempo di fare in modo che gli
Umani riconoscano che non sono responsabili dei Terreni, ma che
sono soprattutto responsabili dinanzi ai Terreni. Non c’è
negoziazione possibile senza quest’ammissione preliminare, e non
si troverà un accordo essenziale con Gaia finché non ci si
convincerà che non è possibile alcun accordo con la logica
assolutamente non addomesticabile del capitalismo.
Forse, ancora piú importante di questa prima differenza di
Stengers rispetto alla Gaia di Latour è ciò che viene suggerito dal
sottotitolo del suo libro del 2009: il richiamo che ci ingiunge che da
adesso in poi dovremo fare sempre attenzione a Gaia è, allo stesso
tempo, un promemoria per resistere alla barbarie che viene. Sia il
verbo “resistere” che l’uso al presente della relativa “che viene”
possono essere opposti all’idea di Latour secondo cui ci troviamo di
fronte a una guerra che può condurci alla pace. Gaia, per Stengers,
non è pensata come “ciò che deve unire tutti i popoli della Terra”
(2013b: 117), non è un nome che implica appartenenza e unione,
ma intrusione e malessere. Gaia è l’appello a resistere
all’Antropocene, a imparare a vivere con esso ma contro di esso,
contro noi stessi. Insomma, siamo “noi” il nemico – noi gli Umani.
Come Latour aveva già osservato nelle Gifford Lectures,
l’Antropocene segna in verità la fine dell’Umano e l’inizio di un
dovere, quello che Stengers chiama “sognare altri sogni” (ivi: 125):
Fino a quando – che sia per promuoverlo o per decostruirlo
– saremo infestati dal modello ideale di un sapere
razionale, oggettivo, suscettibile di mettere d’accordo tutti i
popoli della Terra, resteremo incapaci di stabilire con questi
altri popoli dei rapporti degni di tale nome. (ivi: 124)
Osserviamo che, per Stengers, l’uso di “Gaia” si è rivelato un
importante antidoto al concetto di Antropocene, posizione che la
avvicina ad autrici come Donna Haraway ed Elizabeth Povinelli,
perché il concetto di Antropocene porta con sé il pericolo di far
passare di contrabbando, nel suo significato meramente denotativo
di un’epoca geologica – di cui nessuna di queste autrici mette in
dubbio la minacciante realtà –, una metafisica antropocentrica
(Haraway) o anche erroneamente biocentrica (Povinelli), nella
misura in cui attribuisce all’Homo sapiens un potere “destinale” sulla
storia del pianeta – poco importa (o tanto meglio?) che si tratti di un
potere distruttivo –, facendo astrazione dagli interessi che legano la
nostra specie a innumerevoli altre e che si sviluppano anche altrove,
in reti, luoghi, scale e dimensioni molto lontane dalla nostra
giurisdizione epistemologica e immaginazione tecnologica. In questo
senso, la Gaia di Stengers e i concetti di “staying with the trouble” o
di “becoming with” di Haraway (2013), cosí come le “geontologie” di
Povinelli (2013) ispirate ai mondi aborigeni australiani, possono
essere definite trasformazioni innovatrici dello schema mitico del
“mondo senza umani”: nel senso che il mondo, in quanto multiverso,
è esso stesso attraversato da molteplici ontologie non umane e
implicato in un divenire che esige da noi il fatto di imparare a
seguirlo; e nel senso che gli Umani devono fare spazio a coloro che
Latour ha chiamato i Terreni, ovvero a tutti gli esistenti come parti del
mondo, a quegli innumerevoli punti di vista il cui intreccio costituisce
il mondo e che sono, in quanto tali (ammesso che sia possibile
pensarli “in quanto tali”), delle espressioni monadologiche
discordanti di un Mondo che non ha antonimo né antagonista,
poiché non si costituisce come un Oggetto in attesa di un Soggetto
che gli conferisca unità sintetica da una prospettiva trascendente. Il
mondo “senza l’Uomo” di un Antropocene vissuto nel modo della
resistenza corrisponderebbe cosí al mondo “composto di persone”
delle cosmogonie amerindie: la trascendenza definitiva di Gaia
diviene indistinguibile dall’immanenza antropogeomorfica originaria
postulata dai “popoli di Pachamama”.
§ Pachamama, la “Madre del Mondo-Tempo”, è una divinità
che, almeno in origine, non possedeva attributi per noi
tipicamente “materni”, come d’altronde nessuna delle
divinità terrene delle culture andine e mesoamericane. È
stata addomesticata dopo la Conquista attraverso
un’assimilazione alla Vergine Maria; con la New Age, la sua
immagine di “Buona Madre Terra” si è consolidata, non
senza una certa perplessità e/o adesione metaculturale (un
“pachamamismo strategico”?) da parte degli indigeni degli
altipiani del continente. La sorte della nozione,
nell’immaginario politico ufficiale degli attuali paesi andini, è
stata ampiamente discussa. (Sull’argomento, vedi il libro
etnograficamente ricchissimo, ma dalle intenzioni
“demistificanti” un po’ scomode, di Galinier e Molinié 2006).
Malgrado tutti gli equivoci, una delle virtú di Pachamama
rispetto a Gaia – ma ammettiamo che è insufficiente per
spezzare una lancia in suo favore – è che, perlomeno, non
parla greco. Ancora un piccolo sforzo necessario per fare
spazio agli altri… Non è certamente un caso che tutto il
vocabolario messo in campo dall’attuale crisi del pianeta
provenga, come d’altronde le ultime due parole (crisi e
pianeta), dalla nostra antica lingua mitica: Antropocene,
Gaia, catastrofe, cataclisma, apocalisse… (Bruno Latour va
qui ancora piú a fondo con la sua trinità demos, nomos,
theos). Siamo in attesa del giorno in cui il riscaldamento
globale, avendo raggiunto il livello incendiario di +8°C, sarà
chiamato ekpyrosis, preferendo questa parola al buon
vecchio termine latino “conflagrazione”…
In totale divergenza con gli “eliminativismi” fisicalisti o con i
dualismi “spiritualisti”, ma anche, e perché no, con la cosiddetta
dialettica “correlazionista”, la relazione tra l’umanità e il mondo
comincia cosí a poter essere pensata come la relazione che lega il
singolo lato del nastro di Möbius a se stesso; una figura non
orientabile in cui l’inseparabilità del pensiero e dell’essere,
dell’animato e dell’inanimato, della cultura e della natura non è simile
all’inseparabilità logica o formale delle due facce della stessa
medaglia (per inciso, di cosa sarebbe fatta questa medaglia?), ma è
al contrario consustanzialità, unicità completa e reale, come appunto
nel caso della superficie del nastro di Möbius4. Umanità e mondo
sono letteralmente dalla stessa parte; la distinzione tra i due “termini”
è arbitraria e impalpabile: se si comincia il percorso partendo
dall’umanità (dal pensiero, dalla cultura, dal linguaggio, dal “dentro”),
si arriva necessariamente al mondo (all’essere, alla materia, alla
natura, al “Grande Fuori”) senza incrociare nessuna frontiera, e
viceversa. La formula magica “Pluralismo = Monismo” ricercata da
Deleuze e Guattari (2006: 56), quando viene pronunciata da uno
stregone alla Tarde o da uno sciamano amerindio suona anche
come “Panpsichismo = Materialismo”5.
Coloro che si trovano dall’“altra parte”, che si vogliono al di fuori
della superficie unica umanità-mondo e si vedono investiti dalla
missione di tagliare questo nastro di Möbius con le cesoie
moderniste della “vocazione denaturalizzante dell’umanità” – sono
proprio loro i nemici. Il problema, lo abbiamo già notato, è che questi
nemici si trovano, perlomeno rispetto alle vecchie modalità di
organizzazione dello spettro politico, sia a sinistra che a destra.
Vediamo oggi proliferare – ma, ancora una volta, è sempre stato
cosí – le accuse reciproche lanciate da coloro che pretendono di
essere gli eredi del classico sogno politico che definisce la sinistra:
“un altro mondo è possibile”. Non ci priveremo qui del piacere di
unirci a questa giostra di accuse. Se questo saggio vuole essere,
prima di tutto, una descrizione iniziale di quello che noi consideriamo
come il gigantesco lavoro dell’immaginazione contemporanea per
produrre un pensiero e una mitologia adeguata al nostro tempo, ciò
non ci impedisce – e, in maniera piú evidente, non ci ha impedito –
di prendere partito per alcune di queste versioni.
Uno dei dibattiti piú appassionanti attualmente in corso ruota
intorno alla velocità della storia e alla sua variazione. Si tratta della
divergenza tra la corrente filosofica (metafisica, politica, estetica) che
propone un’economia politica dell’accelerazione e i partigiani di
un’ecologia politica del rallentamento (ralentissement), su cui
Isabelle Stengers insiste molto (2009, 2013b), e che si sviluppa con
temi comuni a Latour quali l’“esitazione”, l’“attenzione”, la
“diplomazia” e la necessità di “fare spazio agli altri” [faire la place
aux autres]6.
Nel primo Manifesto accelerazionista citato in precedenza7, gli
autori fanno un’osservazione, a nostro avviso, di grande importanza:
Crediamo che la principale frattura della sinistra
contemporanea sia quella che si è prodotta tra coloro che
sono legati a una politica folk fatta di localismo, azione
diretta e orizzontalità intransigente da un lato, e coloro che,
al contrario, articolano ciò che possiamo chiamare una
politica accelerazionista, che si sente a proprio agio [at
ease with] nell’atmosfera di una Modernità definita
dall’astrazione, dalla complessità, dalla globalità e dalla
tecnologia. (Williams e Srnicek 2013: 3.1)
Per quanto ci riguarda, pensiamo che questa diagnosi sia, grosso
modo, corretta: è proprio questa, di fatto, la frattura piú importante
della “sinistra”. Quello che consideriamo per niente corretto è, sia
chiaro, l’ovvio giudizio di valore contenuto nel paragrafo e sviluppato
nel Manifesto, secondo cui la prima opzione – tacciata di essere, in
senso peggiorativo, una “politica folk del localismo” ecc. – è
retrograda e conservazionista, mentre la seconda si configurerebbe
come la sola capace di condurci in un paradiso postindustriale in cui
i fusi non solo lavoreranno da soli, ma anche senza avere
all’apparenza nessun impatto concreto; dopotutto, l’epoca si
definisce in base all’astrazione. La Tecnologia provvederà.
Come abbiamo già detto, ci sembra che sia esattamente questa
“politica accelerazionista”, ispirata in modo esplicito all’escatologia
eurocentrica del Progresso, a mostrarsi nostalgica di un passato
razionalista, imperialista e trionfalista – “la sinistra deve connettersi
nuovamente con le sue radici illuministe” (Srnicek, Williams e
Avanessian 2014) –, come pure ci sembra che la persistenza della
sua fede nelle virtú liberatrici dell’“automazione” e del progresso
tecnico in generale richieda un gigantesco “punto cieco” situato
proprio al centro della sua visione futurologica: precisamente,
l’intrusione di Gaia.
I manifesti insistono sulle virtú dell’accelerazione tecnologica
senza proferire parola sulle condizioni materiali – energetiche,
ambientali, geo-politiche ecc. – di un tale processo che, pensano gli
autori, condurrebbe “automaticamente” alla riduzione della giornata
lavorativa (anche in Bangladesh? quando?), all’aumento del tempo
libero (la società dello spettacolo esce allo scoperto!)8, al reddito
universale ecc.:
Contrariamente a chi, nell’intero spettro politico, si diletta
fantasiosamente con soluzioni locali, di piccola scala, alle
nostre molteplici crisi, [pensiamo che la situazione] richieda
di sottomettere il nostro mondo complesso, astratto e
multiscalare a una re-ingegnerizzazione, senza cercare di
semplificarlo attraverso un qualche schema precostituito. Al
posto delle soluzioni politiche folk, dovremmo lottare per
l’automazione integrale del lavoro, per la riduzione del
numero dei giorni lavorativi, per il reddito minimo
universale9. (ivi)
Riguardo all’altra accelerazione, quella relativa ai processi di
superamento dei valori critici dei parametri ambientali – quando
raggiungeremo i +4°C, che forse saranno +6°C o +8°C? Quando
esauriremo le scorte di pesci? Quando la foresta amazzonica si
trasformerà in un’arida savana facilmente infiammabile? Quanti
milioni di rifugiati climatici invaderanno la Fortezza Europa?10 –,
essa viene menzionata in modo frivolo, per non parlare di puro e
semplice negazionismo: “Oggi è senso comune presumere che il
cambiamento climatico e i suoi effetti devasteranno l’ambiente…”
(ivi; corsivo nostro).
Come direbbe Stengers, “i nostri sogni di liberazione ci
contrappongono gli uni agli altri” (2013b: 124). In effetti… È curioso
osservare come gli accelerazionisti, riguardo alla necessità di una
tensione esplosiva del capitalismo verso una maggiore
deterritorializzazione e un’assoluta decodifica dei flussi, sostengano
di aver trovato la loro principale fonte di ispirazione in un passaggio
dell’Anti-Edipo, pur avendo optato al tempo stesso per una
concezione inequivocabilmente maggiore e maggioritaria della
politica, dell’economia e, soprattutto, dei destinatari virtuali del loro
messaggio. I loro discorsi non mobilitano, in generale, nessuna
categoria sociopolitica che non sia “il capitalismo”, “il lavoratore”, “la
civiltà globale”, “l’umanità”, “le masse”. L’esistenza e la resistenza di
altri collettivi fuori dal circuito narcisistico del “Noi” viene ignorata (o
forse, relegata nella categoria del “folk”); la ragione, senza dubbio,
risiede nel fatto che, agli occhi degli accelerazionisti, l’alterità
sarebbe scomparsa dalla superficie della Terra, e che tali popoli non
esisterebbero piú in quanto poli di articolazione di altri “Noi”; o forse,
perché ciò che resta di loro perirà comunque nelle fiamme della
conflagrazione redentrice che “ci” precipiterà verso il millennio
postcapitalista. Con la loro politica avanguardista, un po’ stile
illuminati, di “esclusione non-esclusiva”, propongono quanto segue:
Dobbiamo lasciarci alle spalle l’esagerata valorizzazione
della democrazia-in-quanto-processo. La feticizzazione
dell’apertura, dell’orizzontalità e dell’inclusione di una
buona parte della sinistra “radicale” odierna prepara il
terreno all’inefficacia politica. Il segreto, la verticalità e
l’esclusione hanno anch’essi il loro spazio nell’azione
politica effettiva (sebbene, chiaramente, questo spazio non
sia esclusivo)11. (Williams e Srnicek 2013: 3.13)
Gli autori dei Manifesti accelerazionisti non solo tacciono a
proposito di tutti gli innumerevoli collettivi-soggetto che restano altri –
i popoli per cui la sussunzione reale universale non si è ancora
trasformata in sottomissione morale incondizionata –, ma danno
anche prova di un oblio, tutto sommato completamente umanista,
delle innumerevoli entità, lignaggi e società non umane che
costituiscono il pianeta. Esistono per caso animali accelerazionisti, al
di fuori di quelli che aspettano la propria morte nei macelli o nelle
fabbriche di latte e uova? Crediamo proprio di no. Al contrario,
constatiamo che vi è abbondanza di macchine folk in questo vasto
mondo, lente ma molto efficaci, dal funzionamento interamente
“locale” (anche la famosa macchina universale di Turing-von
Neumann ha sempre bisogno di una “realizzazione” materiale, e
dunque locale, per funzionare). Non abbiamo il minimo dubbio che
questo tipo di macchine non siano neanche lontanamente sufficienti
a sostenere i giganteschi processi sociotecnici in corso. La
questione è sapere se non siano, per imperativi di altro ordine –
quelli che si possono riassumere sotto il nome di Gaia – sempre piú
necessarie, indispensabili, sempre piú nel nostro futuro piuttosto che
nel nostro passato12.
Gli accelerazionisti, insomma, sentendosi a modo loro piú furbi,
intendono trovare un accordo con il capitalismo nella speranza di
trascenderlo, cosí da sfuggire al suo potere di cattura propriamente
spirituale (incantamento, vampirismo, zombificazione)13. Il problema,
se si segue l’argomentazione di Stengers, è che non ha senso
trovare un accordo con il capitalismo: si tratta solo di combatterlo.
Gaia, invece – che è un concatenamento materiale indifferente
piuttosto che un potere spirituale maligno – è qualcosa contro cui
non ha alcun senso lottare, ma con cui occorre trovare una
composizione, perché la sua trascendenza intrusiva ha reso
derisorie, d’ora in avanti, le versioni epiche o eroiche della storia
umana, obbligandoci a pensare una situazione inedita per la
modernità, la mancanza di scelta:
[E] forse il primo passo consiste innanzitutto
nell’abbandonare senza nostalgia l’eredità di un XIX secolo
abbagliato dal progresso delle scienze e delle tecniche,
rompendo il legame stabilito tra emancipazione e ciò che
chiamerei una versione “epica” del materialismo: una
versione che tende a sostituire alla favola dell’Uomo “creato
per dominare la natura” l’epopea di una conquista della
natura stessa attraverso il lavoro umano. Definizione
concettuale seducente, che implica però la scommessa in
una natura “stabile”, disponibile a tale conquista. (Stengers
2009: 72)
L’aspirazione sempre legittima (o no?) all’“emancipazione” deve
cosí essere radicalmente svincolata dal machismo antropologico
implicato nell’idea della conquista epica della natura e dai significati
che il XIX secolo ha attribuito alla nozione di “progresso”, significati
che gli accelerazionisti, da incorreggibili passatisti, vogliono
preservare. Pensando il mondo come trascendentalmente
eterogeneo all’Uomo, i Moderni lo hanno empiricamente pensato
come “gratuito”, come cosa infinitamente appropriabile e
inesauribile. Il costo materiale della libertà non gli è affatto passato
per la testa – forse pensavano che bastasse tagliare quella di
qualche capitalista… Come osserva Chakrabarty (2009: 208):
Nessuna discussione sulla libertà, dal periodo dei Lumi fino
a oggi, ha tenuto conto della capacità di intervento
geologico che gli esseri umani acquisivano nel momento in
cui conquistavano la loro libertà – visto che i due processi
erano intimamente legati. I filosofi della libertà erano
principalmente, e in modo del tutto comprensibile, ansiosi di
sapere come gli esseri umani potessero sfuggire
all’ingiustizia, all’oppressione, all’ineguaglianza e addirittura
all’uniformità che imponevano loro altri esseri umani o i
sistemi creati dagli uomini. […] Il periodo che ho in mente,
dal 1750 a oggi, è stato anche il periodo in cui gli esseri
umani sono passati dall’uso del legno e di altri combustibili
rinnovabili a quello, impiegato su vasta scala, dei
combustibili fossili – all’inizio il carbone, e in seguito il
petrolio e il gas. L’edificio delle libertà moderne si appoggia
su un consumo crescente di combustibili fossili. La maggior
parte delle nostre libertà sono dipese, fino a oggi, da un uso
intensivo di energia.
Ecco perché il nome di Gaia è una provocazione antimodernista,
un modo di mettere a nudo la posizione “quasi negazionista”
(Stengers 2013a: 177) degli araldi dell’“accelerazione di sinistra” –
una posizione che, curiosamente definita da Badiou come
“affermazionista”, teme che l’intrusione di Gaia disturbi il sogno della
perfetta libertà, quella libertà che risulta da un dominio prometeico
capace di condurci a uno stato ontologicamente disincarnato, a una
trasfigurazione tecno-angelica. È il caso di domandarci chi è che stia
fumando oppio in questi ultimi tempi.
Infine, passiamo rapidamente alla questione dell’urgenza, nel
senso della rapidità che la situazione impone all’azione nel presente,
considerato quanto già avvenuto nel passato. Abbiamo visto che
Stengers esitava, giustamente, di fronte alle conseguenze (e
dunque…) che si dovevano trarre dal fatto che Gaia fosse una
minaccia urgente e globale. Il senso dell’urgenza si lascia facilmente
rovesciare, secondo Stengers, in una macropolitica di unificazione
prematura e autoritaria del mondo e dell’anthropos. L’autrice teme, in
particolare, la possibilità che le scienze siano nuovamente mobilitate
per legittimare una specie di “ecologia di guerra”, uno stato
d’eccezione decretato da una qualche istanza sovranazionale,
chiaramente sotto il controllo dell’establishment geopolitico, che
aggancerà con ancor piú fermezza la ricerca scientifica
contemporanea alla macchina divoratrice d’energia che muove
l’economia planetaria – al di là o al di sotto, sia detto di passaggio,
dei sogni di universalizzazione liberatrice promossa dall’avvento di
un’“economia immateriale”. L’appello all’urgenza potrebbe
semplicemente mascherare una grandiosa espansione del vangelo
diabolico dello “sviluppo” (ora verde, sostenibile, a investimento
elevato di capitale cognitivo – oltre che materiale, chiaramente)14,
con un Mercato sostenuto dai decreti e dagli eserciti di uno Stato
mondiale in grado di imporre un silenzio politico ancora piú assoluto
su tutti coloro – popoli, persone, paesi – che soffriranno le
“sfortunate ma necessarie conseguenze” delle decisioni prese in
nome dell’urgenza. Stengers avvisa: “È evidentemente legittimo
avvertire l’urgenza, ma il pericolo è quello di lasciare da parte, in
nome di essa, la questione di cosa accadrà quando tale urgenza
sarà infine riconosciuta” (2013b: 141). Ecco perché insiste tanto, e a
ragione, su quel “rallentamento cosmopolitico” del processo politico
che ci sembra essere il corrispettivo – o, per meglio dire, la
condizione – di un non meno necessario (e urgente!) rallentamento
dell’economia mondiale; detto meglio, di una redistribuzione radicale
dei tassi di “crescita” legittimamente (o meno) perseguiti dalle
differenti economie nazionali, di un nuovo e profondo orientamento
del modello di evoluzione tecnologica delle “forze produttive” e di
un’ampia apertura dialogica, una conversazione letteralmente
diplomatica con i popoli umani e non umani che attendono con ansia
l’arrivo delle implacabili conseguenze dell’irresponsabilità dei
Moderni. Questo ralentissement, questo rallentamento
cosmopolitico, sostiene Stengers, “appartiene allo stesso mondo che
ha inventato la politica come affare che riguarda i soli esseri umani”
– abbiamo già visto che questo non è il caso di numerosi altri mondi
“umani” svelati dall’antropologia – e dunque “risponde a un problema
che è nostro: le conseguenze atroci che il compimento di Gaia
potrebbe scatenare, nel caso in cui tale risposta venga prodotta nel
modo dell’urgenza” (ibid.; corsivo nostro).
Riconosciamo che, in qualche modo, gli Umani (nel senso di
Latour) hanno già perso la guerra; il loro mondo è già finito. I Terreni,
al contrario, non possono perdere la guerra – nei due sensi,
imperativo e constativo, di questo “non potere”. Resta da vedere
quanti esseri umani (nel senso di Linneo) resteranno nel campo
terrestre, nei decenni a venire.
Credere al mondo
Un topos che si ripete con curiosa frequenza nei discorsi sulla crisi
ambientale, sia tra coloro che riflettono sui possibili percorsi per
affrontare la catastrofe che è già tra noi, sia tra quelli che credono
nell’entusiasmo imminente di un nuovo stadio ontologico (gli
accelerazionisti di sinistra e di destra), sia infine tra gli adepti del
business as usual e del “drill, baby, drill”, è che “la storia non
cammina a ritroso”, che “non si può tornare all’Età della Pietra” (o al
Medio Evo, al tempo di Adamo ecc.). Come mai in tanti, da una
parte e dall’altra (e dall’altra ancora), sembrano essere d’accordo su
questo punto: “non si può tornare indietro”? Poiché qui non si sta
parlando della palpitante questione fisica che riguarda il senso della
“freccia del tempo”, dato che evidentemente non possiamo tornare
indietro cronologicamente – perlomeno secondo la vulgata
ontologica in vigore, che non abbiamo motivo di confutare in questo
contesto –, occorre domandarsi che cosa ci sia di non evidente in
questa frase cosí spesso ripetuta: cos’è che la rende cosí attraente
o, piuttosto, cosa ci sarebbe di cosí scioccante nel mettere in dubbio
la sua pertinenza?
Avremmo due cose da dire in proposito, per terminare questa
incursione attraverso le mitologie attuali sulla fine del mondo e
dell’umanità. In primo luogo, che l’incapacità di elaborare il lutto di
ciò che è già morto è terribile; piú precisamente, mortale. Ogni
giorno che passa, vediamo confermarsi l’impressione che stiamo già
vivendo, e che vivremo sempre di piú, in un mondo radicalmente
diminuito. Come sostenevamo in precedenza, è molto probabile che
la riduzione di scala delle nostre pretese e ambizioni presto non sarà
piú solamente un’opzione.
In secondo luogo, ciò non significa che siamo qui semplicemente
per constatare che il mondo è già finito, sta finendo o finirà. Ci sono
numerosi mondi nel Mondo15. Prima si diceva che abbiamo molto da
imparare dai popoli minori che resistono in un mondo impoverito,
che non è nemmeno il loro. Ricordiamoci ancora una volta del film di
Lars von Trier Melancholia e della fragilità e trasparenza della
piccola capanna della “zietta spezza-acciaio”. Niente sembra piú
inutile e piú patetico di questo rifugio puramente formale, questa
brutta copia del tipi indigeno, e del piccolo rituale che vi si svolge per
qualche secondo appena. Tuttavia, quel che accade al suo interno è
forse molto piú di un “mero” rituale inutile e disperato: si tratta di un
magistrale bricolage, di una soluzione di emergenza, di un concetto-
oggetto selvaggio che esprime una percezione acuta della natura
essenzialmente tecnica, tecnologica, del gesto rituale efficace – la
capanna è la sola cosa, in quel momento, in grado di trasformare lo
shock al quale non si può sfuggire (il dunque… di Stengers) in un
evento, nel senso che Deleuze e Guattari (1996: 153) danno a
questo concetto: “la parte che in tutto ciò che avviene sfugge alla
sua propria attualizzazione”. Qui, in questa capanna quasi
puramente virtuale, l’interno e l’esterno divengono indistinguibili e,
come nella macchina del tempo dell’omonimo libro di H.G. Wells
(ancora un grande mito sugli uomini senza mondo del futuro),
passato, presente e futuro divengono interscambiabili. In altre
parole, quello che accade nella capanna, il passaggio, è
un’operazione di decelerazione, di rallentamento, che permette di far
emergere una dimensione paradossale del tempo, di suscitare un
cambiamento nell’ordine del senso “tale che il tempo si interrompe
per riprendere su un altro piano” (Zourabichvili 2012). Tempo morto
(Deleuze e Guattari 1996: 155), come quello del Cavallo di Torino, in
cui nulla accade, ma attraverso cui passa il carro degli tzigani, su un
piano del tutto altro (Crisippo: “Se tu dici un carro, un carro passa
quindi per la tua bocca” – Deleuze 2005: 16): il piano dell’evento e
del divenire.
Cosí come un giorno abbiamo avuto orrore del vuoto, oggi
proviamo ripugnanza a pensare il rallentamento, la regressione, la
ritirata16, la limitazione, la frenata, la decrescita, la discesa – la
sufficienza. Tutto ciò che rimanda a uno di questi movimenti
indirizzati verso una sufficienza intensiva del mondo (piuttosto che a
un superamento epico dei “limiti” che vada alla ricerca di un
ipermondo) è tacciato molto rapidamente di localismo ingenuo,
primitivismo, irrazionalismo, cattiva coscienza, sentimento di colpa o,
addirittura, di dissimulare tendenze fasciste17. A causa di tutte le
forme assunte oggi dal pensiero dominante tra “noi”, solo una
direzione è pensabile e desiderabile, quella che conduce dal
“negativo” al “positivo”: dal meno al piú, dal possesso di pochi alla
proprietà smisurata, dalla “tecnica di sussistenza” alla “tecnologia di
punta”, dal nomade paleolitico al cittadino cosmopolita moderno,
dall’indio selvaggio al lavoratore civilizzato (Danowski 2012b). Cosí,
quando alcune comunità contadine “in via di modernizzazione”
decidono di divenire nuovamente indigene, dimostrando davanti a un
giudice la loro continuità storica con i popoli nativi ufficialmente
estinti, come stanno facendo molte popolazioni rurali in Brasile dopo
la promulgazione della Costituzione del 1988 – che ha concesso
diritti collettivi di possesso della terra agli indios e ai discendenti
degli schiavi insediati nelle campagne –, la reazione scandalizzata e
furibonda delle classi dominanti è stata uno spettacolo imperdibile.
Purtroppo, non si potrà ridere ancora a lungo di coloro che
continuano a utilizzare la frusta; la collera, sommata all’avidità di chi
ha bisogno di cancellare l’alterità, si sta traducendo in un’offensiva
concertata dai grandi proprietari terrieri – e dai loro partner, clienti e
padroni – contro gli indios e gli altri popoli tradizionali del paese,
attraverso vie legali e illegali, legislative e criminali.
Accade cosí che l’unica possibilità (e desiderio) per un individuo o
per una comunità sia quello di smettere di essere indio; è impossibile
(e ripugnante) divenire nuovamente indio (Viveiros de Castro 2006):
come può qualcuno desiderare il passato come futuro? Ebbene,
forse lo scandalo ha la sua ragion d’essere: forse è impossibile
ridivenire storicamente indio; ma è del tutto possibile, ed è ciò che
sta effettivamente accadendo, un divenire-indio, locale e globale,
particolare e generale, un incessante ridivenire-indio che sta
prendendo d’assalto importanti settori della “popolazione” brasiliana
in un modo completamente inaspettato. È uno degli eventi politici piú
significativi di cui siamo testimoni nel Brasile odierno e sta
contaminando, un po’ alla volta, un numero sempre maggiore di
popoli brasiliani, oltre a quelli indigeni. Il Brasile è un gigantesco
Aldeia Maracanã18; qui, tutti sono indios, eccetto chi non lo è. E tutti
noi sappiamo bene chi è indio e chi non lo è, e dove si trova19.
È in questo senso, infine, che gli indios, il “popolo di Pachamama”
per riprendere il tono delicatamente ironico di Latour, non sono gli
unici Terreni, ma hanno senza il minimo dubbio il pieno diritto di
condividere questo titolo. I popoli autoctoni del continente americano
– i collettivi di esseri umani e non umani la cui storia risale a millenni
prima dello scontro con il pianeta Merce – non sono che una piccola
parte della Resistenza Terrena contemporanea, un ampio
movimento clandestino che comincia appena a essere visibile sul
pianeta invaso dai Moderni: in Africa, in Oceania, in Mongolia, nei
vicoli, nei sotterranei e nelle segrete della Fortezza Europa. Non
sono realisticamente in grado di prendere l’iniziativa per nessun
combattimento finale, per nessun Armageddon cosmopolitico; e
sarebbe ridicolo immaginarli come il seme di una nuova
Maggioranza. Soprattutto, non dobbiamo sperare che possano
accorrere a salvarci, a redimere o a giustificare gli “Umani” che li
perseguitano implacabilmente da cinque secoli. Stanchi di una storia
fatta di perfidi e continui tradimenti, forse non sono molto disposti a
“negoziare” nessuna pace cosmopolitica, e ci manderanno
meritatamente al diavolo. Tuttavia, oltre a restare una componente
cruciale della megacultura demotica delle tre Americhe, e a essere
perciò capaci di generare linee di fuga potenti, inattese e di impatto
mondiale, una cosa è certa: i collettivi amerindi, con le loro
popolazioni comparativamente modeste e le loro tecnologie
relativamente semplici, ma aperte a concatenamenti sincretici ad
alta intensità, sono un’“immagine dell’avvenire” (Krøijer 2010) e non
una sopravvivenza del passato. Maestri del bricolage tecno-
primitivista e della metamorfosi politico-metafisica, sono in verità una
delle possibili chance per la sopravvivenza del futuro20.
Parlare della fine del mondo non significa parlare della necessità
di immaginare un nuovo mondo al posto di quello presente, ma un
nuovo popolo; il popolo che manca. Un popolo che crede nel mondo
e che lo dovrà creare con ciò che gli lasciamo del mondo. E
concludiamo con Gilles Deleuze, questo nipote uterino di Oswald de
Andrade:
Credere nel mondo è ciò che piú ci manca: abbiamo
completamente smarrito il mondo, ne siamo stati
spossessati. Credere nel mondo vuole anche dire suscitare
eventi, per piccoli che siano, che sfuggono al controllo,
oppure dare vita a nuovi spazi-tempo, anche di superficie e
volume ridotti. […] La capacità di resistenza o, al contrario,
la sottomissione a un controllo si giudicano a livello di
ciascun tentativo. Occorrono al tempo stesso creazione e
popolo21.
Note
1 Da quando, salvo errori, Latour ha scritto “An attempt at a
‘compositionist manifesto’” (Latour 2010).
2 Ma anche la Gaia di Latour – in quanto theos del nuovo