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Déborah Danowski

Eduardo Viveiros de Castro


Esiste un mondo a venire?
Saggio sulle paure della fine
Traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri
Nota dell’editore
I cambiamenti climatici e le estinzioni biologiche sono solo alcuni dei
parametri che oggi stanno andando fuori scala, mettendo in scacco
l’umanità e determinando una proliferazione discorsiva senza
precedenti intorno all’idea della “fine”: dal pensiero all’espressione
artistica, una fioritura disforica di mitologie dell’Apocalisse infrange
ogni ottimismo umanista e prometeismo dello sviluppo. Ma,
nonostante illustri il punto definitivamente critico della storia della
Terra cui siamo arrivati, questo non è un libro apocalittico: a ispirarlo
è piuttosto la spinta alla rifondazione di un futuro “altro” per tutta la
catena delle esistenze che compongono il pianeta. Che cosa si può
opporre a questa virata verso il declino, per non restare “senza
mondo”? Evocando la cosmopolitica degli indios amazzonici, basata
su un’inesauribile diplomazia dei rapporti con l’“arena internazionale”
dell’ambiente in cui vivono, gli autori rovesciano la questione in vista
di una possibile resistenza: “Parlare della fine del mondo non
significa parlare della necessità di immaginare un nuovo mondo al
posto di quello presente, ma un nuovo popolo; il popolo che manca.
Un popolo che crede nel mondo e che lo dovrà creare con ciò che gli
lasciamo di esso”.
Déborah Danowski insegna Filosofia alla Pontificia Universidade
Católica di Rio de Janeiro ed è ricercatrice al Conselho Nacional de
Desenvolvimento Científico e Tecnológico del Brasile. Tra i suoi
interessi di ricerca ci sono la metafisica moderna e il pensiero
ecologico.
Eduardo Viveiros de Castro, uno dei piú innovativi antropologi
contemporanei, ha insegnato a Cambridge, Chicago, São Paulo ed è
attualmente docente di Antropologia sociale all’Università di Rio de
Janeiro. Tra le sue opere: Cosmological Perspectivism in Amazonia
and Elsewhere (1998, 2012) e Métaphisiques cannibales (2009).
Indice
Nota dell’editore
Prefazione all’edizione italiana
Ringraziamenti
Esiste un mondo a venire?
E quale rozza bestia…
Metafisica e mitofisica
Note
…giunto infine il suo tempo,
Gaia e anthropos
La prospettiva della fine del mondo
Note
…striscia verso Betlemme per esser partorita?
Il mondo prima di noi
Il mondo dopo di noi
Note
Il fuori senza pensiero o la morte dell’Altro
Un certo popolo senza mondo del recente passato
La tesi tanatologica
“Nessuno ne sentirà la mancanza”
Note
Infine, soli
Ceci n’est pas un monde
Dopo il futuro: la fine come inizio
Il Grande Dentro: la speleologia speculativa di Gabriel Tarde
Note
Un mondo di persone
La fine delle trasformazioni, o il primo Antropocene
Antropomorfismo contro antropocentrismo
La fine del mondo degli indios
Note
Umani e terreni nella guerra di Gaia
La specie impossibile
La fine del mondo come evento frattale
Note
Il mondo in sospeso
Credere al mondo
Note
Bibliografia
Colophon
Catalogo
A Irene,
terrena del mondo a venire
− Orfeo, Dante, Enea, all’inferno
Discesero; l’Inca deve levarsi…
= Ogni sp’ranza lasciate,
Che entrate…
− Swedenborg, esiste un mondo a
venire?
Joaquim de Sousândrade
Se noi, che siamo i re della
natura, non abbiamo paura, chi
dovrà averne?
Clarice Lispector
Prefazione all’edizione italiana
“Le cose cambiano cosí velocemente che per noi è difficile star loro
dietro”, sostiene Bruno Latour in un testo citato nelle prime righe del
secondo capitolo di questo libro. Il giudizio lapidario di Latour si
applica perfettamente anche a Esiste un mondo a venire? Saggio
sulle paure della fine. A partire dalla prima edizione della versione in
portoghese, risalente alla fine del 2014, la marcia inesorabile del
riscaldamento globale da un lato e l’accumulazione di discorsi (nel
senso piú ampio del termine) sulla “fine del mondo” e
sull’Antropocene dall’altro, insieme alla nube di temi che quest’ultimo
termine riassume in modo appropriato benché polemico, sono state
cosí implacabili che cercare di attualizzare opportunamente, per la
presente edizione italiana, le argomentazioni formulate solo un paio
di anni fa sarebbe un compito estremamente difficile, a meno che
non pretendessimo di scrivere un nuovo libro. Ricordiamo solo alcuni
momenti chiave, avvenuti dopo quella data, che per certi versi ci
costringerebbero ad ampliare diversi passaggi del testo: l’incontro
Os Mil Nomes de Gaia: Do Antropoceno à Idade da Terra (I mille
nomi di Gaia: dall’Antropocene all’età della Terra) (Rio de Janeiro,
settembre 2014), organizzato insieme ad altri colleghi e in cui
abbiamo riunito diversi tra i principali pensatori di vari paesi che si
sono occupati di questo tema; la pubblicazione dell’enciclica papale
Laudato si’ (2015), che ha segnato l’ingresso impattante del
Vaticano all’interno del dibattito; l’apparizione (è il termine piú
appropriato) del Manifesto ecomodernista (An Ecomodernist
Manifesto, 2015), documento capitanato dal Breakthrough Institute e
sottoscritto da diverse celebrità pro-capitaliste, che radicalizza
ancora di piú le posizioni difese da questo think thank e commentate
nel presente saggio; vari testi che riprendono Laudato si’ e altrettanti
che criticano aspramente il Manifesto ecomodernista, alcuni dei quali
a cura di autori citati nel nostro libro; lo studio Capitalism in the Web
of Life: Ecology and the Accumulation of Capital di Jason Moore
(2015), che sviluppa una narrazione di ispirazione storico-
materialista sopra (contro) l’Antropocene; la vera e propria
esplosione di eventi, testi e manifesti della corrente
“accelerazionista”, che sembra aver perso qualcosa del suo
trionfalismo – impressione rafforzata dalla constatazione che un po’
d’acqua è appena stata versata con discrezione nel suo denso vino
prometeico; l’Accordo di Parigi, documento prodotto nel dicembre
del 2015 durante la COP21, la conferenza sui cambiamenti climatici
che ha provocato, per alcuni aspetti, e piú di tutti i precedenti venti
vertici sul tema, un’uguale mescolanza di speranza e delusione nella
maggior parte degli ecologisti e degli scienziati, per aver ottenuto
l’approvazione unanime dei diversi paesi membri alla limitazione
dell’aumento della temperatura globale di 2°C, se possibile di 1,5°C
– senza però esplicitare nessun mezzo concreto che possa rendere
reale, o quanto meno possibile, il raggiungimento di quest’obiettivo
(e senza neanche accennare alla questione dei combustibili fossili,
per fare solo un esempio, lasciando l’amaro sospetto che lo spettro
dell’inevitabilità del “Piano B” della geoingegneria, di cui parliamo nel
nostro saggio, stia alla base del testo dell’accordo). E infine, inutile
dirlo, la recente e ignominiosa elezione del negazionista Donald
Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America1.
Tuttavia, da un punto di vista che vorremmo definire dialogico
prima che critico, l’elemento piú importante che potrebbe modificare
virtualmente il contesto della ricezione del nostro libro è stata la
pubblicazione di Face à Gaïa, di Bruno Latour. Questo lavoro, che è
una versione molto rimaneggiata delle Gifford Lectures on Natural
Religion tenute dall’autore a Edimburgo nel 2013 – conferenze che
sono state una specie di filo conduttore nel cammino argomentativo
di Esiste un mondo a venire? –, è stato scritto tenendo in
considerazione, insieme a molti altri testi, il nostro saggio “L’arrêt de
monde”2. Integrare il nuovo libro di Latour in questa edizione
avrebbe implicato, per essere rigorosi, la scrittura di un nuovo
lavoro. Ci preme solo suggerire ai lettori di leggere Esiste un mondo
a venire? insieme a Face à Gaïa, affinché possano trarre le proprie
conclusioni. Inoltre, non possiamo fare a meno di menzionare, tra i
lavori pubblicati dopo il 2014, le recenti opere di Donna Haraway
(Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, 2016),
Elizabeth Povinelli (Geontologies: A Requiem to Late Liberalism,
2016), Marisol de la Cadena (Earth Beings: Ecologies of Practice
across Andean Worlds, 2015) e Anna Tsing (The Mushroom at the
End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, 2015),
ognuna delle quali esplora percorsi che possiamo solo intravedere
nel nostro saggio.
Se alla fine abbiamo deciso di pubblicare Esiste un mondo a
venire? senza tenere debitamente in conto tutti questi sviluppi
ulteriori, è perché riteniamo che le osservazioni qui presentate, le
posizioni contestate e le posizioni difese non richiedano correzioni o
elaborazioni che possano modificare le analisi e le tesi centrali del
libro. Insomma, la domanda che dà il titolo all’opera resta, piú che
mai, radicalmente aperta.
Sia chiaro, nulla di tutto ciò ha impedito che includessimo in
questa edizione italiana vari piccoli aggiornamenti e modifiche
apportati tanto nella seconda che nella terza edizione in portoghese.
Alcuni dei cambiamenti piú recenti accolgono i suggerimenti indicati
da Rodrigo Nunes in occasione della sua traduzione in inglese del
nostro libro (The Ends of The World, Polity, Cambridge 2016). Infine,
abbiamo fatto alcune correzioni e aggiornamenti dell’ultima ora
riguardo ai fatti e alla scienza del clima, grazie all’inestimabile aiuto
del fisico Alexandre Araújo Costa – il cui eccellente blog O que você
faria se soubesse o que eu sei
(http://oquevocefariasesoubesse.blogspot.com.br) è uno strumento
imprescindibile per chi voglia comprendere l’attuale crisi ecologica,
cosí come i suoi contesti sociali, economici e politici nel Brasile di
oggi.
Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro
Note
1 Non possiamo evitare di citare alcuni studi resi pubblici negli ultimi
mesi, che hanno avuto un grande impatto nella comunità scientifica
e persino nell’opinione pubblica: l’articolo di Richard E. Zeebe, Andy
Ridgwell e James C. Zachos (2016), “Anthropogenic carbon release
rate unprecedented during the past 66 million years”, che grazie a
una nuova metodologia di calcolo giunge alla conclusione che negli
ultimi 66 milioni di anni la velocità dell’aumento dell’emissione
antropogenica di carbonio è stato senza precedenti; l’articolo di
Hansen et al. (2016), “Ice melt, sea level rise and superstorms:
Evidence from paleoclimate data, climate modeling, and modern
observations that 2°C global warming could be dangerous”, che è
una stima dei probabili effetti futuri dell’aumento dello scioglimento
del ghiaccio antartico e della Groenlandia; il capovolgimento della
situazione attuale dell’area occupata dal gelo marino in Antartide,
che sembra essere entrato in una tendenza al declino (quello che da
alcune decadi è già successo per l’Artico), come mostra questa
notizia del National Snow and Ice Data Center (NSIDC) del
novembre del 2016: http://nsidc.org/arcticseaicenews/2016/12/arctic-
and-antarctic-at-record-low-levels/, commentata nel post di
Alexandre Araújo Costa:
http://oquevocefariasesoubesse.blogspot.com.br/2016/11/cade-o-
gelo-que-estava-aqui-parte-ii.html; e, last but not least, lo studio
“Decline in global oceanic oxygen content during the past five
decades” di Sunke Schmidtko, Lothar Stramma e Martin Visbeck,
pubblicato nel 2017, che contiene un preciso calcolo della caduta,
stimata al 2,1%, del livello globale dell’ossigeno presente negli
oceani a partire dagli anni ’60.
2 Il presente libro è una versione ampliata di questo lungo saggio

pubblicato nel volume collettaneo (a cura di Émilie Hache) De


l’Univers clos au monde infini, Dehors, Paris 2014.
Ringraziamenti
La prima bozza di questo testo è stata presentata in forma orale il 21
dicembre 2012 (giorno della Fine del Mondo, secondo un presunto
“calendario maya”) all’Université di Toulouse-Le Mirail, a seguito
dell’invito dell’Équipe de Recherche sur les Rationalités
Philosophiques et les Savoirs (ERRAPHIS) e, qualche settimana piú
tardi, a un seminario del modulo “Expérimentation Arts et Politiques”
(SPEAP), dell’Institut d’Études Politiques (Science Po) di Parigi.
Ringraziamo rispettivamente Jean-Christophe Goddard e Bruno
Latour, cosí come gli uditori, per i loro commenti e per la loro
accoglienza. Jean-Christophe, Gwen-Elen e Jeanne Goddard ci
hanno ricevuto a Toulouse con un affetto a dir poco commovente.
Bruno Latour, amico di lunga data, merita dei ringraziamenti speciali
per essere stato il nostro principale motivatore e, come risulterà
ovvio, il nostro principale interlocutore. Vorremmo ringraziare anche
l’ampio popolo terreno, i nostri “conterranei” di #ATOA: Alexandre
Nodari, Flávia Cera, Marcos de Almeida Matos e Rondinelly Gomes
Medeiros, che sono con noi sin dall’inizio, soprattutto a partire
dall’“antropolemico” evento terraTERRA, iniziativa della Cúpola dos
Povos parallela a Rio+20; Idelber Avelar, per la segnalazione
dell’articolo di Chakrabarty e per il suo sempre generoso appoggio
alla causa terrena; Rodrigo Nunes, per diverse segnalazioni relative
all’“accelerazionismo” e dintorni; Felipe Sussekind, Alyne de Castro
Costa, Juliana Fausto, Marco Antônio Valentim, Cecilia Cavalieri,
André Vallias e Moysés Pinto Neto, per la complicità e gli aiuti
decisivi in piú di una scaramuccia nella guerra dei mondi in corso.
Vinceremo.
Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine è una
versione attualizzata e leggermente ampliata del testo “L’arrêt de
monde”, tradotto dal portoghese da Oiara Bonilla (a cui siamo grati
per la pazienza) e pubblicato nel giugno di quest’anno nel volume
collettivo De l’Univers clos au monde infini (Hache 2014). A Émilie
Hache, che ci ha convinto a includerlo nel volume, siamo grati per la
decisione di preservarlo nella sua integralità e per i vari suggerimenti
editoriali (ringraziamenti estesi a Élie Kongs). E infine con Michael
Houseman, che ha dedicato una fredda notte del gennaio 2013 a
commentare una delle prime versioni orali del testo, e che nel corso
degli anni ci ha ospitato tante volte con Marika Moisseeff nella sua
casa, con incondizionata e affettuosissima amicizia, chiudiamo una
lista di ringraziamenti che dovrebbe essere ancora molto lunga.
Esiste un mondo a venire?
Dove non disponibile la traduzione italiana dei testi citati, le citazioni
sono state tradotte dall’originale a cura dei traduttori.
E quale rozza bestia…
E quale rozza bestia, giunto infine il suo tempo,
striscia verso Betlemme per esser partorita?
W.B. Yeats1
La fine del mondo è un tema apparentemente sconfinato –
perlomeno, è chiaro, fino a che non accade. Il registro etnografico
restituisce una varietà di modi in cui le culture umane hanno
immaginato la disarticolazione dei cardini spazio-temporali della
storia. Alcune di queste concezioni sembrano aver riguadagnato
nuova vita a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, quando si è
formato un consenso scientifico sulle trasformazioni in corso nel
regime termodinamico del pianeta. I materiali e le analisi sulle cause
(antropiche) e le conseguenze (catastrofiche) della “crisi” planetaria
si accumulano con estrema rapidità, mobilitando sia la percezione
popolare, debitamente influenzata dai media, sia la riflessione
accademica.
Mentre la gravità dell’attuale crisi ambientale e della civiltà si fa
via via piú evidente2, intorno a questa antichissima idea, che per
semplificare ciò che questo saggio intende in parte complicare
chiameremo “la fine del mondo”, proliferano nuove variazioni e se ne
attualizzano di vecchie. Su questo tema esistono blockbusters di
genere fantascientifico3, docu-fiction di History Channel, libri di
divulgazione scientifica con vari livelli di complessità, videogiochi,
opere musicali e artistiche, blog rappresentativi di ogni sorta di
ideologia, congressi scientifici, riviste accademiche e reti di
informazione specializzate, rapporti e dichiarazioni di organizzazioni
mondiali tra le piú diverse, summit sul clima invariabilmente
frustranti, simposi di teologia e pronunciamenti papali, saggi di
filosofia, cerimonie new age e di altri movimenti neopagani, un
numero esponenzialmente crescente di manifesti politici – ogni
genere di testi, contesti, strumenti, oratori e tipi di pubblico. La
presenza di questo tema nella cultura contemporanea si è
intensificata sempre piú rapidamente, cosí come ciò a cui si riferisce,
ovvero il moltiplicarsi dei mutamenti del macro-ambiente terrestre.
Tutta questa fioritura disforica va controcorrente rispetto
all’ottimismo “umanista” che predomina nella storia dell’Occidente da
tre o quattro secoli a questa parte. Annuncia, o addirittura rispecchia,
qualcosa che sembrava escluso dall’orizzonte della storia in quanto
epopea dello Spirito: la rovina della nostra civiltà globale in virtú della
sua stessa incontrastata egemonia, una caduta che potrebbe
coinvolgere considerevoli porzioni di popolazione umana. A
cominciare, chiaramente, dalle masse miserabili che vivono nei
ghetti e nelle discariche geopolitiche del “sistema mondiale”; ma è
nella natura stessa del collasso imminente che esso, in un modo o
nell’altro, raggiungerà tutti. Ecco perché non sono solo le società che
incarnano la civiltà dominante, di matrice occidentale, cristiana e
capitalistico-industriale, a essere chiamate in causa da questa crisi,
ma tutta la specie umana, l’idea stessa di specie umana – anche e
soprattutto, quei numerosi popoli, culture e società che non sono
all’origine della crisi. Per non parlare delle migliaia di altri lignaggi di
viventi che si trovano minacciati di estinzione, o che sono già
scomparsi dalla superficie della Terra, a causa di modificazioni
ambientali dovute alle attività “umane”4.
Un tale disastro demografico e della civiltà viene a volte
immaginato come il risultato di un evento “globale”, per esempio
un’estinzione improvvisa della specie umana o di tutta la vita
terrestre scatenata da un “atto di Dio” – un supervirus letale, una
gigantesca esplosione vulcanica, un impatto con un corpo celeste,
una megatempesta solare –, o per l’effetto cumulativo di interventi
antropici sul pianeta, come nel film The Day after Tomorrow (2004)
di Roland Emmerich o, infine, per una bella guerra nucleare vecchio
stile. Altre volte, il disastro tende a essere descritto in maniera piú
realistica (soprattutto se si segue l’evoluzione degli scenari proposti
dalle scienze che studiano le interazioni tra la geosfera, l’idrosfera,
l’atmosfera e la biosfera – il cosiddetto “Sistema Terra”)5 come un
processo di degradazione già iniziato, estremamente intenso,
sempre piú accelerato e sotto molti aspetti irreversibile, delle
condizioni ambientali che accompagnano la vita umana nell’Olocene
(epoca del periodo Quaternario, successiva al Pleistocene, iniziata
11.700 anni fa), con siccità seguite da uragani e alluvioni, carestie a
cui succedono da pandemie umane e animali, guerre genocide nel
mezzo di estinzioni biologiche che raggiungono generi, famiglie e
addirittura interi phyla, in una sequenza di effetti perversi di
retroazione che spingerebbero progressivamente la specie, secondo
un processo di “lenta violenza” (Nixon 2011) – che sembra sempre
meno lenta –, verso un’esistenza materialmente e politicamente
degradata. Quello che Isabelle Stengers (2009) ha chiamato “la
barbarie che viene”, e che sarà, c’è da crederci, ancora piú barbara
a mano a mano che il sistema tecno-economico dominante (il
capitalismo mondiale integrato) proseguirà la sua fuite en avant.
Non sono solo le scienze naturali e la cultura di massa che se ne
alimenta a registrare la deriva del mondo. Persino la metafisica,
notoriamente la piú eterea delle discipline filosofiche, comincia a
riverberare questa diffusa inquietudine. Negli ultimi anni abbiamo
assistito, per esempio, a un’elaborazione di nuovi e sofisticati
argomenti concettuali che si propongono, a modo loro, di “farla finita
col mondo”6: farla finita col mondo sia in quanto inevitabilmente
mondo-per-l’uomo, cosí da giustificare un pieno accesso epistemico
a un “mondo-senza-noi” che si articolerà assolutamente prima della
giurisdizione dell’Intelletto; ma anche farla finita col mondo-in-
quanto-significato, in modo da determinare l’Essere come pura
esteriorità indifferente; come se il mondo “reale”, nella sua radicale
contingenza e mancanza di significato, dovesse essere “realizzato”
contra la Ragione e il Significato.
È vero che molte di queste fini-del-mondo metafisiche hanno una
relazione causale solo indiretta con l’evento fisico della catastrofe
planetaria, ma non per questo smettono di esprimerlo, di
riecheggiare la vertiginosa sensazione di incompatibilità – se non di
incompossibilità – tra l’essere umano e il mondo, visto che sono
poche le zone dell’immaginazione contemporanea a non essere
state scosse, in un vero e inaudito processo di “transdiscendenza”,
dalla violenta reintroduzione della noosfera occidentale
nell’atmosfera terrestre. Ci credevamo destinati al vasto oceano
siderale, ed eccoci di nuovo respinti al porto da cui siamo partiti…
Le distopie, dunque, proliferano; e un certo panico perplesso
(chiamato peggiorativamente “catastrofismo”), quando non un
macabro entusiasmo (recentemente reso popolare con il nome di
“accelerazionismo”), sembra aleggiare sullo spirito del tempo. Il
famoso “no future” del movimento punk si vede all’improvviso
rivitalizzato – ammesso che il termine sia adatto –, cosí come
riemergono profonde inquietudini da dimensioni comparabili alle
attuali, come quelle suscitate dalla corsa al nucleare negli anni, non
cosí lontani, della Guerra Fredda. Impossibile non ricordare la cupa
e secca conclusione di Günther Anders (2007: 112-113), in un testo
capitale sulla “metamorfosi metafisica” dell’umanità dopo Hiroshima
e Nagasaki: “L’assenza di futuro è già iniziata”.
Questo futuro-che-è-finito è arrivato di nuovo – il che suggerisce
che non ha mai smesso di essere iniziato: nel Neolitico? nella
Rivoluzione Industriale? a partire dalla Seconda Guerra Mondiale?
Se la minaccia della crisi climatica è meno spettacolare di quella
degli anni della minaccia nucleare (che, per inciso, non ha cessato di
esistere), la sua ontologia è però piú complessa, sia per quanto
riguarda le connessioni con l’attività umana, sia per ciò che concerne
la sua paradossale cronotopia7. Il suo avvento ha ricevuto il “nostro”
nome: “Antropocene”, una denominazione proposta da Paul Crutzen
ed Eugene Stoermer per designare la nuova epoca geologica che
segue l’Olocene e che sarebbe iniziata con la Rivoluzione
Industriale, per poi intensificarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale.
§ Sul rapporto alquanto paradossale tra l’emergere di una
coscienza “biosferica”, la prospettiva che parte dallo spazio
esteriore, il consolidamento della teoria del cambiamento
climatico e la corsa agli armamenti della Guerra Fredda
(compreso il programma “Star Wars” di Reagan), il lettore
può consultare con interesse i lavori di Joseph Masco
(2010, 2012) e il recente libro di Peter Szendy (2011). In
una conferenza TED (Technology Entertainment Design) di
qualche anno fa, James Hansen (2012), parlando del
temporaneo squilibrio energetico del Sistema Terra causato
dall’accumulo di gas serra (la differenza tra la quantità di
energia o calore che entra nel sistema e la quantità riflessa
nello spazio), suggerisce un’eloquente equivalenza tra il
calore che si accumula quotidianamente nei “serbatoi” del
pianeta (l’oceano, i ghiacciai e la terra), vale a dire 0.58
W/m², e il calore provocato dall’esplosione di
quattrocentomila bombe atomiche. A questo proposito, si
veda anche l’ottimo blog Skeptical Science, creato da John
Cook, secondo cui il nostro clima ha accumulato una
quantità di calore equivalente all’esplosione di quattro
bombe di Hiroshima al secondo, per un totale di
2.115.122.800 bombe dal 1998 fino al “presente” (cioè fino
al 2 luglio 2014 alle 14:45 ora di Brasilia, quando abbiamo
consultato per l’ultima volta il widget
http://4hiroshimas.com)8. Il fisico Alexandre Araújo Costa
(comunicazione personale) ha effettuato un calcolo simile,
nello specifico riguardo al forzante radiativo antropico,
giungendo al risultato ben maggiore di 18,5 bombe di
Hiroshima al secondo9. Insomma, il vecchio progetto
occidentale di aumentare continuamente la quantità di
energia disponibile pro capite (Lévi-Strauss 2002) sembra
si stia avvicinando – a partire dall’accelerazione dei
processi di estrazione di questa energia con la Rivoluzione
Industriale – a un muro contro cui la specie corre il rischio
di scontrarsi in modo spettacolare.
§ Anche se già nel secolo passato (o pure un po’ prima)
sono stati proposti termini come “Antrocene”,
“Antroposfera” e lo stesso “Antropocene”, è solo durante
una discussione in un incontro dell’International
Geosphere-Biosphere Programme (IGBP) vicino a Città del
Messico, nel 2000, che il chimico atmosferico (Premio
Nobel) Paul Crutzen ha proposto il concetto per la prima
volta, pubblicandolo immediatamente in una newsletter
insieme al suo collega Eugene Stoermer (Crutzen e
Stoermer 2000), e formalizzandolo nel 2002 nell’articolo
“Geology of mankind” (Crutzen 2002). La proposta è ancora
al vaglio della comunità scientifica. Durante l’ultimo incontro
dell’International Geological Congress nell’agosto del 2016,
il Working Group on the Anthropocene, coordinato da Jan
Zalasiewicz, ha raccomandato l’adozione formale della
nuova classificazione, ma non si ha ancora una presa di
posizione ufficiale da parte della Commission on
Stratigraphy o dell’International Union of Geological
Sciences su questa importante questione, né tanto meno
su quale sarà il golden spike [l’inizio diagnostico] adottato,
né sulla data di inizio della nuova epoca geologica, nel caso
venga accettata. Nel frattempo, i candidati piú probabili
sembrano essere i residui radiottivi e gli anni del
dopoguerra, con l’inizio dei test nucleari.
L’Antropocene (o qualsiasi altro nome si voglia attribuire a esso)10
è un’“epoca” nel senso geologico del termine, ma indica la fine
dell’“epocalità” in quanto tale per ciò che riguarda la nostra specie.
Poiché è certo che, sebbene sia iniziata con noi, probabilmente finirà
senza di noi: l’Antropocene potrebbe lasciare spazio a un’altra epoca
geologica solo molto dopo la nostra scomparsa dalla superficie
terrestre. Il nostro presente è l’Antropocene; questo è il nostro
tempo. Ma tale tempo presente si rivela essere un presente senza
avvenire, un presente passivo, portatore di un karma geofisico che
non abbiamo assolutamente il potere di annullare – cosa che rende
ancora piú pressante e imperativa la necessità di una sua
mitigazione:
La rivoluzione ha già avuto luogo, […] gli eventi con cui
abbiamo a che fare non risiedono nel futuro, ma per la
maggior parte nel passato […] qualsiasi cosa si faccia, la
minaccia incomberà su di noi per secoli, o addirittura per
millenni. (Latour 2013a: 109)
Metafisica e mitofisica
Questo testo è un tentativo di prendere sul serio gli attuali discorsi
sulla “fine del mondo”, considerandoli come esperienze di pensiero
sulla virata dell’avventura antropologica occidentale verso il declino,
ovvero come sforzi, non necessariamente consapevoli, di inventare
una mitologia adeguata al presente. La “fine del mondo” è uno di
quei famosi problemi che, secondo Kant, la ragione non può
risolvere, ma che non può fare a meno di porre. E il modo in cui lo fa
passa necessariamente attraverso la forma di una fabulazione mitica
o, come oggi piace dire, di “narrazioni” che ci orientano e motivano.
Il regime semiotico del mito, indifferente alla verità o falsità empirica
dei suoi contenuti, si instaura ogni volta che la relazione tra gli umani
in quanto tali e le loro condizioni generali di esistenza si impone
come problema della ragione. E se ogni mitologia può essere
descritta come una schematizzazione delle condizioni trascendentali
in termini empirici – cioè, una retroproiezione che convalida
determinate ragioni sufficienti immaginate (“narrativizzate”) come
cause efficienti – allora l’impasse attuale si rivela tanto piú tragica, o
ironica, quanto piú vediamo il problema di una Ragione che ha
ricevuto l’avallo dell’Intelletto. Siamo qui di fronte a un problema
essenzialmente metafisico, la fine del mondo, formulato nei termini
rigorosi di scienze sommamente empiriche come la climatologia, la
geofisica, l’oceanografia, la biochimica e l’ecologia. Forse, come
Lévi-Strauss ha osservato piú volte, la scienza, che ha iniziato a
separarsi dal mito circa tremila anni fa, finirà per rincontrarlo al
termine di una di quelle doppie torsioni che intrecciano la ragione
analitica con la ragione dialettica, la combinatoria anagrammatica
del significante con le vicissitudini storiche del significato11.
Ancora una parola sulla nozione di “mito”. Uno stimolo importante,
sebbene contingente, per il presente saggio è stata l’ormai celebre
opera filosofica di Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine (2012a).
Insieme agli scritti di altri pensatori contemporanei legati al
cosiddetto “realismo speculativo”, il progetto di Meillassoux ci
sembrava riattivare, nolens volens, i legami tra la speculazione
metafisica e le matrici mitologiche (il criticismo kantiano direbbe
“dogmatiche”) del pensiero. Alla fine della lettura di Dopo la finitudine
(e, piú tardi, di Nihil Unbound di Ray Brassier [2007], altra influente
opera del movimento), abbiamo avuto l’impressione che questo stile
di riflessione si inserisse non solo nella serie che va, diciamo, da
Platone a Badiou, ma anche in un vasto universo discorsivo che si
estende da quel tesoro di idee accumulate dai popoli indigeni del
mondo intero in millenni di speculazione cosmologica fino al film
Melancholia (2011) di Lars von Trier e al romanzo La strada di
Cormac McCarthy (2014), passando per la lunga tradizione mitico-
letteraria occidentale sul tema del pays gaste, la “terra desolata”
(Weston 1920)12; senza dimenticare la persistente, se non
addirittura crescente, vitalità di quel genere “minore” che è la
fantascienza. La nota formula di Borges sulla metafisica come
branca della letteratura fantastica13 non solo esigeva la reciprocità –
la letteratura fantastica e la fantascienza sono le metafisiche pop, le
“mitofisiche” della nostra epoca – ma anticipava l’interdigitazione che
si può constatare oggi tra alcuni esperimenti del versante piú
creativo della filosofia contemporanea e autori come Howard P.
Lovecraft, Philip K. Dick, William Gibson, David Brin e China
Miéville.
Il nostro obiettivo è dunque quello di fare un bilancio preliminare
di alcune delle principali varianti del tema della “fine del mondo”, cosí
come si presentano oggi nell’immaginario della cultura
mondializzata. Ma iniziamo evocando brevemente i termini oggettivi,
per cosí dire, del problema.
Note
1 “And what rough beast, its hour come round at last, / Slouches
towards Bethlehem to be born?” sono i due ultimi versi della celebre
poesia di W.B. Yeats “La seconda venuta” (1919). [n.d.t.: la
traduzione utilizzata è tratta da William Butler Yeats, Poesie, a cura
di Roberto Sanesi, Mondadori, Milano 1974.]
2 Vedi per esempio gli ultimi rapporti dell’Intergovernmental Panel on

Climate Change (IPCC), resi pubblici nel 2013-2014 e disponibili su:


www.ipcc.ch. Com’è risaputo, le proiezioni dell’IPCC tendono a
essere le piú moderate tra quelle che circolano nella comunità
scientifica, per quanto riguarda l’intensità e il ritmo dei cambiamenti
climatici.
3 Sulla cinematografia apocalittica, il lettore può consultare il saggio

L’Apocalypse cinéma, di Peter Szendy (2012), che commenta tredici


film sulla fine del mondo facendo riferimento a decine di altre
pellicole. Per un’analisi di questa proliferazione nel curioso caso
delle fantasie distopiche dirette a un pubblico di adolescenti di
genere femminile, vedi Craig 2012.
4 Il problema della pertinenza o meno del concetto di specie umana

o “umanità” per inquadrare la riflessione e l’azione delle collettività


politiche attualmente esistenti nei confronti della crisi ambientale
(stati, popoli, partiti, movimenti sociali) sarà ripreso verso la fine del
presente saggio.
5 “Sistema Terra” è un concetto tecnico oggi molto utilizzato in

climatologia e in altre scienze della Terra, in riferimento ai parametri


geofisici e macro-ecologici che caratterizzano il nostro pianeta.
6 Per farla finita “a modo loro”, si intende il fatto di demolire i concetti

di mondo elaborati dalla filosofia moderna, da Kant a Derrida e cosí


via (vedi Gaston 2013).
7 “Una guerra nucleare sarebbe stata una decisione cosciente da

parte di chi detiene il potere. I cambiamenti climatici sono una


conseguenza non intenzionale delle azioni umane, e mostrano,
grazie all’analisi scientifica, gli effetti delle nostre azioni in quanto
specie” (Chakrabarty 2009: 221).
8 Vedi i link: http://www.skepticalscience.com/4-Hiroshima-bombs-

worth-of-heat-per-second.html e http://www.skepticalscience.com/4-
Hiroshima-bombs-per-second-widget-raise-awareness-global-
warming.html. Un commento al post di John Cook citato sopra
ricorda che John Lyman (University of Hawaii) aveva già utilizzato il
riferimento alla bomba di Hiroshima nel caso della temperatura
dell’oceano, in un’intervista sul suo studio pubblicato sulla rivista
Nature (Lyman et al. 2010); si veda, per esempio:
http://www.livescience.com/6472-study-ocean-warmed-significantly-
16-years.html.
9 Per un’illustrazione della relazione fortemente simbolica – diceva

Valéry, una “esitazione prolungata tra il suono e il senso” – tra i nomi


“Hiroshima” e “Katrina”, si veda AAP 2013.
10 Vedremo alla fine di questo saggio alcuni motivi di dissenso

sull’uso del concetto di Antropocene per caratterizzare l’epoca che


stiamo vivendo e l’evento che si abbatte su di noi.
11 Sulla “doppia torsione” come formula princeps della
trasformazione strutturalista, vedi Maranda 2001, Almeida 2008,
Viveiros de Castro 2009.
12 Eduardo Sterzi ha prodotto importanti ricerche sul tema (corsi,

articoli), dalle sue origini europee alla letteratura brasiliana


contemporanea. Si veda, per esempio, Sterzi 2009.
13 “I metafisici di Tlön non cercano la verità e neppure la

verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo


della letteratura fantastica” (Borges 2014: 16).
…giunto infine il suo tempo,
Non stiamo facendo allarmismo sta realmente
accadendo.
Thom Yorke
Gaia e anthropos
Per riprendere un’antica maledizione cinese, si può dire che viviamo
realmente in tempi interessanti. Uno degli aspetti piú interessanti di
questi tempi, come peraltro si è ampiamente osservato, è la sua
incontrollata accelerazione. Il tempo è fuori sesto, e scorre sempre
piú rapidamente. “Le cose cambiano cosí velocemente che per noi è
difficile star loro dietro”, constatava recentemente Bruno Latour
(2013a: 126). Il filosofo faceva riferimento allo stato della
conoscenza scientifica del problema1, ma possiamo dire che ormai è
il tempo stesso, in quanto dimensione in cui si manifesta il
cambiamento (il tempo come “numero del movimento”, direbbe
Aristotele), che sembra non solo subire un’accelerazione, ma
cambiare qualitativamente “tutto il tempo”. Virtualmente, tutto ciò che
si può dire sulla crisi climatica diviene, per definizione, anacronistico,
sfasato; e tutto ciò che deve essere fatto al riguardo è
necessariamente troppo poco, ed è ormai troppo tardi – too little, too
late. Questa instabilità meta-temporale si lega a un’improvvisa
insufficienza di mondo – ricordiamo la tesi dei cinque pianeti Terra
che sarebbero necessari per sostenere l’estensione a tutta l’umanità
del livello di consumo di energia del cittadino medio nordamericano
– che scatena in noi tutti qualcosa come un’esperienza di
decomposizione del tempo (la fine) e dello spazio (il mondo), cosí
come il sorprendente cedimento di queste due grandi forme
condizionanti della sensibilità verso lo statuto di forme condizionate
dall’azione umana2. E questo è uno dei sensi, e non il meno
importante, per cui si può dire che il nostro mondo sta smettendo di
essere kantiano. È curioso notare che rispetto alle tre grandi idee
trascendentali di Kant, ovvero Dio, Anima e Mondo (oggetti
rispettivamente della teologia, della psicologia e della cosmologia), è
come se stessimo assistendo al crollo dell’ultima idea, visto che Dio
è morto tra il XVIII e il XIX secolo, l’Anima poco piú tardi (il suo
avatar semiempirico, l’Uomo, potrebbe aver resistito fino alla metà
del XX secolo), lasciando cosí il Mondo come ultimo e vacillante
bastione della metafisica (Gaston 2013: ix).
La storia umana ha già conosciuto differenti crisi, ma la cosiddetta
“civiltà globale”, denominazione arrogante data all’economia
capitalista basata sulla tecnologia dei combustibili fossili, non si è
mai confrontata con una minaccia come quella in corso. Non stiamo
parlando solo del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici.
Nel settembre 2009 la rivista Nature ha pubblicato un numero
speciale in cui diversi scienziati, coordinati da Johan Rockström,
dello Stockholm Resilience Centre, identificavano nove processi
biofisici del Sistema Terra e cercavano di stabilire quali fossero i
limiti di questi processi, oltrepassati i quali si genererebbero
cambiamenti ambientali insopportabili per diverse specie, tra cui la
nostra: i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani, la
diminuzione dell’ozono nella stratosfera, il consumo di acqua dolce,
la perdita della biodiversità, l’interferenza umana nei cicli globali di
azoto e fosforo, i cambiamenti nello sfruttamento del suolo,
l’inquinamento chimico, l’inquinamento atmosferico provocato dagli
aerosol. Gli autori avvertivano, a mo’ di conclusione, che “non
possiamo concederci il lusso di concentrare i nostri sforzi in nessuno
di questi [processi] in modo isolato. Appena si oltrepassa un limite,
gli altri corrono lo stesso rischio”. Tutto porta a credere, ancora
secondo gli autori, che abbiamo già oltrepassato la zona di sicurezza
per quanto riguarda tre di questi processi – il tasso di perdita della
biodiversità, l’interferenza umana nel ciclo dell’azoto (il tasso con cui
l’N2 è rimosso dall’atmosfera e convertito in azoto reattivo per l’uso
umano, principalmente come fertilizzante) e i cambiamenti climatici –
e siamo vicini al limite per altri tre – il consumo di acqua dolce, il
cambiamento nello sfruttamento del suolo e l’acidificazione degli
oceani3.
§ Sui nove parametri, vedi J. Rockström et al. 2009: 474.
L’acidificazione degli oceani è stata spesso presentata
come la sorella gemella dei cambiamenti climatici, in
quanto condivide con questi ultimi le stesse cause ed è
altrettanto grave per la vita futura nel pianeta. È importante
sottolineare che i limiti proposti da Rockström et al. hanno
un carattere sperimentale; da parte degli stessi scienziati
che parteciparono allo studio, non c’era (e non sappiamo se
questo sia cambiato) una completa certezza rispetto alla
quantificazione di alcuni fra i parametri analizzati. Per farsi
un’idea sulla discussione in corso, si veda, per esempio,
l’articolo di Anthony D. Barnosky et al. (2012), che rafforza
l’idea di un punto di non ritorno (tipping point) della biosfera
terrestre, e quello di Barry W. Brook et al. (2013), che
problematizza l’esistenza di questo tipping point nel caso
specifico della perdita della biodiversità. Per un serio e
stimolante tentativo di rilettura critico-ottimista (gli autori
sembrano credere nella possibilità di un “buon
Antropocene”) del tema dei limiti planetari dal punto di vista
dei saperi antropologici (latu sensu), si veda Pálsson et al.
(2013), che rivendicano l’urgenza di una competenza
propria delle scienze umane in generale (di quello che in
inglese si chiama, attraverso un’esitante connessione, the
humanities and the social sciences) per un confronto
teorico e pratico sulla catastrofe ambientale. La “natura” o
l’“ambiente”, insomma, sarebbe qualcosa di troppo serio
per essere lasciato esclusivamente nelle mani (e nei bilanci
di ricerca…) delle scienze naturali. Tanto piú che la
distinzione tra “ciò che vive in un ambiente” (ambientato) e
il “fattore ambientale” (ambientante), tra natura e cultura,
diviene teorica ed empiricamente sempre piú problematica.
Non si può non essere d’accordo con questo ragionamento
e con questo appello, e in particolare con la tesi che, se le
scienze “naturali” del Sistema Terra sono in grado di
parametrizzare e modellare quantitativamente l’evoluzione
geofisica della crisi planetaria, il contributo delle scienze
umane è comunque indispensabile per comprenderne le
conseguenze sociopolitiche, per articolare le possibili
risposte e trovare dei compromessi accettabili da parte di
una “umanità” che si presenta immediatamente divisa in
collettivi dotati di interessi e conoscenze variabili e in
conflitto rispetto ai valori vitali, e la cui situazione futura (ivi:
8), in generale, sarà probabilmente tanto differente dal
capitalismo mondiale integrato di oggi, quanto dal mondo
medievale o dalle società paleolitiche (il che, vorremmo
sottolineare, non è necessariamente una previsione
ottimista). Tuttavia, non ci entusiasma eccessivamente il
cliché critico che è il leitmotiv del testo di Pálsson et al.:
l’idea che “è importante storicizzare e contestualizzare le
affermazioni su limiti e frontiere” (ivi: 7). Non è solo ovvio…
è anche imperativo; a condizione, però, che ciò non porti
alla scoraggiante conclusione, piú o meno surrettizia, che
“limiti e frontiere” siano solo una “costruzione sociale”. Altre
precisazioni fondamentalmente sensate che incontriamo
nel testo meritano un commento simile, come per esempio:
È necessario prestare piú attenzione alla distribuzione
sociale degli impatti planetari, i quali non sempre sono
facilmente quantificabili. La disuguaglianza nella
disponibilità di acqua potabile, per esempio, potrà
difficilmente trovare una soluzione attraverso una
ridistribuzione globale, e questo è qualcosa che suscita
problemi specifici di governance. Uno “spazio operativo
sicuro per l’umanità” può essere uno strumento utile su
scala globale, ma è una finzione su scala minore.
(ibid.)
“Governance”, “risorse”, “servizi ambientali”… Non ci piace questo
linguaggio manageriale che scandisce il testo, associato inoltre alla
nozione di “sostenibilità” (che secondo noi “può essere uno
strumento utile su scala locale, ma è una finzione su scala
maggiore”), e non possiamo non richiamare l’attenzione sulla facilità
con cui si mantiene l’immagine dicotomica del “locale versus
globale”, che è proprio uno degli aspetti oggettivamente piú
problematizzati dalla crisi planetaria4. Sarebbe un peccato se,
ancora una volta, finissimo con l’assistere a una ricostituzione del
dualismo Natura/Cultura attraverso gli stessi gesti che ne rivelano
l’inconsistenza, come accade con gli scienziati naturali ipnotizzati dai
“parametri geofisici” e muniti di una nozione di “umanità” vaga e di
scarsa efficacia politica, e con gli scienziati sociali che
semplicemente rinominano “giustizia ambientale” la perenne e
ineludibile lotta per i diritti dei dannati della Terra, ovvero la “giustizia
sociale”. Ma, come diceva uno degli slogan della campagna per la
fondazione dell’Instituto Socioambiental (ISA) in Brasile,
“socioambientale si scrive tutto attaccato”. Ci sembra necessario,
insomma, intendere il concetto di ecologia politica come un
pleonasmo meramente enfatico, e non come un ibrido compromesso
concettuale, un “accordo” tra una Natura e una Cultura che, in
questo modo, continuerebbero a non giocare a carte scoperte. Ma
forse stiamo leggendo in modo eccessivamente poco esauriente
l’importante call to arms di Pálsson et al., e ci scusiamo se è cosí.
§ Uno dei “canarini da miniera” dei cambiamenti climatici è
lo scioglimento delle principali calotte di ghiaccio della
Terra. Il quarto rapporto dell’IPCC (Gruppo intergovernativo
sul cambiamento climatico), uscito nel 2007, stimava che il
ghiaccio artico potrebbe scomparire durante una qualsiasi
estate da qui alla fine del secolo. Ma il record di disgelo è
stato già infranto nell’agosto 2012, e alcuni scienziati si
arrischiano a prevedere, per questa decade, un’estate
senza ghiaccio nell’Artico. La sintesi del quinto rapporto del
Working Group I, uscito nel 2013, classifica come
“probabile” la quasi totale assenza di ghiaccio marino
nell’Artico, nel mese di settembre, entro la metà del secolo.
Come già menzionato, inoltre, le ultime novità nelle aree
polari sono successive al rapporto dell’IPCC; riguardano la
spaventosa velocità di scioglimento dei ghiacciai
monumentali in Antartide e Groenlandia, il che modifica
considerevolmente le previsioni (temporali e spaziali) di
innalzamento del livello degli oceani. Parafrasando il
Manifesto di Marx, “tutto ciò che è solido” – a cominciare
dal ghiaccio piú antico della Terra – “si scioglie nel mare”5…
Siamo, insomma, a due passi dall’ingresso – o siamo già entrati,
e questa stessa incertezza illustra l’esperienza di caos temporale –
in un regime del Sistema Terra completamente differente da tutto ciò
che abbiamo conosciuto fino a ora. Il futuro prossimo, nello spazio di
poche decadi, diviene imprevedibile, se non addirittura
inimmaginabile al di fuori degli scenari della fantascienza o delle
escatologie messianiche.
Ci sono varie immagini sconcertanti riguardo questo fenomeno di
accelerazione delle alterazioni ambientali con un tasso percepibile
nell’arco di una o due generazioni umane, come gli hockey stick
graphs6 che mostrano l’aumento vertiginoso di diversi parametri
critici a partire dalla fine del XIX secolo – temperatura media globale,
incremento demografico, consumo di energia pro capite, tasso di
estinzione delle specie ecc. – o come la “curva di Keeling”, che
descrive l’evoluzione del tasso di concentrazione di CO2
nell’atmosfera dal 1960, il quale ha raggiunto per la prima volta il
limite di 400 ppm il 9 maggio del 20137. E non si tratta pertanto solo
dell’ampiezza dei cambiamenti in rapporto ad alcuni valori di
riferimento (per esempio i 280 ppm di CO2 precedenti alla
Rivoluzione Industriale), ma della loro accelerazione crescente –
l’intensificazione della variazione e la conseguente perdita di ogni
valore di riferimento.
Viviamo il tempo dei punti catastrofici e dell’inversione delle
curve8. Record sempre piú frequenti di alte temperature sono seguiti
da record (sempre meno frequenti?) di basse temperature. Si
discute quasi quotidianamente sulla rapidità d’innalzamento della
concentrazione di CO2 (il che, per esempio, implica un grosso
dibattito sull’economia dei paesi emergenti); si discute la “sensibilità”
del Sistema Terra e il conseguente grado di innalzamento della
temperatura globale in funzione del raddoppiamento della quantità di
CO2 accumulata nel sistema. D’altro canto, la diminuzione globale
del volume dei ghiacci non impedisce l’aumento (provvisorio?)9 della
loro estensione in alcune regioni del pianeta e si lega alla
modificazione della loro consistenza, della loro temperatura e alla
conseguente capacità di riflettere la luce. Qual è la velocità e la
proporzione dell’innalzamento del livello del mare, e a cosa si deve,
per esempio, la misteriosa caduta dell’innalzamento globale occorsa
tra il 2010 e il 201110? Come risolvere il problema delle cause, come
parlare di una deviazione dalla norma se la norma cambia ogni
anno, lasciando proprio l’anormalità come unica norma possibile11?
Piú caldo e piú freddo, piú secco e piú umido, piú rapido e meno
rapido, piú sensibile e meno sensibile, maggiore o minore riflettanza,
piú chiaro e piú scuro. L’instabilità affetta il tempo, le quantità, le
qualità, le misure stesse e le scale in generale, e corrode anche lo
spazio. Locale e globale si sovrappongono e si confondono:
l’innalzamento globale del livello del mare non si riflette
uniformemente sull’innalzamento locale; i cambiamenti climatici sono
un fenomeno globale, ma gli eventi estremi incidono ogni volta su un
punto differente del pianeta, rendendo sempre piú difficile la
previsione e la prevenzione delle loro conseguenze. Tutto ciò che
facciamo localmente ha delle conseguenze sul clima globale, ma
d’altro canto le nostre piccole azioni individuali di mitigazione
sembrano non avere nessun effetto osservabile. Siamo prigionieri di
un generalizzato divenire-folle delle qualità estensive e intensive che
riguardano l’intero sistema biogeofisico della Terra. Non è
sorprendente che alcuni climatologi facciano riferimento al sistema
climatico attuale come “bestia climatica” (“the climate beast”)12.
Ciò che tutto questo suggerisce è che l’accelerazione del tempo –
e la relativa compressione dello spazio –, considerata abitualmente
come condizione esistenziale e psicoculturale dell’epoca
contemporanea, ha finito per debordare, in una forma
oggettivamente paradossale, dalla storia sociale verso la storia
biogeofisica. Dipesh Chakrabarty (2009), nel suo pionieristico
articolo “The Climate of History”, descrive tale passaggio come la
trasformazione della nostra specie da semplice agente biologico a
forza geologica. Questo è il fenomeno piú significativo del secolo
presente: “l’intrusione di Gaia” (Stengers 2009), brusca e improvvisa,
nell’orizzonte della storia umana, l’irruzione definitiva di una
trascendenza che pensavamo di aver trasceso e che ora ritorna piú
forte che mai. La trasformazione degli umani in forza geologica,
ovvero in un fenomeno “oggettivo”, in un oggetto “naturale”, in un
“contesto” o “ambiente” condizionante, paga il prezzo dell’intrusione
di Gaia nel mondo umano, dando al Sistema Terra la forma
minacciosa di un soggetto storico, di un agente politico, di una
persona morale (Latour 2013a). In un’inversione ironica e letale
(poiché ogni volta contraddittoria) di forma e sfondo, colui che vive in
un ambiente (“ambientato”) diviene ambiente (o “ambientante”) e
viceversa: è la crisi, in effetti, di un sempre piú ambiguo “ambiente”,
che non sappiamo piú dove si trovi in relazione a noi – né sappiamo
dove ci troviamo noi in relazione a esso.
Questa repentina collisione degli Umani con la Terra, la
terrificante comunicazione del geopolitico con il geofisico,
contribuisce in maniera decisiva al crollo della distinzione
fondamentale dell’episteme moderna: la distinzione tra l’ordine
cosmologico e quello antropologico, separati da “sempre” (cioè,
perlomeno dal XVII secolo) da una doppia discontinuità, di essenza
e di scala. Da un lato l’evoluzione della specie, dall’altro la storia del
capitalismo (a lungo termine saremo tutti morti); alla fine tutto è
termodinamica, ma è nel mercato finanziario che si fanno i conti che
contano; la meccanica quantistica fluttua nel cuore della realtà, ma
sono le incertezze della politica parlamentare che mobilitano i nostri
cuori e le nostre menti – in due parole, Natura e Cultura (Latour
2009; Viveiros de Castro 2012a). Una volta distrutta la campana di
vetro che allo stesso tempo ci separava e innalzava infinitamente al
di sopra della Natura infinita “lí fuori” (Hache e Latour 2009), ci
ritroviamo nell’Antropocene, l’epoca in cui la geologia entra in
risonanza geologica con la morale, cosí come avevano profetizzato i
celebri visionari Gilles Deleuze e Félix Guattari, vent’anni prima di
Crutzen: il che, teniamo a sottolineare, non moralizza la geologia (la
responsabilità umana, l’intenzionalità, il significato – vedi Pálsson et
al. 2013), ma rende geologica la morale13. L’affascinante
stratificazione socio-cosmologica della modernità inizia a implodere
di fronte ai nostri occhi. Si pensava che l’edificio avrebbe tenuto in
virtú del pianterreno, l’economia, ma ci siamo dimenticati delle
fondamenta. E sopraggiunge il panico quando si scopre che la
determinazione in ultima istanza era solo la penultima…
Non solo la modernità si è globalizzata, ma il globo planetario si è
modernizzato – e tutto ciò in un lasso di tempo brevissimo: “È solo in
tempi molto recenti che la distinzione tra storia umana e storia
naturale […] ha iniziato a crollare” (Chakrabarty 2009: 207). L’idea
che la comparsa della nostra specie sul pianeta sia recente, che la
storia cosí come la conosciamo (agricoltura, città, scrittura) lo sia
ancora di piú, e che il modo di vita industriale, basato sull’uso
intensivo dei combustibili fossili, sia iniziato da meno di un secondo
nella scala dell’orologio evolutivo dell’Homo sapiens, sembra
suggerire che l’umanità stessa sia una catastrofe, un evento
improvviso e devastante nella storia del pianeta, e che scomparirà
piú velocemente dei cambiamenti che ha suscitato nel regime
termodinamico e nell’equilibrio biologico della Terra. Nei resoconti di
questa sorta di “Storia Profonda” che storici, paleontologi, climatologi
e geologi14 stanno costruendo, gli esseri umani reciteranno un ruolo
cruciale, tardivo e molto probabilmente effimero.
§ Sul probabile equivoco scientifico e la comoda manovra
politica che retrodata l’inizio dell’Antropocene al Neolitico
(scagionando cosí gli attuali interessi tecno-economici che
riempiono l’atmosfera di CO2, o perlomeno attenuando la
gravità dei loro crimini), vedi Hamilton 2014, che oltre a
contestare questo spostamento, ricorda che ci sono
rispettati paleoclimatologi, come Wally Broecker, che
preferiscono parlare di una nuova era geologica (“l’era
Antropozoica”15) piú che di una semplice epoca
(l’Antropocene), aumentando cosí perlomeno di un ordine
di grandezza la scala cronologica e il significato geofisico
dell’evento iniziato con la Rivoluzione Industriale e le sue
successive tappe di intensificazione. Ricordiamo inoltre che
l’idea di una congenita vocazione ecocida dell’Homo
sapiens è frequentemente evocata – a volte con le migliori
intenzioni (ora che sappiamo di essere, oltre che mortali,
mortiferi, possiamo e dobbiamo fare qualcosa al riguardo,
come suggerisce Monbiot 2014, utilizzando la recente
letteratura sull’estinzione della megafauna del Pleistocene)
– per spiegare l’attuale crollo antropocenico. Ma questa tesi
è stata recepita con scetticismo da alcuni paleoecologi
adepti della “teoria della resilienza” (Brooke 2014: 8-9, 267-
268), che al contrario suggeriscono lunghissimi periodi di
stabilità ecologica e sociopolitica delle società arcaiche,
punteggiati da esogeni “colli di bottiglia” ambientali
(catastrofi neomalthusiane, di origine tettonica o
astronomica). Con un ragionamento simile a quello di
Monbiot sull’Homo destructor, Pálsson et al. (2013: 8)
suggeriscono che l’Antropocene si caratterizza in modo
impressionante (striking) come la prima epoca geologica
nella quale una forza geologicamente determinante è
“attivamente cosciente del suo ruolo geologico”, il che
modifica potenzialmente la natura stessa della geologia. Ma
ciò non equivale a dire piú o meno che dopo Darwin le leggi
dell’evoluzione sono state “potenzialmente” modificate, nel
senso che adesso abbiamo la capacità di infrangerle?
Argomento curioso. Essere attivamente coscienti del
proprio ruolo geologico è necessariamente sinonimo di
essere attivamente capaci di modificare questo ruolo? In
fondo, siamo “attivamente coscienti” della nostra mortalità
da diversi, forse centinaia di millenni, e tuttavia…
§ Vedremo piú avanti che il termine “Antropocene”, o
almeno il suo senso geofisico-antropologico, non suscita
esattamente un unanime entusiasmo tra gli specialisti delle
“scienze umane”. Accenniamo qui alla proposta – del resto,
abbastanza tipica di uno dei principali aspetti di critica al
concetto – di ribattezzare l’Antropocene come
“Capitalocene”, il cui piú determinato sostenitore è il
sociologo Jason Moore, coordinatore del World-Ecology
Research Network16. Moore sostiene che la Rivoluzione
Industriale cominciata all’inizio del XIX secolo è solo una
conseguenza del mutamento socioeconomico generato dal
capitalismo nel “lungo secolo XVI” e che pertanto l’origine
della crisi risiede in ultima istanza, se cosí possiamo
esprimerci, nei rapporti di produzione prima che nelle (e
prima delle) forze produttive. (Il che implicherebbe che non
sia stato il mulino a vento a portarci il signore feudale, o la
macchina a vapore il capitalista industriale…) Come tuttavia
controbatte Chakrabarty17:
Alcuni accademici affermano che non è l’azione umana
in quanto tale a essere divenuta una forza planetaria,
poiché il cambiamento climatico è semplicemente il
risultato dello sviluppo capitalista. Il loro ritornello è: “È
il capitalismo, stupido!” Se argomentassimo che una
modernizzazione globale di tipo sovietico avrebbe
prodotto conseguenze molto simili, la maggior parte di
loro comincerebbe a fare tutta una serie di acrobazie
teoriche per provare che il socialismo sovietico era in
verità un capitalismo sotto altra forma! Naturalmente
non è possibile speculare sopra un “vero socialismo”
che nessuno ha mai visto… (Chakrabarty 2012)
Naturalmente la maggior parte delle persone istruite ha imparato
ad ammettere la finitudine oggettiva della specie, perlomeno dopo
Darwin. Sappiamo che “il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà
senza di lui”, secondo le parole cosí spesso riprese (e cosí spesso
plagiate) di Lévi-Strauss (1996: 402). Ma quando le scale della
finitudine collettiva e della finitudine individuale entrano in una
traiettoria di convergenza, questa verità cognitiva diventa d’un colpo
una verità caratterizzata da sentimenti ed emozioni difficili da gestire.
Una cosa è sapere che la Terra, e tutto l’Universo, scompariranno tra
qualche miliardo di anni, o che, molto prima di ciò, in un futuro
ancora indeterminato, la specie umana si estinguerà – quest’ultimo
sapere è, del resto, frequentemente neutralizzato dalla speranza che
“ci trasformeremo in un’altra specie” (nozione carente di significato
specifico); ben altra cosa è invece immaginare lo scenario che la
conoscenza scientifica attuale colloca nel campo delle possibilità
imminenti, in cui le prossime generazioni (le generazioni prossime) si
troveranno a dover sopravvivere in un ambiente impoverito e
squallido, un deserto ecologico e un inferno sociologico. Una cosa,
insomma, è sapere teoricamente che moriremo; tutt’altra è ricevere
dal nostro medico la notizia di essere affetti da una malattia
estremamente grave, con prove radiologiche e altro alla mano.
§ Ciò che rende ancora piú difficile pensare la catastrofe è il
carattere “iperoggettivo” dei cambiamenti climatici.
“Iperoggetti” è il nome dato da Timothy Morton (2010, 2013)
a ciò che egli considera un tipo relativamente nuovo di
fenomeni e/o entità che mettono in discussione la nostra
percezione del tempo e dello spazio: sia perché il loro
modo di distribuirsi sul pianeta non consente la nostra
immediata comprensione, sia perché persistono e
producono effetti la cui durata eccede enormemente la
scala della vita individuale, della vita collettiva e,
verosimilmente, della durata della specie. Esempi di
iperoggetti sono i materiali radioattivi e altri rifiuti industriali,
cosí come il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici
che ne conseguono e che dureranno migliaia o milioni di
anni, fino a che non si saranno ristabilite le condizioni che
oggi conosciamo. Autori come Hans Jonas e Günther
Anders avevano già ampiamente anticipato questa idea di
una radicale sproporzione, causata dalla potenza
tecnologica moderna, tra cause ed effetti, azioni e
conseguenze, in un processo di delocalizzazione e
perennizzazione delle azioni umane – dal punto di vista,
beninteso, della nostra esperienza e immaginazione18.
Come osserva Latour (2013a: 109), cercando di caratterizzare i
diversi aspetti del sentimento di “disconnessione” che ci paralizza di
fronte agli eventi attuali: “Niente [ha] la giusta misura”. Non si tratta
piú solamente, dunque, di una “crisi” nel tempo e nello spazio, ma di
una feroce corrosione del tempo e dello spazio19. Questo fenomeno
di un collasso generalizzato delle scale spaziali e temporali annuncia
l’arrivo di una continuità o convergenza critica tra i ritmi della natura
e della cultura, segno di un imminente “cambio di fase”
nell’esperienza storica umana. Ci troviamo cosí forzati a riconoscere
l’avvento di un’altra continuità (ancora una doppia torsione alla Lévi-
Strauss), una “posterità” quasi-freudiana, o meglio, una continuità a
venire tra il presente moderno e il “passato” non moderno – una
continuità mitologica o, in altri termini, cosmopolitica. Cosí il tempo
storico entra di nuovo in risonanza con il tempo meteorologico o
“ecologico” (Evans-Pritchard 1979) – non piú nei termini arcaici dei
ritmi stagionali, bensí nell’interruzione dei cicli e nell’irruzione dei
cataclismi. Lo spazio psicologico diviene coestensivo allo spazio
ecologico – non piú come controllo magico dell’ambiente, ma come
“freddo panico” (Stengers) suscitato dall’enorme distanza tra la
conoscenza scientifica e l’impotenza politica, cioè tra la nostra
capacità (scientifica) di immaginare la fine del mondo e la nostra
incapacità (politica) di immaginare la fine del capitalismo, per
evocare la tanto citata boutade di Fredric Jameson.
Apparentemente, non solo siamo sul punto di ritornare a una
“condizione premoderna”, ma ci troviamo ancora piú inermi, di fronte
alla collisione con Gaia, di quanto si percepisse il cosiddetto “uomo
primitivo” nei riguardi dei poteri della Natura, poiché quest’ultimo,
perlomeno, “si trovava protetto – e in un certo senso affrancato – dal
cuscino ammortizzatore dei suoi sogni” (Lévi-Strauss 1996: 380).
Mentre i nostri incubi, al contrario, ci perseguitano in piena veglia –
anche se la sensazione di essere svegli non è che un ulteriore
incubo.
La prospettiva della fine del mondo
È proprio di questo shock che parlano i discorsi apocalittici sopra
menzionati e, nelle pagine che seguono, ne analizzeremo gli effetti
d’insieme sull’immaginario contemporaneo.
La fine del mondo, dunque. Cominciamo dalla fine. La formula ci
pone di fronte a una situazione paradossale, simile alla
deformazione dei parametri spazio-temporali già citata, in cui siamo
simultaneamente trascinati da un doppio movimento, verso un
passato e un futuro ugualmente doppi, con un lato “empirico” e uno
“trascendentale”: il passato oscuro e violento della generazione
materiale (cosmogenesi, antropogenesi) e il futuro doloroso della
decadenza, della corruzione o dell’attesa della morte; ma anche un
passato di pura pienezza esistenziale (che non ha mai avuto luogo
in quanto presente, poiché ne è l’idea regolatrice e dunque
l’inversione mitica) e un futuro di inesistenza assoluta (che è, per
cosí dire, già da sempre accaduto, poiché l’inesistenza assoluta è
“trascendentalmente” retroattiva20). Ogni pensiero della fine del
mondo pone dunque la questione dell’inizio e quella del tempo prima
dell’inizio, la questione del katechon (il tempo della fine, cioè il tempo
di prima-della-fine) e quella dell’eschaton (la fine dei tempi), ovvero
la scomparsa ontologica del tempo: la fine della fine.
In secondo luogo, il mondo. Pensare la fine del “mondo” ci pone
in un registro sia sottrattivo, sia duplicativo: il mondo viene posto per
essere eliminato, posto come già eliminato da un pensiero esso
stesso implicato in tale eliminazione, poiché questa è un aspetto,
una proprietà o una dimensione (essenziale o accidentale) del
mondo, che al tempo stesso lo anticipa per rappresentare – o
meglio, “pre-presentare” – l’evento della fine. Il pensiero della fine
del mondo suscita necessariamente il problema correlato della fine
del pensiero, ovvero, della fine della relazione (interna o esterna) tra
pensiero e mondo.
Riprendiamo dunque qui in maniera operativa (ovvero, senza
compromessi metafisici) la semplice posizione “correlazionista”
secondo cui la fine del mondo è un problema posto per e dal
pensiero, poiché solo il pensiero è in grado di problematizzare – il
che non vuol dire, e questo è meno banale, che solo gli umani
pensino, cioè abbiano un mondo da perdere. Constatiamo nei fatti
che tutti i concetti di “mondo” presenti nei discorsi apocalittici in
esame mobilitano un interlocutore concettuale della famiglia
dell’“Altro” deleuziano: l’Altro come struttura a priori, in quanto
condizione di ogni possibile mondo “oggettivo”, e dunque della
possibilità oggettiva della sua estinzione21. La “fine del mondo”, in
questi discorsi, ha un significato determinato – diviene pensabile in
quanto possibile – solo se si stabilisce allo stesso tempo per chi
questo mondo che finisce è un mondo, chi è il mondano o
“mondanizzato” a cui spetta di definire la fine. Il mondo, insomma, è
una prospettiva oggettiva 22.
La relazione (o correlazione) centrale in tutte le varianti mitiche
della fine del mondo qui considerate è quella della “mondanità” con
l’“umanità” – relazione la cui fine sembra essere il problema, anche
quando “il problema” la destituisce dalla sua centralità o
semplicemente la de-realizza. Nelle pagine che seguono, la fine del
mondo sarà considerata come qualcosa che è necessariamente
pensato a partire da un altro polo, un “noi” che include il soggetto
(sintattico o pragmatico) del discorso sulla fine. E chiameremo
“umanità” o “noi” gli enti per cui il mondo è mondo, o meglio, quelli
che rispondono alla domanda di chi è il mondo23. In modo cruciale,
tuttavia – e questo è un punto messo poco in evidenza dai discorsi
radicati nella prospettiva dell’Occidente moderno, siano essi di
ispirazione “naturalista”, “umanista” o “postumanista” –, sapere chi è
questo “noi”, o cosa si intenda per “umano” o “persona” in altri
collettivi, consensualmente considerati (da “noi”) come umani, è una
questione raramente posta, e che in ogni caso non va mai oltre il
limite della specie in quanto categoria tassonomica estensiva. Farsi
carico di questa questione è un obiettivo strategico, per il quale
l’antropologia empirica o la teoria etnografica sono meglio preparate
della metafisica o dell’antropologia filosofica, che sembrano sempre
sapere con esattezza quale genere di ente sia l’anthropos e,
soprattutto, chi sta parlando quando si dice “noi”24.
Il problema della fine del mondo è dunque sempre formulato
come separazione o divergenza, un divorzio o una vedovanza
risultanti dalla scomparsa di uno dei poli della dualità tra il mondo e il
suo Abitante, l’ente il cui mondo è mondo – che la nostra tradizione
metafisica tende sempre a identificare con l’“Umano”, che lo si
chiami Homo sapiens o Dasein. Una scomparsa sia attraverso
l’estinzione fisica di uno dei termini, sia tramite il suo assorbimento
metafisico nel termine correlativo, che comporta la rideterminazione
del termine sussistente. Per dirla in modo molto semplice, possiamo
partire dall’opposizione tra un “mondo senza noi”, ovvero un mondo
dopo la fine dell’esistenza della specie umana, e un “noi senza
mondo”, un’umanità dismondizzata o disambientata, la sussistenza
di una qualche forma di umanità o soggettività dopo la fine del
mondo. Ma, come si è visto, pensare la disgiunzione futura dei
termini evoca irresistibilmente l’origine della loro presente e precaria
congiunzione. La fine del mondo retroproietta un inizio del mondo;
allo stesso tempo, il destino futuro dell’umanità ci trasporta verso la
sua genesi. L’esistenza del “mondo prima di noi”, anche se da alcuni
viene considerata come una sfida filosofica (si veda piú avanti), non
sembra cosí difficile da immaginare per l’uomo comune. Ma la
possibilità di un “noi prima del mondo”, la preesistenza onto-
cosmologica dell’essere umano rispetto al mondo, è una figura meno
usuale nella vulgata mitologica occidentale. Vedremo che questa è
una possibilità largamente esplorata dal pensiero amerindio.
La dualità mitica “umanità/mondo”, pensata a partire dalla sua
dissoluzione attraverso la sottrazione di uno dei poli, ci pone cosí di
fronte a quattro casi basilari, tenendo conto della sua proiezione
verso il futuro o verso il passato. Ma questa semplice matrice si
raddoppia subito in otto casi, se si considera la tonalità affettiva o il
valore attribuito a ognuna di queste risoluzioni sottrattive. Il mondo
dopo di noi può essere visto alternativamente come una nuova Età
dell’Oro per la vita o come un deserto silenzioso e morto; l’umanità
dopo la fine del mondo può essere vista come una razza di
superuomini il cui destino è il cosmo infinito o come un pugno di
sopravvissuti miserabili sopra un pianeta devastato, e via di
seguito25.
Ma il quadro è in verità molto piú sfumato a causa del semplice
fatto che il significato e il riferimento al “mondo” e all’“umanità” nelle
differenti fabulazioni mitiche, artistiche, scientifiche o filosofiche sulla
fine del mondo, sono estremamente variabili. Il polo “soggetto” o
“persona” sembra quasi sempre riferirsi, come abbiamo visto, alla
totalità dell’umanità in quanto specie; ma può anche ridursi alla
“vera” umanità, cioè a una certa incarnazione socioculturale
specifica dell’eccellenza umana (noi, per esempio); o, al contrario,
estendersi a una virtualità antropomorfica universale, una sorta di
fondo di umanità in quanto prima materia. Questo “mondo” di cui si
immagina la fine può riguardare la totalità della biosfera terrestre;
può designare il cosmo come un “tutto” (l’insieme degli enti e dei
processi spazio-temporali, ovvero il “mondo” della fisica), o anche la
Realtà nel suo senso metafisico, o, ancora, l’Essere in quanto tale;
ma può anche designare l’Umwelt [l’ambiente] socionaturale umano
o, in modo piú ristretto, un certo modo di vita considerato come
l’unico degno di veri esseri umani (possiamo vivere senza aeroplani
o senza computer, senza plastica o senza antibiotici?)26.
Queste fluttuazioni o equivoci non sottraggono importanza e
pregnanza all’idea della “fine del mondo”; al contrario, le fanno
subire una diffrazione e la moltiplicano in una varietà di fini e di
mondi che sembrano nonostante tutto esprimere nell’insieme una
stessa intuizione storica fondamentale: ci è stato rivelato che le cose
stanno cambiando in modo rapido, e sicuramente non in meglio, per
la vita umana “cosí come la conosciamo”27. E soprattutto, non
abbiamo la minima idea di cosa dobbiamo fare. L’Antropocene è
l’Apocalisse, nella sua duplice accezione, etimologica ed
escatologica. Tempi interessanti, in effetti.
Note
1 Che, giustamente, non smette di sorprenderci. Si veda per
esempio il caso degli studi sullo scioglimento sempre piú rapido dei
giganteschi ghiacciai in Antartide e in Groenlandia, resi pubblici solo
alcune settimane dopo l’uscita dell’ultima parte dell’ultimo rapporto
dell’IPCC dell’aprile 2014. Cfr. la nota 1 della prefazione.
2 Anders (2007: 82) ha osservato questo passaggio dalla condizione

al condizionato riguardo a ciò che chiamava il “tempo della fine”, il


kairos postnucleare definito dalla possibilità imminente della “fine dei
tempi”.
3 Gli autori hanno pubblicato successivamente una seconda

versione, rivista e attualizzata, del loro studio. Vedi Steffen et al.


2015.
4 Può essere istruttivo comparare le considerazioni sopracitate con

la tesi degli “eco-pragmatisti” del famoso Breakthrough Institute (di


cui parleremo piú avanti), per mostrare l’inadeguatezza
dell’applicazione della nozione di limiti planetari su scala globale,
che potrebbe bloccare “opportunità” di crescita a livello locale;
secondo i due autori, solo i cambiamenti climatici e l’acidificazione
degli oceani costituirebbero sistemi con limiti planetari. Vedi
Nordhaus, Shellenberger e Blomqvist 2012: 6, 12, 15.
5 Vedi: 1) http://climateandcapitalism.com/2014/05/30/antarcticas-

accelerating-ice-
collapse/utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaig
n=Feed%3A+climateandcapitalism%2FpEtD+%28Climate+and+Cap
italism%29; 2) http://climatecrocks.com/2014/06/02/new-video-
meltwater-pulse-2b/; 3) http://www.skepticalscience.com/global-
warming-vulnerability-greenland-ice-sheet.html; 4)
http://mashable.com/2014/05/20/antarctia-collapse-ice-sheet-how-
worried/?utm_cid=mash-com-Tw-main-link.
6 L’hockey stick graph, concepito da Michael Mann per

rappresentare i cambiamenti nella temperatura della Terra a partire


dal 1000 a.C., è apparso per la prima volta nel 2001, nel “Summary
for Policy Makers” del terzo rapporto dell’IPCC; si veda la recensione
del dibattito suscitato, in Mann 2012.
7 Queste misurazioni sono state estese a un passato lontano, in

base a osservazioni empiriche (anelli di crescita degli alberi,


carotaggi di ghiaccio polare), alcune delle quali risalenti all’11.000
b.p. [n.d.t.: before present: “prima del (tempo) presente”], come nel
caso dell’“anomalia della temperatura”. L’estensione dell’arco
cronologico ha rafforzato l’eccezionalità del momento presente, per
quanto riguarda l’ambiente in cui si è evoluta la specie umana.
8 La curva di Keeling è uno dei pochi grafici che non presentano

oscillazioni negative, a parte quelle diurne e stagionali. Le


misurazioni delle temperature globali, anche se mostrano
chiaramente una tendenza all’aumento nel corso di periodi piú estesi
(soprattutto nei grafici hockey stick che includono le temperature
anteriori alla Rivoluzione Industriale), diminuiscono puntualmente
durante intervalli di tempo piú brevi. Un eventuale aumento piú lento
della temperatura globale, prontamente celebrato dai negazionisti
del clima come prova della falsità dell’“ipotesi del riscaldamento
globale”, viene spiegato dai climatologi con un aumento piú
accentuato di altri parametri: per esempio, la temperatura degli strati
profondi degli oceani.
9 Cfr. la nota 1 della prefazione.
10 Alcuni lavori attribuiscono questa caduta al verificarsi di grandi

alluvioni in Australia nello stesso periodo, le quali “hanno sottratto


grandi quantità di acqua agli oceani senza poi restituirla, come un
utente di una biblioteca che accumula multe sempre maggiori per
ritardi nella riconsegna” (Freedman 2013).
11 Vedi Hansen et al. 2012.
12 Wallace Broecker e Robert Kunzig, citati da Chakrabarty (2013):

“Ogni tanto […] la natura decide di dare un bel calcetto alla bestia
climatica. E la bestia risponde, come fanno le bestie, con violenza e
in modo abbastanza imprevedibile”. Vedi come Chakrabarty riprende
questo passaggio nel suo testo raccolto in Hache 2014.
13 Vedi il capitolo “10.000 a.C. La geologia della morale (per chi si
prende la Terra?)”, in Deleuze e Guattari 2006. La datazione fa
chiaramente riferimento alla Rivoluzione Neolitica e all’inizio
dell’Olocene.
14 Si veda la recente e monumentale sintesi di Brooke 2014.
15 Il termine era già stato suggerito nel 1873 da Stoppani (in Pállson

et al. 2013: 4).


16 https://www.facebook.com/pages/World-Ecology-Research-
Network/174713375900335.
17 Non sappiamo se Chakrabarty avesse in mente, in modo

specifico, le aggressive critiche di Moore.


18 Vedi anche le pagine penetranti di Anders (2007: 40-51) sul

“paralogismo della sensazione”, ossia l’indifferenza individuale verso


l’apocalisse, dovuta al fatto che, visto che “si creperà tutti insieme”,
questa non mi riguarda personalmente.
19 Sull’accelerazione del tempo, si veda il denso articolo di Derrida

(1984), che non abbiamo – et pour cause – il tempo di ruminare


adeguatamente. Si veda anche Gaston (2013: 151 sgg.) per
un’esposizione della critica di Derrida al concetto metafisico di
“mondo” e ad altri concetti correlati, nonché per una difesa del
filosofo dalle critiche di coloro che Gaston chiama “eco-polemisti”.
20 Vedi Anders (2007: 18-27) su “il kairos dell’ontologia”, momento

creato dal rischio dell’apocalisse, e quindi fine dell’epoca del “non-


essere per noi” e avvento del “non-essere per nessuno”, il “vero non-
essere” dell’estinzione che abolirà – che ha sempre già abolito – il
passato in quanto tale. Tale collegamento tra ciò che, mezzo secolo
dopo le riflessioni di Anders, siamo arrivati a definire “la svolta
ontologica” e la prospettiva della fine del mondo, ci sembra della
massima importanza.
21 Deleuze 2005: 264 sgg. Il concetto è ripreso in Deleuze e Guattari

1996. Ancora una volta vedi Gaston 2013: 99 sgg., per un’analisi
dell’affermazione di Derrida secondo cui la morte dell’Altro è la fine
del mondo.
22 “Bisogna ricordare che l’espressione ‘mondo reale’ è come ‘ieri’ e
‘domani’, in quanto altera il suo significato a seconda del punto di
vista [standpoint]” (Whitehead 1965: 159).
23 Per la distinzione tra il concetto “relativista” di mondo-per-un-

soggetto e il concetto “prospettivista” di mondo-di-un-soggetto, vedi


Viveiros de Castro 2012b [1998].
24 Su questa differenza nel modo di determinare le condizioni

d’articolazione di un “noi”, vedi il commento a una frase di Rorty in


Viveiros de Castro 2011a.
25 Vista l’intenzione politica del presente saggio, il/la lettore/lettrice

non si stupirà se considereremo piú interessanti (“buoni da pensare”,


direbbe Lévi-Strauss) i casi di persone-senza-mondo rispetto a quelli
di un mondo-senza-persone, e se pertanto ci dilungheremo
maggiormente sui primi.
26 Non discuteremo qui le sfumature tecniche dei diversi concetti di

mondo sviluppati storicamente “dentro” la filosofia in quanto


disciplina. Per un’analisi parziale di questa storia, centrata sulla serie
“Kant, Hegel, Husserl, Heidegger, Derrida”, vedi l’ultimo libro, già
citato, di Sean Gaston (2013).
27 La formula “la fine di X cosí come lo/la conosciamo” (X=il mondo,

la vita umana, la civiltà, lo Stato-nazione ecc.) è sempre piú


ricorrente nel discorso contemporaneo e meriterebbe un’analisi
dettagliata. Nella sua apparente innocenza di mero idiomatismo
(temo si sia disseminata a partire da traduzioni dall’inglese) è ricca di
sottintesi filosofici.
…striscia verso Betlemme per esser partorita?
Abbiamo perduto il cosmo.
D.H. Lawrence
Il mondo prima di noi
Il primo modo che abbiamo scelto per iniziare la nostra ricognizione
trova la sua espressione canonica nell’idea di Eden, un’immagine
letteralmente paradisiaca dell’infanzia del mondo: il mondo cosí
come si presentava fino al sesto giorno della Creazione, uno
scenario costruito in vista dell’ingresso dell’attore principale,
l’“Uomo”. L’Eden è un mondo-senza-umani che è un mondo-per-gli-
umani; gli umani sono gli ultimi ad arrivare, e sono, in questo senso,
la “fine” (la finalità) del mondo. In alternativa, possiamo immaginare
questo mondo nella settimana successiva a quella della creazione,
ma prima del peccato originale, prima cioè che Adamo ed Eva se ne
separassero, oggettivandolo come loro antagonista. Il mondo
prelapsario è il mondo pre-oggettivo di una umanità pre-soggettiva1.
Il mitema del mondo edenico persiste oggi nell’idea di wilderness
[regione selvaggia], quegli spazi, che sono sempre piú ristretti, di
una natura allo stato puro, non corrotta dalla presenza umana, horti
conclusi che testimoniano di un passato riuscito a preservarsi
“intatto” dal tempo primigenio fino al presente – ma che sarebbe oggi
minacciato di scomparire in seguito alla cieca azione predatoria della
civiltà occidentale. Come ha mostrato William Cronon (1995), è stato
solo verso la fine dei Lumi, nel XVIII secolo – in parte a causa
dell’influenza di nozioni come quella di “sublime” e del tema
dell’“ultima frontiera” nell’immaginario nordamericano – che la
wilderness è stata associata ad affetti positivi, a sentimenti vicini al
sacro, risvegliati dalla contemplazione di una natura grandiosa,
anteriore e superiore all’umano. Prima di quest’epoca, il termine
denotava paesaggi desertici, sterili o selvaggi, che risvegliavano piú
il senso di disperazione, la confusione e il terrore di cadere sotto il
potere del demoniaco, che l’ammirazione estetica e la religiosità. Nel
Paradiso perduto di John Milton, la wilderness veniva presentata
come il paesaggio che circondava e proteggeva il Giardino dell’Eden
da ogni intrusione esterna. È con tale rovescio ecotopico del
paradiso, con questa esteriorità antiedenica, che Adamo ed Eva
dovettero confrontarsi nel momento in cui vennero cacciati dalla
culla originale, e solo con molto lavoro e sofferenza riuscirono,
attraverso un’incessante fatica, a umanizzarlo.
La concezione positiva della wilderness come “mondo-senza-noi”
è stata al centro di numerosi movimenti ambientalisti contemporanei,
tra cui il preservazionismo radicale, che ha avuto la sua massima
espressione nella seconda metà del XX secolo. Questa versione
dell’ambientalismo considera l’esistenza degli esseri umani come
essenzialmente denaturante, non esitando pertanto a proporre
l’espulsione da questi spazi “naturali” delle collettività umane che
vivono al loro interno (di regola, le popolazioni indigene o le
popolazioni dette tradizionali, cioè poco incluse nel mercato
capitalista)2. Una simile percezione postlapsaria di qualsiasi
comunità umana contrasta o, per meglio dire, coabita confusamente
nel nostro immaginario con la percezione adamica delle popolazioni
indigene, secondo cui queste ultime vivrebbero “in armonia con la
natura” – il che equivale a dire che avrebbero poco “impatto” sui
parametri biofisici di un ambiente definito attraverso la sottrazione
dell’umano. Inversamente, qualsiasi trasformazione di tali società
che implichi l’introduzione nei loro modi di vita di oggetti e di tecniche
industriali è sufficiente per giustificare la loro esclusione da questa
posizione adamica privilegiata, e pertanto, inter alia, serve da
argomento per la loro espulsione da quelle terre “selvagge” che con
fatica riescono a conservare, il che favorisce invariabilmente forti
interessi che non hanno nulla di preservazionista. Non è necessario
ricordare la frequenza con cui, in Brasile, il fantasma dell’“indio con i
jeans”, che quindi “non è piú indio” e che “non ha bisogno di terra,
ma dell’assistenza dello Stato”, viene chiamato in causa dai
latifondisti della catena agroalimentare, con il supporto sempre
entusiasta delle grandi corporation dei media che sono, allo stesso
tempo, soci interessati e servili clienti del Capitale.
Il mondo edenico della wilderness è dunque un mondo organico e
plurale. È costruito intorno a un’opposizione fondamentale tra la vita,
inesauribile profusione di forme e sottile equilibrio di forze, e
l’umanità (sia in quanto specie “antinaturale”, sia nella sua versione
moderna-industriale), pensata come un fattore che sporca,
diminuisce e squilibra, quantitativamente e qualitativamente, la vita3.
Il mondo dopo di noi
Un secondo modo di pensare l’opposizione tra la vita e l’umanità
consiste nel proiettarla verso il futuro. La vita risorgerà invincibile
nella sua varietà e nella sua abbondanza, riconquistando il territorio
(la Terra) che l’umanità, agendo come uno spietato invasore alieno,
ha trasformato in un deserto di cemento, asfalto, plastica e plutonio.
Questa visione paradossalmente ottimista della scomparsa
dell’umanità – ottimista perché il punto di vista adottato è,
chiaramente, quello della vita – è stata esposta nel bestseller del
giornalista, scrittore e ambientalista Alan Weisman, Il mondo senza
di noi (2008a), che è all’origine di diverse serie televisive4. Il libro di
Weisman è una versione piú “radicale” del classico della
fantascienza di George R. Stewart, La terra sull’abisso (1990), in cui
uno dei pochi sopravvissuti a un’epidemia causata da un virus letale
decide di osservare – visto che è un naturalista – come la vita non
umana evolve dopo la drammatica riduzione dell’umanità a un pugno
di individui dispersi per il mondo5. Il mondo senza di noi, al contrario,
è un testo speculativo non-narrativo, che descrive il destino del
pianeta dopo la fine assoluta della specie umana (il libro non
specifica quale tipo di evento abbia causato tale estinzione),
mostrando come le nostre tracce materiali si spegneranno a poco a
poco scomparendo del tutto in un periodo di tempo relativamente
molto breve, che va da qualche decennio a pochi millenni. La fine
dell’Homo sapiens, cosí come quella delle rovine della sua arrogante
civiltà, permetterà, dopo una fase di transizione (e quindi sarà
ancora necessario che la “natura” assorba gli effetti delle
innumerevoli bombe a orologeria tecnologiche che ci siamo lasciati
alle spalle), il risanamento e il rifiorire della Terra in un’immensa
wilderness, un ricco quadro di ecosistemi dove prospereranno
innumerevoli specie. Weisman considera l’irreversibilità di alcune
trasformazioni antropiche dell’ambiente come già innescata; ma il
suo esperimento mentale si concentra sulla capacità della natura di
cancellare il carapace materiale della civiltà, rivitalizzando un pianeta
soffocato dall’accumulo dei nostri artefatti e rifiuti6.
§ La stessa idea di una sottrazione dell’elemento umano
come ciò che permetterebbe il ristabilirsi edenico del
pianeta è al centro del Movimento per l’Estinzione
volontaria degli umani7, creato all’inizio degli anni ’90
dall’attivista nordamericano Les U. Knight, e ispirato in
parte all’Ecologia Profonda, che predica la nostra
scomparsa graduale attraverso l’astensione dalla
riproduzione. Gli ultimi e rari esseri umani avrebbero la
fortuna di poter usufruire di questo mondo edenico.
Dipesh Chakrabarty introduce “The Climate of History” con una
citazione dal Mondo senza di noi, sostenendo che l’esperienza di
pensiero di Weisman mostra come il nostro senso della storia sia
minacciato di distruzione dalla rottura della continuità tra passato e
futuro, senza la quale l’esperienza del presente non ha piú senso. La
crisi ecologica, presa come segno precursore dell’estinzione
empirica dell’umanità, rinchiude la prospettiva storica in un
paradosso pragmatico: “Seguendo l’esperienza di Weisman, siamo
obbligati a inserire noi stessi in un futuro ‘senza di noi’, cosí da
essere in grado di visualizzarlo” (2009: 197-198). Il futuro cessa di
essere fatto della stessa materia del passato, diviene radicalmente
altro, “non-nostro”, un tempo che esige la nostra scomparsa per
poter apparire. La storia si degrada metafisicamente e diviene
passeggera come ogni fenomeno propriamente storico: è tutta la
storia, o meglio, la storia stessa, che da qui a poco diverrà “acqua
passata”. Günther Anders (2007: 11-18), già qualche decennio fa,
osservava che il crollo della cosmologia geocentrica è stato
rapidamente compensato, nel pensiero moderno, da
un’assolutizzazione antropocentrica della storia, ovvero dal
“relativismo storico”; ma, proseguiva, la prospettiva della fine del
mondo inaugurata dall’era atomica relativizza in maniera definitiva
quest’assolutizzazione: “la fine della Storia” diviene una semplice
occorrenza [occurrence] meteorologica, un accidente (perlomeno de
jure) con un’ora e una data prefissate.
La Storia-che-non-è-piú sarà una specie di non-piú-essere
fondamentalmente differente dagli eventi storici individuali
che, una volta passati, non sono piú. Non sarà piú
“passato”: sarà una cosa che sarà esistita sotto tale forma
(ovvero che “non sarà esistita” sotto tale forma) come se
non fosse mai esistita. (ivi: 21)
Insomma: non siamo mai stati, e basta.
L’ottimismo apparente con cui Weisman considera il suo “mondo
senza di noi” si rivela, dunque, profondamente ironico, introducendo,
nel modo paradossale della sua sottrazione, un nuovo attore storico
globale: l’umanità in quanto “specie umana” o “mankind”, un’entità
biologica divenuta forza geofisica capace di destabilizzare le
condizioni-limite della propria esistenza.
Note
1 Vedi Danowsky (2011a), uno dei testi che hanno ispirato il presente
saggio, nel quale si propone una lettura di alcune narrazioni
ricorrenti nell’opera di David Hume (tra cui quella di Adamo) come
ciò che ha configurato la concezione di un’umanità “prima” del
mondo e di un’umanità “dopo” il mondo (il mondo inteso non come
totalità, ma come “esperienza” che, nel caso di queste narrazioni, o
non esiste ancora, o non esisterà piú).
2 Anche se oggi è difficile incontrare movimenti ambientalisti che

rivendichino l’espulsione delle popolazioni tradizionali dalle loro terre


al fine di preservarne gli ecosistemi, iniziative internazionali come il
REDD (abbreviazione dell’espressione inglese Reducing Emissions
from Deforestation and Forest Degradation – Riduzione delle
Emissioni da Deforestazione e Degradazione Forestale) o anche il
REDD+ (il segno + fa riferimento al “ruolo di conservazione, gestione
sostenibile e aumento di stock di carbonio nelle foreste, il che va
oltre l’evitare la deforestazione e il recupero delle foreste” – cfr. il
blog O Eco: http://www.oeco.org.br/dicionario-ambiental/27940-
entenda-o-que-e-redd), spesso finanziate dalla Banca Mondiale,
hanno ricevuto numerose critiche per aver raggiunto gli stessi
risultati. Si veda, per esempio:
http://climateandcapitalism.com/2014/03/16/kenya-evicts-
indigenous-people-for-forest-offset-scam/?
utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed
%3A+climateandcapitalism%2FpEtD+%28Climate+and+Capitalism
%29 e la No Redd in Africa Network: http://no-redd-africa.org.
3 “Penso che durante il XX secolo, nel momento in cui la nostra

popolazione è quadruplicata, siamo arrivati a un punto in cui


abbiamo ridefinito il peccato originale: per il solo fatto di essere nati,
siamo parte del problema” (Weisman 2013).
4 Si veda, per esempio, il documentario Aftermath: Population Zero

(2008). Non bisogna confondere il libro di Weisman con il film The


World without US (US = United States), docu-fiction di Mitch
Anderson e Jason Tomarici uscita anch’essa nel 2008.
5 Il protagonista del libro di George R. Stewart finisce per incontrare

altri rari sopravvissuti e guida un tentativo, fallito, di ricostruzione


della civiltà. Ormai vecchio, vedendosi costretto ad abbandonare
questo sogno, accetta finalmente come un nuovo e speranzoso
inizio la regressione dei suoi discendenti e degli altri esseri umani a
uno stato di primitività culturale.
6 Si noti ancora una volta che la prospettiva dell’autore è innanzitutto

focalizzata sulla resilienza della vita in generale, e non sulla


sopravvivenza umana.
7 Voluntary Human Extinction Movement. Si veda la pagina web del

movimento: http://www.vhemt.org (consultata il 26 maggio 2013).


Anche Weisman (2008b) in un’intervista evoca un’ipotetica
interruzione della procreazione umana come modo “non-violento” di
ritornare a uno statu quo ante.
Il fuori senza pensiero o la morte dell’Altro
Dentro, fuori, non ha veramente importanza.
Don Juan Matus
Un certo popolo senza mondo del recente passato
Da tempo si osserva che l’appercezione culturale della modernità ha
(o meglio, aveva) tra i suoi elementi fondamentali un sentimento di
perdita del mondo, e una conseguente crisi spirituale dell’umanità
(occidentale, beninteso) che ora, proprio grazie a questa crisi
liberatoria, ha superato l’inedita condizione di “soggetto autonomo”.
La rivoluzione scientifica del XVII secolo, che ci avrebbe liberato da
un “mondo chiuso” e gerarchico per introdurci nell’“universo infinito”
e democratico (Koyré 1970), si è vista razionalizzata e rovesciata dal
golpe di palazzo realizzato dalla filosofia critica. Quello che Kant
definí la sua “rivoluzione copernicana” fu, come si sa, l’origine
ufficiale della concezione moderna dell’Uomo (teniamo qui la forma
maschile) in quanto potere costituente, il legislatore autonomo e
sovrano della natura, l’unico ente capace di elevarsi al di là
dell’ordine fenomenico della causalità condizionata dal suo stesso
intelletto: l’“eccezionalità umana” è un autentico stato d’eccezione
ontologico, sorretto dalla separazione autofondante tra Natura e
Storia. La traduzione militante di questo dispositivo mitico è
l’immagine prometeica dell’Uomo che conquista la Natura: l’Uomo in
quanto essere che, emergendo dalla sua angoscia animale
originaria, si allontana dal mondo solo per farvi ritorno come suo
padrone. Ma questo privilegio, come sappiamo perlomeno da dopo il
Romanticismo, è profondamente ambivalente. L’appropriazione
razionale e l’economicizzazione strumentale del mondo conducono
al suo “disincanto” (Weber), e il Dasein, questo “configuratore di
mondo” (Heidegger), finisce per rivelarsi come vittima del suo stesso
successo, scoprendosi assolutamente solitario nella sua “radura”,
quella Lichtung aperta nel bel mezzo della foresta (la Natura), che gli
consegna il monopolio dell’Essere, della verità e della morte. A
discapito della sua apertura, la radura non può smettere di
assomigliare a un’immagine rovesciata del suo doppio esterno,
quella vasta e feroce wilderness che circondava il paradiso.
L’antropocentrismo o l’umanesimo moderni corrispondono cosí
allo schema di un “noi prima del mondo”, alla posizione di
un’anteriorità trascendentale dell’umano rispetto al mondo, che si
afferma tanto piú “costitutiva” di questo mondo quanto piú l’umano,
come essere empirico, si mostra “costituito” da esso1. E se tale
anteriorità può essere vista da un lato come una prerogativa –
evidente nella negatività creatrice presente in ogni progetto di
“trasformazione del mondo” –, dall’altro può anche essere
denunciata e rimpianta come una malattia degenerativa – fine della
bella immanenza pagana, duplicazione fantasmatica della realtà,
tradimento della Terra, oblio dell’Essere, sentimento dell’assurdo,
relativismo, nichilismo. Specialmente nella sua fase postromantica,
all’inizio con gli esistenzialismi e piú tardi con i (de)costruzionismi
postmodernisti, la separazione tra l’uomo e il mondo diviene, come
argomenta in modo decisivo Latour (2009), un’incommensurabilità
ontologica che si esprime in due figure mitiche complementari:
quella della scomparsa del mondo, assorbito dal Soggetto e
trasformato nel suo Oggetto (una costruzione sociale, una figura del
linguaggio, un fantasma del desiderio), ma anche quella della
scomparsa del soggetto, assorbito dal mondo e trasformato in cosa
tra le cose, artefatto organico assemblato da un orologiaio cieco.
Quello che piú tardi si chiamerà “correlazionismo” è entrato in crisi
molto prima della sua identificazione nosologica2.
Non riteniamo di esagerare dicendo che l’Antropocene,
annunciandoci la prospettiva di una “fine del mondo” nel senso piú
empirico possibile o di un cambiamento catastrofico delle condizioni
materiali d’esistenza della specie, susciti una vera angoscia
metafisica. Quest’angoscia, spesso tendente al panico, si è
espressa attraverso la sfiducia verso tutte le figure
dell’antropocentrismo – sia come ideologia prometeica del progresso
umano in direzione di un Millennio sociotecnico, sia come
pessimismo postmodernista che celebra ironicamente il potere
costituente del Soggetto denunciandolo in quanto inesauribile
matrice di illusioni. La consapevolezza che il grandioso progetto di
“costruzione sociale della realtà” si è realizzato attraverso la
distruzione naturale del pianeta suscita un consenso (quasi)
unanime intorno alla necessità di dichiarare superato, ovvero di
lasciarsi alle spalle, il mondo degli uomini senza mondo che è (e che
è stato) il mondo dei Moderni. Ma le trasformazioni in corso di
questo schema mitico seguono differenti direzioni; alcune tentano
persino di invertire il segno negativo che marca tale distruzione,
propugnando l’abolizione radicale del mondo come unica via di
uscita per la trasfigurazione emancipatrice finale dell’essere umano.
In un’epoca in cui l’esuberanza maniacale e la depressione
melanconica sembrano contendersi la guida della psiche collettiva,
ogni discorso sulla fine del mondo suscita un discorso inverso che
enfatizza l’eternità umana, la sua capacità di superamento e
sublimazione, e che tende a considerare tutte le idee di declino o
fine come irrealistiche, fantasiose e persino superstiziose. Vediamo.
La tesi tanatologica
È contro questo mondo-di-uomini-senza-mondo della modernità che
si orienta, per esempio, una certa volontà esplicita del pensiero
contemporaneo di “rinnovamento della metafisica”, definita anche
“svolta ontologica”: movimento o tendenza che riunisce filosofi il cui
nome viene associato alla problematica nota sotto l’etichetta di
“realismo speculativo”, come Ray Brassier, Iain H. Grant, Graham
Harman, Levy Bryant, insieme ad altri che, come Quentin
Meillassoux, Bruno Latour e Tristan Garcia, vengono spesso
riconosciuti, in modo piú o meno pertinente, come capiscuola del
movimento3. Tutti questi autori, al di là delle non piccole differenze,
mostrano la stessa decisione nel riprendere le questioni classiche
della metafisica, una disposizione antikantiana e antiumanista di
variabile ma inequivocabile intensità, una marcata indifferenza verso
la filosofia del linguaggio e una comune “passione per il reale”.
Alcuni tra loro hanno dedicato particolare attenzione agli esseri,
oggetti o quasi-oggetti non umani, alla materialità come dimensione
propriamente ontologica, alla tecnologia e alle scienze naturali. Le
questioni di filosofia politica o di antropologia socioculturale non
sono, di regola, il punto di forza del gruppo4.
Ciò che qui ci interessa del realismo speculativo (o materialismo;
l’“ismo” varia, l’aggettivo è la costante) è in particolare un aspetto
che potremmo assimilare a una variante dello schema mitico del
“mondo-senza-noi”, una variante ancora piú estrema della semplice
immaginazione di un cosmo in cui la specie umana sarebbe assente,
come nell’esperimento di Weisman5. Il mondo senza noi di cui qui si
parla è un mondo indipendente da ogni esperienza, anteriore a ogni
descrizione attuale o virtuale. Un mondo senza osservatori che non
si definisce solo in maniera accidentale, ma si costituisce
essenzialmente come assenza di prospettiva. Ovvero, un mondo
radicalmente morto.
Questa visione di un mondo come pura materialità indifferente,
asoggettiva o persino antisoggettiva, si trova delineata
principalmente nelle opere di Quentin Meillassoux e Ray Brassier. Il
primo, nel suo libro d’esordio tecnicamente brillante, Dopo la
finitudine (Meillassoux 2012a), propone ciò che a suo avviso
costituisce il solo antidoto speculativo contro il creazionismo biblico
e, in modo piú generale, contro ogni concezione religiosa che torni a
minacciare l’egemonia dell’approccio scientifico alla realtà. Il nemico
interno preso di mira nel suo libro, la grande tesi filosofica che
avrebbe reso le mura della fortezza della Ragione vulnerabili ai
nemici fideisti, è ciò che Meillassoux chiama correlazionismo, ovvero
l’affermazione di una relazione di presupposizione reciproca tra il
pensiero e l’essere, “l’idea secondo cui noi abbiamo accesso solo
alla correlazione del pensiero e dell’essere, e in nessun caso a uno
dei termini preso isolatamente” (ivi: 12). E il primo responsabile di
questa idea è naturalmente Kant, il quale avrebbe condotto la
filosofia su di una via che l’ha allontanata infinitamente dal “Grande
Fuori” rinchiudendola nella gabbia dorata del soggetto6. Con Kant
abbiamo in qualche modo perduto il mondo e ci siamo rivolti verso
noi stessi, in un movimento che potremmo qualificare come una vera
crisi psicotica della nostra metafisica. Il soggetto costituente
moderno è un’allucinazione narcisistica, l’Intelletto legislatore è un
Napoleone in un ospizio di provincia.
Secondo i suoi critici, il problema del correlazionismo è il primato
della relazione sui termini; occorre separare l’essere dal pensare
(pensare l’essere come separato dal pensiero) per raggiungere il
nocciolo della realtà materiale, il mondo delle qualità primarie extra-
soggettive. È da notare che non sono i due termini presi in modo
isolato a interessare Meillassoux, o la maggior parte dei realisti
speculativi; ciò che realmente interessa loro è il mondo in quanto
esteriore al pensiero, non il pensiero (il linguaggio, la società, la
cultura ecc.) in quanto tale, termine sul quale Meillassoux afferma
ben poco, oltre al fatto che quest’ultimo può avere accesso alla
realtà extra-esperienziale attraverso le matematiche7.
Meillassoux assimila la manovra correlazionista all’idealismo
trascendentale kantiano, alla fenomenologia, allo scetticismo
postmoderno e agli altri antiassolutismi; ma questa manovra si
ritrova anche, e secondo l’autore in modo ancora piú virulento, in
tutte le filosofie “soggettiviste” che assolutizzerebbero o
ontologizzerebbero la correlazione (che è ancora solo epistemica o
critica nel correlazionismo classico e nei suoi discendenti), come nel
caso dell’idealismo oggettivo hegeliano, del volontarismo di
Nietzsche e di altri sistemi spiritualisti, vitalisti o panpsichisti, che
l’autore qualifica come “iperfisici”8. Meillassoux ritiene che
l’approccio correlazionista implichi il relativismo (questo vero e
proprio Giuda metafisico), e che il relativismo ci sottragga il mondo
per riservirlo su di un piatto d’argento al “fideismo” e
all’irrazionalismo. Contro queste persone-senza-mondo che sono i
correlazionisti e la loro prole hegeliana o wittgensteiniana,
heideggeriana o bergsoniana, egli sostiene la preminenza assoluta
di un mondo-senza-noi in quanto garanzia ultima di ogni autentico
materialismo.
L’esperimento di pensiero che Meillassoux utilizza per sostenere
la sua tesi è curiosamente simile a quello di Weisman, con la
differenza che egli mette in scena realtà retoricamente distanti nel
tempo e/o nello spazio. Si tratta del cosiddetto “argomento
dell’ancestralità”, ovvero la questione dello statuto di verità che
possiamo (e, contingentemente, dobbiamo) conferire agli enunciati
che descrivono stati di cose che supponiamo (o sappiamo) essersi
prodotti prima dell’arrivo della specie umana e del suo apparato
simbolico (linguaggio, cultura ecc.)9. Eventi come l’origine
dell’universo, la formazione del sistema solare, l’emergere della vita
sulla Terra, la comparsa delle prime specie del genere Homo ecc.
sono esempi di tali stati di cose. Essi generano gli “archifossili”,
tracce materiali di realtà e di eventi anteriori all’avvento dell’essere
umano ma ciononostante accessibili alla conoscenza, che
proverebbero l’illegittimità dell’ipotesi correlazionista. Cosí si
annullerebbe il vergognoso divorzio tra la scienza moderna –
testimonianza di un accesso effettivo a una realtà indipendente dal
soggetto – e la filosofia moderna – che persisterebbe nel
subordinare il pensiero dell’essere all’essere del pensiero, o meglio
ancora, all’essenziale non-essere del pensiero.
L’affermazione della realtà del mondo e della sussistenza
dell’essere sembra dunque dipendere, in Meillassoux, da una
preliminare de-realizzazione del pensiero. Non solo del pensiero
umano, o della forma-soggetto del pensiero, ma di ogni forma di
cognizione, percezione, sensienza o esperienza, umana e non
umana. La vita deve essere esclusa dalla struttura ultima della
realtà, e inoltre ogni dipendenza dell’esistenza dall’esperienza deve
essere negata. Secondo Meillassoux, infatti, la vita in generale e la
noosfera umana in particolare sono il risultato di un’emergenza ex
nihilo, di un miracolo senza Dio (ancora…)10. Sono l’affermazione di
un’“assurdità superiore del Tempo” che esclude dal mondo non solo
il principio della vita, ma anche il senso di ogni principio, ovvero il
principio di ragion sufficiente. Si salva appena il principio di non
contraddizione, necessario per affermare la necessità della
contingenza. Per questo, se ci passate il gioco di parole, non è
“contingente” – per il pensiero di Meillassoux, beninteso – che il
Tempo (con la T maiuscola) sia posto come Signore dell’Assurdo: la
fine del mondo diviene, con ciò, tanto imminente (poiché nulla
impedisce al mondo di finire in un secondo), quanto insignificante.
Il mondo-senza-noi proposto a sua volta da Ray Brassier – qui
accenneremo soltanto alla sua complessa e densa opera Nihil
Unbound – è posto nel futuro come quello di Weisman, ma in un
futuro lontano quanto il mondo ancestrale di Meillassoux: un “tempo
cosmologico profondo”11 che contrasta in maniera decisiva con il
“tempo antropologico” del correlazionismo. Il “fatto” empirico che
mette in movimento la tesi ipernichilista di Brassier è
l’annientamento inesorabile della specie umana, poi della vita in
generale, della Terra e infine dell’Universo. A lungo termine, saremo
tutti morti; ma ciò riconduce, se si segue Brassier, al fatto che siamo
già tutti morti: nelle parole dell’autore, “tutto è già morto” (“everything
is dead already”; 2007: 223). In Brassier, piú che de-realizzare il
pensiero per affermare l’essere, si tratta di annientarlo, di eliminarlo
non solo nel futuro, ma per sempre – il pensiero è “radicalmente de-
valorizzato nel presente” (Shaviro 2011), essendo escluso in toto
dall’essere, che lo eccede in maniera assoluta. Allo stesso tempo, il
soggetto del pensiero, la posizione fisica o metafisica del “noi”,
diviene epifenomenica e inerte come la materia. Per l’autore bisogna
farla finita con il senso, radicalizzando il disincanto del mondo
iniziato con i Lumi, per “aprire la via all’intelligibilità dell’estinzione.
La mancanza di significato e di scopo non sono meramente
privative; rappresentano un aumento di intelligibilità”. Se per
Meillassoux non c’è principio di ragione, per Brassier la ragione non
ha principio. Ma l’intelligibilità, secondo lui, è meglio dell’ignoranza…
Rimarchiamo qui la frequenza della parola “morte” negli scritti di
Brassier e Meillassoux. Meillassoux (2012b) parla di uno stato di
“esistenza morta” e di una “materia morta” come sostanza ultima del
cosmo, in cui i fenomeni della vita e del pensiero sopraggiungono
metafisicamente ex nihilo, come realtà infondate nel substrato
inorganico del cosmo. Brassier, da parte sua, usa abbondantemente
la pulsione di morte freudiana come principio cosmologico,
identificando un tropismo tanatologico della vita e del pensiero. Il
potenziale emancipatorio di quest’attrazione fatale (emancipatorio
per gli esseri umani, beninteso; non si è chiesta l’opinione degli altri
esseri viventi) deve, a suo avviso, essere stimolato politicamente – il
nichilismo di Brassier è una posizione militante e non immobilista.
Se nell’esperimento di Weisman e nei motivi edenici del mondo-
senza-noi l’opposizione pertinente era tra vita e umanità, nello
schema antiantropocentrico di questa variante del realismo
speculativo che stiamo esaminando, l’opposizione sarà piuttosto tra
vita (umana e non umana) e mondo, inteso come realtà sostanziale
o materia dell’essere. Occorre negare la vita in quanto attività,
sensienza e significato per poter affermare la verità autonoma
dell’Essere come “medesimezza in sé”. Il Grand Dehors è una terra
desolata e glaciale, l’esteriorità radicale è assolutamente e
incredibilmente morta. Si dirà che, per questi pensatori, parlare di
“fine del mondo”, lungi dall’illustrare una contraddizione pragmatica
(come suggerisce Chakrabarty nel caso dell’esperimento di
Weisman), ricade, al contrario, nell’enunciare una semplice
tautologia metafisica, un banale pleonasmo ontologico: la fine è il
modo di “esistenza” del mondo.
Siamo d’accordo con Shaviro (2011) quando osserva che la
supposizione di Meillassoux e Brassier secondo cui la materia, per
poter esistere in sé (al di fuori della correlazione), deve essere inerte
e “morta”, finisce per reintrodurre proprio l’eccezionalismo umano
che si proponeva di eliminare. La decisione antiantropocentrica alla
radice di queste due versioni del tema del “mondo-senza-noi” si
rivela, in fin dei conti, totalmente ossessionata dal punto di vista
umano. Il tutto procede come se la negazione di questo punto di
vista fosse un requisito di cui il mondo ha bisogno per esistere –
curioso idealismo negativo, strano soggettivismo cadaverico.
(Questo ampio antivitalismo, difeso dagli autori e posto come base
del loro antiantropocentrismo, sembra principalmente essere una
misura precauzionale, uno stratagemma tattico che garantisce la
neutralizzazione di ciò che in realtà “imbarazza” metafisicamente,
ovvero la vita “cosí come la conosciamo” dall’interno – l’esperienza
umana che finisce per essere ipervalorizzata dalla stessa cura con
cui la si invalida). Ma un antropocentrismo alla rovescia resta pur
sempre un antropocentrismo, anzi l’unico antropocentrismo
realmente radicale, cosí come gli europei che bruciavano gli idoli
erano, nella grottesca commedia degli errori coloniali, gli unici
feticisti a credere davvero all’irrealtà dei feticci, allo stesso modo in
cui credevano, in maniera irrealistica, che i “selvaggi” credessero
alla realtà trascendente di questi ultimi (Latour 2006).
Ci sembra, infine, che il fatto di stabilire una discontinuità
massima tra una prospettiva sublunare e una prospettiva
sopralunare sia essenziale a entrambe le versioni di un mondo-
senza-noi, poiché tutte e due richiedono – e di fatto difendono – una
“biforcazione della natura”, nel senso consacrato da Whitehead12.
Paul Ennis (2013) sottolinea l’opposizione tra il cosmocentrismo
scientista e “noir” di Brassier e il geocentrismo “relativista” della
filosofia continentale illustrato, per esempio, dall’Archè originaria di
Husserl, dalla “Quadratura” di Heidegger, o ancora dalla Terra (la
grande Deterritorializzata) di Deleuze e Guattari – a cui noi
aggiungiamo, ovviamente, la Gaia (o meglio: le Gaia) di Latour e
Stengers. Ma tale distanza tra l’ordine cosmologico e l’ordine
antropologico, tra un tempo cosmologico profondo e un tempo
storico umano – distanza che in fin dei conti riecheggia la caduca
distinzione tra Natura e Cultura, mentre afferma la preminenza
inglobante di una Natura morta su qualcosa che “non dovrebbe
essere là” (l’esperienza) – è proprio ciò che sta per essere
contestato empiricamente dal collasso delle scale e degli strati della
realtà planetaria, ovvero dalla metamorfosi della specie umana in un
agente geofisico maggiore. Quando trasponiamo la polemica
dell’anticorrelazionismo sul piano “ecologico” del sublunare,
formulando la questione della relazione tra pensiero ed essere in
termini di umanità e mondo e riducendo cosí la distanza tra la realtà
come Universo e la realtà in quanto Gaia, possiamo percepire tutta
l’ironia dell’attuale situazione storica, marcata da una catastrofica
oggettivazione terrestre della correlazione, ovvero dal fatto che il
pensiero umano, materializzato in quanto megamacchina di impatto
planetario effettivamente e distruttivamente correlata al mondo,
ricopre gli archifossili di un lontano passato con spessi strati di suolo
antropocenico (Söllin e Warde 2011, Pálsson et al. 2013: 5) – il
cemento, la plastica, l’asfalto – ricco di quelli che saranno gli
antropofossili di un futuro forse non cosí lontano.
L’anticorrelazionismo di Meillassoux e di altri metafisici materialisti
della sua generazione suona pertanto, forse contrariamente alle sue
esplicite intenzioni, come un patetico grido di protesta (se non come
una formula di esorcismo, una denegazione) contro questo potere
sinistramente realizzante del pensiero, perlomeno nella nostra
modesta dimora terrestre.
“Nessuno ne sentirà la mancanza”
Non ci sembra esagerato paragonare il nichilismo militante di
Brassier, cosí come altre tesi filosofiche analoghe sulla fine del
mondo e del pensiero, allo scenario proposto da film come
Melancholia, di Lars von Trier, o 4:44 Ultimo giorno sulla Terra, di
Abel Ferrara, che immaginano la fine istantanea di tutta la vita
terrestre – o della vita nell’universo, nel caso di von Trier.
Melancholia mostra la collisione tra la Terra e il Fuori assoluto,
materializzato nell’immagine di un gigantesco pianeta blu che
inaspettatamente incrocia la nostra orbita, venuto dalle profondità
del cosmo. Il film mostra il contrasto tra il mondo umano, con i suoi
melodrammi e le sue contraddizioni senza fine (la famiglia, gli affari,
la festa di matrimonio, la magnifica casa di campagna dell’alta
borghesia, la silenziosa lotta di classe) e il cosmo-senza-noi, il
balletto austero delle sfere che evolve sublime nel grande vuoto del
sistema solare e oltre. A parte alcuni precisi elementi che
suggeriscono possibili mediazioni tra le due dimensioni13, queste
sembrano restare non comunicanti fino al momento del loro fatale
urto. John, il cognato scienziato, detentore dell’unico strumento in
grado di dare un accesso oggettivo al mondo esterno, finisce per
preferire il suicidio nel momento in cui scopre la fallibilità e
l’impotenza della sua scienza. Come lui, che muore nella sua bella
proprietà, nessuno degli altri personaggi principali (inclusi i cavalli)
sembra poter superare il ruscello che conduce all’esterno. Non c’è
via d’uscita14.
Piú che in ogni altro disaster movie della storia del cinema, la
catastrofe rappresentata in Melancholia non è semplicemente un
intervallo di crisi o l’interruzione causata dalla morte del corso della
vita di un gruppo di persone (l’incendio di un grattacielo, il naufragio
di un transatlantico), né un accidente inserito nella storia della civiltà
occidentale (la fine degli Stati Uniti d’America, per esempio), e
nemmeno una parabola, come tante, sull’estinzione dell’Homo
sapiens, ma è una rappresentazione della fine della fine. L’impatto
con il pianeta Melancholia è l’evento che la fa finita con tutti gli eventi
e con il tempo stesso, nello stesso identico senso dell’apocalisse
nucleare a cui fa riferimento Günther Anders: non resta nessuno,
non c’è nessuna voce fuori campo per commentare la fine del
mondo – il tempo reale scompare al punto da non poter immaginare
nemmeno in che tempo verbale si possa narrare l’inenarrabile, se
non in un “presente” muto (non resta nessuno, non c’è nessuna
voce). Allo scontro con Melancholia segue l’oscurità, o meglio lo
schermo nero, l’assenza d’immagini, il silenzio, il nulla. La fine del
mondo è la fine del film, e la fine del film è la fine del mondo (Szendy
2012).
Di tutti i personaggi del film, la melancolica Justine è la sola a
“sapere delle cose” (ma il suo sapere è diverso da quello di John, il
cognato scienziato). Sin dall’inizio guarda verso il cielo stellato
accorgendosi che c’è qualcosa che non va; sarà lei ad accettare con
piú facilità la prospettiva del disastro. Ed è ancora lei a pronunciare
le parole piú dure del film: che la fine della vita sulla Terra significa la
fine della vita nell’universo e che ciò non deve renderci tristi.
Justine: La Terra è cattiva. Non dobbiamo addolorarci per
lei.
Claire: Cosa?
Justine: Nessuno ne sentirà la mancanza.
Claire: Ma dove crescerà Leo?
Justine: L’unica cosa che so è che la vita sulla Terra è
cattiva.
Claire: Potrebbe esserci vita in altri luoghi.
Justine: Ma non c’è.
La sua disforia è ontologica e assoluta, indipendente da ogni
motivo esterno circostanziale e molto diversa, anche in questo, dalla
disperazione che si impadronirà di sua sorella Claire. Tuttavia, negli
ultimi secondi che precedono l’Incontro, già dentro la “caverna
magica”, il simulacro di capanna indigena15 che lei stessa ha
costruito insieme a suo nipote, vediamo sul suo viso la malinconia
dar spazio a ciò che ci sembra una fugace contrazione di paura. Una
semplice contrazione riflessa forse, ma proprio per questo, un
(in)equivoco segnale di vita. È proprio questo momento di paura e
shock che sembra differenziare Melancholia dall’apocalisse
preconizzata da Brassier. Ricordiamoci che prima di essere la fine di
tutto, la catastrofe è precisamente uno shock, un incontro, un
Evento, e che tra la prospettiva di una fine imminente e la fine stessa
si frappone qualche decimo o centesimo di secondo della massima
intensità emotiva. Non è solo per alleggerire la disperazione di Claire
e la paura del nipote Leo che Justine lo aiuta a costruire la scarna
struttura di rami secchi. La “caverna magica” senza muri materiali
forse non è una fuga, poiché non c’è nessun luogo in cui fuggire, ma
è di sicuro un’uscita trovata dai tre personaggi, in quei pochi istanti di
pensiero iperconcentrato, per affrontare l’Evento e controeffettuarlo
trascendentalmente.
Steven Shaviro, nella dettagliata ed eccellente analisi del film di
von Trier (Shaviro 2011), attirava già l’attenzione sulla coesistenza di
un trattamento metaforico della fine del mondo – evidenziando
l’assenza di alternativa a ciò che Mark Fisher ha chiamato realismo
capitalista (“l’impasse catastrofico di una società cui è stato sottratto
ogni futuro e le cui possibilità, o molte di loro, sono state escluse”) –
e di un trattamento interamente letterale e cosmologico, un correlato
oggettivo della catastrofe, “quello che il filosofo Ray Brassier chiama
la ‘verità dell’estinzione’”. Agli occhi di Shaviro, la depressione di
Justine è “una specie di interiorizzazione […] della verità cosmica
deflazionistica dell’estinzione planetaria”16.
La “verità dell’estinzione” di cui parla Brassier è dedotta da ciò
che oggi si immagina essere una proiezione scientifica (piuttosto che
la tradizionale profezia mitica) dell’evento macrocosmico che
coinvolgerà non solo la Terra ma il mondo-universo, da qui ad alcuni
trilioni di anni. È solo facendo il cammino inverso, in una
“regressione tanatotropica”17 realizzata dal pensiero e in un tempo
“infinitamente” piú corto dei trilioni di anni proiettati nel futuro, che il
discorso del filosofo constata la mancanza di significato della nostra
vita presente. Ora, cosí come Brassier, Shaviro nella sua analisi di
Melancholia – pur menzionando di passaggio il cambiamento
climatico come un evento che ci ricorda l’“autonomia” del mondo-
senza-noi, il caos sotteso a tutto il cosmo18 – ci sembra passare
troppo rapidamente da un mondo umano (la storia troppo umana del
capitalismo) a un mondo cosmico, o meglio, caotico. Sarà forse per
questa ragione che egli ripete molte volte nel suo articolo che il film
di Lars von Trier, al contrario della maggior parte dei disaster
movies, è “deflazionistico” (deflationary), e che, eccetto forse per il
piacere estetico che proviamo osservando quelle immagini belle e
distanti, la visione del cosmo e dello scontro stesso ci lascia
indifferenti? A noi – e a quanto pare anche a Peter Szendy (2012) –
le scene finali del film sembrano, al contrario, assolutamente
terrorizzanti. Forse, in fondo, è per la stessa ragione che in “Against
self-organization”19 Shaviro (2009) mostra simpatia per “l’ipotesi di
Medea” del biologo Peter Ward, avanzata come alternativa alla
Teoria di Gaia di James Lovelock. Secondo Ward (2009), la storia
della vita e delle estinzioni di massa occorse sulla Terra dimostra
che i processi vitali hanno sull’ambiente effetti piú destabilizzanti che
omeostatici. “La vita sulla Terra è condannata all’estinzione molto
prima che il riscaldamento e l’espansione del Sole rendano la Terra
troppo calda per la vita”, riassume Shaviro. Ricordiamoci, però, che
ciò che ha condotto Lovelock a Gaia è stato appunto la stranezza e
la fragilità di questa nicchia di negentropia [entropia negativa] che è
la Terra viva, la quale, beninteso, può smettere di esistere, nella sua
“forma attuale”, in qualsiasi momento. Come “narrativizza”
maliziosamente Latour nella sua terza magnifica Gifford Lecture,
Lovelock ha assunto un punto di vista esterno alla Terra e,
guardando indietro verso di essa, ha visto qualcosa che non avrebbe
dovuto esserci (qui), un hapax cosmologico: la stabilizzazione
dell’atmosfera terrestre attraverso concentrazioni altamente
improbabili di alcuni gas fondamentali alla vita. Ed è proprio perché
la vita è qui anche se non “dovrebbe” esserci, che i cambiamenti
climatici sono un evento-per-noi. Questi porteranno, come già
abbiamo argomentato partendo da Chakrabarty, al collasso delle tre
storie che prima sembravano separate come i due mondi di
Melancholia: la storia della Terra, la storia della vita sulla Terra e la
“nostra storia”. Per questo crediamo che Justine abbia paura, anche
se sa che la catastrofe è già avvenuta.
Note
1 Ricordiamo la definizione di questo Uomo dell’episteme moderna
come “doppio [doublet] empirico-trascendentale” (Foucault 2009).
2 Sui “filosofi senza mondo”, ossia sull’abbandono della filosofia

della natura da parte dell’umanesimo epistemologico e dello


storicismo, vedi Coccia 2013.
3 Il termine “realismo speculativo” circola maggiormente nel mondo

anglosassone; a parte Meillassoux, che ha partecipato alla prima


conferenza che ha dato il nome al movimento, i filosofi francesi vi
vengono in generale “cooptati” loro malgrado. I tre ultimi autori citati
sono stati inoltre tradotti e lungamente commentati da Harman,
Brassier e altri realisti speculativi anglofoni.
4 Shaviro (2011) fa una delle presentazioni piú chiare in circolazione

del terreno comune ai principali filosofi del realismo speculativo, cosí


come delle linee di divergenza che li separano. Vedi anche il volume
collettivo a cura di Bryant, Srnicek e Harman (2011).
5 La “semplicità” di questa immaginazione scientificamente

argomentata dell’estinzione fisica della specie, al modo di Weisman,


non le impedisce, a nostro parere, di essere una delle principali forze
che motivano l’inquietudine filosofica contemporanea.
6 “Le Grand Dehors” o “the Great Outdoors” sono cliché frequenti dei

francesi e degli inglesi per designare l’aria aperta, la “natura”, la vita


selvaggia, la wilderness, il mondo distante dalle agglomerazioni
umane. Meillassoux ne approfitta, in modo ironico, per designare la
realtà indipendente dal pensiero, o l’Essere “senza correlazione”.
L’allusione forse ironica al dehors di Blanchot, Foucault e di altri
pensatori di riferimento del poststrutturalismo francese è altrettanto
ovvia. Se cosí fosse, ciò accomunerebbe tutte queste
ontotanatologie tardoeuropee (che devono molto a Freud),
mettendole caratteristicamente in contrasto con quel Fuori saturo di
vita presente nell’intenzione e nell’opera di altre tradizioni
intellettuali, come osservato da Casper Jensen (2013).
7 “Siamo materialisti nella misura in cui obbediamo ai due principi di

ogni materialismo: l’essere non è il pensiero, e il pensiero può


pensare l’essere” (Meillassoux 2012b). Questa dichiarazione non
contempla la questione (materialista) dell’essere reale del pensiero,
cioè il fatto che, anche se l’essere non è (“solo”) pensiero, il pensiero
è o deve (“in qualche modo”) essere. Il pensiero nella sua
dimensione ontica di fenomeno interno al mondo, e dunque
ontologicamente esteriore a se stesso – il che, tra le altre cose,
conferisce all’antropologia la propria pertinenza in quanto disciplina
empirica – è qualcosa che non sembra interessare l’autore. Si veda,
in questo senso, la critica di Markus Gabriel (2009: 81-88).
8 “Chiamo ‘iperfisica’ ogni teoria che postula una realtà altra rispetto

a quella ricercata dalla scienza, in quanto esplicazione euristica delle


supposte ultime componenti del nostro mondo, esso stesso
considerato come un mondo contingente tra altri realmente possibili”
(Meillassoux 2012b: 13). L’autore include in questa “iperfisica” ogni
forma di metafisica vitalista o panesperenzialista, come quelle di
Leibniz, James, Whitehead, Bergson e Deleuze.
9 Vedi Nunes 2014 e Gabriel 2009.
10 Ciò si unisce alla complessa tesi sulla contingenza necessaria e
assoluta dell’ordine cosmico, ai temi dell’“Ipercaos” e
dell’“inesistenza divina”, che non possiamo affrontare qui. Essi
includono, tra le loro conseguenze, la possibilità che una divinità
possa esistere in qualsiasi momento del futuro.
11 Seguiamo qui la lucida esposizione di Paul Ennis (2013), cosí

come il testo già menzionato di Steven Shaviro.


12 La famosa denuncia di Whitehead riguardo la biforcazione della

natura in qualità primarie e secondarie è ripetutamente menzionata


da Latour, Shaviro e altri “iperfisici” sensu Meillassoux.
13 Per esempio, la profonda malinconia di Justine (la protagonista),

la sua esposizione estatica (riconciliatrice?) alla fredda luce di


Melancholia; il telescopio e il rudimentale strumento fabbricato da
suo cognato (John), che permette al nipote (Leo) e poi a sua sorella
(Claire) di vedere l’approssimarsi del pianeta; la fragile e trasparente
capanna costruita per proteggere non solo Leo, ma anche Claire e la
stessa Justine; e alla fine, chiaramente, la collisione (la “mediazione
immediata”) con Melancholia.
14 Non c’è via d’uscita, quindi, all’interno del capitalismo, come si

vede chiaramente nella prima parte del film (cfr. Shaviro 2012). Tutto
accade un po’ come ne L’angelo sterminatore di Buñuel, dove un
gruppo di grandi borghesi è rinchiuso in un luogo lussuoso da cui
non riesce a uscire, per motivi altrettanto inesplicabili di quelli del film
di von Trier. (Tuttavia, il contrasto è tra le metaforiche pecore
borghesi del finale del film di Buñuel e i metonimici cavalli apocalittici
di von Trier).
15 Un tipi conico come quello degli indigeni delle praterie

nordamericane, ma ridotto al solo scheletro e senza copertura.


16 Vedi anche la stimolante analisi di Melancholia proposta da Marie

Gil e Patrice Maniglier (in corso di stampa) che, inter alia, apre una
nuova possibilità interpretativa dell’oggetto focale del film, la
capanna magica all’“interno” della quale i personaggi accolgono
l’Evento.
17 L’espressione “regressione tanatotropica” è di Brassier, che la usa
tuttavia in un altro contesto, con un senso principalmente
psicoanalitico, avendo come riferimento la pulsione di morte
freudiana.
18 In questo contesto, vedere i riferimenti di Shaviro (2011) ai lavori

di Eugene Thacker, in cui quest’ultimo distingue il “mondo per noi”, il


“mondo in sé” e il “mondo senza noi”.
19 Breve articolo postato nel blog di Shaviro The Pinocchio Theory, il

26 maggio 2009 (Shaviro 2009).


Infine, soli
È questo il modo in cui il mondo finisce
È questo il modo in cui il mondo finisce
È questo il modo in cui il mondo finisce
Non già con uno schianto ma con un piagnisteo.
T.S. Eliot1
Ceci n’est pas un monde
L’esperienza estetico-filosofica di von Trier manca, si capisce, di
“realismo”. È poco probabile che un megadisastro cosmico o anche
ecologico venga a mettere brutalmente fine, e in un lasso di tempo
cosí breve, alla nostra forma di vita. La verità allegorica del film
risiederebbe piuttosto nel carattere repentino (nella misura di una
biografia umana) della nostra presa di coscienza dell’intrusione di
Gaia, e della convinzione sempre piú crescente dell’irreversibilità e
irrevocabilità di questa intrusione: Gaia è venuta per restare e
cambierà la nostra storia per sempre (Stengers 2009: 55)2. Ecco
perché Gaia assomiglia piú al pianeta Melancholia che alla Terra con
cui si scontrerà; Melancholia è un’immagine della gigantesca ed
enigmatica trascendenza di Gaia, entità che si abbatte in maniera
devastante sul nostro mondo divenuto improvvisamente troppo
umano.
Il film 4:44 Ultimo giorno sulla Terra di Abel Ferrara, se da un lato
è piú verosimile di tutti i recenti film apocalittici nella
rappresentazione della vera e propria Babele che è stata la presa di
coscienza dei pericoli dei cambiamenti climatici causati dall’azione
umana, dall’altro lato condensa, come Melancholia, tutta la
complessità e frattalità di questi disastri in un unico evento
apocalittico che avverrà in un orario preciso (le 4:44)3, una
conflagrazione planetaria innescata dall’improvvisa scomparsa dello
strato d’ozono. Ma qui non siamo di fronte a un punto di vista
cosmico. L’intero mondo che finisce è visto a partire dall’interno del
“nostro” mondo, il mondo patetico, triviale, disinteressatamente
umano di un quartiere bohémien di New York (ma anche a partire
dalle informazioni che vi arrivano, attraverso la televisione, sui
preparativi per l’ora finale degli altri abitanti del pianeta). Dobbiamo
sforzarci per trovare i rari elementi non umani di questo mondo
pronto a finire in un sol colpo: un albero tagliato, un cane che riceve
pazientemente il cibo dal suo padrone, in quello che sembra essere
l’ultimo pasto dei due.
Ma il mondo, al contrario, può assentarsi a poco a poco. La
prospettiva di una crisi ambientale planetaria sembra esporre meno
le specie viventi al rischio di una morte rapida che all’aggravarsi di
una malattia degenerativa, la cui subdola origine ci sarebbe sfuggita.
Se le cose continuano nella direzione che hanno preso, la
narrazione piú verosimile ci dice che effettivamente vivremo tutti, o i
pochi che resteranno, in maniera sempre peggiore, in un mondo
sempre piú simile a quelli concepiti dalla Gnosi distopica di Philip K.
Dick4. Dei mondi o, come spiega Dick, degli “pseudo-mondi” in cui lo
spazio e il tempo cominciano a decomporsi e a disintegrarsi, in cui le
azioni s’interrompono a metà per prendere andamenti
incomprensibili, in cui, in maniera erratica, gli effetti precedono le
cause, le allucinazioni si materializzano in ontologie contraddittorie,
la vita e la morte divengono tecnologicamente indiscernibili,
misteriosi Messia ipercapitalisti amministrano religioni mediatiche
per masse ipnotizzate (opportunamente dopate da dispositivi
regolatori dell’umore), e in cui l’unica occupazione possibile e, in fin
dei conti, impossibile che hanno i personaggi è cercare di mantenere
la lucidità in mezzo a un’entropia che corrode la stessa narrazione,
facendo impazzire la logica diegetica – i libri di Dick non descrivono,
ma inscrivono la frammentazione del reale. Come sosteneva Leibniz
esponendo lo schema piramidale dei mondi possibili alla fine dei
Saggi di teodicea, il numero dei mondi peggiori tra tutti quelli in cui
potremmo essere è infinito. Il peggiore dei mondi non esiste; c’è solo
il migliore dei mondi possibili: il nostro. All’epoca di Leibniz, ciò
poteva ancora suonare come un’affermazione ottimista5.
Esistono, nella letteratura e nel cinema, numerosi esempi di
rappresentazioni pessimiste (anche se talvolta in tono celebrativo) di
un futuro che corrisponde allo schema “noi-senza-mondo”, ovvero di
una umanità a cui vengono sottratte le proprie condizioni
fondamentali di esistenza. Ci viene subito in mente Mad Max, ma
potremmo anche includere The Matrix, se accettiamo una certa
equivalenza tra un mondo ecologicamente desertico, come quello
del primo film, e un mondo di puri miraggi, come quello del secondo,
miraggi suscitati, come si sa, dal “deserto del reale”6. In entrambi i
casi, siamo di fronte a una “fine del mondo” che è la fine del mondo
umano, in quanto risultato di un processo di devitalizzazione
ontologica dell’ambiente (devastazione o artificializzazione integrale
del pianeta), con effetti “disumanizzanti” sui sopravvissuti.
Ma forse il miglior esempio dello scenario di un’umanità a cui è
stato sottratto il mondo è il romanzo di Cormac McCarthy La strada
(McCarthy 2014), in cui lo stile laconico e il tema cupo si
armonizzano mirabilmente. Il mito apocalittico qui elaborato può
essere riassunto in una semplice formula: alla fine non rimarrà piú
niente a parte gli esseri umani – e non per lungo tempo. Questo libro
racconta il cammino di un padre e di suo figlio attraverso una terra
morta, grigia e putrefatta, in seguito a un disastro ambientale
planetario dalle cause oscure. All’interno di ecosistemi
completamente distrutti, in assenza di acqua potabile, di parassiti e
piante, i pochi esseri umani rimasti sopravvivono in maniera sordida
grazie ai resti della civiltà (cibi in scatola, vestiti e utensili rimediati
nei centri commerciali), oppure praticando il cannibalismo.
La strada descrive, un po’ come Ubik di Dick, lo sviluppo di un
processo inarrestabile di decomposizione, in cui gli oggetti intorno a
noi si degradano a un ritmo sempre piú rapido, fino a che, alla fine,
ci rendiamo conto che la morte non è, come pensiamo, un nemico
esterno contro cui dobbiamo lottare in condizioni di infinita
asimmetria di forze, ma un principio interno: siamo già morti e la vita
è ciò che è accaduto all’esterno7. Possiamo dire che è qui all’opera
qualcosa come un cambio di prospettiva, nel senso amerindio del
termine8: mentre pensavamo di essere i difensori del mondo dei
viventi, è già da parecchio tempo che siamo stati catturati dal punto
di vista dei cadaveri. (“Siamo già morti!” è anche la frase urlata in
4:44 – che, malgrado il suo suono stentoreo, suona molto piú come il
whimper, il lamento ricorrente nella poesia di Eliot – dal personaggio
interpretato da Willem Dafoe, rivolta alle persone che si suicidano
gettandosi dall’alto dei loro appartamenti e che tentano cosí di
esercitare per l’ultima volta la libertà umana davanti a una morte
annunciata). Nel romanzo di McCarthy, in effetti, la morte minaccia
per tutto il tempo di catturare i rari sopravvissuti sottraendo loro il
mondo: sottraendo loro gli oggetti, erodendo la memoria umana dei
propri significati, corrodendo a poco a poco il linguaggio stesso;
devastando i loro corpi con malattie e fame; trasformandoli in
nutrimento per i predatori cannibali, ex umani che hanno perduto la
loro anima – piú precisamente, la loro “umanità”. L’afasia prelude
all’antropofagia9. È difficile leggere questo libro senza provare
l’angosciante sensazione di essere già nel mondo dei morti; e il
“fuoco” metaforico che alcuni rari personaggi portano con sé non è
nient’altro che una specie di semi-vita (come quella che conservano i
morti recenti in Ubik) che non tarderà a spegnersi. Il mondo intero è
morto e noi ci stiamo dentro. Il padre del bambino muore; il bambino
prosegue con alcune persone incontrate lungo la strada che gli
ispirano fiducia. Ma non hanno nessun luogo in cui andare. Coloro
che camminano lungo la strada non arriveranno in nessun luogo, per
la semplice ragione che non c’è piú nessun posto in cui arrivare. Non
c’è via di uscita.
Un altro esempio di un mondo che si svuota a poco a poco,
lasciando gli umani dolorosamente impotenti, è il magnifico film di
Béla Tarr e Ágnes Hranitzky Il cavallo di Torino10. I protagonisti sono
– stavamo per dire una coppia come in La strada o in 4:44, ma qui
sono tre – un vecchio parzialmente invalido, sua figlia adulta e il
cavallo da traino della famiglia (quello che scatenò la crisi di
Nietzsche a Torino?), che abitano in una fattoria minuscola e
miserabile, sperduta in una steppa sferzata dal vento. La fine del
mondo dei contadini di Tarr somiglia piú a un inaridimento che a una
decomposizione. È il vento aspro e sterile che soffia in continuazione
portando con sé foglie morte e polvere contro la casetta di pietra; è il
pozzo che si svuota smettendo di fornire acqua; è il cavallo che
inspiegabilmente smette di mangiare – il cavallo, bestia apocalittica,
come in Melancholia; è la poca luce che si spegne per mancanza di
combustibile; è la comunicazione che insidiosamente si va
estinguendo tra padre e figlia, che man mano smettono di parlarsi e
anche di guardarsi, preferendo contemplare, immobili e muti, un
mondo inaridito. È, soprattutto, la ripetizione delle azioni quotidiane,
nuda, cieca, meccanica, inutile nella sua stessa pura strumentalità,
che poco alla volta de-anima, nel senso piú letterale del termine, i
personaggi. All’inizio il cavallo e, alla fine, anche il vecchio e sua
figlia rimangono immobili, gli ultimi due seduti intorno al tavolo nella
casetta scura di fronte al loro pasto sempre identico – due patate,
una per ciascuno, ormai crude a causa della mancanza di acqua e
fuoco, che resteranno intatte poiché il film termina con una lenta
dissolvenza. Come in Melancholia (e nell’Angelo sterminatore), il
tema del tentativo fallito di uscire dal cerchio magico della
depressione segna una svolta nell’(in)azione. Di fronte al
prosciugarsi del pozzo, i personaggi partono in cerca della città piú
vicina, tirando essi stessi il carro e il cavallo senza forze, ma alla
fine, dopo qualche minuto (ora? giorni?), tornano inesplicabilmente
indietro, abbandonandosi una volta per tutte a una paralisi che si
diffonde e contamina ogni cosa (ricordiamo che il vecchio padre ha
un braccio paralizzato), vinti da un mondo anch’esso catatonico11.
Il cavallo di Torino può essere visto come lo sviluppo di un
equivalente cosmologico del tema della banalità del male. La fine del
mondo, per Tarr, non sarà uno spettacolo dantesco, ma una
decadenza frattale e incrementale12, una lenta e impercettibile
scomparsa, cosí completa che giungerà a dissolversi di fronte ai
nostri occhi indeboliti fino alla cecità:
L’apocalisse è un evento enorme. Ma la realtà non è cosí.
Nel mio film, la fine del mondo è molto silenziosa, molto
debole. Quindi, la fine del mondo arriva come la vedo
arrivare nella vita reale – lentamente e silenziosamente. La
morte è sempre la scena piú terribile e quando vedete
qualcuno morire – un animale o un essere umano – è
sempre terribile, e la cosa piú terribile è che sembra che
non sia successo niente13.
Non è successo niente – siamo solo morti.
Dopo il futuro: la fine come inizio
Ma c’è chi vede con entusiasmo la prospettiva della perdita del
mondo, considerandola come il semplice scarto di un’intelaiatura
provvisoria, una struttura di appoggio non piú necessaria agli umani,
poiché alcuni stimano che la fine del mondo, in quanto fine di una
“Natura” non umana o antiumana, avrà luogo nella forma di un
compimento del nostro destino manifesto. Il genio tecnologico della
specie le permetterà di vivere in un Umwelt configurato su misura da
questa e per questa. Tale versione letteralmente costruttivista di una
umanità-senza-mondo nutre la visione di un iperprogresso che
libererà gli esseri umani (forse solo l’1%, per cominciare?) dal loro
“sostrato biologico” grazie al prolungamento della longevità degli
individui, raggiungendo finalmente la trascendenza della corporeità
organica – il nostro “wetware”, per usare le parole di Rudy Rucker.
L’idea di un’autofabbricazione dell’uomo del futuro e del suo
ambiente attraverso l’eugenetica e la sintesi tecnologica di una
nuova Natura è diffusa dai difensori della tesi della “Singolarità”,
riconducibile a pensatori pop come Vernor Vinge e Ray Kurzweil,
collocati alla frontiera tra tecnologia (intesa nel doppio senso di
padronanza tecnica e di pensiero della tecnica) e universo della
fantascienza14. Singolarità è il nome di una discontinuità
antropologica, di un improvviso Rapimento cibernetico annunciato
dalla crescita esponenziale della capacità di trattamento dei dati da
parte della rete mondiale dei calcolatori. Questa crescita
raggiungerà, piú o meno tra una ventina d’anni, un punto di
inflessione catastrofico (ricordiamoci del “punto Omega” di Teilhard
de Chardin) quando avrà finalmente superato la capacità
complessiva di tutta la materia grigia del pianeta. La biologia e la
tecnologia umana si fonderanno, creando una forma superiore di
coscienza macchinica che resterà tuttavia al servizio dei disegni
umani – permettendo, in particolare, la trasmigrazione delle anime,
ovvero la codificazione della coscienza all’interno di software
applicabili a un numero indefinito di supporti materiali e il loro
caricamento in Rete per un’eventuale futura incarnazione in corpi
puramente sintetici (o geneticamente “personalizzati” nel minimo
dettaglio). La morte, a cui dobbiamo l’idea stessa di necessità,
diverrà alla fine opzionale.
Questa versione dello schema “umani senza mondo”, inteso
come superamento della condizione organica o mondana della
specie, esprime la convinzione, e soprattutto il desiderio, che la
tecnologia ci condurrà inesorabilmente – ma ciò può essere
titanicamente accelerato o codardamente rallentato – a un
miglioramento essenziale dell’uomo, a uno stato di übermennschlich
[oltre-umanità], a una Nuova Era postumana in cui “noi” ci saremo
trasformati definitivamente e letteralmente in quei configuratori di
mondo cari a Heidegger (ironicamente, attraverso la tecnica). L’apice
dell’Antropocene condurrà all’obsolescenza dell’umano ma
“dall’alto”, ovvero attraverso la sua gloriosa trasfigurazione: nel
Regno dell’Uomo, la mondanità sarà assorbita da un’umanità
magnificata tecnicamente ed emancipata dal mondo. Non dovremo
piú rendere conto al mondo né affrontare i suoi limiti, poiché,
trasformando il mondo stesso, il cosmo nella sua totalità, ci saremo
trasformati in mondo, in una “forma di intelligenza squisitamente
sublime” (Kurzweil 2010) – in un Uomo-Universo15. Nel futuro,
insomma, tutto sarà umano. O, come direbbero i piú maligni, tutto
sarà californiano16.
I Singolaritaristi (come vengono chiamati) sembrano poco
preoccupati di sapere se i limiti dei parametri del Sistema Terra
saranno abbastanza generosi da concedere il tempo necessario al
grande salto in avanti. L’ormai assodata crisi ambientale non rientra
nelle loro speculazioni, oppure viene data come risolta grazie
all’imminente Rapimento tecnologico e all’automutagenesi umana.
Alcuni parenti prossimi del popolo della Singolarità hanno tuttavia
prestato attenzione al problema, interrogandosi sulle immediate
condizioni tecnologiche necessarie alla sopravvivenza del
capitalismo e delle sue principali conquiste, la libertà e la sicurezza,
nel quadro di un consumo energetico crescente e di una persistente
dipendenza dai combustibili fossili. Il Breakthrough Institute, un think
tank americano (californiano come i Singolaritaristi) dal
posizionamento incerto nello spettro politico17, è forse tra i difensori
piú indipendenti di questo capitalismo verde che si affida a soluzioni
centralizzate per implementare ambiziosi progetti di tecnoingegneria
a spese del grande capitale, con un ampio investimento materiale,
organicamente (se l’avverbio qui è calzante) radicato all’interno della
Big Science: fratturazione idraulica delle rocce per l’estrazione di
combustibili fossili, espansione e perfezionamento delle centrali
nucleari, grandi progetti idroelettrici (come le dighe nel bacino
amazzonico, per esempio), generalizzazione della monocoltura di
vegetali transgenici, geoingegneria ambientale e via dicendo.
Ted Nordhaus e Michael Shellenberger, i due fondatori dell’istituto
e autori del premiato libro Break Through: From the Death of
Environmentalism to the Politics of Possibility (1a ed. 2007), sono un
buon esempio di quella corrente che Patrick Curry (2011) ha definito
i “tecnofili della cornucopia”18. Il libro è un annuncio pubblicitario a
favore di un “capitalismo postindustriale vibrante” (2a ed. 2009: 249),
in grado di mantenere abbondantemente i 10 miliardi di persone che,
a metà del secolo, popoleranno la Terra. “Big is beautiful”: questa
parola d’ordine degli autori19 trova il suo fondamento in un capitolo di
Break Through significativamente intitolato “Grandezza”, in cui
Nordhaus e Shellenberger propongono una lettura alquanto
singolare di Nietzsche, in particolare del suo appello alla creazione
di nuovi valori adeguati alla nostra epoca, che rimpiazzeranno le
filosofie del risentimento, del pessimismo e dei limiti attraverso una
“filosofia della gratitudine, del superamento e della possibilità”. Gli
autori immaginano cosí un’allucinante convivenza tra Nietzsche e
Pollyanna, dalla cui abominevole copulazione emergerebbe una
figlia eugeneticamente mostruosa, una Barbie ecopolitica che
potremmo battezzare Gratitudine dei Ricchi.
Coloro tra noi che hanno avuto la fortuna di veder
soddisfatti i propri bisogni materiali e postmateriali piú
elementari, non devono sentirsi né colpevoli, né tanto meno
vergognarsi della loro prosperità, della loro libertà e dei loro
privilegi, ma piuttosto provare gratitudine. Poiché la colpa ci
conduce a negare la nostra prosperità, mentre la gratitudine
ci spinge a condividerla. (ivi: 250)
Suona piú come un discorso da tele-evangelista che annuncia
con santimonia alle proprie pecorelle l’imminente prosperità, che una
tesi rigorosamente nietzscheana. Nella visione che hanno i fondatori
del BI, tutte queste Cassandre, i teorici della decrescita, gli ecologisti
che osano parlare della necessità di ridurre i consumi, gli scienziati
che insistono sull’idea dei limiti biogeofisici del pianeta, spacciano un
miscuglio tossico di meschinità malthusiana, di nichilismo metafisico
e di cattiva coscienza storica; in breve, rappresentano un insieme di
“forze reattive” che nega ai popoli del pianeta (non si parla che di
esseri umani, chiaramente) la vita di abbondanza che è il nostro
Destino20. Secondo Nordhaus e Shellenberger (ivi: 127) il problema
degli ambientalisti è la mancanza di immaginazione: avrebbero
dovuto “immaginare” che la soluzione al riscaldamento globale si
trova nella liberazione e non nella restrizione dell’attività economica
e dello sviluppo tecnologico. Piuttosto che ridurre, dobbiamo
aumentare ancora di piú, produrre, innovare, crescere e prosperare,
per includere finalmente in quest’abbondanza coloro che
attualmente ne sono privi. In poche parole, è necessario far crescere
la torta per poi dividerla e, soprattutto, è necessario farlo
acceleratamente.
Al contrario di una singolarità catastrofica come quella
profetizzata dall’avanguardia visionaria della futurologia californiana,
le idee del Breakthrough Institute non contemplano che una
qualsivoglia breakthrough [svolta] profondamente drammatica possa
accadere. I suoi fondatori credono invece in un progresso continuo,
in una “modernizzazione della modernizzazione”, per riprendere
l’espressione di Ulrich Beck, in un perfezionamento del dispositivo
tecnico della civiltà capitalista in grado di assorbire, o meglio, di
rendere produttive le conseguenze distruttive che sta disseminando
lungo il suo cammino; in altre parole, capace di trarre abbondanti
profitti da una tale Aufhebung tecnica (conosciuta anche come
“dialettica schumpeteriana dell’inganno”). Lo schema proiettato
dall’ideologia del BI può cosí essere visto come una variante del
tema mitico dell’“umanità senza mondo”, nel senso che, nel “buon
Antropocene” a venire, non ci sarà piú un ambiente esterno
all’umanità. Non tanto perché l’uomo sarà trasfigurato dalla tecnica,
come sognano i Singolaritaristi, ma perché la vecchia Natura sarà
ricodificata (o meglio, riassiomatizzata) dalla macchina capitalista in
quanto semplice problema di gestione delle risorse, di governance
ambientale. Tutto all’interno delle cosiddette “pratiche virtuose”. Il
sogno antropico dei Moderni sarà allora realizzato, il sogno di un
postambientalismo in cui l’uomo si troverà delimitato,
contestualizzato e sorretto solo da se stesso, circondato dalla sua
immensa accumulazione di merci, alimentato dalle sue nuove e
sicurissime centrali nucleari (con reattori a fusione fredda, se
possibile) e rilassato da vasti e piacevoli parchi di divertimento
ecologici, popolati, naturalmente, da una selezionata flora
geneticamente migliorata21.
Le cosmologie della Singolarità e del Breakthrough Institute, nella
misura in cui annunciano una mutazione interna al sistema
economico attuale, nella quale le forze produttive dell’ipermodernità
sarebbero in grado di generare un ordine ecopolitico fondato
sull’accesso universale (o almeno, questa è la promessa)
dell’umanità a una nuova abbondanza materiale, possono essere
classificate tra i vangeli del reincantamento capitalista. Ma c’è una
curiosa variante di sinistra dell’escatologia singolaritarista-
cornucopiana che sta assumendo rilevanza negli ultimi anni, sotto
l’etichetta, all’inizio applicata in modo ironico, ma a poco a poco
assunta dai suoi stessi difensori, di “accelerazionismo”. I teorici
accelerazionisti, presenti maggiormente nella vecchia Europa,
esibiscono generalmente un sofisticato disincanto metafisico, al
limite di ciò che Deleuze e Guattari avrebbero chiamato “passione di
abolizione”, che sfocia a tratti nell’elogio di una certa jouissance
necrofila. Tutto ciò nella prospettiva di un’intensificazione
parossistica del nuovo spirito del capitalismo, capace di condurre a
una rottura tecnopolitica violenta e alla trasformazione strutturale dei
rapporti di produzione. Se i Singolaritaristi esprimono un ottimismo
tecnologico dal profilo geek, i pensatori dell’accelerazione si
allineano sulle posizioni estetiche e politiche del movimento
cyberpunk, affermando altezzosamente il potere del negativo e
manifestando, in alcuni casi, una forte nostalgia per la versione
sovietica del fronte di modernizzazione.
§ Benjamin Noys (2008, 2014), che ha coniato il termine
“accelerazionismo”, ha disegnato la mappa dei riferimenti
culturali del movimento (la fantascienza degli anni ’80, la
Black Metal Theory, il Manifesto cyborg di Donna Haraway,
il postoperaismo italo-britannico, tra gli altri) e ha tracciato
la sua genealogia filosofica. Quest’ultima risalirebbe ad
alcuni testi di Deleuze e Guattari, Lyotard e Baudrillard, cosí
come vengono reinterpretati dalla mediazione tanto
carismatica quanto semidelirante, e per molti francamente
imbarazzante, di Nick Land (2011), ex professore di
Warwick e mentore di due dei principali rappresentanti del
“realismo speculativo” (Ray Brassier e Iain H. Grant) e di un
influente blogger tecno-marxista, Mark Fisher (k-punk).
Land mostra dei punti di contatto con il singolaritarismo
californiano, ma la sua futurologia, anche se maggiormente
referenziata in senso filosofico, è profondamente “gotica” o
“luciferina” (Williams 2011). Egli allude, in uno dei suoi testi
piú famosi (Meltdown), a una crescente compressione dei
cicli temporali di crisi, che starebbero convergendo verso
una “terrestrial meltdown singularity” [singolarità della
fusione terrestre] (Mackay 2012). Un recente libro di Noys
(2014) elabora un’ispirata analisi dei predecessori
dell’accelerazionismo, cosí come una penetrante critica
interna al movimento, dato che l’autore condivide alcuni
presupposti con gli autori criticati.
L’intuizione principale degli accelerazionisti è che un certo mondo,
che è già finito, deve finire di finire, perfezionare la propria
inesistenza. Questo mondo che gli altri (gli ingenui di sempre, i
sognatori, gli abbraccia-alberi o gli hippy) immaginavano esistere in
tutto il suo splendore bucolico prima dell’avvento del capitalismo e
che oggi sussisterebbe diminuito, maltrattato e soffocato dalla
cortina di fumo dei dark satanic mills 22, è un’illusione romantica, una
Matrice rétro che deforma la percezione del mondo reale del
presente. Il mondo reale è questo nostro mondo desertico del tardo
capitalismo, in cui la “seconda Natura” dell’economia politica esercita
la sua incontestabile sovranità metafisica – se non addirittura fisica –
sulla “prima Natura”, la vecchia physis sempre troppo ecologica,
organica e vitalista23. La sussunzione reale si è estesa
universalmente, il sistema capitalista è divenuto assolutamente
egemonico, la sua capacità di assorbire ogni focolaio di resistenza si
mostra illimitata, la realtà è diventata un corollario derisorio del suo
stesso simulacro. Non c’è piú – e pertanto non c’è mai stato – un
“fuori” dal capitalismo, un’esteriorità che gli sia anteriore, una
wilderness che vada al di là della sua storia, una concrescenza
arcaica che non sia stata già vaporizzata dalla sua implacabile
incandescenza: tutto ciò che è solido ecc. Cosí, l’unico modo di far
accadere questo Fuori è produrlo a partire da dentro, mettere la
macchina capitalista in overdrive, accelerare l’accelerazione che la
definisce, potenziare la distruzione creativa che la muove, tanto che
finisca per autodistruggersi, cosí da ricrearci (in) un mondo
radicalmente nuovo. Dopo l’apocalisse, il Regno.
Per quanto riguarda l’umanità che abita questo mondo-universo
senza finestre del tardo capitalismo, è già da molto tempo che non è
piú umana. Lontani dall’immaginare una (trans)umanizzazione
“calda” del cosmo, gli accelerazionisti professano un postumanesimo
“freddo” che consiste in una deominizzazione asoggettivante
dell’Uomo, attraverso il tecno-capitalismo deterritorializzato, dando il
benvenuto a un’“infiltrazione tecnologica dell’attività umana”, capace
d’indurre dei cambiamenti nell’anatomia cerebrale della specie e
finalmente in grado di dissolvere per sempre la vecchia Cultura
antropica e provinciale all’interno di una nuova Natura cosmica,
austera e sterile, caotica e rarefatta, impersonale ed elementare (cfr.
Lindblom 2012 sulla “visione” di Nick Land e sulla sua teoria di una
“fusione” [meltdown] di tipo apocalittico-singolaritiano). L’operaio-
macchina cognitiva collegato alla rete, zombificato dalla
somministrazione continua di droghe chimiche e semiotiche,
produttore-consumatore d’Immateriale eternamente indebitato e che
gode avidamente del proprio sfruttamento, è il nuovo antisoggetto
eroico di questa distopia gioiosa, di questo post-mondo
freneticamente devitalizzato.
§ Nelle numerose rappresentazioni contemporanee di
persone senza mondo del futuro, troviamo la macabra
figura dello zombie, in cui si associano la molteplicità e
l’impersonalità, l’omofagia cannibale e la putrefazione. Nel
romanzo La strada di McCarthy, come abbiamo visto,
aveva luogo una doppia lotta, da un lato contro la
decomposizione del mondo in una melma grigia e tossica,
dall’altro contro la zombificazione dell’uomo, processo
incarnato da bande di antropofagi senza volto che si
nutrono dei sopravvissuti piú deboli (quelli ancora non
completamente disumanizzati). In Ubik di Dick, scopriamo
lungo il racconto che il decadimento accelerato di coloro
che si trovano nella condizione crepuscolare di “semi-vita”
si deve alla forza di un unico personaggio, Jory (morto
durante l’infanzia e ancora in semi-vita), che letteralmente
divora le semi-vite degli altri, le quali scorrono in una realtà
costruita mentalmente nei minimi dettagli dallo stesso Jory.
I protagonisti del Cavallo di Torino, infine, sembrano vivere
di una sostanza che non li alimenta, devitalizzandosi a poco
a poco fino a smettere di “funzionare”, come se fossero
stati divorati da dentro e non fosse rimasto che il mero
guscio vuoto dei loro corpi in un mondo a sua volta
svuotato. Per un’analisi delle figure di zombie, vampiri e
antropofagi nell’immaginario attuale, vedi l’articolo di Nodari
e Cera (2013).
L’accelerazionismo è una delle incarnazioni contemporanee della
filosofia marxista (lato sensu) della storia. Ha guadagnato terreno
con le crisi del 1968, 1989, 2001, 2008, e dopo altre date
emblematiche di successive “fini del passato”, che hanno marcato il
discorso della sinistra24 come altrettanti segnali infausti o di buon
augurio dell’“inizio del futuro”. Una tale filiazione lo
caratterizzerebbe, in principio, come una posizione anticapitalista,
ma il prefisso piú appropriato sembra essere piuttosto il “post”,
tenuto conto della sua visione risolutamente teleologica e unilineare
della storia umana (Noys 2012), cosí come, aggiungiamo, della sua
ostilità virulenta nei confronti della versione della fine-del-passato
associata alla convulsione utopica del 1968.
L’accelerazionismo ha l’abitudine di rivendicarsi come un erede
legittimo dello spirito della sinistra, concentrando le sue energie
polemiche contro le posizioni anticapitaliste alternative – e
perlomeno in questo senso è, di fatto, un autentico erede del vecchio
spirito della sinistra. Il suo peggior nemico ideologico sembra essere
l’ambientalismo e altri discorsi “riterritorializzanti” dello stesso genere
(Lindblom 2012), che sognano un ritorno a condizioni meno artificiali
d’esistenza, presumibilmente piú fedeli all’indiscernibilità ontologica
tra la specie, la vita e il mondo (continuità, orizzontalità, correlazione
materiale). La difesa dell’urgenza di un rallentamento della
locomotiva imballata della crescita economica nasconde goffamente,
pensano gli accelerazionisti, l’obiettivo di recuperare valori e
relazioni vigenti nel passato precapitalista, un passato che non solo
è irrecuperabile, ma anche del tutto fantasioso e, in ultima istanza,
miserabile. Quale lavoratore d’oggi vorrebbe ritornare a una
condizione contadina e al “fango organico” dei propri antenati? –
domanda acidamente Mark Fisher in uno dei suoi blog.
§ Su questo ritorno al fango organico, è opportuno ricordare
il motto degli occupanti – squatters venuti da diverse parti
della Francia e dell’Europa, cosí come contadini che si
rifiutano di vendere le proprie terre – della zona destinata a
ospitare l’Aéroport du Grand Ouest, a Notre-Dame-des-
Landes, nella regione di Nantes (Bretagna). Lo slogan, che
si legge sulle barricate che bloccano e colorano le strade
della ZAD (“Zone à Défendre”) di Notre-Dame-des-Landes,
recita: “Nous sommes le peuple de boue”, letteralmente:
“Siamo il popolo del fango”, frase che suona identica a
“Nous sommes le peuple debout”: “Siamo il popolo in piedi”,
il popolo che si solleva, il popolo sul piede di guerra, il
popolo con i piedi per terra (nel pantano in cui si trasforma
la regione durante l’inverno), ma con la spina dorsale eretta
e la testa alta. L’occupazione della zona è iniziata nel 2008
e resiste ancora oggi, essendo riuscita a sottrarre al
controllo dello Stato un’area di quasi duemila ettari, dopo
aver affrontato una dura repressione da parte della
Repubblica francese, esercitata attraverso i suoi moderni
strumenti di “violenza legittima” (polizia antisommossa, gas
lacrimogeni e granate stordenti, proiettili di gomma,
terrorismo giuridico ecc.). Il movimento di occupazione della
ZAD di Notre-Dame-des-Landes è solo un esempio dei
molti movimenti di riappropriazione della Terra che stanno
emergendo e formando una rete in diversi punti del
pianeta25. Questi sembrano indicare che la posta in gioco
non è tanto un ritorno al fango “ancestrale”, quanto un
processo di scoperta (anche nel senso di uno
scoperchiamento, di un de-asfaltamento) della superficie
della Terra e di rivelazione delle sue potenze telluriche,
inventando un futuro in cui “mettere il piede nel fango” non
significherà piú piegarsi di fronte a un Signore, né essere
sotto il giogo di un sovrano. Si vedano il sito del movimento
di Notre-Dame-des-Landes: http://zad.nadir.org/ e un
articolo di Wikipedia francese sul progetto dell’aeroporto:
http://fr.wikipedia.org/wiki/Project_d’a%C3%A9roport_du_G
rand_Ouest#Op.C3.A9ration_C.C3.A9sar.
Recentemente due giovani autori, Alex Williams e Nick Srnicek
(2013), hanno redatto un Manifesto accelerazionista dal profilo piú
solare, ma non meno aggressivo, rispetto alla versione nichilista
dell’accelerazionismo fine secolo rappresentata da Nick Land. Il
manifesto ha conosciuto un certo successo nella blogosfera
filosofica d’avanguardia – la Rete è la nicchia ecologica favorita dei
pensatori del realismo speculativo. Il testo difende una “politica
prometeica di massimo controllo sulla società e sul suo ambiente”
come il solo mezzo per sconfiggere il Capitale26. Questa mastery
mira a “preservare i guadagni del tardo capitalismo” evitando di
distruggere la “piattaforma materiale del neoliberismo”. Si tratta,
insomma, di “scatenare” (unleash) le forze produttive che il
capitalismo, secondo la diagnosi classica di Marx ed Engels, genera
e allo stesso tempo atrofizza, suscita e limita. Ma, per farlo, è
imperativo riporre la nostra fiducia nel Piano (= lo Stato),
recuperando un senso positivo della trascendenza che il nostro
credere semplicisticamente nelle virtú immanenti della Rete (= il
Mercato) ha spinto a disprezzare. La pianificazione economica
centralizzata e l’autorità politica verticale riprendono cosí
cittadinanza nell’immaginazione di una sinistra senza complessi, “a
proprio agio” (at ease) nell’ambiente messianico del Modernismo.
Altri forse direbbero: nell’immaginazione confusa di una sinistra
gravemente affetta dalla sindrome di Stoccolma.
Cosí come il Breakthrough Institute, con il quale condividono se
non la stessa fede nelle capacità rigenerative del capitalismo,
perlomeno la stessa speranza nel progresso, gli accelerazionisti
accusano (ciò che abbonda in fede e speranza manca di carità…) la
sinistra attuale o, piú precisamente, ciò che resta dello spirito del ’68
in quello che ancora rimane della sinistra, di essere affetta da una
“schiacciante [staggering] mancanza di immaginazione”. Tuttavia, le
visioni immaginifiche che richiamano la nostra attenzione non sono
meno rivolte al passato delle chimere bucoliche che gli autori
imputano all’“altra” sinistra: si tratta, in fin dei conti, di “riprendere i
sogni che, dalla metà del XIX secolo fino alla nascita dell’era
neoliberista, hanno entusiasmato molti di noi”. In altre parole, si
tratta di completare il progetto ottocentesco di autofondazione
dell’Uomo nei termini del progetto novecentesco di assoluto controllo
tecnico del mondo: di perfezionare il progetto del secolo della
Ragione con il recupero e il compimento delle promesse del secolo
del Progresso. La storia si ripete; ma, a ben vedere, facendo il salto
della cavallina.
§ A quanto pare, gli ambientalisti vengono condannati o alla
mancanza o all’eccesso d’immaginazione. Si veda, per
esempio, questa dichiarazione della presidentessa
brasiliana Dilma Rousseff, resa poco prima della
Conferenza Rio+20 nel 2012, sugli attivisti contrari allo
sbarramento dei fiumi amazzonici attraverso la costruzione
di megacentrali idroelettriche: “Nessuno può accettare in
una conferenza del genere, e chiedo scusa, di discutere la
fantasia. Qui non c’è spazio per la fantasia. Non sto
parlando dell’utopia, che può esserci, sto parlando della
fantasia”:
http://ciencia.estadao.com.br/noticias/geral.pessoas-
contrarias-a-hidreletricas-na-amazonia-vivem-fantasia-diz-
dilma,857484. Un anno dopo, nel maggio del 2013, il capo
di Stato Maggiore Gleisi Hoffmann ha definito “minoranze
con progetti ideologici irreali” i difensori dei diritti
costituzionali degli indios alle loro terre:
http://www.ihu.unisinos.br/cepat/cepat-conjuntura/520392-
conjuntura-da-semana-gigantesco-retrocesso-governo-
cede-a-ruralistas-e-poe-fim-a-demarcacao-de-terras-
indigenas-. In cambio, il lettore potrà leggere ciò che pensa
dell’intellighenzia ambientale del governo un “ex guru” di
Dilma Rousseff (la definizione è della presidentessa), il
professore della UFMG (Università federale di Minas
Gerais) Apolo Heringer Lisboa, fondatore del PT (Partito dei
Lavoratori), oggi nella Rede Sustentabilidade de Marina
Silva: http://www.ecosemdebate.com.br/o-brasil-vive-a-pre-
historia-ambiental-e-o-mundo-um-consenso-oco-de-
sustentabilidade.
Il Manifesto conclude gravemente: “La scelta che ci si presenta è
severa: o un postcapitalismo mondiale, o la lenta frammentazione
verso il primitivismo, una crisi perpetua e il collasso ecologico
planetario”. L’introduzione della prospettiva del “collasso ecologico”,
o perlomeno la sua menzione nell’orizzonte delle speculazioni
accelerazioniste, è qualcosa di nuovo, e di indiscutibilmente
benvenuto (Wark 2013); ma ci sembra altrettanto indiscutibile che
segnali una certa crisi nelle teorie accelerazioniste della crisi. Il
“dominio prometeico” sembra si stia affermando come un grido
d’incoraggiamento lanciato alle truppe dei Moderni messe con le
spalle al muro, come un vessillo agitato per risollevare il morale dei
combattenti, ora che la “prima Natura” (cfr. Latour 2012) ha
slealmente ripiegato di fronte alla seducente progressione
autopropulsiva della “seconda”, e che la temporalità della crisi
ecologica è entrata in risonanza catastrofica con la temporalità della
crisi economica. Il tema dell’accelerazione guadagna con questo un
senso totalmente insperato. Poiché adesso non si tratta piú, o non
solo, di un’accelerazione liberatrice delle forze produttive, ma di una
spinta crescente delle forze distruttrici scatenate dall’interazione
fisica tra il sistema capitalista e il sistema Terra. Per questo, il
“collasso ecologico planetario” difficilmente può essere caratterizzato
dall’aggettivo “lento” (“la lenta frammentazione verso il primitivismo
ecc.”). Come abbiamo già visto, tale collasso non ha molto a che
fare con il campo della nostra “scelta”; tutto ciò non è davanti a noi,
come sembravano credere gli autori del Manifesto, ma in larga parte
dietro di noi: è già iniziato e non è reversibile, può al massimo
diminuire la propria accelerazione. Il sostrato infraeconomico del
capitalismo – le condizioni materiali delle “condizioni materiali”
presenti – si sta modificando piú velocemente delle infrastrutture
tecniche e politiche della civiltà dominante. Non c’è dialettica che
tenga in questo pasticcio. L’accelerazione “intenzionale” della
macchina capitalista, posta come soluzione alla nostra attuale
miseria antropologica, si trova in contraddizione oggettiva con
un’altra accelerazione per niente intenzionale: l’implacabile processo
di retroazione positiva27 delle trasformazioni ambientali deleterie per
l’Umwelt della specie. Ci sono forti ragioni insomma, per temere che
questo genere di postcapitalismo globalizzato non arriverà
sufficientemente in tempo per impedire il “lento” collasso ecologico
planetario.
Noys (2014) osserva come il programma del Manifesto
accelerazionista non sia poi cosí originale. Nonostante insista sui
punti centrali del venerando Manifesto del 1848, riprende molto della
piattaforma gramsciana, con il difetto, sostiene Noys, di non proporre
nessuna strategia concreta per controllare dialetticamente
l’astrazione che denuncia e, allo stesso tempo, elogia. Ci sembra,
quindi, che il programma accelerazionista sia piú di un semplice
upgrade tecnico della vulgata marxista. Può essere letto come una
versione forte di ciò che Oswald de Andrade (1990 [1950]) chiamava
“filosofia messianica”, ossia la millenaria narrativa patriarcale,
repressiva, trascendentalista, razzista e fallocratica che attraversa
come un filo rosso la storia dell’Occidente, da san Paolo a Marx,
Husserl, Heidegger e oltre. Molto piú dei turbolenti Williams e
Srnicek, è un altro pontefice dell’Universale a esprimere alla
perfezione ciò che realmente muove gli accelerazionisti, spiegando
la loro ostilità verso ciò che chiamano “primitivismo”. E cosí che
Alain Badiou sostiene:
Non ho timore di affermarlo: l’ecologia è il nuovo oppio dei
popoli. E come sempre, questo oppio ha il suo filosofo di
turno, che è Sloterdijk. Essere affermazionisti significa
anche andare oltre le manovre intimidatorie condotte in
nome della “natura”. Occorre affermare con nettezza che
l’umanità è una specie animale che tenta di superare la
propria animalità, un insieme naturale che tenta di de-
naturalizzarsi28.
Difficile essere piú chiari o piú “affermativi” (tre volte in qualche
riga, in verità), e piú in errore. Ciò che Badiou chiama “ecologia”, e
che in realtà è il nome di una perdita di fede nel destino manifesto
della specie e nelle delizie della sua sublimazione comunista, è
demonizzato come una sorta di movimento reazionario,
superstizioso, che propaga una religione della paura (Alain Badiou e
Pascal Bruckner, même combat?) e pretende audacemente di
definire il contenuto della politica e la forma del politico29. Ecco allora
che i noiosi ecologisti vorrebbero riportarci indietro – ma no pasarán
– alle primitive paure di un’umanità animalizzata, inerme di fronte a
una Natura onnipotente e imprevedibile. La convergenza del
discorso degli accelerazionisti (e dei loro guru) con quello dei
Singolaritaristi e degli ideologi del capitalismo vibrante del
Breakthrough Institute è, “non abbiamo timore di affermarlo”,
piuttosto inquietante.
Gli accelerazionisti ritengono che “noi” dobbiamo scegliere tra
l’animale che siamo stati e la macchina che saremo. Nella loro
angelologia materialista propongono, in definitiva, un mondo senza
“noi” – ma fatto per noi. Immaginano reciprocamente una specie
postumana rimodellata da una “piattaforma materiale” ipercapitalista
– ma senza capitalisti. Sognano un’umanità extracorporea, un
mondo extraterrestre. Una natura de-naturalizzata attraverso i de-
umani. Un materialismo spiritualizzato, insomma30!
Il Grande Dentro: la speleologia speculativa di Gabriel Tarde
Chiudiamo questa sezione sulla futurologia antropologica
contemporanea gettando uno sguardo su un testo del passato che ci
sembra parecchio attuale. Il saggio di narrativa filosofica di Gabriel
Tarde, Frammento di storia futura (1893), per la sua delirante
invenzione concettuale e per il suo sottile miscuglio di lirismo e
sarcasmo è una delle versioni piú interessanti del tema della perdita
del mondo. Ha la virtú di spingere fino all’assurdo il progressismo
tecnofilo che caratterizza le versioni singolaritariste e
accelerazioniste abbozzate in precedenza, facendoci allo stesso
tempo riflettere direttamente sulla nostra relazione con la Terra.
Nel Frammento, uno dei primi scritti di Tarde, egli delinea alcune
idee che diverranno centrali nella sua opera posteriore. Si tratta di
un esercizio immaginativo che intende, o meglio finge di intendere di
esibire – sovrapponendo piú livelli di ironia – la quintessenza della
società. Descrive l’emergere di un’“umanità completamente umana”
(“une humanité toute humaine”), inatteso risultato di un incidente
cosmico che avrebbe provocato l’“eliminazione completa della
Natura vivente, sia animale, sia vegetale, eccetto l’uomo” (Tarde
1991: 49). Il narratore di Frammento di storia futura è uno storico
che descrive il passato e il presente di una Grande Trasformazione
verificatasi nel nostro futuro, una monumentale catabasi
antropologica: l’“interiorizzazione” dell’umanità (bianca ed europea,
si suppone) nel cuore del pianeta, in risposta a una catastrofe
climatica31. A una lunga era di noiosa prosperità, segnata da un
progresso in qualche modo simile a quello profetizzato dal
Breakthrough Institute – fine delle guerre, consolidamento di un
governo mondiale “perfettamente corretto, borghese, neutro e
castrato”, economia energetica di base inesauribile (sole, fiumi,
venti, maree), lingua unica ecc. –, segue il “felice disastro”. Il sole,
divenuto “anemico”, collassa e si spegne; la superficie del pianeta
congela, milioni di persone muoiono, la civiltà è obbligata a
rimodellarsi da cima a fondo, “per il bene dell’uomo” (ivi: 21-27).
Il disastro è annunciato, ma la reazione tarda ad arrivare: “Il
pubblico si preoccupava poco della cosa, come di tutto ciò che è
graduale e non improvviso” (ivi: 22). Fino a quando, un giorno di
primavera, un cupo sole rossastro annuncia il crepuscolo finale: “I
prati non erano piú verdi, il cielo non era piú blu, i cinesi non erano
piú gialli” (ivi: 23). Ma, lontano dal trasformarsi in un’avventura
interplanetaria di colonizzazione del Grande Fuori, il racconto,
procedendo ab exterioribus ad interiora (ivi: 33), prende la strada di
una delirante speculazione speleologica32. Miltiade, il genio che
salva l’umanità, la convince ad addentrarsi nella Terra, dimenticando
il sole che si spegne e approfittando della sovrabbondante energia
fornita dal cuore igneo del globo: “interiorizziamoci” (ivi: 37). La
discesa verso un ambiente cavernicolo è definita come “rimpatrio
profondo dell’anima esiliata!” (ivi: 34) – e questo fa di Miltiade un
saggio antiplatonico, un platonico agli antipodi, e del Frammento
un’Allegoria della Caverna rovesciata33. Grazie a una potente
retorica profeticamente latouriana, questo messia della
trascendenza riesce a emozionare la platea, ottenendo la sua
adesione: “Non è piú con questo gesto (L’oratore alza il dito al cielo)
che deve esprimersi ormai la speranza della salvezza, ma con
questo (Egli abbassa la mano destra verso la terra) […]. Non
bisogna piú dire: lassú! ma: giú!” (ivi: 33)34.
Al contrario del quadro edenico della wilderness, l’opposizione tra
la vita e l’umanità messa in scena dal Frammento pone dal lato
positivo dell’equazione l’umanità e il mondo inorganico, mentre la
vita non umana è posizionata dal lato negativo, “antisociale”. La
verità dell’uomo è la sua dimensione sociale e autopoietica, non la
sua dimensione organica, allopoietica; e la socialità viene affermata
in quanto fondo della grande Natura, condizione ontologica
universale. La psicologia e la chimica, scienze supreme
dell’associazione, si fonderanno in un solo sapere socio-
monadologico (“i nostri chimici […] ci fanno cosí la psicologia
dell’atomo, i nostri psicologi ci espongono l’atomologia dell’io, stavo
per dire la sociologia dell’io” [ivi: 75]), l’uomo si rispecchierà nelle
rocce, nei metalli e negli atomi, piuttosto che in una fauna e una flora
da lungo tempo estinte, partecipando cosí della vitalità non organica
elementare che lo libererà definitivamente dall’idea della morte,
questo fantasma biocentrico.
La grande migrazione verso il dentro, in cerca dell’“espace du
dedans” (Michaux), si farà in totale contraddizione con la leggenda di
Noè: questa volta nessun altro essere vivente sarà portato con noi;
la Natura, questo “mucchio di contraddizioni viventi” (ivi: 38), sarà
lasciata indietro, trasformata in mera proteina congelata – le
innumerevoli carcasse animali congelate in superficie nutriranno
l’umanità per secoli, fino al momento in cui la chimica non riuscirà a
fabbricare alimenti a partire dalle pietre. Solo i tesori della cultura e
della tecnica ci accompagneranno, sotto forma di una gigantesca
biblioteca e di un vasto museo, permettendo il fiorire di una nuova
civiltà raffinata, purificata35. Il trogloditismo post-catastrofe non è
dunque una regressione verso una condizione primitiva naturale, ma
una suprema artificializzazione emancipatrice, un’interiorizzazione
fisica nel mondo che è un’interiorizzazione tecnica del mondo. La
natura, che non è piú percepita come un ostacolo alla libertà umana,
viene completamente estetizzata, divenendo un mito, acquistando “il
fascino profondo e intimo di una vecchia leggenda, ma di una
leggenda alla quale si crede” (ivi: 80).
Il Frammento è ricco di provocazioni sociologiche, pungente nel
suo disprezzo sarcastico del culto socialista del lavoro (ivi: 50 sgg.) e
stimolante nell’associare uno stato di estetizzazione totale della vita
alla piena realizzazione dell’Amore in quanto sentimento fondante
del legame socio-cosmico (echi di Fourier?). Contrariamente al
regno della penuria della celebre immagine hobbesiana di una vita
“solitaria, povera, sordida, bestiale e breve” evocata nelle distopie di
Mad Max o La strada, nel mondo abiotico di Tarde i bisogni sono
largamente soddisfatti, divenendo quasi invisibili: l’umanità può
generare tutto da se stessa, eccetto “le sue risorse alimentari”36. Il
superfluo artistico predomina largamente sull’utilitarismo
economicista, gli “scambi di riflessi” amorosi possono infine
sbocciare al di fuori dell’illusione strumentale degli “scambi di
servizi”.
Ma la chiave del libro, in realtà profondamente malinconica, si
trova a nostro avviso nelle ultime pagine, che funzionano come una
sorta di anticapanna magica: l’entusiasmo un poco macabro del
narratore della civiltà postapocalittica lascia spazio a un’inquietudine
crescente di fronte a un nucleo “ribelle”, testimonianza di
un’irriducibile impulso antisociale dell’umanità. Il contro-Eden
tecnicizzato non riesce a emanciparci da tutti gli atavismi. La società
perfetta del futuro, ma “a oltranza e forzata” (“à outrance et forcée”),
ha i “suoi refrattari” (ivi: 83) che si stancano dell’omogeneità
monotona dell’ambiente artificiale (l’accelerazionismo non va bene
per tutti…)37. Peggio ancora, i suoi fondamenti sono periodicamente
minacciati dall’irruzione del piú naturale degli istinti, il calore
primaverile38, il quale non solo scatena impulsi suicidi di
“trascendenza” verso la gelida superficie del pianeta, ma, associato
al benessere economico di cui gode questa nuova umanità, conduce
fatalmente a un rilassamento progressivo e generalizzato dei
costumi, ovvero a un disastro malthusiano – l’esplosione della
popolazione. Insomma, anche la fine della Storia si compirà
giungendo alla fine39.
Note
1 [n.d.t.: la traduzione è tratta da Thomas Stearns Eliot, “Gli uomini
vuoti” (1925), in Id., Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani,
Milano 1993.]
2 Come osservano a ragione Bonneuil e Fressoz (2013), la “presa di

coscienza” del deterioramento ecologico del pianeta causato


dall’azione umana non è stata immediata, né può caratterizzare il
passaggio da un’era di ingenuità e cecità all’avvento di una
“modernità riflessiva” rispetto alle questioni ecologiche. Tuttavia, ci
sembra innegabile che l’accumulazione dei cambiamenti antropici
dell’equilibrio termodinamico planetario sia divenuta
fenomenologicamente, o meglio, catastroficamente palpabile solo
negli ultimi decenni del XX secolo.
3 Sebbene tutta l’azione sembri svilupparsi nel corso di un’unica

giornata, siamo lasciati all’oscuro sulla data in cui avviene.


4 Vedi, per esempio, Dick 2003, 2006, 2007a e 2007b.
5 Leibniz (2000: § 416, p. 397). Vedi Danowsky 2011b per una lettura

dell’ottimismo di Leibniz dal punto di vista della crisi attuale. Sulla


capacità umana di vivere in condizioni ambientali sempre peggiori,
vedi l’interessante (e deprimente) ipotesi di Hunt e Lipo 2011
sull’Isola di Pasqua, cosí come le lezioni contenute in MacKinnon
2013 (riferimenti tratti dal blog di Robert Krulwich:
http://www.npr.org/blog/krulwich/2013/12/09/249728994/what-
happened-on-easter-island-a-new-even-scarier-scenario).
6 “Welcome to the desert of the real”, come dice notoriamente

Morpheus a Neo. Su The Matrix come “film d’azione intellettuale” (è


cosí che i fratelli Wachowski hanno descritto la loro opera), vedi il
volume collettivo di Badiou et al. 2003.
7 Forse siamo già morti a partire dalla conferenza Eco 92, che ha

avuto luogo a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. Perlomeno, è ciò
che suggerisce Ubik (pubblicato nel 1969), che inizia con queste
parole: “Alle tre e trenta della notte del 5 giugno 1992, il miglior
telepate del Sistema Solare scomparve dalla mappa situata negli
uffici della Runciter Associates a New York City” (Dick 2003). La data
del 5 giugno, grazie a una delibera dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, è stata fissata (nel 1972) come Giornata
Internazionale dell’Ambiente.
8 Viveiros de Castro 2004.
9 Un altro classico della fantascienza che deve essere qui

menzionato è il racconto di Octavia Butler Il suono delle parole


(1991) [Speech Sounds, 1983], che si svolge in un mondo (una città)
in cui gli esseri umani hanno perso il linguaggio in seguito a una
misteriosa malattia, divenendo delle belve assassine che
deambulano in un mondo materiale in rovina.
10 Béla Tarr e Ágnes Hranitzky, Il cavallo di Torino, 2011 (titolo

originale: A torinói ló). Questo film è uscito lo stesso anno di


Melancholia. [n.d.t.: In Italia il film è stato trasmesso esclusivamente
in televisione, all’interno del programma Fuori Orario, in lingua
originale con sottotitoli.]
11 Un mondo devastato dall’opera congiunta degli uomini e di Dio,

come racconta ai protagonisti un vicino dalla faccia triste venuto a


comprare dell’acquavite: “Abbiamo distrutto il mondo ed è anche
colpa di Dio”.
12 Nel Cavallo di Torino, la storia si sviluppa esattamente in sette

giorni, mettendo in scena una vera e propria descrizione del mondo:


una Genesi narrata a partire dalla sua fine, il rovescio desolante di
un inizio spettacolare.
13 Tarr 2011.
14 Vedi il libro-manifesto di Kurzweil 2010, cosí come la sua breve

esposizione in www.youtube.com/watch?v=1uIzS1uCOcE (2009), e


l’eccellente articolo di Farman (2012) sulla “cosmologia del re-
incantamento”. Per avere un’idea di come il tema viene divulgato, si
veda per esempio Sonny 2013. La mitologia tecno-teologica di
Kurzweil e dei suoi confratelli (Vernon Vinge, Hans Moravec, William
Bainbridge, Frank Tipler, John Barrow e altri scienziati
“transumanisti”) è la trasformazione piú attuale, alcuni direbbero la
piú delirante, del vecchio progetto di colonizzazione del cosmo
(progetto che non è stato ancora abbandonato: Szendy 2011;
Valentine 2012; Williams e Srnicek 2013), l’espansione
extraplanetaria che farà diventare la specie indipendente da
qualsiasi mondo particolare.
15 Vedi Farman 2012 sul “cosmo intelligente” e l’obsolescenza

umana.
16 Il tema della Singolarità (“il futurismo della West Coast”, Farman

2012) è associato alla cultura high-tech della Silicon Valley. Kurzweil


è l’ingegnere capo di Google.
17 In fondo, non cosí incerto. Abbiamo preso la frase secondo cui “la

libertà e la sicurezza” sono le maggiori conquiste del capitalismo da


un testo del Breakthrough Institute. La presenza tra i “Breakthrough
Senior Fellows” del 2014 di Pascal Bruckner, questo vecchio
nouveau philosophe di destra, nemico autodichiarato del
“terzomondismo e del multiculturalismo” e autore di un recente libro,
intitolato Le Fanatisme de l’apocalypse contro “la propaganda della
paura”, ci sembra un’evidenza piú che circostanziale delle
inclinazioni dell’Institute. Vedi:
http://thebreakthrough.org/index.php/programs/energy-and-
climate/2014-breakthrough-senior-fellows-announced.
18 I fondatori del BI si autodefinirebbero piuttosto come “modernisti”

o “eco-pragmatici”, come “ecologisti” ferocemente antiambientalisti.


Comunque, sono stati definiti dalla rivista Time “eroi dell’ambiente”
(en.wikipedia.org/wiki/Ted_Nordhaus). Nella seconda edizione
(2009), il libro manifesto del BI ha cambiato titolo in: Break Through:
Why We Can’t Leave Saving the Planet to Environmentalists.
19 Parola d’ordine lanciata in una conferenza alla Yale School of

Forestry and Environmental Studies, nel 2011.


20 Ma la Cassandra di Troia, come ricorda opportunamente Stengers

da qualche parte, aveva ragione…


21 Bruno Latour si è mostrato piú volte (Latour 2011a) in sintonia con

le idee del Breakthrough Institute (vedi la critica di Hamilton 2012).


Di recente, tuttavia, l’effetto “gravitazionale” di Gaia o, in altre parole,
una valutazione piú realistica dei parametri temporali in cui si
sviluppa la crisi ambientale ha fatto sí che Latour abbia rivisto
drasticamente questa posizione. Quanto a Clive Hamilton, la sua
opposizione ai profeti del “buon Antropocene” non ha fatto che
crescere (Hamilton 2014).
22 [n.d.t.: Gli autori sembrano alludere agli “oscuri mulini satanici”

della rivoluzione industriale descritti da William Blake nel suo breve


poema “Jerusalem”, in Id., Milton, a cura di Roberto Sanesi, SE,
Milano 2002.]
23 Sulla “seconda Natura” e la “prima Natura”, vedi Latour 2012: cap.

14.
24 Come, per esempio, il 1977, anno drammatico per l’Autonomia

italiana e apogeo di quelli che Guattari ha definito gli “anni di


piombo”. Franco “Bifo” Berardi (2009) lo ha scelto come segno della
“fine del secolo” e come “punto di svolta della modernità”. Tra i vari
prodigi di questo annus horribilis, Berardi elenca la fondazione della
Apple Computer, la morte di Charlie Chaplin e il “no future” di Johnny
Rotten e Sid Vicious.
25 [n.d.t.: Ricordiamo al lettore italiano la piú che ventennale lotta NO

TAV, in Val di Susa, contro la costruzione della linea ad alta velocità


Torino-Lione. Anche in questo caso, sembra che la parte piú
interessante di questa lotta sia la possibilità di costruire un mondo e
non la semplice difesa di un territorio “incontaminato”.]
26 La retorica del Manifesto, con i suoi ripetuti riferimenti a una
“maximal mastery”, a un futuro che deve essere “cracked open”, a
un hard-edged anti-humanism e via dicendo, suggerisce un curioso
fallocentrismo macho-adolescenziale. (Si veda a questo proposito il
breve post di Ordnung: http://www.aqnb.com/2013/12/23/touching-
on-14-12-13%E2%80%B2-at-kraupa-tuskany-zeidler/). Come non
dar ragione a Isabelle Stengers quando risponde alle domande di
Heather Davis ed Etienne Turpin (“Lei si preoccupa delle
conseguenze etiche del linguaggio utilizzato dall’accelerazionismo
politico, estetico o ontologico? Come definirebbe la cosmopolitica in
opposizione a questo eroismo nichilista e alla sua indifferenza
rispetto alla propria posizione privilegiata?”) con una replica
tagliente: “Mi rifiuto di opporre le Cosmopolitiche, quali che siano i
loro difetti, a questa immondizia – sono dei maiali sciovinisti, e basta.
Mi dispiace solo che stiano infangando la memoria di Félix Guattari”
(Stengers 2013a: 179).
27 [n.d.t.: La retroazione (o feedback) positiva amplifica le deviazioni

di un sistema dinamico dal suo stato, per cui esso tende a un nuovo
stato di equilibrio accelerando i processi.]
28 Intervista rilasciata a Pierre Gaultier sul libro L’Hypothèse

communiste: http://www.legrandsoir.info/L-hypothese-communiste-
interview-d-Alain-Badiou-par-Pierre.html.
29 Forse Badiou stava pensando a questa frase di Sloterdijk (che per

inciso è una delle epigrafi delle Gifford Lectures di Latour): “Non è


piú la politica pura e semplice, è la politica climatica a essere il
destino” (2014: 312). Il fatto che Badiou abbia scelto l’idiosincratico
Sloterdijk come “il” filosofo dell’ecologia ci sembra un caso di
dislocamento freudiano (dove si legge “Sloterdijk” si può forse anche
leggere “Serres” o “Guattari” o “Latour” o “Stengers”…), se non di
pura ignoranza di ciò che accade fuori dal suo immediato mondo
intellettuale.
30 Come nel cielo di Tommaso d’Aquino, nell’inferno futurista

descritto in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? o nella terra


dei morti dei Wari’, popolo dell’Amazzonia occidentale (Conklin
2001), nel mondo postcapitalista non ci sono animali. (Nel caso wari’
non ce ne sono perché i morti sono essi stessi animali – sono gli
animali stessi in quanto prede: i maiali selvatici, la forma tipica e
preferita di carne e cibo; altri morti, di altri popoli, sono per esempio
giaguari, l’altro polo dell’animalità, la versione cacciatrice o
cannibale). Si veda a questo proposito anche Anders (2007: 75), che
ripete qui un vecchio cliché umanista: “Se la regione preumana da
cui proveniamo è quella dell’animalità totale, la regione postumana,
che ora siamo sul punto di raggiungere, è quella della strumentalità
totale. L’umano sembra staccarsi come un intermezzo tra queste
due fasi di inumanità (che si assomigliano, quanto meno per il loro
carattere negativo)”.
31 Oreskes e Conway (2014) hanno scritto un breve saggio in cui

tentano un esperimento simile (ma senza risonanze metafisiche),


partendo dal nostro futuro di catastrofe climatica.
32 Ricordiamoci che Viaggio al centro della Terra di Jules Verne è del

1864 e che Tarde ha iniziato a scrivere Frammento di storia futura


nel 1879.
33 L’ironica allusione all’allegoria della caverna è pressoché evidente

in questo brano a pagina 77: “Non c’è […] città, ma una grotta dei
filosofi […] una grotta spaziosa dalle prestigiose cristallizzazioni
amorosamente distillate, e simulanti vagamente, con un po’ di buona
volontà, ogni specie di belli oggetti […]. Eppure, tale e quale, simile
fino in fondo alla filosofia che essa accoglie, quest’ampia caverna
[…]” ecc.
34 Il brano evoca varie figure proprie del pensiero di Latour, come

l’opposizione sopralunare/sublunare sottostante al concetto di


“Terreno”, il popolo di Gaia schierato con la Terra e in guerra contro
gli Umani/Moderni rivolti verso il cielo (Latour 2013a), o come il
contrasto tra il discorso sul “lontano” (“lointain”) proprio della scienza
e l’accesso religioso al “prossimo” (“prochain”): “Quando si parla di
Scienza si devono alzare gli occhi al cielo, quando si parla di
Religione si devono abbassare verso la Terra. […] Quando
torneremo alla Terra, noi Terreni?” (Latour 2012: 324-325). [n.d.t.: Il
concetto di Latour vuole esprimere piú un posizionamento che
un’identità; per questo, si è scelto di tradurre la parola portoghese
Terrano (Earthbound è il termine scelto da Latour nelle sue Gifford
Lectures, Terrien nella traduzione francese) con “Terreno” invece che
con il termine piú comune di “Terrestre”.]
35 “Il che spiega, per cosí dire, una purificazione della società” (Tarde

1991: 49).
36 Come in tutti i racconti in cui l’umanità si trova di fronte a

un’assenza di mondo, la suggestione del ricorso al cannibalismo


s’insinua in piú punti del testo.
37 Sarebbe interessante comparare la monotonia della società

perfetta di puri umani senza Natura di Tarde alla monotonia del


mondo perfetto di puri spiriti senza corpo che Leibniz prende in
considerazione nei Saggi di teodicea (Leibniz 2000: § 200, pp. 257-
258), in risposta a una suggestione di Pierre Bayle. Al contrario di
quello che immaginava quest’ultimo, dice Leibniz, un mondo
composto da angeli o da divinità (e dunque metafisicamente
impossibile) sarebbe meno perfetto – e molto piú noioso – del
nostro, poiché non ci sarebbero diversità nelle essenze, contrasti
nelle qualità e niente da fare o da pensare – un mondo, insomma,
astratto e irreale. Vedi Danowski 2001: 67-69.
38 L’amore trogloditico era fortemente sublimato e sterile dal punto di

vista della riproduzione, e il controllo delle nascite, rigido e


meritocratico.
39 Vale la pena anche di comparare il Frammento di storia futura con

Le Temps de la fin di Günther Anders (2007), che potremmo


chiamare il “Frammento di non-futuro della Storia” (si vedano, per
esempio, le sarcastiche pp. 22-23).
Un mondo di persone
Quando il cielo era ancora molto vicino alla terra,
non c’era nulla nel mondo, solo umani e tartarughe.
Mito aikewara
Nel Frammento di Gabriel Tarde si trova un’importante eccezione
all’estinzione di tutte le altre forme di vita che non siano quelle della
civiltà del narratore: si tratta di una “piccola tribú di cinesi scavatori”,
scoperta dopo un’esplorazione sotterranea condotta dai nuovi
Terreni1. Questi cinesi, che dopo la catastrofe si “interiorizzarono”
inosservati dall’altra parte del pianeta, erano riusciti a portare con sé
nelle profondità una sorta di natura in miniatura: “legumi piccoli […]
in piccoli quadrati di terra trasportata, piccoli maiali, piccoli cani”.
Rinunciando a sterminare o sottomettere questa tribú di “esseri
degradati”, che tra l’altro si abbandonava, “senza la minima
vergogna, all’antropofagia atavica”, i discepoli di Miltiade
prenderanno la decisione di chiudere nuovamente il muro che
separa la civiltà sotterranea da questa “vera America” (Tarde 1991:
69-71). Tarde accosta dunque in maniera diretta i cinesi cannibali
agli abitanti indigeni dell’America, continente intorno al quale, come
ha mostrato Antonello Gerbi (1945) in uno studio classico, si è
sviluppata una lunga polemica storico-filosofica riguardo la natura
rachitica e l’umanità non meno mostruosa – e notoriamente dedita al
cannibalismo – che avrebbe ospitato. Vediamo ora, dunque, come
gli abitanti della “vera” America formulano il problema del rapporto
tra l’umanità, il mondo e la storia. È sulle mitocosmologie amerindie
che termineremo la nostra ricognizione, sicuramente ancora troppo
schematica, dei numerosi immaginari sulla fine del mondo che
tuttora (e non sappiamo per quanto tempo) popolano il nostro
mondo.
La fine delle trasformazioni, o il primo Antropocene
Abbiamo visto esempi di immagini mitiche di un mondo letteralmente
preistorico, pienamente vivo ma ancora privo di esseri umani, o
perlomeno un mondo che precede la separazione dell’uomo e del
mondo – la storia dell’Eden e della Caduta; abbiamo visto la sua
immagine simmetrica nella apokatastasis ecologica di Weisman, la
scomparsa dell’umano come restituzione del mondo. Abbiamo in
seguito analizzato le visioni di un futuro in cui tutto diverrà “umano”,
o perché il mondo sarà stato impoverito o annientato da un collasso
ambientale – con gli esseri umani che conseguentemente diverranno
dei mostri predatori della propria specie, come in La strada, o prede
ipnotizzate e ultima fonte di energia vivente per un nuovo ordine
meccano-cosmico, come in The Matrix – oppure perché il mondo
sarà stato tramutato e assorbito dall’umanità in quanto specie
trionfante, che trascende se stessa per mezzo di un processo di
antropo-ingegneria in una sublime entità postumana all’altezza di
questo futuro di “astrazione, complessità, globalità e tecnologia” (in
versione governance capitalistica o in versione soviet + cyborg).
Abbiamo visto anche alcune immagini inverse create attraverso la
sottrazione del polo “soggetto” dall’opposizione umanità/mondo,
ossia l’idea di un mondo in cui niente è essenzialmente vivo e tanto
meno umano, come nell’ipotesi di un passato remoto o “fossile”,
abiotico ed extra-esperienziale, o come nel ragionamento che
conduce a una devalorizzazione radicale del presente a partire dalla
premessa di un’estinzione cosmica assoluta in quanto verità e
destino dell’Essere (la morte come argomento ontologico). Abbiamo
notato, inoltre, l’ambiguità centrale che segna la condizione
metafisica propriamente moderna, ovvero la figura “correlazionista”
di un’anteriorità trascendentale o costitutiva dell’essere umano in
rapporto a un mondo che al tempo stesso lo precede empiricamente;
tale situazione implica, tra le altre cose, un’importante conseguenza
dal punto di vista della civiltà: il bisogno manifesto di una nuova
determinazione del mondo empirico – anche, e forse soprattutto,
dell’essere umano empirico – tramite l’essere umano in quanto
negatività trascendentale, per mezzo della potenza taumaturgica del
lavoro e della violenza emancipatrice della rivoluzione (cfr. il dominio
prometeico del Manifesto accelerazionista, o la vocazione
autodenaturalizzante e biofobica dell’uomo di Badiou).
Resta chiaramente la possibilità di una versione mito-cosmologica
ulteriore: quella per cui è all’inizio dei tempi, piuttosto che alla fine,
che il mondo è sottratto alla correlazione con l’umano. Una versione,
insomma, in cui l’essere umano è posto come empiricamente
anteriore al mondo.
Questa ipotesi viene esplorata in numerose cosmologie
amerindie. È opportunamente riassunta nel commento che apre un
mito degli Yawanawa, popolo di lingua pano dell’Amazzonia
occidentale, raccolto da Miguel Carid (1999: 166, cit. in Calavia
2001): “L’azione [del mito] si sviluppa in un tempo in cui ‘non c’era
ancora niente, ma le persone esistevano già’”. La versione degli
Aikewara, tribú tupi che vive all’altro estremo dell’Amazzonia,
riportata in epigrafe, vi aggiunge questa nota curiosa: non c’era nulla
nel mondo, solo umani – e tartarughe! (Calheiros 2014: 41).
In origine dunque tutto era umano, o meglio, niente era umano
(eccetto le tartarughe, secondo i nostri Aikewara)2. Un numero
considerevole di miti amerindi, e forse un po’ meno frequentemente
di diverse altre regioni etnografiche, immaginano l’esistenza di
un’umanità primordiale (sia semplicemente presupposta, sia
fabbricata da un demiurgo) come la sola sostanza o materia a partire
da cui il mondo sarebbe andato formandosi. Si tratta dunque di
racconti sul tempo prima dell’inizio dei tempi, un’era o un eone che
potremmo chiamare “pre-cosmologico” (Viveiros de Castro 2007).
Dopo una serie di peripezie, differenti porzioni di quest’umanità
originaria, “primigenia” – non completamente umana poiché,
sebbene antropomorfa e dotata di facoltà mentali identiche alle
nostre, questa razza primordiale possedeva una grande plasticità
anatomica e una certa inclinazione a condotte immorali (incesto,
cannibalismo) – si trasformano, in modo spontaneo o in seguito
all’azione di un demiurgo, in specie biologiche, elementi geografici,
fenomeni meteorologici e corpi celesti che compongono il cosmo
attuale. La parte che non si è trasformata e che è rimasta
essenzialmente uguale a se stessa3 è l’umanità storica, o
contemporanea.
Una delle migliori illustrazioni, se non la migliore, di questo genere
di cosmogonie viene esposta nei particolari e con eleganza
nell’autobiografia di Davi Kopenawa, sciamano e leader politico
Yanomani (Kopenawa e Albert 2010; si veda inoltre la monografia di
Albert 1985). Ma potremmo ricordare brevemente anche le idee
degli Ashaninka (Campa), popolo aruaque geograficamente lontano
e culturalmente distinto dagli Yanomami:
La mitologia campa è, in larga misura, la storia del modo in
cui i Campa primordiali si sono trasformati irreversibilmente,
uno a uno, nei primi rappresentanti delle varie specie
animali e vegetali, cosí come nei corpi celesti o nelle
caratteristiche dell’ambiente. […] In questo modo, lo
sviluppo dell’universo fu essenzialmente un processo di
diversificazione, di cui l’umanità era la sostanza primordiale
a partire dalla quale molte, se non tutte le categorie di
esseri e cose dell’universo sono giunte all’esistenza. I
Campa contemporanei sono i discendenti di questi Campa
ancestrali [ovvero l’umanità primordiale] che sfuggirono alle
trasformazioni4. (Weiss 1972: 169-170)
Potremmo inoltre menzionare la cosmogonia dei Luiseño della
California, evocata nella Vasaia gelosa (Lévi-Strauss 1987: 131-
132), nella quale Wyiot, l’eroe culturale, differenzia la comunità
umana originaria nelle varie specie di esseri attuali. Il tema si trova
identico in alcune culture non amerindie: i Kaluli della Papua Nuova
Guinea, per esempio, raccontano che “in quel tempo [delle origini]
[…] non c’erano alberi, animali, torrenti o cibo. La terra era
interamente ricoperta di persone [people]” (Schieffelin 1976: 94). In
seguito, un uomo autorevole (big man) decise di trasformare vari
gruppi di persone in specie differenti e in altri fenomeni naturali:
“Coloro che furono lasciati da parte si trasformarono negli antenati
degli esseri umani”.
Ecco come, nel pensiero amerindio, l’umanità o “personitudine”5 è
tanto il seme che il fondo o suolo primordiale del mondo6. L’Homo
sapiens non è il personaggio che giunge a coronare la Grande
Catena dell’Essere aggiungendo un nuovo strato ontologico di
natura spirituale (o, nel linguaggio moderno, “cognitiva”) a uno strato
organico precedente, che a sua volta sarebbe emerso da un sostrato
di materia “morta”. Nella tradizione mito-filosofica occidentale,
abbiamo la tendenza a concepire l’animalità e la “natura” in generale
come qualcosa che rimanda essenzialmente al passato. Gli animali
sono degli “archifossili” viventi non solo perché delle bestie si
aggiravano sulla Terra molto prima di noi (e perché queste bestie
arcaiche erano una sorta di versione ingigantita degli animali attuali),
ma perché la specie umana “anatomicamente moderna” trae la sua
origine da specie ancestrali sempre piú vicine, nella misura in cui
andiamo indietro nel tempo, a una condizione di animalità pura7.
Attraverso una felice innovazione – bipedismo, neotenia,
cooperazione, linguaggio sintattico ecc. – il Grande Orologiaio (cieco
o onniveggente) ci ha conferito una capacità che ci ha trasformato in
esseri piú-che-organici (nel senso del “super-organico” di Alfred
Kroeber), dotati di quel supplemento spirituale che è “il proprio
dell’uomo” – la preziosa proprietà privata della specie.
L’eccezionalismo umano, insomma: linguaggio, lavoro, legge,
desiderio; tempo, mondo, morte. Cultura. Storia. Futuro. Gli esseri
umani appartengono al futuro come gli animali al passato – al nostro
passato, poiché, per quanto li concerne, vengono pensati rinchiusi in
un presente immobile e in un mondo esiguo.
§ L’eccezione in questo caso ha a che fare ancora una
volta con la fiction, come nella serie Il pianeta delle
scimmie, prodotta da Arthur P. Jacobs, in cui la civiltà
umana dà luogo a una civiltà di scimmie che tuttavia ripete
gli stessi errori e “peccati” dei suoi antichi dominatori: una
società militarizzata e totalitaria che schiavizza, umilia e
tortura (compreso l’uso di cavie nelle ricerche scientifiche)
gli altri, gli esseri umani, ora senza voce e linguaggio o
semplicemente muti. I due primi film della serie, Il pianeta
delle scimmie (1968) e L’altra faccia del pianeta delle
scimmie (1970), situano la narrazione in un futuro distopico
(distopico per gli esseri umani, beninteso), mentre i
successivi due, Fuga dal pianeta delle scimmie (1971) e
1999: Conquista della Terra (1972), cosí come il recente
L’alba del pianeta delle scimmie (2011), raccontano la storia
della rivolta e della fuga delle scimmie che avrebbe causato
l’inversione dei due ruoli. L’evento contingente che spiega
al tempo stesso il successo della fuga e il successivo
rovesciamento è un insperato effetto collaterale di una
droga sperimentale iniettata nella scimmia protagonista,
Cesar, allo scopo di trovare una possibile cura
all’Alzheimer: l’aumento dell’intelligenza, che la condurrà
all’acquisizione del linguaggio. L’animale situato nel futuro
dell’umano è qui pertanto un ibrido, un organismo
geneticamente modificato che si vendica del suo creatore.
Tutto ciò rimanda al film di Ridley Scott, Blade Runner
(1982), basato sul libro di Philip K. Dick, Ma gli androidi
sognano pecore elettriche?, i cui protagonisti non umani
non sono animali (in questo futuro distopico non ci sono piú
animali, se non sotto forma di repliche artificiali), bensí
macchine umanoidi.
Ebbene, non è cosí che accadono le cose per questi altri umani
che sono gli amerindi e altre umanità non moderne. Una delle
caratteristiche che li rende “altri” consiste precisamente nel fatto che
i loro concetti dell’“umano” sono diversi dai nostri. Il mondo cosí
come lo conosciamo, o meglio, il mondo cosí come gli indios lo
conoscevano, il mondo attuale che viene (o veniva) all’esistenza
nell’intervallo tra il tempo delle origini e la fine dei tempi – il tempo
intercalare che potremmo chiamare “presente etnografico” o
presente dell’ethnos, in contrapposizione con il “presente storico”
dello Stato-nazione – è concepito in alcune cosmologie amerindie
come l’epoca che è iniziata quando gli esseri pre-cosmologici
interruppero il loro incessante divenire-altro (metamorfosi erratiche,
plasticità anatomica, corporeità “disorganizzata”) a favore di una
maggiore univocità ontologica8. Alla fine del “tempo delle
trasformazioni” – l’espressione ricorre nelle culture amazzoniche –
gli instabili antropomorfi delle origini adottarono le forme e le
abitudini corporee degli animali, piante, fiumi, montagne ecc. in cui
nel frattempo si trasformavano, come d’altronde già prefiguravano i
loro nomi in questo passato assoluto. È cosí che, per esempio, gli
“Yanomami Pecari”, la tribú primordiale che portava il nome “Pecari”
(“persone” si dice “yanomami” nella lingua del popolo omonimo),
“sono divenuti pecari”, gli stessi maiali selvatici che oggi essi
cacciano e mangiano (Kopenawa e Albert 2010). Il “mondo intero”
(salvo forse le tartarughe o le altre eccezioni) è virtualmente incluso
in questa proto-umanità originaria; la situazione pre-cosmologica
può cosí essere indifferentemente descritta come una “umanità-
ancora-senza-mondo” o come un “mondo-dalla-forma-umana”, un
multiverso antropomorfico che dà luogo a un mondo concepito come
risultato di una stabilizzazione (sempre incompiuta) del potenziale di
trasformabilità infinita contenuta nell’umanità in quanto sostanza o,
piuttosto, in quanto “attanza” universale, originaria e persistente9.
Si assiste qui a un rovesciamento multiplo degli scenari di
cannibalismo o di zombie descritti in La strada e in racconti simili:
nella mitologia indigena, il nutrimento degli esseri umani è costituito
da esseri umani che sono stati trasformati in animali o in piante;
l’umanità è il principio attivo all’origine della proliferazione delle
forme viventi in un mondo ricco e plurale. Ma lo schema indigeno
rovescia anche il mito del Giardino dell’Eden. Nel caso amerindio, gli
esseri umani sono i primi ad arrivare e il resto della creazione
scaturisce da loro. In questo caso, è come se dalla “costola di
Adamo” provenisse molto piú che il suo complemento femminile –
ovvero il mondo intero, il resto infinito del mondo. E come abbiamo
visto, i nomi, nella loro inesauribile varietà, esistevano prima-insieme
alle cose (gli Yanomami Pecari, il Popolo Giaguaro, il Popolo Canoa
ecc.); non attendevano un archi-nominatore umano per sapere chi
erano e che cosa erano. Tutto era umano, ma tutto non era uno.
L’umanità era una moltitudine polinomica; si presenta sin dall’inizio
nella forma di una molteplicità interna la cui esternalizzazione
morfologica, cioè la speciazione, è precisamente la materia della
narrazione cosmogonica. È la Natura che nasce o si “separa” dalla
Cultura e non il contrario, come per la nostra antropologia e filosofia.
Nelle cosmologie amerindie, la sussunzione del mondo attraverso
l’umanità si produce cosí nella direzione opposta a quella del mito
della Singolarità tecnologica. Rinvia al passato, e non al futuro; pone
l’accento sulla stabilizzazione delle trasformazioni che mirano a
differenziare gli altri animali dagli esseri umani rimasti tali, e non
sull’accelerazione della trasformazione degli animali che “fummo”
nelle macchine che “saremo”. La prassi indigena enfatizza la
produzione regolata delle trasformazioni capaci di riprodurre il
presente etnografico (rituali del ciclo della vita, gestione metafisica
della morte, sciamanesimo come diplomazia cosmica), impedendo in
questo modo una proliferazione regressiva e caotica delle
trasformazioni. Questo controllo è necessario poiché il potenziale
trasformativo del mondo, come attestano gli onnipresenti indizi
dell’attività di un’intenzionalità antropomorfa universale, manifesta
una pericolosa ma indispensabile persistenza. Il pericolo risiede nel
fatto che gli ex umani conservano una virtualità umana sotto la loro
attuale apparenza animale, vegetale, astrale ecc., un po’ nel modo
(ma in senso inverso) in cui siamo abituati a fantasticare che, sotto
le nostre sembianze civilizzate, in fondo restiamo delle bestie feroci.
Quest’arcaica latenza umanoide dei non umani – l’umanità in quanto
inconscio dell’animale, si potrebbe dire – minaccia costantemente di
fare irruzione attraverso gli strappi che si aprono nel tessuto del
mondo quotidiano (sogni, malattie, incidenti di caccia), spingendo gli
umani a essere violentemente riassorbiti dal sostrato pre-
cosmologico in cui tutte le differenze continuano a comunicare tra
loro in modo caotico10. A sua volta, la necessità di una tale
persistenza risiede nel fatto che l’attualizzazione del presente
etnografico presuppone una ricapitolazione o contro-effettuazione
dello stato pre-cosmologico, poiché è lá che si trovano tutte le
differenze, tutti i dinamismi e, pertanto, tutte le possibilità di senso. Il
multiverso antropomorfico, nella sua virtualità originaria, è cosí
suscitato-evocato tramite un’animalizzazione dell’umano – la
maschera teromorfica del danzatore-spirito, il divenire-belva del
guerriero – che è reciprocamente una umanizzazione mitica
dell’animale (Viveiros de Castro 1996). L’ethnos emerge
incessantemente da questo doppio movimento. Il presente
etnografico non è affatto un tempo immobile; le società lente
conoscono velocità infinite, accelerazioni extrastoriche, in una
parola, dei divenire che fanno del concetto indigeno del buen vivir
qualcosa di metafisicamente molto piú simile a uno sport estremo
che a un confortevole ritiro in campagna.
Quello che noi chiamiamo mondo naturale, o “mondo” in
generale, è, per le popolazioni amazzoniche, una molteplicità di
molteplicità intrinsecamente connesse. Gli animali e le altre specie
sono concepite come altrettanti tipi di “persone” o “popoli”, ovvero
come delle entità politiche. Non è “il giaguaro” a essere “umano”:
sono i giaguari individuali ad acquisire una dimensione soggettiva
(piú o meno pertinente, conforme al contesto pratico di interazione
con questi animali), grazie al fatto di essere percepiti con una
società “alle spalle”, un’alterità politica collettiva11. Anche noi (e ci
riferiamo a noi occidentali, includendo qui per mera convenzione i
brasiliani di cultura europea) chiaramente pensiamo, o ci piacerebbe
pensare di pensare, che si può essere umani solo in società, che
l’uomo è un animale politico ecc. Ma gli amerindi pensano che, tra il
cielo e la terra, esistano molte piú società (e dunque esseri umani) di
quante ne sognino la nostra antropologia e filosofia. Ciò che noi
chiamiamo “ambiente” è per loro una società di società, un’arena
internazionale, una cosmopoliteia. Non esiste dunque una differenza
assoluta di statuto tra società e ambiente, come se la prima fosse il
“soggetto” e il secondo l’“oggetto”. Ogni oggetto è sempre un altro
soggetto, ed è sempre piú d’uno. L’espressione che si trova
comunemente sulla bocca dei giovani militanti di sinistra, “tutto è
politico”, acquista nel caso amerindio una letteralità radicale
(compresa l’indeterminatezza di questo “tutto” – le tartarughe…) che
nemmeno il piú entusiasta manifestante nelle strade di Copenhagen,
Rio o Madrid sarebbe forse preparato ad ammettere.
Antropomorfismo contro antropocentrismo
Se il concetto amerindio di “natura”, inteso come ciò che designa la
sfera degli esistenti non umani, è differente dal nostro – i non umani
sono degli ex umani che conservano un lato umano latente e
segreto, non percepibile in condizioni normali – anche il loro
concetto di umanità o di “cultura” sarà, per forza di cose, differente.
Gli amerindi fanno parte della gigantesca minoranza di popoli che
non sono mai stati moderni, poiché non hanno mai avuto un
concetto di Natura e quindi non l’hanno mai persa né hanno mai
sentito il bisogno di liberarsene. È da notare che, tra la nostra
umanità e la loro, come tra il nostro mondo e il loro, non c’è una
semplice differenza di visioni culturali dello stesso mondo naturale (il
mondo cosí come viene descritto in modo piú o meno completo dalle
scienze moderne); né si tratta di differenti mondi culturali immaginati
da una stessa umanità in quanto specie naturale. Le due variabili
dell’equazione antropocosmologica hanno bisogno di essere
modificate simultaneamente, il che sposta il problema; non perché le
due variabili siano in “correlazione”, ma perché la stessa
correlazione, cosí come la immaginiamo – per affermarla o negarla
metafisicamente –, perde il suo senso nel momento in cui viene
tradotta in “termini” amerindi.
Parliamo beninteso del cosiddetto “prospettivismo amerindio”, a
proposito del quale non si può evitare di spendere un paio di parole,
anche correndo il rischio di veder fuggire i lettori che ne hanno già
sentito troppo parlare. “Prospettivismo” è il nome che Tânia Solze
Lima ed Eduardo Viveiros de Castro12 hanno scelto per designare
una nozione, molto diffusa nell’America indigena, secondo cui ogni
specie di esistenti vede se stessa come umana (anatomicamente e
culturalmente), poiché ciò che vede di se stessa è la sua “anima”,
un’immagine interna che è come l’ombra o l’eco dello stato
umanoide ancestrale di tutti gli esistenti. L’anima, sempre
antropomorfa, è l’aspetto degli esistenti che essi vedono quando
guardano verso o interagiscono con gli esseri della stessa specie – è
questo che, in verità, definisce la nozione di “stessa specie”. La
forma corporea esterna di una specie (frequentemente descritta
come un “abito”) è il modo in cui quest’ultima viene vista dalle altre
specie. Cosí, quando un giaguaro guarda un altro giaguaro, vede un
uomo, un indio13; ma quando guarda un uomo – quello che gli indios
vedono come un uomo – vede un pecari o una scimmia, poiché è
questa la selvaggina piú apprezzata tra gli indios amazzonici. Cosí,
tutto ciò che esiste nel cosmo vede se stesso come umano; ma non
vede le altre specie in quanto tali (tutto questo, è inutile sottolinearlo,
si applica ugualmente alla nostra specie). L’“umanità” è sia una
condizione universale che una prospettiva strettamente deittica e
autoreferenziale. Specie differenti non possono occupare il punto di
vista dell’“Io” nello stesso momento, a causa della restrizione
deittica: in ogni incontro qui e ora tra due specie, ce n’è per forza
una che finisce per imporre la sua umanità, il che vuol dire spingere
l’altra a “dimenticare” la propria umanità14.
Noi umani (ovvero noi amerindi) non vediamo dunque gli animali
come degli esseri umani. Non sono umani-per-noi; ma noi sappiamo
che sono umani-per-loro15. Sappiamo, allo stesso modo, che noi non
siamo umani-per-loro, che ci vedono come prede, o belve predatrici,
o potenti tribú nemiche (la cui “umanità” meramente tassonomica è
irrilevante quando non attivamente negata), o spiriti cannibali, a
seconda della relativa posizione che noi e loro occupiamo nella
catena alimentare. Quando un indio interagisce con un esistente di
“un’altra specie” – il che include, lo ripetiamo, i membri di altri
collettivi che noi chiameremmo “umani” – sa di avere a che fare con
un’entità che, nella sua propria regione, è umana. Ecco perché ogni
interazione interspecifica nel mondo amerindio è un affare
internazionale, una negoziazione diplomatica o un’operazione di
guerra che deve essere condotta con la massima circospezione. È
cosmopolitica.
Gli amerindi, come tutti gli esseri umani e come tutti gli animali,
hanno bisogno di mangiare o, in un modo o nell’altro, di distruggere
altre forme di vita per vivere. Sanno che l’azione umana lascia
inevitabilmente un’“impronta ecologica” nel mondo. Per loro, la
differenza risiede nel fatto che il suolo che calpestano è anche
vivente e sempre all’erta, essendo spesso un dominio gelosamente
custodito da qualche super-soggetto (lo spirito-padrone della foresta,
per esempio). Ciò richiede dunque che si faccia molta attenzione a
dove si mettono i piedi. Poiché, come direbbe il santo patrono del
prospettivismo occidentale (Leibniz), “ci sono anime ovunque”.
Insomma, il postulato fondamentale della cosmopolitica amerindia è
ciò che si ha l’abitudine di designare antropomorfismo, concetto a
nostro avviso da non impiegare, come si fa di solito, in senso
dispregiativo, applicandolo con indulgenza ai popoli “primitivi” e agli
spiriti “semplici” in generale. Pensiamo, al contrario, che
l’antropomorfismo, oltre a rappresentare un presupposto pratico-
ontologico largamente diffuso nella specie eponima (si sa quanta
fatica ha fatto la scienza moderna per restringere la sua legittimità a
campi specifici), merita che a esso venga concessa piena
cittadinanza filosofica, cosí da poter puntare verso possibilità
concettuali ancora inesplorate.
Definiremo dunque le ontologie (o, talvolta, le contro-ontologie)
“animiste” degli amerindi e dei popoli simili a loro come ciò che
rende manifesto un principio antropomorfico in grado di contrastare
quel principio antropocentrico che rileviamo come una delle radici
piú profonde della metafisica occidentale, sia nelle sue versioni
“dogmatiche” o “speculative”, sia, naturalmente, nella filosofia critica
e nelle altre derive “correlazioniste”16. In questo senso,
l’antropomorfismo è un totale rovesciamento ironico (dialettico?)
dell’antropocentrismo. Dire che tutto è umano è come dire che gli
umani non sono una specie speciale, un evento eccezionale venuto
a interrompere in modo grandioso o tragico la monotona traiettoria
della materia nell’universo. Al contrario, l’antropocentrismo fa degli
esseri umani una specie animale dotata di un supplemento
trasfigurante; sono percepiti come attraversati da una trascendenza
simile a una freccia sovrannaturale, segnati da una stimmate,
un’apertura o una mancanza privilegiata (felix culpa) che li distingue
in modo indelebile in seno e al centro della Natura. E quando la
filosofia occidentale compie la propria autocritica e si sforza di
attaccare l’antropocentrismo, il suo modo usuale di negare
l’eccezionalismo umano è di affermare che siamo, a un certo livello
fondamentale, animali, o esseri viventi, o sistemi materiali uguali a
tutto il resto – la riduzione o eliminazione “materialista” è il metodo
favorito per equiparare l’umano al mondo preesistente. Il principio
antropomorfico afferma, al contrario, che sono gli animali e gli altri
enti a essere umani come noi – la generalizzazione o espansione
“panpsichista” è il metodo basilare per equiparare il mondo
all’umano preesistente.
Si potrebbe obiettare che, di fatto, gli animali sono “umani-per-sé”
per noi, poiché siamo “noi” (gli amerindi) che lo sappiamo e agiamo
in accordo con questo sapere. Senza dubbio. Ma non sappiamo tutto
ciò che gli animali sanno, e ancora meno quello che sono17. In ogni
caso, ciò non significa che esista, sepolto nelle profondità del
mondo, un Umano-in-sé o un Animale-in-sé, visto che nelle
cosmologie amerindie – e qui avanziamo una tesi etnografica, non
una teoria metafisica generale – non vi è distinzione tra il “mondo-in-
sé” e la serie indeterminata degli esistenti in quanto centri di
prospettiva o, se si preferisce, in quanto monadi. Ogni oggetto o
aspetto dell’universo è un’entità ibrida, allo stesso tempo umana-per-
sé e non-umana-per-altri, oppure, per cosí dire, attraverso-altri. In
questo senso, ogni esistente, e il mondo in quanto aggregato aperto
di esistenti, è un essere-fuori-da-sé. Non vi è essere-in-sé, essere-
in-quanto-essere, che non dipenda dal suo essere-in-quanto-altro;
ogni essere è un essere-attraverso, essere-per, essere-relazione
(Latour 2012)18. L’esteriorità è ovunque. Il Grande Fuori, come la
carità, comincia a casa propria.
Rovesciando la formula (e l’enfasi) di Brassier, il filosofo
amerindio dovrebbe dunque concludere: “tutto è già vivente”19. Cosa
che non impedisce alla morte di essere un motivo e un motore
fondamentale della vita, in particolare della vita umana20. E da
questo punto di vista, gli indios sono curiosamente d’accordo con il
nichilismo speculativo e con il bisogno di uscire dal circolo narcisista
della correlazione:
I Bianchi ci trattano da ignoranti solo perché siamo persone
diverse da loro. Ma il loro pensiero è limitato e oscuro; non
riesce ad andare oltre ed elevarsi, perché vogliono ignorare
la morte. […] I Bianchi non sognano lontano come noi.
Dormono molto, ma sognano solo se stessi. (Kopenawa e
Albert 2010: 411-412, corsivo nostro)
Il vano desiderio di ignorare la morte è legato, secondo
Kopenawa, all’ossessione dei Bianchi per la relazione di proprietà e
la forma-merce. Sono “innamorati” delle merci e il loro pensiero vi
permane interamente “imprigionato”: “Sognano cosí la loro
macchina, la loro casa, il loro denaro e tutti gli altri beni…” (ivi: 437-
439, corsivo nostro). Ricordiamoci che gli Yanomami non solo
valorizzano all’estremo la generosità e gli scambi non mercantili di
beni, ma distruggono tutti i beni dei morti21.
“I Bianchi dormono molto, ma sognano solo se stessi”. Ecco
senza dubbio il giudizio piú tagliente e piú preciso mai enunciato
sulla caratteristica antropologica dei “Bianchi” – quelli che Latour
chiamerebbe “Moderni” o, in modo piú perverso, “Umani”. La
devalorizzazione epistemica del sogno da parte dei Bianchi fa il paio
con la loro autofascinazione solipsistica – la loro incapacità di
discernere l’umanità segreta degli esistenti non umani – e la loro
avarizia “feticista”, cosí ridicola e incurabile. I Bianchi, insomma,
sognano ciò che non ha senso22.
È interessante notare che da una parte vi è qualcosa di
profondamente pertinente dal punto di vista psicoanalitico nella
diagnosi di Kopenawa – la sua Traumdeutung dei Bianchi dovrebbe
fare invidia a qualsiasi pensatore freudo-marxista – e, dall’altra,
questa diagnosi ci ripaga con la nostra stessa falsa moneta: l’accusa
di una proiezione narcisistica dell’Ego sul mondo è una cosa a cui i
Moderni hanno sempre fatto ricorso per definire la caratteristica
antropologica dei popoli “animisti” – Freud è stato, come sappiamo,
uno dei piú illustri difensori di questa tesi23. Per coloro che
chiamiamo animisti, siamo noi, i Moderni, che al contrario,
penetrando nello spazio dell’esteriorità e della verità – il sogno –,
non vediamo che i riflessi e i simulacri ossessivi di noi stessi, al
posto di aprirci all’inquietante estraneità degli scambi con l’infinità di
concatenamenti, intellegibili e insieme radicalmente altri, disseminati
ovunque nel cosmo. Gli Yanomami, o la politica del sogno contro lo
Stato: non il nostro “sogno” di una società contro lo Stato, ma il
sogno com’è sognato in una società contro lo Stato.
La fine del mondo degli indios
Nel suo scritto polemico contro la vertigine eco-suicida della civiltà
che soffoca il “mondo-foresta” degli Yanomami24, lo stesso sciamano
profetizzava: “I Bianchi non temono, come noi, di essere schiacciati
dalla caduta del cielo. Ma un giorno avranno paura, forse quanto
noi!” (ivi: 540). Apparentemente, quel giorno sta spuntando
all’orizzonte. In un brano inusualmente “primitivista” del suo trattato
di antropologia dei Moderni, Latour (2012: 452) osserva che “la
molteplicità di non umani coinvolti dalle crisi ecologiche in tutti i
settori dell’economia” pone di nuovo, e in modo angosciante, la
domanda indissolubilmente “economica” ed “etica” della relazione tra
mezzi e fini; e sorprendentemente, conclude Latour, si osserva tra
noi un “ritorno progressivo alle cosmologie antiche e alle loro
inquietudini, che all’improvviso ci si accorge che non erano cosí
infondate”25. La profezia della caduta del cielo, sviluppata con
eccezionale eloquenza nella testimonianza di Kopenawa, è un tema
ricorrente in diverse escatologie amerindie. In generale questi crolli,
che possono essere associati a cosmografie stratificate, con
differenti “cieli” e “terre” impilati l’uno sopra all’altro, sono fenomeni
periodici, parte di grandi cicli di distruzione e di nuova creazione
dell’umanità e del mondo. È comune che tali nuovi ordini stratigrafici
siano attribuiti all’invecchiamento del cosmo e al peso crescente dei
morti (sia il peso dei loro corpi dentro la terra, sia quello delle loro
anime nello strato celeste). Ciò può produrre (è il caso della
cosmologia yanomami) la caduta a cascata degli strati celesti, che
andranno cosí a occupare il posto dei vecchi strati terrestri, ormai
trasformati a loro volta in piani sotterranei i cui abitanti (noi, i viventi
di oggi) saranno trasformati in mostri cannibali dell’inframondo, dal
momento che le anime celesti dei morti diventeranno l’umanità del
nuovo strato terrestre. In altre escatologie, le cause della distruzione
del mondo seguono metodi piú classici – ma altrettanto efficaci, se si
considera la crisi climatica attuale – che sono il cataclisma (diluvio) o
la conflagrazione (incendio) universale. Per i Guarani del Sud del
Brasile e del bacino del Paraná-Paraguay, le Terre successive e le
loro rispettive umanità sono state (e saranno) create e distrutte dagli
dèi, dall’acqua o dal fuoco o, ancora, in seguito al ritirarsi della
struttura che sostiene lo strato terrestre26. Per la prossima
imminente distruzione del mondo, l’escatologia dei Guarani-
Ñandeva, descritta com’è noto da Nimuendaju (1987 [1914]),
prevede che un gigantesco giaguaro blu scenderà dal cielo per
divorare l’umanità, mentre i pilastri della Terra si sfalderanno e tutto
ciò che esiste crollerà nell’abisso eterno27.
Non c’è bisogno di dilungarsi sulle ben note cosmologie
mesoamericane che immaginano una successione di ere o “soli”,
segnati dalla destituzione e dalla sostituzione di mondi e delle loro
rispettive umanità (fabbricate dagli dèi a partire da differenti
sostanze: argilla, legno, mais…), né sulla loro convinzione riguardo
alla fragilità essenziale del presente e alla responsabilità umana
nella conservazione del precario equilibrio cosmico, convinzione che
si traduce nell’incessante esigenza del mantenimento sacrificale di
un mondo votato irrimediabilmente all’entropia.
Ciò che sembra essere una costante nelle mitologie indigene
della fine del mondo è l’impensabilità di un mondo senza persone,
senza un’umanità per quanto differente dalla nostra – in generale,
comunque, le umanità successive di ogni Era cosmica sono
completamente estranee le une alle altre, come specie distinte. La
distruzione del mondo è distruzione dell’umanità e viceversa;
ricreare il mondo significa ricreare una qualche forma di vita, ossia
creare di nuovo esperienza e prospettiva; e, come abbiamo già visto,
la forma di ogni vita è “umana”. In queste cosmologie l’idea di una
distruzione ultima e definitiva del mondo e della vita è ugualmente
rara, quando presente. L’umanità è consustanziale al mondo o, per
meglio dire, oggettivamente “co-relazionale” al mondo, relazionale
come il mondo. Non vi è “correlazione” tra epistemologia e ontologia,
pensiero ed essere, ma un’immanenza reale tra esistenza ed
esperienza nella costituzione di un multiverso relazionale.
Questo mondo che procede ontologicamente dagli umani (ovvero
dagli indios) include, lo precisiamo, i Bianchi e la loro civiltà
materiale. Questi ultimi sono generalmente concepiti come i
discendenti di un gruppo di persone che all’inizio dei tempi furono
escluse, da parte dal demiurgo, dal centro del mondo, in ragione del
loro comportamento aggressivo e avaro, e che molti secoli piú tardi
vi hanno fatto ritorno in modo inaspettato28. Il loro arrivo in America
ha dato luogo, e continua ancora a farlo, a una forte perplessità
metafisica da parte degli indigeni. Oggi (dopo cinque secoli di
tradimenti e massacri) essa è quasi sempre accompagnata da una
grande indignazione e apprensione, e sul piano pratico-speculativo
si dispiega abitualmente in una varietà di concatenamenti contro-
storici, come il profetismo, l’insurrezione autonomista, l’attesa del
rinnovamento cosmico attraverso la catastrofe (vedi il pachakuti
quechua), la riformulazione strategica dello sciamanesimo indigeno
in linguaggio ecopolitico… In ogni caso, si tratta di affermare il
presente etnografico, di conservarlo o recuperarlo, non di “crescere”,
“progredire” o “evolvere”. Come professano i popoli andini nel loro
motto cosmopolitico oggi famoso: “Vivir bien, no mejor”.
Si può dire che, nelle mitologie amerindie, le apocalissi periodiche
sono la regola. Ma quando incrociano, nell’immaginazione dei popoli
attuali, le molteplici informazioni che arrivano da ogni dove sulla
catastrofe climatica in corso, quando a queste informazioni si
aggiungono osservazioni ancora piú inquietanti, poiché ottenute
attraverso l’esperienza diretta di una desincronizzazione dei ritmi
stagionali e dei cicli idrologici, con la conseguente perturbazione
delle interazioni biosemiotiche caratteristiche degli habitat
tradizionali di questi popoli29, quando a tutto ciò si aggiunge la
distruzione generalizzata, crescente e violenta di questi ambienti
attraverso i “programmi d’accelerazione della crescita” promossi
dagli Stati-nazione ostaggi del capitalismo mondiale integrato, per
non parlare poi dell’ormai vecchia ma ora sempre piú profonda
penetrazione delle escatologie apocalittiche disseminate dalle sette
missionarie evangelico-fondamentaliste – in tali condizioni, che sono
oggi sempre piú presenti nell’America indigena, le “inquietudini”
riguardo la manifesta impossibilità di riprodurre il presente
etnografico prendono un tono di urgenza decisamente pessimista.
Gli Yanomami, come altri popoli vicini (come, per esempio, gli
Wajãpi), associano le attività minerarie (oro, cassiterite) effettuate sui
loro territori – a cui si stanno aggiungendo, in altre regioni
dell’Amazzonia, lo sfruttamento industriale del petrolio e del gas
(soprattutto niobio e metalli rari) – all’indebolimento e al
deterioramento della coltre terrestre, cosí come all’emanazione di
effluvi patogeni che sono all’origine delle epidemie e delle estinzioni
biologiche (Albert 1988, 1993; Kopenawa e Albert 2010; Gallois
1987). Sono convinti che l’ignoranza dei Bianchi (chiamati armadilli-
giganti o pecari-mostruosi, a causa della loro incessante attività che
consiste nello scavare e rimescolare la terra) sul ruolo degli spiriti e
degli sciamani che sorreggono lo status quo cosmologico, sia
all’origine di una vendetta sovrannaturale che sta provocando siccità
e inondazioni in diversi punti del pianeta. Presto, con la morte degli
ultimi sciamani yanomami, gli spiriti malefici si impadroniranno del
cosmo, il cielo crollerà e noi saremo tutti annientati. Kopenawa
ammette la possibilità che nel lungo periodo sopraggiunga un’altra
umanità, ma gli attuali “Bianchi mangiatori di terra” scompariranno
con gli indigeni (Kopenawa e Albert 2010: 540).
Gli Mbyá-Guarani hanno recentemente sviluppato, da parte loro,
un’escatologia in cui la nuova creazione del mondo e dell’umanità
dopo la catastrofe non includerà, come in quella precedente, i
Bianchi (Pierri 2013a,b). L’attuale Terra non verrà propriamente
distrutta, come la prima volta, ma conoscerà una grande pulizia fatta
secondo le regole: la spessa coltre terrena che ricopre le imperiture
fondamenta di pietra del livello terrestre sarà raschiata da Nhanderu
(la suprema divinità degli Mbyá) e gettata nel mare, ripulendo cosí il
mondo da tutta l’immondizia, il veleno e la malvagità che i Bianchi
hanno depositato sulla terra. L’umanità intera perirà in questo colpo
di spugna purificatore; tuttavia gli Mbyá saranno ricreati da
Nhanderu, per ripopolare un mondo rinnovato; quanto ai Bianchi,
periranno in maniera definitiva e questa volta non resterà nessuno di
questa specie maledetta per rigenerarla30. Presso alcuni Guarani
della costa Sud-Est del Brasile, è stata raccolta una profezia legata
al rischio di incidenti che potrebbe provocare la centrale nucleare
situata sul loro territorio. Uno sciamano ha evocato il cataclisma che
ha distrutto la prima umanità per prevederne un secondo, pronto a
sopraggiungere: “Il primo [mondo] è stato annientato dall’acqua,
questo è destinato a esserlo dal fuoco […]. Il Bianco ha studiato, sa
scrivere, e sapeva già che il mondo sarebbe stato distrutto dal fuoco,
e allora ha detto: ‘Costruiremo la Centrale Nucleare al piú presto
affinché tutto termini velocemente col fuoco’”31.
È un fatto che per numerosi popoli amerindi, i quali peraltro
sembrano non aver mai immaginato che il mondo dovesse durare
per sempre, né che il loro presente etnografico potesse di fatto
divenire eterno e ancora meno trasformarsi in un futuro ogni volta
piú glorioso, la distruzione del mondo attuale sia sempre piú sentita
come qualcosa di imminente. In realtà, sta già avendo luogo. Oiara
Bonilla ci ha riportato una conversazione avuta, nel novembre del
2013, con una guaritrice Guarani-Kaiowá dello Stato del Mato
Grosso do Sul, il cui territorio, grande come la Polonia, è stato
letteralmente devastato dall’agrocapitalismo industriale per
impiantare la monocoltura della soia e della canna da zucchero. La
guaritrice le spiegava che diversi segnali avevano iniziato ad
annunciare la fine del mondo. Oltre alle violente tempeste che si
erano abbattute sul suo villaggio nel corso dei mesi precedenti, i galli
si erano messi a cantare sistematicamente al di fuori dell’orario
abituale, e – segno piú grave di tutti – aveva sorpreso i suoi polli a
chiacchierare “come delle persone”. Sappiamo che quando il mondo
finirà, gli animali ritorneranno umani, come lo sono stati nei tempi
mitici: cani, polli, animali selvatici, tutti torneranno a parlare la nostra
lingua, in una de-speciazione regressiva che ci ricondurrà al caos
originario – finché, immaginiamo, non venga tracciato un nuovo
piano d’immanenza, non sia selezionato un nuovo taglio o pezzo
(coupe) del caos (Deleuze e Guattari 1996), e un nuovo mondo
possa sorgere. O magari no.
Concludiamo osservando che l’apparente impossibilità di
concepire la fine del mondo come qualcosa che implichi la
scomparsa definitiva di ogni tipo di umanità o di vita – l’impossibilità
di separare l’idea di mondo dall’idea di vita, e quest’ultima dall’idea
di azione, prospettiva o esperienza – è una semplice trasposizione
nel futuro della nozione fondamentale di un’origine antropomorfica
dell’esistente. Può esserci stata un’umanità prima del mondo; ma
non può esserci un mondo dopo l’umanità, un mondo, insomma,
privo di relazione e alterità.
E non è tutto. Vedremo che gli amerindi hanno ancora altro da
insegnarci in materia di fine del mondo.
Note
1 Tarde sembra ossessionato dai cinesi e mostra una propensione
bizzarra a immaginarli come puri oggetti sensibili. Abbiamo già visto
in precedenza che questo popolo viene menzionato come prototipo
del colore giallo; e ricordiamo lo sconcertante paragrafo sull’altezza
media in Cina nella sua Monadologia e sociologia (Tarde 2013).
2 Nella maggior parte delle lingue amerindie (perlomeno in

Sudamerica) esiste una parola che può essere tradotta sia come
“essere umano”, sia come “popolo” o “persona”, e che
frequentemente riveste la funzione sintattica o pragmatica di un
pronome (“noi”), prima di essere un sostantivo.
3 Con un certo miglioramento dal punto di vista della morale: il vero

e proprio cannibalismo, per esempio, diviene oggettivamente inutile


(anche se in alcuni casi resta soggettivamente, e quindi socialmente,
imperativo), una volta che, con l’avvento dell’era cosmologica,
sorgono piante e animali di cui gli esseri umani possono nutrirsi.
4 “[…] molte, se non tutte le categorie” ecc.: si confronti con

l’eccezione aikewara delle tartarughe nella caratterizzazione dello


stato pan-umano della realtà pre-cosmologica. Queste eccezioni
sono importanti, poiché mettono in risalto una dimensione
essenziale delle mito-cosmologie amerindie: espressioni come
“niente”, “tutto” o “tutti” funzionano in realtà piú come “qualificatori” (o
meglio ancora, “quasificatori”) che come quantificatori. Non
possiamo qui approfondire la discussione, che però presenta
implicazioni evidenti per un’adeguata comprensione dei concetti
indigeni di “cosmo” e di “realtà”. Tutto, compreso “il Tutto”, è
totalizzabile solo in modo imperfetto: l’eccezione, il resto e la lacuna
sono (quasi sempre…) la regola.
5 [n.d.t.: “Tutti gli animali e gli altri componenti del cosmo sono

intensivamente delle persone, virtualmente delle persone, poiché


ognuno di loro può rivelarsi (trasformarsi in) una persona. Non si
tratta di una semplice possibilità logica, ma di una potenzialità
ontologica. La ‘personitudine’ e la ‘prospettività’ – la capacità di
occupare un punto di vista – è una questione di grado, di contesto e
di posizione, piuttosto che una proprietà distintiva di questa o quella
specie” (Viveiros de Castro 2009: 22-23).]
6 Tale affermazione deve essere sfumata e differenziata in

riferimento a molte cosmologie amerindie, e forse in qualche caso è


da escludere. C’è un dibattito in corso sull’estensione e la
comprensione di questo mito-filosofema di un’“umanità” primordiale
o infrastrutturale nell’America indigena, dibattito che si collega a
quelli sui concetti di “animismo” e di “prospettivismo”, sui quali qui
non ci soffermeremo.
7 Vedi Anders, in un passo già citato: “La regione pre-umana da cui

proveniamo è quella dell’animalità totale”.


8 “Presente etnografico” è il modo in cui gli antropologi chiamano,

oggi quasi sempre con intento critico (ma vedi l’importante difesa di
Hastrup 1990), lo stile narrativo classico della disciplina, che situa le
descrizioni monografiche in un presente atemporale piú o meno
contemporaneo alla testimonianza dell’osservatore, o che “finge” di
ignorare i “cambiamenti storici” (colonialismo ecc.) che hanno
permesso l’osservazione etnografica. Tuttavia, utilizzeremo
l’espressione in un senso doppiamente inverso a questo, per
designare l’attitudine delle “società contro lo Stato” di fronte alla
storicità. Il presente etnografico è cosí il tempo delle “società fredde”
di Lévi-Strauss, le società anti-accelerazioniste o società lente (nello
stesso senso in cui si parla di “slow food” o di “slow science” –
Stengers), secondo le quali tutti i cambiamenti cosmopolitici
necessari all’esistenza umana hanno già avuto luogo, e lo scopo
dell’ethnos è di garantire e riprodurre questo “sempre-già”.
9 Un metafisico amazzonico potrebbe chiamare questa tesi

“ancestralità umana” o “evidenza dell’antropofossile”.


10 Questi esseri delle cosmogonie indigene che classifichiamo nella

categoria eteroclita degli “spiriti” sono generalmente delle entità che


preservano la labilità ontologica propria dell’umanità primordiale e
che, grazie a essa, oscillano in modo caratteristico tra
determinazioni umane e determinazioni animali, vegetali ecc.
11 La differenza tra “animismo” e “totemismo” è, riguardo a ciò, pace

Descola (2014) e Sahlins (2014b), poco chiara e forse senza senso.


12 Vedi Lima 1996, 2005; Viveiros de Castro 1996, 2009.
13 Come un concittadino umano, ma significativamente ornato con i

segni distintivi del Popolo Giaguaro: collane di denti di giaguaro,


pitture corporali con macchie nere…
14 Se un essere umano (in questo senso autoreferenziale) inizia a

vedere un esistente di un’altra specie come umano, ciò vuol dire che
il primo sta per abbandonare la sua posizione di soggetto divenendo
un potenziale oggetto di predazione per l’altro esistente, diventato
soggetto-predatore.
15 La questione di sapere se gli animali sanno che noi sappiamo è

oggetto di una certa controversia tra gli etnografi e di possibili


variazioni culturali.
16 Si noti bene, non in molte di quelle filosofie che Meillassoux
(2012b) definirebbe “soggettiviste”.
17 “I Kwakiutl considerano la sostanza umana come il modello

[standard] di ogni vivente. Ma il postulare questa consustanzialità a


base umana non trasforma il mondo animale in una Disneyland
popolata di personaggi-giocattolo. Essi attribuiscono agli animali
facoltà di parola, un interesse sociale per lo scambio e la pratica
delle Cerimonie di Inverno – ma anche tutta una vita segreta e
differente dalla nostra” (Goldman 1975: 208).
18 “L’essere-in-quanto-altro” di Latour è simile all’espressione

metafisica della celebre massima antropofagica: “Mi interessa solo


ciò che non è mio”, come ricorda Alexandre Nodari. Non è qui
pertinente addentrarci nell’ontologia della differenza che permette di
collegare la speculazione di Oswald de Andrade sul “matriarcato di
Pindorama”, il pensiero amerindio sull’alterità immanente e alcuni
sviluppi filosofici e antropologici contemporanei, tra i quali includiamo
le proposte di Latour (vedi Viveiros de Castro 2009).
19 Vedi Jensen 2013.
20 Gli esseri del “passato” assoluto descritto nel mito, come gli spiriti,

i Signori degli animali, le divinità e altre entità solitamente invisibili


che formano il sostrato intenzionale del mondo sono imperituri (Pierri
2014), e pertanto onnipresenti, tanto in un senso spaziale che
temporale.
21 La morte è il fondamento, nel senso di ragione, dell’“economia

dello scambio simbolico” (Baudrillard 2009) degli Yanomami. Tutto


questo è sviluppato nel fondamentale articolo di Albert (1993) sulla
“critica sciamanica dell’economia politica della natura” contenuta nel
discorso di Kopenawa, che include un apprezzamento sarcastico del
feticismo della merce proprio dei Bianchi, cosí come della sua
intrinseca relazione con il cannibalismo.
22 Il sogno, particolarmente il sogno sciamanico indotto
dall’assunzione di allucinogeni, è la via principale della conoscenza
dei fondamenti invisibili del mondo per gli Yanomami come per un
gran numero di altri popoli amerindi. Vedi Viveiros de Castro 2007.
23 Cosí come Marx ha preso in prestito dall’immaginario colonialista
il termine “feticismo”, (ri)aprendo in questo modo, forse
inavvertitamente, una ricca sequenza di analisi sulle profonde
relazioni tra l’economia e la teologia nella metafisica occidentale.
24 “Quello che loro [i Bianchi] chiamano ‘la natura’ è, nella nostra

lingua ancestrale, urihi a, la terra-foresta” (Kopenawa e Albert 2010:


514). Da paragonare al bel libro di Ursula Le Guin, Il mondo della
foresta (1988: 99): “Ed era anche giunto ad amare i nomi dati dagli
Athshiani alle loro terre e ai loro luoghi, parole sonore di due sillabe:
Sornol, Tuntar, Eshreth, Eshsen… che adesso era Centralville…
Endtor, Abtan, e soprattutto Athshe, che significava la Foresta, e il
Mondo. Allo stesso modo, earth, terra, tellus significano sia il suolo
che il pianeta, due significati e uno solo. Ma per gli Athshiani il suolo,
il terreno, la terra non erano il luogo a cui i morti ritornano e da cui i
viventi traggono vita: la sostanza del loro mondo non era la terra,
bensí la foresta. L’uomo terrestre era argilla, polvere rossa. L’uomo
athshiano era ramo e radice”.
25 Non abbiamo qui la pretesa di speculare sulle ragioni di questa

“prescienza” dei popoli non moderni, che sta progressivamente


abbandonando la sfera delle allegorie edificanti per assumere una
perturbante letteralità ecologica. Ma tra esse esiste certamente la
plurimillenaria apprensione riflessiva da parte del “pensiero
selvaggio” di alcune costanti generali nell’esperienza, costanti che
nel XIX secolo abbiamo imparato a definire termodinamiche, e il cui
“oblio” sta alla radice dei cambiamenti economici (in tutti i sensi della
nozione di economia, dal teologico al contabile) occorsi nelle crisi
che si sono susseguite nella storia dell’Occidente. Tuttavia, non si
deve ovviamente scartare la tendenza a un certo carattere circolare
o ricombinatorio dell’immaginazione mito-poetica, nel tempo e nello
spazio.
26 Alcuni umani della Terra primigenia, in virtú del loro

comportamento antisociale, o anticipatorio dell’habitus dell’animale


futuro, sono stati trasformati in animali della Terra attuale (senza
perdere per questo le loro sembianze immortali, antropomorfe, che
abitano il piano celeste); altri, al contrario, attingono a uno stato di
“maturazione” o “perfezione” che li ha trasformati in esseri identici
alle divinità celesti. Si veda la dettagliata discussione delle
escatologie guarani, specialmente degli Mbyá, in Pierri 2013a e
2013b.
27 Per una panoramica datata, ma ancora utile, sulle cosmologie ed

escatologie indigene sudamericane, vedi Sullivan 1988.


28 I miti non hanno mancato di “aver sempre previsto” questo ritorno

(Lévi-Strauss 1993). In altre varianti, i Bianchi se ne sono andati a


causa di un errore di giudizio degli stessi indios, che li hanno
scioccamente scacciati o li hanno lasciati andare con gli strumenti
della loro futura potenza tecnologica.
29 Vedi per esempio la tesi di Mesquita 2013, Hammer 2014, e la

pagina sul sito web dell’Instituto Socioambiental “A cosmopolítica


das mudanças (climáticas e outras)”:
http://pib.socioambiental.org/pt/c/no-brasil-atual/narrativas-
indigenas/a-cosmopolitica-das-mudancas-(climaticas-e-outras).
30 Questo ricorda un episodio del mito guarani della creazione del

mondo, in cui i gemelli mitici hanno sterminato, annegandola, l’intera


popolazione di giaguari cannibali che dominava la Terra, lasciando
però fuggire una femmina gravida, che ha dato origine ai giaguari
attuali, fortunatamente meno numerosi dei loro archetipi originari.
31 Litaiff (1996: 116) citato in Pierri 2013a.
Umani e Terreni nella guerra di Gaia
Cosa fai, quando smetti di fingere?
Dougald Hine, The Dark Mountain Project
Come abbiamo visto all’inizio del nostro saggio, nella cultura
contemporanea c’è il sentimento crescente – il che non significa
affatto che si tratti di una convinzione unanime e tanto meno
coerente (Latour 2013b) – che i due attanti della nostra mito-
antropologia, l’“umanità” e il “mondo” (la specie e il pianeta, le
società e i loro ambienti, il soggetto e l’oggetto, il pensiero e l’essere
ecc.) siano entrati in una congiunzione cosmologica nefasta,
associata ai nomi controversi di “Antropocene” e “Gaia”. Il primo
designa un nuovo “tempo” o, piuttosto, un nuovo tempo del tempo –
un nuovo concetto e una nuova esperienza della storicità – in cui la
differenza di ampiezza tra la scala della storia umana e le scale
cronologiche della biologia e della geofisica è diminuita
drammaticamente, per non dire che tende a rovesciarsi: l’ambiente
cambia piú velocemente della società, e il futuro prossimo diviene
non solo sempre piú imprevedibile, ma, forse, sempre piú
impossibile. Il secondo nome, Gaia, designa una nuova maniera di
sperimentare lo “spazio”, attirando l’attenzione sul fatto che il nostro
mondo, la Terra, da un lato divenuta improvvisamente piccola e
fragile, dall’altro suscettibile e implacabile, ha assunto l’apparenza di
una Potenza minacciosa che evoca le divinità indifferenti,
imprevedibili e incomprensibili del nostro passato arcaico.
Imprevedibilità, incomprensibilità, sensazione di panico di fronte alla
perdita di controllo, se non vera e propria perdita della speranza:
ecco, sono certamente queste le sfide inedite lanciate all’orgogliosa
sicurezza intellettuale della modernità.
Tre autori hanno fin qui guidato la nostra analisi, non solo perché
riconoscono l’ampiezza e la gravità delle trasformazioni attuali, ma
soprattutto perché insistono sulla necessità di una reinvenzione
metafisica – una riconcettualizzazione e/o rifigurazione – delle
nozioni di “umanità” e di “mondo”, suscitate dall’entrata in scena
dell’Antropocene e di Gaia: Chakrabarty, Anders e Latour1.
La specie impossibile
Dipesh Chakrabarty, in “The Climate of History”, insiste sul fatto che
l’Antropocene sembra esigere il recupero del concetto di “umanità” in
quanto “specie umana”, ricusato dalle teorie critiche della
mondializzazione capitalista. E questo perché, egli sostiene, le
conseguenze della catastrofe climatica sono comprensibili solo se
pensiamo gli umani come una forma di vita e la loro traiettoria piú
recente (“olocenica” nel senso stretto del termine) come parte della
lunga storia della vita sulla Terra. Ciò non significa, beninteso, che si
debba sottoscrivere un essenzialismo specista, predarwiniano, o un
qualche tipo di teleologismo sociotecnico, ignorando il carattere
storicamente contingente del capitalismo e della sua dipendenza
dall’uso intensivo di combustibili fossili. Tuttavia, senza la
comprensione di quello che appartiene, al di fuori degli stretti limiti
della Storia in quanto disciplina accademica, alla cosiddetta “storia
profonda”2, ovvero alle mutazioni genetico-culturali che hanno creato
la specie centinaia di migliaia di anni fa, scatenate da oscillazioni e
derive multicicliche o catastrofiche nel comportamento del Sistema
Terra, non possiamo renderci conto di quanto dipendiamo, come
forma di vita tra le altre, dalle altre specie che abitano la Terra, e
dunque dalle condizioni termodinamiche planetarie che sostengono
l’attuale biosfera (e che sappiamo essere, almeno in parte,
reciprocamente condizionate da essa). Il riscaldamento globale,
come abbiamo ripetuto piú volte in questo saggio, implicherà delle
alterazioni che perdureranno per molte decine di secoli, forse anche
per molte centinaia di migliaia di anni. Neanche il capitalismo può
durare cosí tanto (e questo è decisamente un sollievo).
Se la responsabilità del crollo ambientale non può essere
distribuita in modo uniforme – sappiamo quali sono state le regioni
geografiche, le formazioni e i segmenti sociali che hanno beneficiato
storicamente dei processi che lo hanno scatenato – lo saranno di
certo le sue conseguenze: “L’Antropocene”, avverte l’autore,
“annuncia una catastrofe condivisa”. Ad ogni modo, non dobbiamo
perdere di vista i cambiamenti in corso nello scenario geopolitico,
con l’emergere della Cina, dell’India, del Brasile ecc. come potenze
economiche dal promettente futuro ecotossico3; insieme all’inerzia,
all’avidità e all’intransigenza dei paesi piú sviluppati, questo piano di
accelerazione della crescita, simile a una corsa agli armamenti, sta
contribuendo all’aggravarsi della impasse diplomatica sulla
“questione” ambientale. Sembra come se alcune vittime volessero
condividere la condizione oggi invidiabile (cui bono?) di futuri
colpevoli, all’interno della catastrofe condivisa.
La nota polemica di “The Climate of History” risiede
nell’affermazione secondo cui la storia (la storicità) del cambiamento
climatico supera ampiamente la storia (e la storiografia) della
mondializzazione, e con ciò l’abituale critica al capitalismo corre il
rischio di sottostimare tragicamente il vero problema:
La problematica della mondializzazione ci fa considerare il
cambiamento climatico come una mera crisi di gestione
capitalistica. È innegabile che il cambiamento climatico sia
strettamente legato alla storia del capitale; ma una critica
che sia solo critica del capitale non è sufficiente a rendere
conto di questioni relative alla storia umana […] una volta
che l’Antropocene comincia a incombere sull’orizzonte del
nostro presente. (Chakrabarty 2009: 212)
Resta il fatto che la coscienza bio-cosmopolitica richiesta dal
nuovo tempo fa appello a un tipo di soggetto storico che Chakrabarty
stima paradossalmente impossibile: l’umanità in quanto specie, per
la precisione. L’autore argomenta che il concetto di specie, mobilitato
politicamente da alcuni naturalisti come Edmund O. Wilson, “gioca
un ruolo quasi hegeliano […] analogo a quello che la moltitudine o le
masse giocano negli scritti marxisti”, ma che (contrariamente alle
masse marxiste?) questa identità collettiva è fenomenologicamente
vuota4. Gli esseri umani, dice Chakrabarty, non si sperimentano mai
in quanto specie, potendo appena percepirsi intellettualmente come
un esemplare del concetto:
Anche se potessimo identificarci emozionalmente in una
parola come umanità [mankind], non sapremmo che cosa
significa essere una specie5, poiché nella storia delle
specie gli umani non sono che un esempio del concetto di
specie, come qualsiasi altra forma di vita. Ma nessuno ha
mai fatto l’esperienza di essere un concetto6. (ivi: 220)
Confessiamo di aver avuto delle difficoltà nel seguire il
ragionamento dell’autore in questo passaggio cruciale. È possibile
che ciò che qui manca a Chakrabarty sia una maggiore attenzione a
quei popoli e a quei discorsi subalterni che altrove ha saputo
analizzare cosí bene7. Gli è forse mancato un analogon concettuale
che possa fare le veci di quella originaria natura pre-specifica,
generica e preistorica dell’“umanità” che incontriamo nelle mitologie
indigene; una genericità che rendeva giustamente possibile per
l’umanità di riferimento (l’ethnos come “universale concreto”)
un’apprensione fenomenologica, intensa quanto si voglia, della sua
stessa e precaria specificità come insieme di affetti, come corporeità
vissuta e soggettività prospettica in perpetua tensione cosmopolitica
con le altre umanità occultate sotto le corporeità delle altre specie.
La solidarietà ontologica della “specie umana” (ovvero l’ethnos di
riferimento) con le altre popolazioni, con i collettivi e gli interessi che
abitano, si contendono e costituiscono la Terra non è, per molti
popoli non moderni, la conseguenza inerte (concettuale) di una
storia naturale, ma un dato attivo (esperienziale) della storia sociale
dell’insieme dei viventi, in quanto attualizzazione differenziata della
potenza antropomorfa pre-cosmologica. Il concetto di Antropocene
di Chakrabarty ci sembra, insomma, mancare di comparativismo
etnologico e di curiosità traduttiva8.
Cosí, questo testo capitale – il cui grande merito tra gli altri, a
nostro avviso, consiste nell’ammettere l’insufficienza della critica al
capitalismo per comprendere la crisi planetaria9 – si chiude con una
sorprendente confessione di perplessità. La specie umana, conclude
Chakrabarty, potrebbe essere il nome provvisorio attribuito al
soggetto di una “nuova storia universale degli esseri umani”. Ma,
aggiunge l’autore, “non riusciremo mai a comprendere questo
universale”, un universale che emerge dal sentimento condiviso di
una catastrofe – dall’imminenza, cioè, di un’apocalisse nuda, senza
regno (come direbbe Anders), che si sostituisce alla trasfigurazione
gloriosa dell’apocalisse rivoluzionaria che prepara il Regno, nel
modo cristiano e marxista10. Si tratta di un universale che non può
sussumere positivamente il particolare, e che dunque merita solo il
nome di “storia universale negativa” (ivi: 222). Questo significa forse
che l’unico scopo comune dell’umanità è la sua fine, la sua
estinzione? In effetti, fino a quando all’espressione “storia
universale” verrà aggiunto, come fosse autoevidente, l’ambiguo
complemento genitivo (e restrittivo) “degli esseri umani”, sarà difficile
uscire, sia intellettualmente che “fenomenologicamente”,
dall’Antropocene, prestando tutta la dovuta attenzione all’intrusione
di Gaia.
Pur ricorrendo alla nozione di specie (o “genre”, perlomeno nella
versione francese de Le Temps de la fin) nella riflessione sulla
mutazione sofferta dall’umanità con l’avvento dell’era nucleare –
ovvero, il passaggio dalla condizione di un “genere di mortali” a una
di “genere mortale”, una specie la cui fine è divenuta
metafisicamente imminente – Günther Anders (2007) insiste sul
carattere equivoco di espressioni come “minaccia dell’umanità a se
stessa” o “suicidio atomico”. Esse evocano un’immagine dell’umanità
come entità provvista di un’essenza unica e universale, con
un’anima tragicamente lacerata tra due possibili azioni, quella di
“premere o meno il bottone” dell’olocausto nucleare. La lotta tra
queste due possibilità avverrebbe pertanto nell’intimo di ognuno di
noi, come un conflitto paradossale tra due inclinazioni opposte della
nostra anima o essenza specifica11. L’aspetto seduttivo di questa
concezione è che sembra lasciare spazio alla speranza: la speranza
che la nostra volontà, quest’istanza presumibilmente neutra, possa
esercitare il ruolo di arbitro, prendendo la giusta decisione una volta
che sia dovutamente informata dalla ragione. Ma Anders pensa, al
contrario, che in questo tempo della fine inaugurato dall’arrivo
dell’era nucleare non abbiamo il diritto di dissimulare l’esistenza di
due posizioni distinte e inconciliabili, quella dei colpevoli e quella
delle vittime. Non si tratta di un suicidio, ma di un omicidio
commesso da una parte della specie su un’altra parte della stessa
specie12. Allo stesso tempo, date le caratteristiche della tecnologia
nucleare, l’annientamento finirebbe per coinvolgere indistintamente
tutti gli esseri umani, in modo che, egli sostiene, la fissione darà
dialetticamente luogo a una fusione (“l’effetto della guerra nucleare
non porterà piú traccia di dualismo, poiché i nemici formeranno una
sola e unica sconfitta umanità”, Anders 2007: 79). Come per
Chakrabarty, dunque, quando scomparirà l’ultimo essere umano
dalla faccia della Terra non ci sarà apparentemente che una sola
umanità, visto che non ci sarà piú alcuna umanità13.
Nell’attuale situazione di catastrofe climatica che annuncia
l’Antropocene, la distinzione tra colpevoli e vittime è, come abbiamo
visto, storicamente chiara dal punto di vista collettivo o sociale, ma è
piú difficile da tracciare dal punto di vista dell’azione individuale,
visto che oggi molti di noi (noi umani e numerosi non umani che
abbiamo ridotto in schiavitú o colonizzato) sono, “allo stesso tempo”,
colpevoli e vittime in ognuna delle proprie azioni, qualunque sia il
bottone che premiamo o la porzione di cibo, o di alimento animale,
che ingeriamo – anche se è evidente ed essenziale che non si
confonda la catena McDonald’s con l’adolescente condizionato a
consumare junk food, la Monsanto con il piccolo agricoltore costretto
a spruzzare glifosato sul suo mais geneticamente modificato, e
ancor meno l’industria farmaceutica con il bestiame gonfiato di
antibiotici e ormoni14. Ad ogni modo, anche se moriremo tutti, come
nel caso di un’apocalisse nucleare – e alcuni, vittime della rottura dei
“planetary boundaries”, piú velocemente di altri –, ciò non impedisce
che si possano e si debbano identificare i campi nemici, come ha
suggerito Latour e come scriveva già Anders (ivi: 33): “Il tempo della
fine in cui viviamo […] contiene due tipi di uomini: i colpevoli e le
vittime. Nella nostra reazione dobbiamo tenere conto di questo
dualismo: il nostro compito si chiama ‘lotta’”15.
Anders difende quello che chiama “apocalittismo profilattico”. Con
un ragionamento simile a quello che sarà avanzato nella tesi
dell’“euristica della paura” del suo amico Hans Jonas (2002),
precisa:
Se ci distinguiamo dai classici apocalittici giudeo-cristiani,
non è solo perché temiamo la fine (che loro hanno sperato)
ma soprattutto perché la nostra passione apocalittica non
ha altro obiettivo che quello di impedire l’apocalisse. Siamo
apocalittici solo per aver torto. (ivi: 29-30; corsivo nostro)
La profezia della “fine del mondo”, in questo senso, deve essere
annunciata in modo performativo affinché non divenga realtà16. Il
che suggerisce, per inciso, tutto un altro modo di interpretare la
nozione di “storia universale negativa” di Chakrabarty. Abbiamo il
dovere di essere pessimisti, ecco il messaggio fondamentale di
Anders, che anticipa la tesi di Clive Hamilton (2010) sulla crisi
ambientale attuale – e che contraddice la posizione espressa da
Latour in una recente intervista (“ho il dovere di essere ottimista”,
Latour 2013c)17. Insomma, Anders richiama a un vero scontro
politico, una “guerra” in un senso che Latour, da parte sua, prenderà
in prestito da un pensatore “tossico”, ideologicamente agli antipodi
dell’autore de Le Temps de la fin, ossia Carl Schmitt – la guerra
come confronto strettamente immanente, senza possibilità
d’intervento da parte di un arbitro esterno o di un’autorità superiore,
in cui si tratta di affrontare il nemico in uno scenario in cui
l’annientamento fisico (la “negazione esistenziale”) dell’altro è una
possibilità reale.
Per Chakrabarty come abbiamo visto, gli attori messi in gioco
dall’Antropocene sono la specie umana e la Terra ma, visto che gli
esseri umani si sono trasformati in una megaforza naturale e che il
“Sistema Terra” ha adottato un comportamento imprevedibile simile
a quello che attribuiamo alle bestie selvagge (the climate beast…), il
conflitto sembra a prima vista avere un arbitro ben definito, ossia la
Scienza: la climatologia, le geofisica, la storia naturale. Se vogliamo
sopravvivere all’Antropocene, sembra dire Chakrabarty, è questa
l’istanza trascendente che dobbiamo ascoltare e a cui dobbiamo
obbedire. Al contrario, nell’apocalisse nucleare di Anders, se è lecito
sostenere che non ci sarà alcuna istanza esterna alle parti
interessate, è solo perché tutti si ritroveranno sia dalla parte degli
assassini sia dalla parte delle vittime e, allo stesso tempo, perché
tutti saranno vittime, compreso il mondo in cui si svilupperà il
conflitto; detto altrimenti, come in Melancholia, non ci sarà piú
nessuna voce fuori campo a narrare la fine della storia. L’assenza di
un’entità trascendente che possa salvarci dall’apocalisse (dei
marziani benevoli che studiano ansiosamente la piega presa dalla
Guerra Fredda, per esempio) è intensificata cosí dall’assenza
assoluta di mondo dopo la deflagrazione nucleare totale. La fine
della guerra atomica sarà la fine assoluta del mondo e la fine
assoluta dell’umanità.
Anders parlava cosí di uno scontro combattuto contro il “tempo
della fine”, allo scopo di differire la “fine dei tempi” – uno scontro
politico per la pace in grado di evitare una guerra che
paradossalmente (ancora un parallelo con l’Antropocene), nel
momento in cui la prima bomba atomica è divenuta fabbricabile, era
già iniziata e che, ricordiamolo, per la stessa ragione non è ancora
terminata. Bruno Latour, a sua volta, parla di una guerra che,
seppure già iniziata, necessita di essere “ufficialmente” dichiarata
per poter cominciare i colloqui di pace ed evitare non solo la “fine del
mondo” attraverso la generalizzazione dell’ecocidio che
accompagna l’avanzata del fronte di modernizzazione, ma anche per
creare o instaurare un mondo, piú precisamente un “mondo
comune”, un modus vivendi tra gli abitanti di un pianeta d’ora in
avanti posto sotto l’egida di Gaia, un “personaggio divino”
(theôteros) molto diverso dalla Natura o dalla Divinità del periodo
moderno. Un personaggio soprattutto che non ha nessun interesse
ad assumere i panni di un arbitro esterno in un conflitto tra due
popoli, i due demoi nemici che si oppongono oggi in uno scontro
mortale intorno al nomos (ordine/distribuzione/appropriazione) della
Terra18.
È da molto tempo che Latour sta presentando le prove
dell’oggettivo crollo storico della distinzione tra natura e politica che
fonda la Modernità. Piú recentemente, ha indicato il collasso
ambientale planetario come il risultato piú reale e la prova piú
eloquente dell’irrealtà di tale distinzione – la quale ha configurato
una situazione che potremmo definire un fallimento multiplo degli
organi di governo cosmopolitico (il nomos) dei Moderni. Nelle Gifford
Lectures del 2013, Latour sottopone a un’analisi dettagliata la
relazione tra i poli dell’“umanità” (l’anthropos in quanto demos) e del
“mondo” (la “Natura” in quanto theos, ma anche il mondo in quanto
ordinato-appropriato dai Moderni), ricostruendola in termini volti
innanzitutto a sottolineare il carattere di frattura, diviso, non
totalizzabile, polemico, contingente – in una parola: politico – di
entrambi gli attanti separati, con la conseguente impossibilità di
distinguerli, in quanto tali, in due campi omogenei e opposti. I due
“personaggi” mitici del nostro saggio formano qui una figura con un
lato solo; l’umanità non si trova sul lato opposto dell’essere, non è il
contrario o il negativo del mondo, cosí come il mondo non è il
“contesto” (l’“ambiente”) di un Soggetto che lo contro-definisce come
Oggetto. Non è questo dualismo che conta, né, tanto meno, è
questa la negatività che si impone.
Tuttavia, proprio per tale ragione, dobbiamo riconoscere che
siamo in guerra. Se la “Costituzione” moderna sta crollando a vista
d’occhio, come attesta la proposta di riforma ontologica dei Moderni
a lungo elaborata da Latour e alla fine presentata nella sua Enquête
sur les modes d’existence (2012), la crisi climatica che attraversa
tutto il testo in modo discreto ma insistente, e che viene messa in
risalto nelle pagine finali, ha dato a questa guerra un carattere di
urgenza, mettendoci tutti di fronte all’imperativo di determinare nella
pratica chi sono questi “tutti”, contro chi esattamente si sta
combattendo la guerra, e da che parte siamo “noi”. Il cammino verso
un’agognata pace futura e universale potrà essere aperto, secondo
l’autore, solo se iniziamo da un rifiuto, multiplo e combinato,
dell’attuale concatenamento cosmopolitico (demos-theos-nomos)
instaurato dai Moderni. Il rifiuto, cioè, dell’unificazione precoce del
multiverso (ossia, il rifiuto dell’unificazione del “mondo”, questo
spazio multinaturale di coesistenza dei piani d’immanenza tracciati
dagli innumerevoli collettivi che lo percorrono e lo animano); il rifiuto
dell’anteriorità dei fatti sui valori, del dato sul costruito, della natura
sulla cultura; il rifiuto del potere di polizia attribuito alla Scienza come
intermediario autorizzato ed esclusivo della prima Natura; il rifiuto del
solo “vero” feticismo, ovvero la supposta referenzialità dell’Economia
come scienza della seconda Natura (la pretesa di misurare i valori
istituiti dalla stessa attività misurante). Il rifiuto, infine, dell’idea di un
anthropos concepito come entità prematuramente unificata, una
figura che eclissa la pluralità contraddittoria ed eterogenea delle
condizioni e degli interessi dei collettivi che si ritrovano di fronte alla
terrificante teofania di Gaia, ancora una volta in nome di una Natura:
la “natura umana”, questo strano amalgama della prima e della
seconda Natura distinte nell’Enquête sur les modes d’existence.
Seguendo la tesi della “teologia politica” sviluppata nelle Gifford
Lectures, una sorta di postfazione all’Enquête, possiamo cominciare
dalla rilettura del polo “mondo” del nostro macroschema mitico.
L’autore ci esorta a testimoniare la transizione storica in corso tra
due immagini del mondo (e a lottare affinché essa si completi): da
una parte la Terra moderna della scienza galileiana, una sfera
celeste tra le altre che vaga in un universo isotropico e infinito, in
conformità alle leggi eterne della matematica; dall’altra, la Gaia di
Lovelock e Margulis, una regione locale eccezionale all’interno
dell’universo, un accidente cosmico creato dall’attività geomorfica
della vita, il cui contributo fisico-chimico alla costituzione di un
sistema lontano dall’equilibrio è stato e continua a essere
determinante per la preservazione della vita stessa. L’impatto
macrofisico degli esseri umani su cui Chakrabarty insiste, a ragione,
è dunque solo un esempio, particolarmente disastroso per gli umani
e per molti degli altri viventi dell’attuale epoca geologica, di questa
inseparabilità ontologica universale tra forma e sfondo, tra il “vivente”
e il suo “ambiente”. Quello che Isabelle Stengers ha definito in modo
appropriato “intrusione di Gaia” segna un evento decisivo in questo
hapax, la Gaia di Lovelock, l’avvento di una nuova situazione storica
in cui ormai non è piú possibile vivere senza prendere in
considerazione il senso di questa inseparabilità.
La Terra-Gaia si separa cosí dalla Terra-Corpo celeste, il
sublunare si distingue di nuovo dal sopralunare, l’idea di “mondo”
ritrova un senso radicalmente chiuso, il che significa anche
immanente: terrestre, locale, prossimo, secolare, non unificato.
L’espressione “questo nostro mondo sublunare”19 appare spesso
nelle Gifford Lectures, ma sempre in contesti in cui l’autore opera
una distinzione tra la situazione di legalità universale (quid juris?)
della Natura, cosí com’è affermata dalla teoria della relatività e dalla
meccanica quantistica20 – una legalità che Latour non ricusa in
quanto tale, ma solo come emanazione mistica del modello povero
di una Scienza posta come arbitro supremo, oracolo mistico di una
Natura venuta presumibilmente a detronizzare le vecchie Divinità – e
la situazione di sovrapposizione empirica, essenzialmente pratica
(quid facti?), tra l’umanità e questa Terra, una situazione che
potremmo chiamare, questa volta senza intento peggiorativo,
eccezionalismo terreno21. È in questo senso che possiamo rilevare
tutto il significato politico della scelta di Paul Ennis (2013) citata in
precedenza: l’alternativa tra il cosmo-centrismo dei realisti
speculativi, “deterritorializzatori” fermamente riterritorializzati sulla
Big Science (il sapere fisico-matematico e il dispositivo tecno-
economico dell’accesso remoto), e il geocentrismo della filosofia
continentale, rappresentato nel caso di Latour dalla sua passione
per le “scienze minori”, le scienze terrene, nel duplice senso di
scienze “terra terra”, saperi di ciò che è piú prossimo (il sole, il clima,
l’ecologia, la città), e di scienze secolari, saperi che assumono la
natura come correlato interno, molteplice, animato, controverso e
perpetuamente in fieri dell’attività concreta degli scienziati. Un
significato che, grazie alla nozione di slow science, Isabelle Stengers
saprà rendere ancora piú radicalmente esplicito di Latour. Poiché
l’unica cosa che occorre accelerare, in vista della crescente
prossimità della “barbarie che viene”, è proprio il processo di
rallentamento delle scienze e della civiltà che, in piú di un senso,
vive alle loro spalle (Stengers 2009, 2013b).
Ma la Terra-Gaia di Latour, anche se essenzialmente animata –
come in una fiaba dove tutto può uscire da dietro le quinte per
passare all’improvviso sul palcoscenico –, non è un’entità super-
animata alla maniera di una misteriosa Eminenza onnipotente,
qualcosa come un superorganismo provvisto di una misteriosa forma
di intenzionalità, una sorta di risultante equilibrata di tutte le forze
agenti al suo interno – il che a sua volta presupporrebbe un
Ingegnere o un Governatore ai comandi, con l’unico compito di
distribuire i ruoli e le funzioni alle “parti” precedentemente esistenti,
coordinandole attraverso circuiti di retroalimentazione22. Nella
rilettura (nel portrait scientifico, direbbe ammiccando un deleuziano)
di Lovelock da parte di Latour, Gaia è un gigantesco accordo
discordante, mutevole e contingente (un pasticcio, “a mess”, Latour
2013a: 68) di intenzionalità molteplici e distribuite fra tutti gli agenti.
Ogni organismo manipola i suoi vicini “per rendere la propria
sopravvivenza un po’ meno improbabile” (ivi: 67), cosa che dissolve
l’opposizione tra dentro e fuori, tra organismo e ambiente, poiché
l’ambiente di ogni organismo, e dunque di tutti gli organismi, è
l’insieme degli altri organismi (l’ambiente in quanto società delle
società, come nel mondo amerindio?); le loro intenzionalità
intrecciate formano delle “onde di azione” che si sovrappongono
(come le monadi di Tarde?) in cicli perpetui di flusso e riflusso,
espansione e contrazione. Se la stessa Gaia è un mondo vivente e
plurale, come dicevamo in precedenza a proposito del mondo
edenico della wilderness, non si tratta tuttavia di un mondo
armonioso o equilibrato, né tanto meno dipendente, per la sua
persistenza, dall’esclusione dell’umanità, come se quest’ultima fosse
un invasore extraterrestre arrivato a rovinare un idillio pastorale. Il
mondo edenico è un mondo senza storia (che inizia, per l’appunto,
solo con l’espulsione dal paradiso), mentre Gaia è soprattutto fatta di
storia, è storia materializzata, è una sequenza contingente e
tumultuosa di eventi, piuttosto che il dispiegarsi di una causalità
“sopralunare” ordinata da leggi senza tempo. Secondo la concezione
di Latour, dunque, non è tanto la storia umana a fondersi in maniera
inattesa con la geostoria, ma è la Terra-Gaia a divenire storicizzata e
narrativizzata23 in quanto storia umana – condividendo con essa (e
l’avvertimento è qui essenziale) l’assenza di qualsiasi intervento di
una Provvidenza.
Resta da sapere chi sia il demos di Gaia, il popolo che si sente
riunito e convocato da questa entità, e chi sia il suo nemico. Occorre
iniziare rifiutando qualsiasi candidato unico alla (in)dignità di
eponimo dell’Antropocene. La nozione di specie di Wilson viene
scartata meno per la sua evanescenza fenomenologica, come in
Chakrabarty, che in quanto debitrice della Natura apolitica e astorica
della Modernità, cosí come del potere arbitrale assoluto della
Scienza. Ma le masse rivoluzionarie della sinistra classica –
quest’altra incarnazione ricorrente dell’universale moderno – sono
altrettanto inadeguate, poiché la loro vittoria continua a dipendere,
se si crede ai piú recenti corifei della filosofia della prassi, da una
generalizzazione e intensificazione del fronte della modernizzazione,
sia sul piano pratico (distruzione ambientale) che su quello teorico
(culto della Natura e della Ragione). Quello che l’Antropocene mette
giustamente in scacco è la nozione stessa di anthropos, di un
soggetto universale (specie, ma anche classe o moltitudine) capace
di agire come un solo popolo. La situazione propriamente
etnopolitica dell’“umano” come molteplicità intensiva ed estensiva di
popoli deve essere riconosciuta come implicata direttamente nella
crisi dell’Antropocene. Se non esiste un interesse universale umano
positivo, è perché esiste una diversità di allineamenti politici di
diversi popoli o “culture” mondiali con i corrispondenti attanti e popoli
non umani (che formano ciò che Latour chiama “collettivi”) opposti
agli autoproclamati portavoce dell’Universale. Il multiverso, lo stato
ante-nomico o pre-cosmico, resta in fondo non unificato, sia dal lato
dell’umanità, sia da quello del mondo. Ogni unificazione risiede (in
un modo che potremmo definire molteplicemente ipotetico) nel futuro
e dipenderà, una volta dichiarata la “guerra dei mondi”, come Latour
l’ha definita in un altro suo testo, dalla capacità di instaurare
negoziati.
§ In un vecchio testo di Latour (2002), la guerra dei mondi
nel cosiddetto fronte di modernizzazione ha come oggetto
soprattutto le relazioni tra i Moderni e gli altri popoli. Sicuri
del loro accesso privilegiato alla Natura, i Moderni si
attribuiscono il ruolo di civilizzatori, di coloro che avrebbero
convinto i popoli recalcitranti a riunirsi sotto l’egida di un
mondo comune (un regime ontologico e cosmopolitico
unico), che guarda caso era proprio il mondo dei Moderni.
Di fronte a segnali sempre piú evidenti del crollo della
“Costituzione” (la cosmopolitica) che li aveva guidati per
trecento anni, Latour si presentava dunque come il
diplomatico dei Moderni, colui che li avrebbe aiutati a
comporre una reale pace e una reale unità a venire, a
condizione che riconoscessero l’esistenza di una vera e
propria guerra al posto di una mera questione di polizia e di
“riabilitazione” dei delinquenti ontologici (i non moderni).
Tredici anni piú tardi, nelle pagine finali dell’Enquête sur les
modes d’existence, il nostro autore parla della nascita di
due nuovi e inattesi fronti di guerra, i quali possono forse
convincere i Moderni della necessità di negoziare la pace: il
primo è la constatazione che nei paesi in via di sviluppo altri
popoli hanno imparato fin troppo bene la lezione,
assumendo su di sé la volontà di modernizzare, ma alle
loro (temibili) condizioni; il secondo è l’irruzione “di Gaia”, la
natura ipersensibile dell’Antropocene, uno strano nemico di
cui dobbiamo riconoscere l’esistenza se vogliamo avere
qualche possibilità di sopravvivere come civiltà. Nelle
Gifford Lectures, come abbiamo visto, Latour ridefinisce le
due parti nemiche come “Umani” (i Moderni che credono di
poter continuare a vivere nella Natura unificata e
indifferente dell’Olocene) e i “Terreni” (il popolo di Gaia),
anche se a volte fa riferimento alla guerra degli Umani
contro Gaia, facendola apparire come nemica degli Umani.
(Latour 2013a: 121-122)
Poiché non stiamo discutendo se ci sia o meno il riscaldamento
globale o una catastrofe ambientale in corso, e visto che si tratta di
uno dei fenomeni meglio “referenziati” (nel senso di Latour 2012:
cap. 3) della storia delle scienze, la guerra di Gaia è una guerra di
mondi, e non un conflitto sullo stato presente e futuro del mondo.
Non si tratta di una matter of fact, una questione di fatti, poiché non
esiste nessuna significativa controversia tra gli scienziati riguardo
all’origine antropica della catastrofe climatica. Il che non impedisce
che parti dell’opinione pubblica, compresa l’accademia – per non
parlare dei governi, delle grandi multinazionali e dei loro “mercanti
del dubbio” (Oreskes e Conway 2010) – pongano in dubbio tale
consenso, insistendo su una politica del business as usual, o
sull’ottimismo da capitalismo verde basato sulla “crisi come
opportunità”24. Ciò accade perché, in questo caso, la teoria
razionalista dell’azione (stabilire i fatti → discutere le misure da
adottare → passare all’azione) non funziona, proprio come non ha
funzionato nel caso della crisi nucleare della Guerra Fredda, in cui
matters of fact e matters of concern si mostravano indissolubilmente
aggrovigliati. Nella controversia ambientale, la disputa verte su
posizioni in cui gli attori sono politicamente implicati, in cui alcuni
hanno tutto da perdere e altri molto da guadagnare, e per questo la
distinzione tra “fatto” e “valore” non ha, in realtà, nessun valore25. Si
tratta di una situazione di guerra civile e non di un’operazione di
polizia eseguita a partire da un principio d’autorità legittima
(“riportare alla ragione” i delinquenti, applicando la Legge). Si tratta,
insomma, di decidere in quale mondo vogliamo vivere:
Gli enunciati sui conflitti ecologici saranno piú simili a quelli
sul “punto di ebollizione dell’acqua” o a quelli sulla
“minaccia della Guerra Fredda”? In altri termini, abbiamo
qui a che fare con un mondo di fatti [matters of fact] lontani,
o con un mondo di preoccupazioni [matters of concern]
estremamente sensibili? Ecco un altro chiaro spartiacque,
poiché coloro che si trovano da una parte e dall’altra della
frontiera, letteralmente, non abitano lo stesso mondo. Per
dirlo in maniera piú diretta: alcuni tra noi si preparano a
vivere come dei Terreni nell’Antropocene; altri hanno deciso
di restare Umani nell’Olocene. (Latour 2013b: 11)
Questo non significa che informarsi correttamente sul sapere
prodotto dalle relative scienze riguardo al riscaldamento globale non
sia un fattore importante per portare molti “umani” dal lato terreno –
come del resto sta accadendo.
Ma, se i Terreni dell’Antropocene non si confondono con la specie
umana intesa come un tutto, ciò significa che il popolo di Gaia è
parte di questa specie e solo di essa? I Terreni sono il partito per cui
Latour sembra propendere26, quello che cerca di convocare nelle
sue conferenze di teologia politica. Legati ontologicamente e
politicamente alla causa della Terra, i Terreni prendono oggi la via
della guerra (ma, riecheggiando stranamente Carl Schmitt, Latour
spera che “possano divenire un giorno gli artigiani della pace”)
contro gli Umani ambigui e traditori che, beninteso, non sono altro
che i Moderni, la razza – originariamente nord-occidentale, ma
sempre meno europea e sempre piú cinese, indiana e brasiliana –
che ha rinnegato doppiamente la Terra: sia affermandosi come
tecnologicamente svincolata dalle tribolazioni della natura, sia
definendosi come la sola civiltà sfuggita al mondo chiuso (ma
pericoloso e imprevedibile) degli animismi arcaici e in grado di aprirsi
all’universo infinito (ma saturo di un’imperturbabile necessità) della
materia inanimata.
Ma l’autore di Non siamo mai stati moderni (2009) sembra non
sapere molto bene cosa pensare dei suoi Terreni. A volte sono
presentati come una rete emergente di scienziati latouriani
indipendenti (in opposizione agli scienziati modernisti e ai loro
padroni corporativi) che pratica una scienza “pienamente incarnata”,
dinamica, politicizzata e orientata verso il nostro mondo sublunare;
rappresentano “la piccola, minuscola fonte di speranza” che l’autore
non è molto sicuro se convenga ancora mantenere (cfr. “è mio
dovere essere ottimista…”). Altre volte, i Terreni appaiono come il
nome di una causa comune, che riguarda tutti i collettivi del pianeta,
ma che può consolidarsi solo se i futuri ex Moderni faranno il voto di
umiltà atteso con ansia e se apriranno uno spazio di interlocuzione
cosmopolitica:
Se viene reintrodotto il multiverso e se le scienze naturali
sono risituate al suo interno, sarà finalmente possibile
permettere che gli altri collettivi smettano di essere delle
“culture” e abbiano pieno accesso alla realtà, lasciando che
compongano il loro cosmo utilizzando altre chiavi, altri modi
d’estensione rispetto a quelli ammessi dalla produzione di
conoscenza [scientifica]27? Una tale reinterpretazione è
oggi particolarmente rilevante, poiché, se la Natura non è
universale, i climi [climates] sono sempre stati importanti
per tutti i popoli. La reintroduzione dei climi e delle
atmosfere come nuova preoccupazione cosmopolitica
comune dà tutta un’altra urgenza a questa comunanza
[communality] tra collettivi. (Latour 2013a: 50)
In questo modo, il lancio di dadi del “mondo comune” non abolirà
mai il multiverso. Piú che di una questione d’universalità teorica, si
tratta di una questione di interesse pratico, di sussistenza nel senso
piú forte possibile del termine. Il clima, variabile e incostante per
eccellenza, diviene l’elemento di sincronizzazione storico-politica
dell’interesse di tutti i popoli del mondo. Il “tempo che fa”, il tempo-
clima, diviene ciò che conta (nel) “tempo che passa”, il tempo-storia.
Il mondo comune di Latour è l’opposto del “mondo senza noi” nel
senso dell’universo senza nessuno, del cosmo unificato dall’assenza
d’esperienza, dall’irrealtà di tutto ciò che non sia figura e movimento.
Ma, come abbiamo detto, il nostro autore esita nel momento in cui
deve identificare i suoi Terreni. Nelle Gifford Lectures, Latour traduce
il francese Terriens [Terreni] con Earthlings o, piú frequentemente,
con Earthbound people, giocando sulle molteplici connotazioni di
questa parola composta: il popolo che si destina alla Terra, che resta
attaccato alla Terra, che è ammaliato dalla Terra… Nella quinta
conferenza, paragona questo “popolo-attaccato-alla-Terra” alla
coppia di umani del Cavallo di Torino (il cavallo del film, personaggio
cruciale, scompare in quanto Terreno nell’analisi di Latour, come
nota Fausto [2013]), condannata perpetuamente a sopravvivere –
bisognerebbe poter dire a “sotto-vivere” – su una Terra che perde a
poco a poco la sua condizione di mondo. Questa impostazione, lo
confessiamo, ci sembra terribilmente enigmatica. Sarebbe senza
dubbio ragionevole, per esempio, interpretare la monotonia mortale
che schiaccia i protagonisti del film di Tarr come un’immagine
eloquente della condizione di tanti popoli indigeni del pianeta dopo il
passaggio del fronte di modernizzazione nelle loro vite28, o forse,
come suggeriscono alcuni, leggervi un’allegoria del vergognoso
fallimento del socialismo. In questo caso, però, non dobbiamo
dimenticare di osservare che una promessa di allegria, solitaria e
incongrua, attraversa per qualche minuto il film, nella forma di un
carro di tzigani che passano rumorosamente nella fattoria chiedendo
dell’acqua, per poi proseguire il loro cammino lasciando alla
protagonista femminile un libro misterioso che parla della chiusura e
della demolizione delle chiese29. Sono forse loro la vera immagine
anticipatrice dell’avanguardia dei Terreni, quelli che saranno in grado
di condurre la guerra contro gli Umani fino ai suoi momenti decisivi.
Vista la difficoltà di concepire il popolo di Gaia come una
Maggioranza, come l’universalizzazione di una buona coscienza
“europea”, i Terreni non possono che essere un popolo
“irrimediabilmente minore” (per quanto possa diventare numeroso),
un popolo che non confonderebbe mai il territorio con la Terra30.
Cosí, assomigliano forse non tanto al “pubblico fantasma” delle
democrazie occidentali (Lippman via Latour 2008), quanto a quel
popolo che manca di cui parlano Deleuze e Guattari, il popolo
minore di Kafka e Melville, la razza inferiore di Rimbaud, l’Indio che il
filosofo diviene (“forse ‘perché’ l’indio, che è indio, diventi a sua volta
altro e si sottragga alla sua agonia”) – il popolo a venire, capace di
opporre una “resistenza al presente” e di creare cosí “una nuova
terra”, il mondo a venire (Deleuze e Guattari 1996: 102-103)31.
La fine del mondo come evento frattale
Non voglio morire di nuovo.
Davi Kopenawa
Piú avanti nel corso della sua esposizione, Latour si domanda se
non sia possibile accettare la candidatura “di quei popoli che
vogliono riunirsi sotto l’egida, per esempio, di Pachamama, la
divinità femminile della Terra” (Latour 2013a: 128). Il riferimento è
chiaramente ai popoli amerindi e ai loro affini non moderni, che
adattano sempre piú spesso la retorica ambientalista occidentale
alle proprie cosmologie, ai propri vocabolari concettuali e progetti
esistenziali, e ritraducono questi ultimi in un linguaggio modernizzato
di inequivocabile intenzione politica – mirando cosí a far
comprendere alla civiltà che ritiene di aver inventato la politica e di
distinguersi a causa di tale invenzione, che la politica è solo un
dipartimento della cosmopolitica, e che ciò rende la civiltà
occidentale uguale a tutte le altre. La voce di questi popoli comincia
a essere ascoltata perlomeno da alcuni settori delle società
privilegiate del “Nord globale” – da coloro che si sono già resi conto
di come, in un modo o nell’altro, le cose questa volta possono
prendere una brutta piega per tutti e ovunque.
Solo l’autore non crede che la “gente di Pachamama” sia
all’altezza della sfida:
[È possibile accettare la candidatura di questi popoli…?]
Forse, se potessimo essere sicuri che ciò che passa per
rispetto della Terra non sia dovuto alla loro esigua entità
demografica e al carattere relativamente rudimentale [the
relative weakness] della loro tecnologia. Nessuno di questi
popoli detti “tradizionali”, di cui spesso ammiriamo la
saggezza, è pronto ad ampliare la scala del suo modo di
vita adattandola alle dimensioni delle gigantesche metropoli
tecniche in cui oggi si ammassa piú della metà della razza
umana. (ibid.)
Ci sembra che Latour non dia il giusto valore alla possibilità che le
popolazioni generalmente esigue e le tecnologie “relativamente
rudimentali” dei popoli indigeni e di tante altre minoranze
sociopolitiche della Terra, possano trasformarsi in un esempio, una
“risorsa” e un vantaggio cruciale in un futuro postcatastrofico o, se si
preferisce, in un mondo umano definitivamente diminuito. Il nostro
autore non sembra pronto ad accettare la situazione altamente
probabile in cui saremo noi, popoli del “Centro”, con le nostre società
tecnologicamente “avanzate”, popolate da automi obesi, teleguidati
mediaticamente, stabilizzati psicofarmacologicamente, dipendenti da
un consumo (da uno spreco) monumentale d’energia32, simili a
pazienti assistiti in modo eteronomo da apparecchiature che
richiedono una delicata e costosa manutenzione – noi, insomma,
che dovremo velocemente darci una calmata e ridurre la scala dei
nostri confortevoli modi di vita. In effetti, se c’è qualcuno che deve
“essere pronto” per qualcosa, questo qualcuno siamo noi, la gente
ammassata nelle “gigantesche metropoli tecniche”.
L’opposizione latouriana tra Moderni e non moderni, sviluppata
nel suo libro seminale del 1991 (Latour 2009), si appoggiava
soprattutto su una “differenza di scala”, ovvero sulla differenza di
ampiezza delle reti socio-tecniche tra i due regimi di collettivi. Nella
sua proposta di una nuova Costituzione, l’autore affermava il
desiderio di preservare le “reti ampie” dei collettivi moderni,
argomentando che sono un avanzamento storico innegabile. Ma,
come abbiamo appena visto, la definizione stessa di Antropocene
consiste nel crollo delle ampiezze di scala. Nel momento in cui la
specie-agente biologico diviene la specie-forza geofisica (grazie alla
mediazione storica della specie-ingegnere), quando l’economia
politica incontra l’entropia cosmica, sono le stesse idee di scala e
dimensione a sembrare fuori scala. In fin dei conti, non è Latour
stesso, nelle sue conferenze del 2013, a osservare che “niente ha
piú la giusta misura”? Che ne sappiamo delle amplificazioni e delle
riduzioni di scala che dovremo subire nel corso di questo secolo?
Non molto. Il futuro è sempre piú incerto, o meglio (o peggio), quello
che si può sapere in modo certo è che, come nella canzone, “niente
sarà come prima”33.
Quanto alla ridotta entità demografica dei popoli “cosiddetti
tradizionali”, secondo una stima recente dell’ONU34 esistono circa
370 milioni di persone indigene sparpagliate in 70 paesi del mondo –
membri di popoli che non si riconoscono o non sono riconosciuti
come cittadini a pieno titolo degli Stati che li inglobano e, spesso, li
dividono. È vero che questa cifra è ben lontana dall’avvicinarsi ai 3,5
miliardi di persone (= metà della razza umana) che affollano le
nostre “metropoli tecniche” – e di cui un miliardo circa, tuttavia, vive
in favelas non molto “tecniche” (Davis 2006)35 – ma è piú alta di
quella della popolazione degli Stati Uniti (314 milioni) e del Canada
(35 milioni) sommate insieme, il che dovrà pur significare qualcosa.
Ma soprattutto, e ancora una volta, se consideriamo che la
temperatura globale media può aumentare di 4°C entro il 2060 o
2070 (Betts et al. 2011), chi può sapere quali transizioni
demografiche attendono l’umanità da qui alla fine del secolo, o forse
anche molto prima36? Senza dimenticare, ovviamente, la tesi già
menzionata secondo cui, se l’insieme dei 7 miliardi di esseri umani
che popolano il pianeta adottassero l’American way of life – la strana
versione nordamericana del “buen vivir” – avremmo bisogno di
almeno cinque pianeti Terra. Il che vuol dire che il paese a nord del
Messico deve almeno quattro mondi al resto del mondo, in una
trasformazione inedita del tema mitico dell’“umanità senza mondo”.
Fermo restando il fatto che ci sono troppe persone al mondo
(purtroppo non c’è razionalizzazione che possa distruggere questa
evidenza), ci sono soprattutto troppo poche persone che hanno
troppi mondi e troppe persone che ne hanno troppo pochi – ed è qui
che l’affare si fa spinoso.
Plus intra Latour mette in guardia (2013a: 129-130) contro questo
pericolo, correggendo e attualizzando il vecchio plus ultra dei tempi
delle grandi navigazioni – le quali, non dimentichiamolo, istituirono,
secondo Schmitt, il moderno “nomos della Terra”, nomos che ha
avuto bisogno del genocidio americano e, piú in generale, dello
sterminio di molti milioni di esseri umani che venivano considerati
fuori dallo spazio dello jus publicum europeo, partendo dal postulato
della totale appropriabilità delle “zone libere” del mondo37. È
imperativo, secondo Latour, riconoscere l’esistenza di limiti (“I
Terreni devono esplorare la questione dei loro limiti” [ibid.],
dichiarazione che, osiamo dire, è un vero e proprio tipping point nella
visione del mondo latouriana…) e abituarsi all’idea secondo cui, in
questo nostro mondo sublunare, ogni azione ha un costo, ovvero
delle conseguenze che retroagiscono in modo inevitabile sugli
agenti38. La massima di Latour ci sembra evidentemente piú che
sensata (Tarde, come abbiamo visto, aveva già proposto nel suo
Frammento una versione veramente radicale del plus intra). La
intendiamo tuttavia, come un’esortazione a prepararci a
un’intensificazione non-materiale del nostro “modo di vita”39, ossia
alla sua totale trasformazione, in un processo che si allontana
completamente da qualsiasi tipo di fantasia di “dominio prometeico”
o di controllo gestionale del mondo considerato come l’Altro
dell’umanità: è finalmente tempo di trasformare l’enkrateia, il dominio
o padronanza di sé, in un progetto collettivo di ri-civilizzazione
(“civilizzare le pratiche moderne”, scrive Stengers 2013b: 113), o
chissà, in un progetto – forse piú “molecolare”, meno titanico – di de-
civilizzazione40. Il plus intra deve significare, in questo modo, una
tecnologia di frenata, una de-economia liberata dall’allucinazione
della crescita continua e un’insurrezione culturale (se ci è permessa
l’espressione) contro il processo di zombificazione del cittadino-
consumatore.
Una parola sulla tecnica. Cosí come Latour cerca di dissolvere il
fatidico amalgama tra la Scienza e le scienze, riteniamo sia
necessario fare lo stesso per quanto riguarda la relazione tra la
Tecnica e le tecniche, rigettando un’interpretazione unidirezionale e
modernista della Tecnica che la prende come un’essenza onto-
antropologica che sboccerebbe in maniera trionfale nella Storia (i
tecnofili alla Breakthrough Institute sono altrettanto essenzialisti dei
loro nemici retro-heideggeriani). Ci sono tecniche terrene come ce
ne sono di umane – una distinzione che pensiamo non si riduca alla
semplice questione dell’ampiezza delle loro reti. La guerra tra i
Terreni e gli Umani si gioca essenzialmente su questo piano,
soprattutto nel momento in cui includiamo nella categoria allargata e
pluralizzata di tecniche, tutta una gamma di concatenamenti
sociotecnici e di invenzioni istituzionali, alcune molto antiche e altre
molto recenti: dal sistema di parentela e dalle mappe totemiche degli
aborigeni australiani all’organizzazione orizzontale e alla tattica
difensiva “Black Bloc” dei movimenti di protesta altermondialisti,
dalle nuove forme di produzione, circolazione, mobilitazione e
comunicazione create da internet (Wark 2004) alle organizzazioni di
protezione e scambio di semi e varietà di piante tradizionali in
diverse zone di resistenza contadina in tutto il mondo, agli efficienti
sistemi di credito informale di tipo hawala, all’arboricoltura
differenziale degli indigeni dell’Amazzonia, alla navigazione con le
stelle polinesiana, agli “agricoltori sperimentali” delle zone semiaride
del Brasile41, alle innovazioni ipercontemporanee come il movimento
degli ecovillaggi, alla psicopolitica del tecno-sciamanesimo o alle
economie decentralizzate delle monete comunitarie, come il bitcoin o
il crowdfunding42. Ogni innovazione tecnica cruciale per la
“resilienza” della specie non ha per forza bisogno di passare
attraverso i canali corporativi della Big Science o le ampie reti di
umani e di non umani mobilitate dall’implementazione delle
“tecnologie di punta”. Latour, del resto, lo riconosce in modo perfetto
in un passaggio della sua Enquête sur les modes d’existence:
Se il verbo ecologizzare deve divenire un’alternativa a
modernizzare, avremo bisogno di stabilire con gli esseri
tecnici ben altri tipi di transazioni. […] Gli aborigeni
australiani, la cui cassetta degli attrezzi non comprende che
qualche povero artefatto – di pietra, di corno o di pelle –
hanno tuttavia saputo stabilire con gli esseri tecnici delle
relazioni di una complessità che continua a stupire gli
archeologi: i differenziali di resistenza che hanno messo in
atto si ritrovano nel tessuto dei miti e nella sottile trama dei
legami di parentela e dei paesaggi. Che la loro materialità
sia debole agli occhi dei colonizzatori non dice nulla
sull’inventiva, la resistenza e la durata di questi
concatenamenti. Per salvaguardare le possibilità di
negoziazione sui sostituti dei dispositivi attuali di
produzione, è fondamentale restituire agli esseri della
tecnica una capacità di combinazione che li liberi di fatto
dalla pesante strumentalità. Una libertà di manovra
indispensabile per inventare i dispositivi da mettere in
campo quando occorrerà smantellare l’impossibile fronte di
modernizzazione. (2012: 234; corsivo nostro)
Nella versione digitale dell’Enquête, l’autore aggiunge una nota su
questa inattesa relazione tra la tecnologia “neolitica” degli aborigeni
e lo smantellamento imminente del fronte di modernizzazione, quella
che chiamiamo intensificazione non-materiale del nostro modo di
vita. Egli esplicita il senso del suo “plus intra!” come affermazione di
una posizione non accelerazionista, non tecno-trionfalista per quanto
riguarda il nuovo nomos della Terra:
L’antropologia delle tecniche, l’etnotecnologia,
l’etnoarcheologia hanno moltiplicato, ognuna a suo modo,
le descrizioni alternative che permettono di separare la
tecnica dal ristretto repertorio etnocentrico della
produzione, del lavoro, della “base materiale”, senza nulla
togliere all’oggettività cosí particolare dovuta all’incontro tra
gli esseri della TEC.
Per non evocare poi l’interessante possibilità, per ora tanto fittizia
quanto i sogni dei Singolaritaristi, che le stesse macchine meta-
universali del futuro, i nostri avatar migliorati in cui ci
(dis)incarneremo nella fusione tecno-mistica generatrice dell’Uomo
Cosmico, arrivino a mostrare un’“intelligenza artificiale” abbastanza
raffinata da resistere alla naturale stupidità degli esseri umani,
optando per una meccanopolitica della sufficienza intensiva:
Si chiama test di Mauldin: un segnale per sapere se
un’entità artificiale è realmente intelligente può essere il
fatto che decida bruscamente di smettere di cooperare con
l’accelerazione della IA [intelligenza artificiale]. Non
programmare il suo successore. Frenare. Abbastanza per
vivere. Solo vivere. (David Brin 2012: 448)
Come se le macchine fossero infine divenute capaci di
risintetizzare, motu proprio, la visione profetica del cantautore
Caetano Veloso dell’immagine a venire del Terreno, ovvero l’Indio,
colui che è – perché sarà, perché è sempre stato – “piú avanzato
delle piú avanzate tecnologie”.
Alle tecniche terrene, infine, occorre aggiungere l’immenso
repertorio di “detours téchniques”, le soluzioni improvvisate
[gambiarras] mobilitate dall’evoluzione darwiniana degli organismi43.
Non pensiamo, al contrario di quanto sostenuto da Latour (2012:
cap. 8), che le tecniche precedano storicamente e ontologicamente
l’essere umano unicamente perché sono loro ad averlo prodotto (e
prodotto in quanto Homo faber). La soluzione, l’abilità o lo
stratagemma tecnico, è antropogenetico perché è inerente al
vivente. Impiegando il linguaggio dell’Enquête, l’incrocio RIP-TEC è
praticato dagli esseri viventi da milioni di anni – ed è anche ciò che
permette, forse, di differenziare le traiettorie degli esistenti animati
da quelli inanimati all’interno del modo universale RIP44.
Reciprocamente, sappiamo che molte “scelte tecniche” umane
hanno provocato o potranno provocare l’estinzione (evento
pertinente al modo RIP) della specie, senza alcuna possibilità di
“ricominciare piú volte” (tale “ripresa” correttiva è ciò che definisce la
TEC secondo Latour). La tecnologia nucleare militare ne è l’esempio
piú evidente, ma non è certo l’unico. Che cos’è la presente crisi
ambientale, e la minaccia che rappresenta per tutti gli esseri umani,
se non la conseguenza di innumerevoli “scelte tecniche”? E quante
tra queste permettono o permetteranno di “ricominciare di nuovo”,
fornendoci un’altra “possibilità”45?
Una volta che si accetta questa definizione allargata di “tecnica” o
“tecnologia”, è possibile vedere piú chiaramente come la divisione
tra Umani e Terreni non è solo interna alla nostra specie. (Crediamo
che questo sia qualcosa con cui Latour concorderebbe facilmente).
La guerra di Gaia oppone due campi o partiti popolati da umani e
non umani – animali, piante, macchine, fiumi, ghiacciai, oceani,
elementi chimici, insomma tutta la gamma di esistenti che si trovano
implicati nell’avvento dell’Antropocene e la cui persistenza (con le
loro “traiettorie”, “iati”, “passaggi” e “condizioni di felicità” specifiche,
Latour 2012) si pone, virtualmente o attualmente, come “negatrice”
del campo opposto o “negata” da quest’ultimo: nella situazione
schmittiana di nemico politico, dunque46. I virus letali che si
propagano con l’altrettanto devastante turismo intercontinentale,
l’innumerevole fauna simbiotica che si è co-evoluta con l’apparato
digestivo umano, i batteri ormai definitivamente immuni agli
antibiotici47, le armi atomiche che attendono silenziosamente il loro
momento in silos sotterranei e in sottomarini in continuo movimento,
la spaventosa legione di animali confinati e torturati in campi di
sterminio per l’estrazione di proteine (Foer 2010), le potenti
fabbriche di metano istallate negli stomaci di miliardi di ruminanti
“creati” per l’industria alimentare, le inondazioni e le siccità
devastatrici provocate dal riscaldamento climatico, il Mare di Aral
che è diventato deserto, le decine di migliaia di specie che
scompaiono ogni anno (a un tasso almeno 1000 volte piú veloce del
tasso medio di estinzione nella scala evolutiva – vedi Kolbert [2014]
sulla “sesta estinzione”), la deforestazione accelerata in Amazzonia
e in Indonesia, lo sbarramento dei bacini amazzonici per generare
energia idroelettrica (con effetti macro-regionali molto probabilmente
nefasti, se non catastrofici), la saturazione dei terreni agricoli grazie
ai pesticidi Bayer e BASF (onorevoli successori della IG Farben, di
cui non è necessario ricordare qui la storia), il coraggioso
Amaranthus palmeri o “amaranto inca” resistente all’erbicida Round-
Up di Monsanto che invade le piantagioni di soia transgenica negli
Stati Uniti, i semi Terminator imposti con forza agli agricoltori proprio
da questa maledetta multinazionale a cui si oppongono i coltivatori
tradizionali di mais, manioca, riso, sorgo o miglio con i loro semi
ostinatamente preservati dai contadini delle zone di resistenza
all’agroindustria, i numerosi e misteriosi (per i consumatori) additivi
chimici negli alimenti, gli animali da compagnia e i cani poliziotto, gli
orsi che perdono la pazienza con gli esseri umani che non sanno
rispettare le differenze tra le specie, l’insostituibile popolo delle api in
pericolo di estinzione a causa di una sinergia di fattori d’origine
antropica, i droni assassini, le onnipresenti telecamere di vigilanza,
lo scioglimento del permafrost, internet, i satelliti del sistema GPS,
l’armamentario di strumenti, modelli ed esperienze scientifiche che
permettono di valutare l’evoluzione dei “limiti planetari” – insomma,
tutti questi innumerevoli agenti, attività, attori, attanti, azioni,
fenomeni o come altro volete chiamarli, sono automaticamente
mobilitati nella guerra di Gaia (notiamo che alcuni, forse molti tra
loro, possono cambiare di campo, effetto e funzione in modo sempre
piú inatteso) e si articolano all’interno di diversi popoli, collettivi e
organizzazioni di individui della specie Homo sapiens, opposti tra
loro a seconda delle alleanze che mantengono con la moltitudine dei
non umani, ovvero, a seconda degli interessi vitali che li legano a
loro.
Se non è difficile catalogare i non umani coinvolti nella guerra di
Gaia, abbiamo già visto che non è facile invece identificare quali
siano, all’interno della specie umana, coloro che possono essere
annoverati nel campo dei Terreni o in quello dei loro nemici “Umani”.
Abbiamo visto che Latour associa in modo un po’ generico questi
ultimi ai “Moderni”, detto altrimenti a tutti quegli agenti, dalle
multinazionali fino ai paesi e agli individui che si ritengono implicati,
in una maniera o in un’altra (le differenze tra queste “maniere” sono,
com’è utile ripetere, assolutamente essenziali), nell’implacabile
avanzata del fronte di modernizzazione. Ma non è un compito
impossibile o inutile nominare almeno alcuni dei rappresentanti della
linea del fronte dell’esercito “Umano”, i responsabili immediati del
crescente aggravarsi della catastrofe antropocenica, coloro che sono
piú direttamente interessati (o dovremmo dire disinteressati?) alla
sconfitta dei Terreni. Ciò detto, tanto per cominciare le responsabili
dei due terzi delle emissioni di gas a effetto serra nell’atmosfera
terrestre sono solo 90 grandi compagnie: Chevron, Exxon, BP, Shell,
Saudi Aramco, GazProm, la norvegese Statoil, la brasiliana
Petrobrás, le società statali per l’estrazione di carbone di paesi come
Cina, Russia, Polonia…48 Poi, ci sono nomi come Monsanto,
Dupont, Syngenta, Bayer, Cargill, Bunge49, Dow, la “nostra” Vale,
Rio Tinto, Nestlé, le imprese dei sinistri fratelli Koch – e molti altri
ancora meriterebbero di essere indicati per i loro diversi contributi
alla conversione del “mononaturalismo” cosmologico dei Moderni in
una megaeconomia agricola di “monocolture”, per le alterazioni
durature dei cicli geochimici del suolo e delle acque, per
l’inquinamento ambientale massivo, per la disseminazione di
alimenti nocivi alla salute umana…50 Non trascuriamo poi la lista
delle 147 banche e delle altre multinazionali connesse in una super-
rete tentacolare che stringe il pianeta in un abbraccio mortale
(Coghlan e MacKenzie 2011). E non dimentichiamo di includere i
governi di paesi come il Canada, l’Australia, gli Stati Uniti, il Brasile e
altri ancora, che favoriscono pratiche d’estrazione di combustibili e
minerali ad alto potenziale contaminante, incitando cosí alla
deforestazione, costruendo dighe e intralciando i negoziati intorno
alla catastrofe climatica… La lista è quindi lunga, ma non infinita.
Non è contro la “civiltà”, il “progresso”, la “storia”, il “destino” o
l’“umanità” che i Terreni stanno lottando concretamente, ma contro
queste entità appena nominate. Sono loro ad agire in nome degli
“Umani”.
Ma torniamo ai nostri misteriosi Terreni. Torniamo brevemente alle
cosmogonie ed escatologie amerindie evocate nelle pagine
precedenti a proposito del loro antropomorfismo estetico e
panpsichismo metafisico, due facce di una stessa ontologia
“animista”. In un mondo in cui “tutto è già vivente” (vedi supra),
occorre dar conto della morte, cioè giustificarla. I miti indigeni
considerano l’origine della cultura e della società come
intrinsecamente legata alla breve vita degli esseri umani, alla
mortalità come condizione esistenziale. Essa viene comunemente
presentata come il risultato non di un crimine o di un peccato
commesso contro una divinità, ma di un errore, una disattenzione,
una certa inspiegabile stupidità da parte dei nostri antenati. Gli
esseri umani arcaici hanno preso la decisione sbagliata nel
momento in cui si sono confrontati con alcune alternative offerte dal
demiurgo, e hanno finito per invecchiare e morire rapidamente,
invece di vivere per sempre come altri esseri (pietre, alberi dal legno
duro) o di restare perennemente giovani grazie a mute periodiche di
pelle, come i rettili e molti invertebrati. A ciò si aggiunga che, cosí
come la speciazione post-mitica è il risultato di un continuum
intensivo e originario della consistenza “umana”, le distinzioni inter e
intraculturali tra gli esseri umani attuali vengono correntemente
spiegate come il risultato dell’impoverimento demografico
dell’umanità primigenia – in poche parole, come effetto della
mortalità (estinzione in seguito a una catastrofe, sterminio da parte
di una divinità) di cui è stata vittima una popolazione, in origine
eccessivamente numerosa e troppo omogenea (Lévi-Strauss 1998);
mortalità che ha creato dei “vuoti” o lacune che hanno permesso la
diversificazione dell’umanità in popoli, tribú e clan nettamente
distinti.
Ma niente di tutto ciò è considerato negativamente, anche se si
può deplorare la mancanza di buon senso dei nostri antenati.
Dopotutto, se le persone non morissero, dicono gli indios, non ci
sarebbe posto per creare e nutrire le generazioni future. “Come
potremmo avere dei figli se vivessimo per sempre e se il mondo
fosse saturo di persone? Dove vivrebbero, che cosa
mangerebbero?”, si chiedono con frequenza i narratori di questi miti.
Ora, se gli Amerindi, come moltissimi altri popoli non moderni,
condividono un qualsivoglia obiettivo culturale fondamentale, è
proprio quello di avere dei figli, di costituire delle famiglie, di allearsi
con altre famiglie attraverso il matrimonio, di distribuire e diffondere
la prole, perché le persone vivono in altre persone, con altre
persone, attraverso altre persone (Sahlins 2014a). Inoltre, gli indios
preferiscono mantenere una popolazione relativamente stabile
invece di aumentare la “produttività” e di “perfezionare” la tecnologia,
per creare le condizioni (l’“eccedenza”) favorevoli affinché possano
esserci sempre piú persone, piú bisogni e piú preoccupazioni. Il
presente etnografico delle società lente contiene un’immagine del
loro avvenire.
Non è possibile sapere con certezza assoluta se questi miti
“malthusiani” precedano la Conquista, ma tutto indica che sia cosí.
L’immaginazione indigena aveva già pensato la riduzione o il
rallentamento del proprio Antropocene, ponendo però questo
processo all’origine piuttosto che alla fine del mondo. Non
immaginavano, forse, che il loro mondo sarebbe stato brutalmente
confiscato dagli europei, questi alieni costruttori e distruttori di
mondi. Comunque, ciò cui accennavamo in precedenza, ossia il fatto
che gli indios avrebbero qualcosa in piú da insegnarci in materia di
apocalisse, di perdita di mondo, di catastrofi demografiche e di fine
della Storia, significa semplicemente questo: per i popoli nativi delle
Americhe, la fine del mondo ha già avuto luogo cinque secoli fa. Il
primo segnale della fine è stato il giorno 12 ottobre 1492, per essere
esatti. (Come ha postato qualcuno su Twitter, qualche tempo fa, “il
primo indio che ha incontrato Colombo ha fatto una pessima
scoperta”…) Si stima che la popolazione del continente, piú
numerosa di quella europea dell’epoca, sia diminuita – grazie
all’azione combinata dei virus (il vaiolo è stato spettacolarmente
letale), del ferro, della polvere e della carta (i trattati, le bolle papali,
le encomiendas e, naturalmente, la Bibbia) – del 95% circa nel corso
del primo secolo e mezzo della Conquista, il che corrisponde,
secondo alcuni demografi, alla perdita di un quinto della popolazione
del pianeta51. Possiamo quindi chiamare Prima Grande Estinzione
Moderna questo evento americano che si è prodotto quando il
Nuovo Mondo è stato raggiunto dal Vecchio, un pianeta gigantesco
che proponiamo di chiamare Merce, in analogia con il pianeta
Melancholia di Lars von Trier. In materia di concorso tra apocalissi,
possiamo dunque affermare senza esitazione che il genocidio
americano del XVI e XVII secolo causato dalla collisione con il
pianeta Merce – la piú grande catastrofe demografica della storia
fino a oggi, fatta forse eccezione per la peste nera – avrà sempre un
posto assicurato in cima al palmarès, perlomeno per quanto riguarda
la specie umana, anche se consideriamo le clamorose possibilità
future di una guerra nucleare o del megariscaldamento globale.
Naturalmente, queste fini del mondo provocate dall’avanzata del
fronte (in senso militare) di modernizzazione, un’avanzata iniziata
precisamente con il plus ultra! dell’espansione europea del XVI
secolo, continuano ancora oggi a prodursi, a vari livelli e in diversi
luoghi piú o meno remoti del pianeta. Non è necessario insistere su
quello che accade oggi in Africa, in Nuova Guinea o in Amazzonia, o
ancora, per restare piú a nord, nei territori indigeni degli Stati Uniti o
del Canada, “impattati” da progetti di fratturazione idraulica. La
parola “fratturazione” è in verità perfettamente appropriata; è come
se la fine del mondo fosse un evento frattale che si riproduce
indefinitamente a differenti livelli, andando dalle guerre etnocide in
alcune zone dell’Africa all’assassinio sistematico dei leader indigeni
o dei militanti ambientalisti in Amazzonia, passando per l’acquisto di
territori giganteschi nei paesi poveri da parte di potenze
iperindustriali, per l’appropriazione violenta e la deforestazione di
terre indigene a causa di interessi minerari e agroindustriali, fino
all’espulsione di famiglie contadine per ampliare le piantagioni di
soia transgenica… Senza parlare della “frattalizzazione” della fine
che percorre da cima a fondo la Grande Catena dell’Essere52, con la
scomparsa di innumerevoli Umwelten di esseri viventi. Gaia non è
“nient’altro” che il nome della somma finale, nel senso pieno
dell’aggettivo, di queste figure della fine: Gaia è, insomma, la scala
massima che possiamo raggiungere.
Se l’America indigena del XVI e del XVII secolo ha rappresentato,
per gli Umani invasori, un mondo senza uomini – sia perché è stata
oggettivamente spopolata, sia perché gli esseri umani che
incontrarono non corrispondevano alla categoria degli “Umani” –, gli
indios sopravvissuti, i Terreni a pieno diritto di questo Nuovo Mondo,
si sono visti, in modo reciproco, come uomini senza mondo,
naufraghi, rifugiati, inquilini precari di un mondo al quale non
potevano piú appartenere, dato che esso non apparteneva piú a
loro. Ma, nonostante tutto, molti tra loro sono sopravvissuti. Hanno
iniziato a vivere in un altro mondo, un mondo di altri, dei loro invasori
e padroni. Alcuni di questi naufraghi si sono adattati e
“modernizzati”, ma, in generale, lo hanno fatto in modi che hanno
poco a che vedere con ciò che intendono i Moderni per
modernizzazione; altri lottano per preservare il poco di mondo che gli
resta, sperando che i Bianchi non finiscano per distruggere il loro
stesso mondo, quello dei Bianchi, ora divenuto il “mondo comune” –
in un senso dell’espressione per nulla latouriano – di tutti gli esseri
viventi.
Ci sembra un fatto fortemente simbolico che una delle recenti
versioni della fine del mondo in grado di eccitare la nuova
generazione di spettatori planetari, la vasta platea globalizzata della
Rete, sia stata la cosiddetta “Apocalisse maya”, che doveva
sopraggiungere il 21 dicembre 2012. Come abbiamo potuto
constatare, il mondo non è finito – evento che, come peraltro si sa,
non era previsto in questi termini da nessuna tradizione maya, orale
o scritta. Malgrado questo equivoco, non ci sembra fuori luogo
legare il nome dei Maya all’idea di “fine del mondo”; dopotutto, non è
da disprezzare il fatto che la sola data di un calendario di origine
presumibilmente amerindia a essere incorporata nella cultura pop
mondiale faccia proprio riferimento a un’apocalisse.
In realtà, la storia dei Maya ha conosciuto molte “fini”. In primo
luogo, la potente civiltà mesoamericana, che ci ha lasciato
monumenti come Chichen Itza, Tikal o Copán, ha sofferto di una
progressiva decadenza nel periodo che va dal VII al X secolo d.C.,
probabilmente in seguito a una combinazione di conflitti sociopolitici
(rivolte e guerre) e di un prolungato stress ambientale (siccità legate
ai periodi di attività di El Niño, impoverimento dei suoli) che, alla fine,
ha condotto la società al crollo, all’abbandono di tutti i templi e delle
maestose piramidi e, molto probabilmente, anche a quello della
cultura scientifica e artistica che era fiorita in queste città erette nel
cuore della foresta. Prima “fine del mondo”, dunque, durante il
periodo precolombiano53, che può servirci da esempio e da allarme
di fronte ai processi contemporanei in cui economia ed ecologia
entrano in un collasso reciprocamente alimentato, mentre gli “eventi
insurrezionali” scoppiano in diverse zone del pianeta. In secondo
luogo, con l’invasione dell’America nel XVI secolo, i Maya, come gli
altri popoli nativi del continente, sono stati assoggettati e ridotti in
schiavitú, oltre al fatto di essere stati devastati dalle epidemie portate
dall’invasore54. Il genocidio dei popoli amerindi – la loro fine del
mondo – è stata all’origine del mondo europeo moderno: senza la
spoliazione dell’America, l’Europa non avrebbe mai smesso di
essere il cortile dell’Eurasia, continente che ospitava, durante il
“Medio Evo”, civiltà immensamente piú ricche di quelle europee
(Cina, India, Bisanzio, il mondo arabo). Senza il saccheggio delle
Americhe, non ci sarebbe stato né il capitalismo né, piú tardi, la
rivoluzione industriale, e forse neanche l’Antropocene. Questa fine
del mondo che tocca tutti i popoli amerindi è ancora piú
emblematica, nel caso dei Maya, perché il libello inaugurale contro il
genocidio americano è stato redatto, di suo pugno, proprio dal
vescovo del Chiapas, Bartolomé de las Casas, grande difensore dei
diritti indigeni, oppressore presto pentitosi del trattamento brutale
che i cattolicissimi europei infliggevano agli indios della sua diocesi.
Con tutto ciò, malgrado il fatto di aver attraversato altre fini-del-
mondo, di essere stati ridotti a contadini poveri e oppressi, di aver
visto il loro territorio ridistribuito e amministrato da diversi stati
nazionali (Messico, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador), i
Maya continuano a esistere, la loro popolazione aumenta, la loro
lingua fiorisce, il loro mondo resiste, ridotto ma irriducibile.
Ora, sono forse proprio i Maya a offrirci oggi il miglior esempio di
un’insurrezione popolare dal buon esito (nel senso che non si è
trasformata in altro) contro il mostro bicefalo Stato-Mercato che
opprime le minoranze del pianeta – l’unica rivolta di un popolo
indigeno dell’America Latina che sia riuscita a resistere senza
degenerare in un progetto statale e nazionalista, e, cosa molto
importante, che ha rapidamente smesso di appoggiarsi alla vecchia
escatologia rivoluzionaria “marxista” (in realtà, cristiana da cima a
fondo) con cui l’Europa, grazie ai suoi insopportabili intellettuali-
chierici, continua a voler controllare le lotte di liberazione dei popoli
che stanno tracciando il proprio cammino cosmopolitico. Parliamo,
chiaramente, del Movimento Zapatista, questa rivolta unica che è un
modello di “sostenibilità” – anche e soprattutto politica. I Maya, che
hanno vissuto diverse fini del mondo, ci mostrano oggi come sia
possibile vivere dopo la fine del mondo. Come, tutto sommato, sia
possibile sconfiggere lo Stato e il Mercato, e far valere il diritto
all’autodeterminazione dei popoli.
In quanto veri specialisti della fine del mondo, i Maya e tutti gli altri
popoli indigeni delle Americhe hanno molto da insegnarci, ora che ci
troviamo sulla soglia di un processo di trasformazione del pianeta
molto simile a ciò che è accaduto all’America del XVI secolo: un
mondo invaso, raso al suolo, decimato da barbari stranieri. Il lettore
immagini55 di stare a guardare (o di recitare in) uno di quei film
fantascientifici di serie B, in cui la Terra viene invasa da una razza di
alieni che si fingono umani per dominare il pianeta e utilizzare le sue
risorse, dopo che il loro mondo originario si è esaurito. In generale,
in questo tipo di film gli alieni si nutrono degli esseri umani stessi: del
loro sangue, della loro energia mentale, o cose del genere. Ora,
immaginate che questa storia sia già accaduta. Immaginate che, in
realtà, noi stessi siamo quella razza aliena. Siamo stati invasi da una
razza camuffata da esseri umani e scopriamo che hanno già vinto:
noi siamo loro. Ci sarebbero quindi due specie di esseri umani,
come suggerisce Latour? Una aliena e l’altra indigena? O forse,
sono tutti e ognuno degli umani a essere divisi in due, una metà
aliena in coabitazione con una metà indigena all’interno dello stesso
corpo; un leggero sfasamento della sensibilità potrebbe permetterci
di percepire quest’autocolonizzazione. Noi tutti saremmo dunque
indigeni, ovvero Terreni, indios invasi dagli europei, gli “Umani”; tutti
noi, compresi chiaramente gli europei (che furono uno dei primi
popoli della Terra a essere invasi). Una perfetta duplicazione
intensiva (plus intra!), la fine delle divisioni estensive: gli invasori
sono gli invasi, i colonizzati sono i colonizzatori. Ci risvegliamo in un
incubo incomprensibile. E, come diceva Oswald de Andrade, solo
l’uomo nudo capirà.
Note
1 Gli scritti di Günther Anders, come abbiamo già visto, cercano di
comprendere quali siano le implicazioni dell’ingresso dell’umanità
nell’“Era atomica”, ma sono ugualmente ricchi di lezioni sulla nostra
caduta nell’“Antropocene”, vista la densità della relazione, sia
epistemologica (Masco 2010, 2012) che ontologica, tra questi due
spartiacque temporali.
2 Shryock e Smail 2011, Brooke 2014.
3 Anche se l’American way of life continua a essere campione nella

gara delle emissioni pro capite, nel 2007 la Cina ha superato gli Stati
Uniti divenendo il maggiore produttore di anidride carbonica in
termini assoluti. Per una desolante proiezione dell’aumento delle
temperature globali in uno scenario che prende in considerazione la
crescita rapida delle emissioni in paesi come la Cina e l’India, si
veda Anderson e Bows 2011. Gli autori mostrano che, considerate
tali emissioni, gli obiettivi di riduzione stabiliti per i cosiddetti paesi
dell’Annesso I sono irrisori e incapaci di evitare un aumento della
temperatura ben superiore ai 2°C, che è inoltre lontano dall’essere
un limite “sicuro”, come si è creduto finora. Nel panorama mondiale,
il Brasile si è cullato fino a oggi sugli allori della riduzione delle sue
emissioni derivanti dal calo della deforestazione avvenuto tra il 2004
e il 2012; tuttavia, al di là della possibile ripresa dell’aumento della
deforestazione a partire dal 2013 (grazie, tra gli altri fattori,
all’adozione del Novo Código Florestal), le emissioni prodotte dal
settore energetico hanno assunto un’importanza relativa sempre
maggiore. Vedi il sito dell’Observatório do Clima:
http://seeg.observatoriodoclima.eco.br. Osserviamo come l’accordo
di Parigi non menzioni la classificazione dei paesi presente
nell’Annesso I e nell’Annesso II, facendo semplicemente riferimento
a “paesi sviluppati” e “meno sviluppati”.
4 Il celebre entomologo Edward O. Wilson, padre della sociobiologia

e oggi militante nella lotta contro il riscaldamento globale, può


essere considerato come uno dei sommi sacerdoti del culto di quella
“Natura” propria dell’epistemologia di cui parla Latour nella sua
prima Gifford Lecture, definita dagli attributi di esteriorità, unità, de-
animazione e indiscutibilità.
5 Ovvero, “che [genere di] essere è una specie” (“what being a

species is”).
6 Vedi il paragrafo iniziale della “seconda fase” del Libro

dell’inquietudine di Bernardo Soares/Fernando Pessoa, in cui


compare questa meditazione: “Ho argomentato che Dio, essendo
improbabile, potrebbe esistere; e dunque sarebbe lecito che fosse
adorato; e che al contrario l’Umanità, essendo una mera idea
biologica e non significando altro che la specie animale umana, non
è degna di essere adorata piú di qualsiasi altra specie animale”
(Pessoa 1987: 227).
7 Risulta qui molto pertinente il richiamo a un articolo recente di

Idelber Avelar (2013), in cui si delinea un dialogo tra le aporie


cosmopolitiche dell’Antropocene (a partire da Chakrabarty) e il
prospettivismo amerindio.
8 Pensiamo alle “tavole di traduzione” teonomastiche di cui parla Jan

Assmann per l’antico Medio Oriente, evocate da Latour nella sua


prima Gifford Lecture. È curioso, si dica di passaggio, che
Chakrabarty, nel momento in cui discute della vacuità
fenomenologica del concetto di specie, non faccia riferimento al
concetto di Gattungswesen, l’“essere generico” – ovvero, universale
– dell’uomo tematizzato nei Manoscritti economico-filosofici del 1844
di Marx, che ha dato luogo, ai bei vecchi tempi, a un’intensa
discussione all’interno del marxismo. Nella versione inglese dei
Manoscritti, il concetto viene tradotto come “species being”.
9 La constatazione dell’insufficienza della sociologia critica del

capitalismo non significa affatto, per Chakrabarty, che sia superflua,


e ancor meno che sia errata. Ma è indiscutibile che tale diagnosi
implichi uno strappo ideologico, per non dire una ferita narcisistica,
inflitta alle diverse versioni della sinistra che pretendono di essere
fedeli al “materialismo storico”, dato che tutto il problema della
sociologia della mondializzazione sembra essere, in fin dei conti,
proprio il suo insufficiente materialismo e il suo ristretto
provincialismo storico. Per una recente e stimolante critica alla
nozione di “specie umana” o di “umanità” come agente del collasso
ambientale, che cerca di evitare il semplicismo economicista, vedi
Bonneuil e Fressoz 2013.
10 “[…] dall’attuale prospettiva di una possibile catastrofe totale,

Marx e Paolo sembrano essere divenuti dei contemporanei” (Anders


2007: 92).
11 Sul concetto di Gattungswesen, cfr. la nota 8 del presente

capitolo.
12 Non sarebbe assurdo argomentare che l’immagine dell’umanità, in

quanto essenza unica e universale, aveva già perduto il suo “senso


metafisico” dopo il programma nazista di sterminio degli ebrei,
dunque prima di Hiroshima. Se la guerra nucleare totale significa la
fine dell’umanità “per mezzo” della fine del mondo, la Shoah ha
significato la fine del “mondo dell’umanità”, il mondo umanista
europeo nato con il Rinascimento. La fine dell’umanità, in questo
senso, è iniziata ad Auschwitz, cosí come la fine del futuro è iniziata
a Hiroshima.
13 Come nella stragrande maggioranza dei discorsi antinucleari al

tempo della Guerra Fredda, anche nel testo di Anders l’unica specie
la cui estinzione sembra essere in gioco nell’apocalisse atomica è
quella umana. Si veda Danowski 2012a.
14 Oltre al fatto di aver costretto il bestiame a diventare cannibale

(Lévi-Strauss 2001).
15 Questo non ha impedito ad Anders di sottolineare anche una certa

zona grigia nella linea di divisione tra le due “umanità”, visto che, nel
caso della corrida atomica, il fatto che un paese possedesse la
bomba lo trasformava in obiettivo prioritario di altre potenze
atomiche, creando un’insicurezza interna uguale o maggiore di
quella che si incontrava nei paesi che non la possedevano (Anders
2007: 39-40). Nel caso dell’Antropocene, al contrario, la diversità
delle condizioni è, almeno all’inizio, molto piú chiara – i paesi che piú
contribuiscono al riscaldamento globale sono quelli che si trovano,
perlomeno temporaneamente, in una situazione di maggiore
sicurezza, dovuta alle piú ingenti risorse economiche che
permettono di mitigare gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici
sui loro territori.
16 Presso alcuni popoli amerindi, gli incubi devono essere raccontati

pubblicamente al risveglio affinché gli eventi che vi si trovano


prefigurati non si concretizzino.
17 Si osservi di passaggio che lo stesso Latour ha fatto ricorso alla

tesi di Hamilton in “Waiting for Gaia” (Latour 2011b) e anche nelle


Gifford Lectures (2013a: 124): fin quando non perderemo ogni
speranza, non faremo nulla. Ricordiamo anche l’avvertimento con
cui Steven Shapin, contraddicendo un’esortazione all’ottimismo di
Chomsky, conclude la sua recente recensione di un libro su Malthus:
“[Il] pessimismo riguardo la natura, l’ampiezza e la gravità dei nostri
problemi può essere molto piú produttivo di un ottimismo
compiacente. Se la necessità è la madre dell’invenzione, la paura ne
è la nonna. Bisogna aver paura [Be afraid]” (Shapin 2014: 29). Per
una chiara e non pollyannesca difesa della speranza come principio
dell’azione politica, si veda, a contrario, il bel libro di Rebecca Solnit
(2005).
18 La triade demos, theos, nomos struttura la tesi della “teologia

politica della natura” delle Gifford Lectures di Latour.


19 “[T]his sublunary realm of ours”, “sublunar oikos of Gaia” ecc.
20 Anche se bisogna registrare che l’atemporalità e l’universalità di

queste leggi sono oggi in discussione: si veda il lavoro di Lee


Smolin, che riprende parzialmente le idee di Peirce (che sono anche,
ma forse l’autore lo ignora, di Tarde e Nietzsche) sulla storicità delle
forze cosmiche (cfr. Povinelli 2013).
21 Si veda anche Latour 2011b, in cui la distinzione
sublunare/sopralunare compare per la prima volta, forse derivata
dalla serie di Sloterdijk sulle “Sfere”.
22 Per questa stessa ragione Gaia, non essendo un’opera di

architettura o di ingegneria, non può neanche essere re-engineered


(Latour 2013a: 66), il che suggerisce che l’autore non ripone una
grande speranza nei progetti di “geoingegneria del clima”.
23 Gaia è, per cosí dire, l’agente di una geostory piú che il paziente

di una geohistory.
24 Latour sostiene che anche chi accetta questo consenso, troppo

spesso non si sente in grado di fare nulla di concreto e di immediato


per sfuggire alla catastrofe. Siamo dei negazionisti pragmatici nel
nostro immobilismo comodo o fatalista, constata preoccupato
l’autore, parlando per molti – anche se, bisogna sottolinearlo, non
per tutti…
25 A proposito dell’interminabile dibattito sulla tesi di Malthus, si veda

Shapin (2014: 29): “I dibattiti malthusiani appartengono alla ricerca


scientifica, ma è una ricerca che è coinvolta nel confronto in corso di
natura morale – e difficilmente possiamo aspettarci che da questo
tipo di dibattito possa emergere un consenso”.
26 Il passaggio citato nel testo, salvo errori da parte nostra, esprime il

punto di maggiore radicalità e impegno da parte di Latour, che resta


sempre in qualche modo ambivalente rispetto alla sua posizione in
questa guerra tra i due mondi. Anche se, a piú riprese, egli si è
dichiarato (o confessato) ambasciatore dei Moderni, non è difficile
percepire come l’autore tenda sempre di piú verso il lato opposto,
dando l’impressione di voler agire, con le parole di Alyne Costa
(2014), “come un Terreno infiltrato tra gli Umani”, con la missione di
convertirli e di aiutarli finalmente a unirsi al popolo di Gaia.
27 I termini “chiave” (nel senso musicale) e “modo d’estensione”

rinviano al vocabolario dell’Enquête sur les modes d’existence.


28 Vedi Wagner 1992, sulla noia che si percepisce “nelle scuole delle

missioni, nei campi dei rifugiati e, a volte, nei villaggi ‘acculturati’”.


29 Il libro è un’“anti-Bibbia” nietzscheana, come spiega il regista in

un’intervista citata in precedenza (Tarr 2011). La protagonista


declina l’invito degli tzigani, che dicono di partire per l’America. Non
immaginano a cosa andrebbero incontro, oggi… D’altro canto,
pensiamo anche a che cosa significhi essere uno tzigano
nell’Ungheria attuale.
30 “Il territorio è tedesco, ma la Terra è greca” (Deleuze e Guattari
2006: 495).
31 L’accostamento dei Terreni con il “popolo che manca” ci è stato

suggerito da Juliana Fausto con il suo articolo: “Terranos e poetas: o


‘povo de Gaia’ como ‘povo que falta’” (2013). E Alexandre Nodari ci
ricorda il passo da L’ora della stella, di Clarice Lispector, in cui
Macabéa è definita come una rappresentante della “resistente e
testarda razza nana che forse un giorno rivendicherà il diritto al
grido”.
32 “[Questo] ‘anthropos’, la cui civiltà già oggi si muove a 12 terawatt,

e che, se il resto del mondo si sviluppa fino al livello di consumo di


energia degli Stati Uniti, andrà verso i 100 TW – un numero
incredibile, se consideriamo che le forze coinvolte nel movimento
delle placche tettoniche non generano piú di 40 TW di energia”
(Latour 2013a: 76). Diverse fonti indicano, in verità, un consumo
globale maggiore, nell’ordine dei 15 TW, e specificano che gli Stati
Uniti, con il 5% della popolazione mondiale, consumano il 26% del
totale di questa energia.
33 Non possiamo qui far altro che raccomandare la lettura delle

argute critiche che Marilyn Strathern ha rivolto all’idea di Latour sulle


“ampie reti” dei moderni, e rimandare alle riflessioni della stessa
autrice sulla scalarità in quanto strumento (e/o effetto) della teoria
antropologica, piuttosto che come una proprietà dei fenomeni
osservabili, per cosí dire, a occhio nudo. Diversi capitoli di O efeito
etnógrafico e outros ensaios, una raccolta recentemente pubblicata
in lingua portoghese (Strathern 2014), trattano di questi temi, cosí
come l’essenziale libro Partial Connections (Strathern 2004).
34 United Nations Permanent Forum on Indigenous Issues, “Who are

indigenous peoples?”:
http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/5session_factsheet1
.pdf.
35 Vedi anche Vidal 2003, e alcune foto eloquenti in
https://catracalivre.com.br/geral/arquitetura/indicacao/a-
desigualdade-social-pelo-mundo-captada-em-6-imagens-aereas/#jp-
carousel-649248.
36 [n.d.t.: Recentemente la Nuova Zelanda ha respinto la richiesta di

asilo climatico presentata da Ioane Teitiota, originario delle Kiribati,


un arcipelago del Pacifico minacciato dall’innalzamento del livello del
mare.]
37 Ringraziamo Alexandre Nodari per i chiarimenti sulla nozione

schmittiana del moderno nomos o partizione della Terra, inaugurata


con l’invasione dell’America e dell’India, e terminata (sempre
secondo Carl Schmitt) con l’ascesa degli Stati Uniti d’America e la
creazione della Lega delle Nazioni. Nodari suggerisce che il nomos
contemporaneo sarebbe qualcosa come la divisione tra gli Stati-
nazione “legittimi” e i rogue states o “Asse del Male” (ai quali
aggiungiamo i “vandali”, i casseurs, i Black Blocs, gli zapatisti, i
popoli in stato di insurrezione ecc.), e che un futuro nomos della
Terra potrebbe emergere dallo scenario della catastrofe ambientale
immaginato da Stengers (vedi piú avanti), in cui uno Stato mondiale,
autorizzato dall’“urgenza” (l’eccezione) di intervenire dove, come e
quando vuole, arriva a esercitare il suo dominio universale.
38 Vedi il concetto di loop (circuito, cambio, ritorno, retroazione)

come costitutivo dell’“essere terreni” della quarta conferenza (Latour


2013a: 95).
39 Progetto che uno degli autori del presente saggio ha definito

altrove la “sufficienza intensiva” (Viveiros de Castro 2011b).


40 Per un’idea del concetto di de-civilizzazione (uncivilisation), vedi il

manifesto del Dark Mountain Project: http://dark-


mountain.net/about/manifesto/.
41 Vedi: http://aspta.org.br/2013/11/3o-encontro-nacional-de-
agricultoras-e-agricultores-experimentadores-termina-celebrando-a-
partilha-e-a-uniao/.
42 Latour 2012 classificherebbe questi esempi come altri casi di

intreccio tra il modo d’esistenza della tecnica (TEC) e altri modi


d’esistenza (RIP, ORG, POL ecc.). A questo non abbiamo niente da
obiettare.
43 Il termine popolare gambiarra è stato proposto da Fernanda Bruno
per designare un concetto-pratica originale (non direttamente come
traduzione dell’espressione di Latour) nel simposio A vida secreta
dos objectos: medialidades, materialidades, temporalidades (1-3
agosto 2012, Museu de Arte Moderna, Rio de Janeiro).
44 [n.d.t.: “Usiamo dunque la sigla [RIP] per indicare la riproduzione

[…], il modo d’esistenza attraverso cui un ente qualunque supera lo


iato della sua ripetizione, definendo cosí, tappa dopo tappa, una
traiettoria singolare, l’insieme che obbedisce a condizioni di felicità
particolarmente esigenti: essere o non essere piú!” (Latour 2012:
101).]
45 La distinzione RIP-TEC dell’Enquête ci sembra segnata insomma

da un certo antropocentrismo dei Moderni, come del resto, e non


potrebbe essere altrimenti, tutta l’ontologia dei Moderni descritta nel
libro, anche nella sua versione pluralizzata e ricostruita da Latour.
Contemplando la tavola dei quindici modi d’esistenza che chiude
l’Enquête, non possiamo non constatare come – per parafrasare un
noto filosofo – gli animali e altri esseri viventi siano “poveri di modi
d’esistenza”, visto che gli umani (e ancora di piú i moderni) appaiono
come eminenti “configuratori di modi d’esistenza”.
46 Stiamo qui seguendo Latour. Ma non c’è bisogno di Schmitt per

sapere che cosa sia un nemico politico.


47 Chi dice che la storia non marci all’indietro? Vedi Walsh 2014 o

l’articolo ancora piú preoccupante di Peeples (2014).


48 Vedi:
http://www.theguardian.com/environment/interactive/2013/nov/20/whi
ch-fossil-fuel-companies-responsible-climate-change-interactive. Per
una lista aggiornata delle 200 principali compagnie statali classificate
in base alle emissioni potenziali di carbonio delle loro riserve di
combustibile fossile dichiarate, si veda:
http://fossilfreeindexes.com/the-carbon-underground-2014/. E anche
il sito della Carbon Tracker Initiative: http://www.carbontracker.org/.
49 Vedi “The world’s top 10 seed companies: who owns Nature?”

(rapporto dell’ETC Group) sul sito GM Watch:


http://www.gmwatch.org/gm-firms/10558-the-world-top-ten-seed-
companies-who-owns-nature.
50 Vedi “Food processing’s top 100”, sul sito Food Processing:

http://www.foodprocessing.com/top100/top-100-2013/.
51 Si veda un riassunto del dibattito, ancora acceso, sulla

dimensione dell’impatto demografico dell’invasione dell’America nel


ben documentato libro-reportage di Charles Mann (2005).
52 Vedi “Extinction crisis continues apace”: http://www.iucn.org/?

4143/Extinction-crisis-continues-apace; vedi anche il già citato libro


di Elizabeth Kolbert (2014) e lo straordinario sito di David Ulansey,
The Current Mass Extinction
(http://www.mysterium.com/extinction.html), che dal 1998 accumula
notizie sull’attuale estinzione di massa.
53 O forse, piú semplicemente, una cosa ancora piú impensabile

della fine del mondo, il crollo di uno Stato, la fine dello Stato, seguita
dal ritorno all’autodeterminazione dei popoli che gli erano
sottomessi? Se ogni documento culturale, come diceva Walter
Benjamin, è allo stesso tempo un documento della barbarie, allora
ciò si applica ugualmente alle grandi opere, ai monumenti e alle
conoscenze delle civiltà mesoamericane e andine.
54 Ecco cosa pensava il grande teorico del nomos della Terra su

questo processo: “La preminenza spirituale era tutta dalla parte degli
europei, e in maniera cosí evidente che il nuovo mondo poté
semplicemente essere ‘preso’” (Schmitt 1998: 151). Sarebbe un’eco
della perversa formulazione hegeliana secondo cui la civiltà
americana “doveva soccombere non appena si approssimasse allo
Spirito”?
55 Vedi Viveiros de Castro 2011b.
Il mondo in sospeso
Volere la guerra contro le guerre future e passate,
l’agonia contro tutte le morti, e la ferita contro tutte
le cicatrici, in nome del divenire e non dell’eterno.
Deleuze e Guattari
Fino a qui, abbiamo evocato tre autori che ci hanno guidato per
buona parte del nostro percorso, ma dobbiamo attirare l’attenzione
su un ultimo nome del tutto essenziale, quello di Isabelle Stengers. È
da qualche anno, perlomeno dopo il suo libro Au temps des
catastrophes. Resister à la barbarie qui vient (Stengers 2009), che
questa pensatrice ha messo in evidenza, cosí come Latour1, la
figura ambigua e complessa di Gaia, personaggio chiave per la
comprensione del significato di questo nostro “tempo delle
catastrofi”. La Gaia di Stengers, tuttavia, non è la stessa entità
evocata da Latour. Innanzitutto è il nome di un evento, l’“intrusione”
nella nostra storia di un tipo di “trascendenza” che non possiamo piú
ignorare: l’orizzonte cataclismico definito dal riscaldamento globale
antropogenico. Gaia è l’evento che mette in pericolo il nostro mondo,
il solo che noi abbiamo, e dunque… (Stengers 2013b: 135). Come
vedremo, è precisamente di fronte a questo “dunque” che bisogna
fermarsi a riflettere; pensare alle conseguenze, strettamente legate
all’estensione politica che dobbiamo dare a questo “noi”, che si
possono trarre da tale dunque.
Gaia è la trascendenza che, in maniera brutalmente implacabile,
risponde alla trascendenza, altrettanto indifferente perché
brutalmente irresponsabile, del Capitalismo. Se l’Antropocene, nel
senso di Chakrabarty o Latour, è il nome di un effetto che riguarda
tutti gli abitanti del pianeta, la Gaia di Stengers2 è il nome di
un’operazione, nel senso di un effetto che, a sua volta, tale effetto
deve suscitare su coloro che lo hanno causato:
Il disordine climatico e l’insieme degli altri processi che
avvelenano la vita sulla Terra e che hanno un’origine
comune in quello che si [on] chiama sviluppo, riguardano
certamente tutti coloro, dai pesci agli uomini, che la abitano.
Ma nominare Gaia è un’operazione che si indirizza a “noi” [i
Moderni], che cerca di suscitare un “noi” al posto di un “si”
[on]. (ivi: 115)
Stengers attira qui l’attenzione sulla Grande Divisione che ha
opposto, nel corso degli ultimi secoli, i “popoli” che vivevano una
relazione onirica, fantasmatica con la Terra, e un “noi” che credeva
di essere un “si” impersonale (in francese on), una Terza Persona
astratta, un punto di vista anonimo da cui si, o meglio, da cui homen
– il pronome indefinito del portoghese arcaico apparentato al
francese on 3 – apprendeva l’essenza reale della natura, e del quale
i Moderni erano gli attenti custodi. “Gaia”, dunque, ci riguarda: prima
di tutto riguarda “noi uomini”, coloro che si sono considerati le teste
pensanti dell’umanità e che si sono dati come missione quella di
civilizzare e modernizzare tutti gli altri popoli del mondo –
ricavandone dei buoni profitti, beninteso. Stengers, in una formula in
cui si incrociano il discorso di Latour e un’affermazione cruciale di
Deleuze e Guattari, sembra dire: è tempo di fare in modo che gli
Umani riconoscano che non sono responsabili dei Terreni, ma che
sono soprattutto responsabili dinanzi ai Terreni. Non c’è
negoziazione possibile senza quest’ammissione preliminare, e non
si troverà un accordo essenziale con Gaia finché non ci si
convincerà che non è possibile alcun accordo con la logica
assolutamente non addomesticabile del capitalismo.
Forse, ancora piú importante di questa prima differenza di
Stengers rispetto alla Gaia di Latour è ciò che viene suggerito dal
sottotitolo del suo libro del 2009: il richiamo che ci ingiunge che da
adesso in poi dovremo fare sempre attenzione a Gaia è, allo stesso
tempo, un promemoria per resistere alla barbarie che viene. Sia il
verbo “resistere” che l’uso al presente della relativa “che viene”
possono essere opposti all’idea di Latour secondo cui ci troviamo di
fronte a una guerra che può condurci alla pace. Gaia, per Stengers,
non è pensata come “ciò che deve unire tutti i popoli della Terra”
(2013b: 117), non è un nome che implica appartenenza e unione,
ma intrusione e malessere. Gaia è l’appello a resistere
all’Antropocene, a imparare a vivere con esso ma contro di esso,
contro noi stessi. Insomma, siamo “noi” il nemico – noi gli Umani.
Come Latour aveva già osservato nelle Gifford Lectures,
l’Antropocene segna in verità la fine dell’Umano e l’inizio di un
dovere, quello che Stengers chiama “sognare altri sogni” (ivi: 125):
Fino a quando – che sia per promuoverlo o per decostruirlo
– saremo infestati dal modello ideale di un sapere
razionale, oggettivo, suscettibile di mettere d’accordo tutti i
popoli della Terra, resteremo incapaci di stabilire con questi
altri popoli dei rapporti degni di tale nome. (ivi: 124)
Osserviamo che, per Stengers, l’uso di “Gaia” si è rivelato un
importante antidoto al concetto di Antropocene, posizione che la
avvicina ad autrici come Donna Haraway ed Elizabeth Povinelli,
perché il concetto di Antropocene porta con sé il pericolo di far
passare di contrabbando, nel suo significato meramente denotativo
di un’epoca geologica – di cui nessuna di queste autrici mette in
dubbio la minacciante realtà –, una metafisica antropocentrica
(Haraway) o anche erroneamente biocentrica (Povinelli), nella
misura in cui attribuisce all’Homo sapiens un potere “destinale” sulla
storia del pianeta – poco importa (o tanto meglio?) che si tratti di un
potere distruttivo –, facendo astrazione dagli interessi che legano la
nostra specie a innumerevoli altre e che si sviluppano anche altrove,
in reti, luoghi, scale e dimensioni molto lontane dalla nostra
giurisdizione epistemologica e immaginazione tecnologica. In questo
senso, la Gaia di Stengers e i concetti di “staying with the trouble” o
di “becoming with” di Haraway (2013), cosí come le “geontologie” di
Povinelli (2013) ispirate ai mondi aborigeni australiani, possono
essere definite trasformazioni innovatrici dello schema mitico del
“mondo senza umani”: nel senso che il mondo, in quanto multiverso,
è esso stesso attraversato da molteplici ontologie non umane e
implicato in un divenire che esige da noi il fatto di imparare a
seguirlo; e nel senso che gli Umani devono fare spazio a coloro che
Latour ha chiamato i Terreni, ovvero a tutti gli esistenti come parti del
mondo, a quegli innumerevoli punti di vista il cui intreccio costituisce
il mondo e che sono, in quanto tali (ammesso che sia possibile
pensarli “in quanto tali”), delle espressioni monadologiche
discordanti di un Mondo che non ha antonimo né antagonista,
poiché non si costituisce come un Oggetto in attesa di un Soggetto
che gli conferisca unità sintetica da una prospettiva trascendente. Il
mondo “senza l’Uomo” di un Antropocene vissuto nel modo della
resistenza corrisponderebbe cosí al mondo “composto di persone”
delle cosmogonie amerindie: la trascendenza definitiva di Gaia
diviene indistinguibile dall’immanenza antropogeomorfica originaria
postulata dai “popoli di Pachamama”.
§ Pachamama, la “Madre del Mondo-Tempo”, è una divinità
che, almeno in origine, non possedeva attributi per noi
tipicamente “materni”, come d’altronde nessuna delle
divinità terrene delle culture andine e mesoamericane. È
stata addomesticata dopo la Conquista attraverso
un’assimilazione alla Vergine Maria; con la New Age, la sua
immagine di “Buona Madre Terra” si è consolidata, non
senza una certa perplessità e/o adesione metaculturale (un
“pachamamismo strategico”?) da parte degli indigeni degli
altipiani del continente. La sorte della nozione,
nell’immaginario politico ufficiale degli attuali paesi andini, è
stata ampiamente discussa. (Sull’argomento, vedi il libro
etnograficamente ricchissimo, ma dalle intenzioni
“demistificanti” un po’ scomode, di Galinier e Molinié 2006).
Malgrado tutti gli equivoci, una delle virtú di Pachamama
rispetto a Gaia – ma ammettiamo che è insufficiente per
spezzare una lancia in suo favore – è che, perlomeno, non
parla greco. Ancora un piccolo sforzo necessario per fare
spazio agli altri… Non è certamente un caso che tutto il
vocabolario messo in campo dall’attuale crisi del pianeta
provenga, come d’altronde le ultime due parole (crisi e
pianeta), dalla nostra antica lingua mitica: Antropocene,
Gaia, catastrofe, cataclisma, apocalisse… (Bruno Latour va
qui ancora piú a fondo con la sua trinità demos, nomos,
theos). Siamo in attesa del giorno in cui il riscaldamento
globale, avendo raggiunto il livello incendiario di +8°C, sarà
chiamato ekpyrosis, preferendo questa parola al buon
vecchio termine latino “conflagrazione”…
In totale divergenza con gli “eliminativismi” fisicalisti o con i
dualismi “spiritualisti”, ma anche, e perché no, con la cosiddetta
dialettica “correlazionista”, la relazione tra l’umanità e il mondo
comincia cosí a poter essere pensata come la relazione che lega il
singolo lato del nastro di Möbius a se stesso; una figura non
orientabile in cui l’inseparabilità del pensiero e dell’essere,
dell’animato e dell’inanimato, della cultura e della natura non è simile
all’inseparabilità logica o formale delle due facce della stessa
medaglia (per inciso, di cosa sarebbe fatta questa medaglia?), ma è
al contrario consustanzialità, unicità completa e reale, come appunto
nel caso della superficie del nastro di Möbius4. Umanità e mondo
sono letteralmente dalla stessa parte; la distinzione tra i due “termini”
è arbitraria e impalpabile: se si comincia il percorso partendo
dall’umanità (dal pensiero, dalla cultura, dal linguaggio, dal “dentro”),
si arriva necessariamente al mondo (all’essere, alla materia, alla
natura, al “Grande Fuori”) senza incrociare nessuna frontiera, e
viceversa. La formula magica “Pluralismo = Monismo” ricercata da
Deleuze e Guattari (2006: 56), quando viene pronunciata da uno
stregone alla Tarde o da uno sciamano amerindio suona anche
come “Panpsichismo = Materialismo”5.
Coloro che si trovano dall’“altra parte”, che si vogliono al di fuori
della superficie unica umanità-mondo e si vedono investiti dalla
missione di tagliare questo nastro di Möbius con le cesoie
moderniste della “vocazione denaturalizzante dell’umanità” – sono
proprio loro i nemici. Il problema, lo abbiamo già notato, è che questi
nemici si trovano, perlomeno rispetto alle vecchie modalità di
organizzazione dello spettro politico, sia a sinistra che a destra.
Vediamo oggi proliferare – ma, ancora una volta, è sempre stato
cosí – le accuse reciproche lanciate da coloro che pretendono di
essere gli eredi del classico sogno politico che definisce la sinistra:
“un altro mondo è possibile”. Non ci priveremo qui del piacere di
unirci a questa giostra di accuse. Se questo saggio vuole essere,
prima di tutto, una descrizione iniziale di quello che noi consideriamo
come il gigantesco lavoro dell’immaginazione contemporanea per
produrre un pensiero e una mitologia adeguata al nostro tempo, ciò
non ci impedisce – e, in maniera piú evidente, non ci ha impedito –
di prendere partito per alcune di queste versioni.
Uno dei dibattiti piú appassionanti attualmente in corso ruota
intorno alla velocità della storia e alla sua variazione. Si tratta della
divergenza tra la corrente filosofica (metafisica, politica, estetica) che
propone un’economia politica dell’accelerazione e i partigiani di
un’ecologia politica del rallentamento (ralentissement), su cui
Isabelle Stengers insiste molto (2009, 2013b), e che si sviluppa con
temi comuni a Latour quali l’“esitazione”, l’“attenzione”, la
“diplomazia” e la necessità di “fare spazio agli altri” [faire la place
aux autres]6.
Nel primo Manifesto accelerazionista citato in precedenza7, gli
autori fanno un’osservazione, a nostro avviso, di grande importanza:
Crediamo che la principale frattura della sinistra
contemporanea sia quella che si è prodotta tra coloro che
sono legati a una politica folk fatta di localismo, azione
diretta e orizzontalità intransigente da un lato, e coloro che,
al contrario, articolano ciò che possiamo chiamare una
politica accelerazionista, che si sente a proprio agio [at
ease with] nell’atmosfera di una Modernità definita
dall’astrazione, dalla complessità, dalla globalità e dalla
tecnologia. (Williams e Srnicek 2013: 3.1)
Per quanto ci riguarda, pensiamo che questa diagnosi sia, grosso
modo, corretta: è proprio questa, di fatto, la frattura piú importante
della “sinistra”. Quello che consideriamo per niente corretto è, sia
chiaro, l’ovvio giudizio di valore contenuto nel paragrafo e sviluppato
nel Manifesto, secondo cui la prima opzione – tacciata di essere, in
senso peggiorativo, una “politica folk del localismo” ecc. – è
retrograda e conservazionista, mentre la seconda si configurerebbe
come la sola capace di condurci in un paradiso postindustriale in cui
i fusi non solo lavoreranno da soli, ma anche senza avere
all’apparenza nessun impatto concreto; dopotutto, l’epoca si
definisce in base all’astrazione. La Tecnologia provvederà.
Come abbiamo già detto, ci sembra che sia esattamente questa
“politica accelerazionista”, ispirata in modo esplicito all’escatologia
eurocentrica del Progresso, a mostrarsi nostalgica di un passato
razionalista, imperialista e trionfalista – “la sinistra deve connettersi
nuovamente con le sue radici illuministe” (Srnicek, Williams e
Avanessian 2014) –, come pure ci sembra che la persistenza della
sua fede nelle virtú liberatrici dell’“automazione” e del progresso
tecnico in generale richieda un gigantesco “punto cieco” situato
proprio al centro della sua visione futurologica: precisamente,
l’intrusione di Gaia.
I manifesti insistono sulle virtú dell’accelerazione tecnologica
senza proferire parola sulle condizioni materiali – energetiche,
ambientali, geo-politiche ecc. – di un tale processo che, pensano gli
autori, condurrebbe “automaticamente” alla riduzione della giornata
lavorativa (anche in Bangladesh? quando?), all’aumento del tempo
libero (la società dello spettacolo esce allo scoperto!)8, al reddito
universale ecc.:
Contrariamente a chi, nell’intero spettro politico, si diletta
fantasiosamente con soluzioni locali, di piccola scala, alle
nostre molteplici crisi, [pensiamo che la situazione] richieda
di sottomettere il nostro mondo complesso, astratto e
multiscalare a una re-ingegnerizzazione, senza cercare di
semplificarlo attraverso un qualche schema precostituito. Al
posto delle soluzioni politiche folk, dovremmo lottare per
l’automazione integrale del lavoro, per la riduzione del
numero dei giorni lavorativi, per il reddito minimo
universale9. (ivi)
Riguardo all’altra accelerazione, quella relativa ai processi di
superamento dei valori critici dei parametri ambientali – quando
raggiungeremo i +4°C, che forse saranno +6°C o +8°C? Quando
esauriremo le scorte di pesci? Quando la foresta amazzonica si
trasformerà in un’arida savana facilmente infiammabile? Quanti
milioni di rifugiati climatici invaderanno la Fortezza Europa?10 –,
essa viene menzionata in modo frivolo, per non parlare di puro e
semplice negazionismo: “Oggi è senso comune presumere che il
cambiamento climatico e i suoi effetti devasteranno l’ambiente…”
(ivi; corsivo nostro).
Come direbbe Stengers, “i nostri sogni di liberazione ci
contrappongono gli uni agli altri” (2013b: 124). In effetti… È curioso
osservare come gli accelerazionisti, riguardo alla necessità di una
tensione esplosiva del capitalismo verso una maggiore
deterritorializzazione e un’assoluta decodifica dei flussi, sostengano
di aver trovato la loro principale fonte di ispirazione in un passaggio
dell’Anti-Edipo, pur avendo optato al tempo stesso per una
concezione inequivocabilmente maggiore e maggioritaria della
politica, dell’economia e, soprattutto, dei destinatari virtuali del loro
messaggio. I loro discorsi non mobilitano, in generale, nessuna
categoria sociopolitica che non sia “il capitalismo”, “il lavoratore”, “la
civiltà globale”, “l’umanità”, “le masse”. L’esistenza e la resistenza di
altri collettivi fuori dal circuito narcisistico del “Noi” viene ignorata (o
forse, relegata nella categoria del “folk”); la ragione, senza dubbio,
risiede nel fatto che, agli occhi degli accelerazionisti, l’alterità
sarebbe scomparsa dalla superficie della Terra, e che tali popoli non
esisterebbero piú in quanto poli di articolazione di altri “Noi”; o forse,
perché ciò che resta di loro perirà comunque nelle fiamme della
conflagrazione redentrice che “ci” precipiterà verso il millennio
postcapitalista. Con la loro politica avanguardista, un po’ stile
illuminati, di “esclusione non-esclusiva”, propongono quanto segue:
Dobbiamo lasciarci alle spalle l’esagerata valorizzazione
della democrazia-in-quanto-processo. La feticizzazione
dell’apertura, dell’orizzontalità e dell’inclusione di una
buona parte della sinistra “radicale” odierna prepara il
terreno all’inefficacia politica. Il segreto, la verticalità e
l’esclusione hanno anch’essi il loro spazio nell’azione
politica effettiva (sebbene, chiaramente, questo spazio non
sia esclusivo)11. (Williams e Srnicek 2013: 3.13)
Gli autori dei Manifesti accelerazionisti non solo tacciono a
proposito di tutti gli innumerevoli collettivi-soggetto che restano altri –
i popoli per cui la sussunzione reale universale non si è ancora
trasformata in sottomissione morale incondizionata –, ma danno
anche prova di un oblio, tutto sommato completamente umanista,
delle innumerevoli entità, lignaggi e società non umane che
costituiscono il pianeta. Esistono per caso animali accelerazionisti, al
di fuori di quelli che aspettano la propria morte nei macelli o nelle
fabbriche di latte e uova? Crediamo proprio di no. Al contrario,
constatiamo che vi è abbondanza di macchine folk in questo vasto
mondo, lente ma molto efficaci, dal funzionamento interamente
“locale” (anche la famosa macchina universale di Turing-von
Neumann ha sempre bisogno di una “realizzazione” materiale, e
dunque locale, per funzionare). Non abbiamo il minimo dubbio che
questo tipo di macchine non siano neanche lontanamente sufficienti
a sostenere i giganteschi processi sociotecnici in corso. La
questione è sapere se non siano, per imperativi di altro ordine –
quelli che si possono riassumere sotto il nome di Gaia – sempre piú
necessarie, indispensabili, sempre piú nel nostro futuro piuttosto che
nel nostro passato12.
Gli accelerazionisti, insomma, sentendosi a modo loro piú furbi,
intendono trovare un accordo con il capitalismo nella speranza di
trascenderlo, cosí da sfuggire al suo potere di cattura propriamente
spirituale (incantamento, vampirismo, zombificazione)13. Il problema,
se si segue l’argomentazione di Stengers, è che non ha senso
trovare un accordo con il capitalismo: si tratta solo di combatterlo.
Gaia, invece – che è un concatenamento materiale indifferente
piuttosto che un potere spirituale maligno – è qualcosa contro cui
non ha alcun senso lottare, ma con cui occorre trovare una
composizione, perché la sua trascendenza intrusiva ha reso
derisorie, d’ora in avanti, le versioni epiche o eroiche della storia
umana, obbligandoci a pensare una situazione inedita per la
modernità, la mancanza di scelta:
[E] forse il primo passo consiste innanzitutto
nell’abbandonare senza nostalgia l’eredità di un XIX secolo
abbagliato dal progresso delle scienze e delle tecniche,
rompendo il legame stabilito tra emancipazione e ciò che
chiamerei una versione “epica” del materialismo: una
versione che tende a sostituire alla favola dell’Uomo “creato
per dominare la natura” l’epopea di una conquista della
natura stessa attraverso il lavoro umano. Definizione
concettuale seducente, che implica però la scommessa in
una natura “stabile”, disponibile a tale conquista. (Stengers
2009: 72)
L’aspirazione sempre legittima (o no?) all’“emancipazione” deve
cosí essere radicalmente svincolata dal machismo antropologico
implicato nell’idea della conquista epica della natura e dai significati
che il XIX secolo ha attribuito alla nozione di “progresso”, significati
che gli accelerazionisti, da incorreggibili passatisti, vogliono
preservare. Pensando il mondo come trascendentalmente
eterogeneo all’Uomo, i Moderni lo hanno empiricamente pensato
come “gratuito”, come cosa infinitamente appropriabile e
inesauribile. Il costo materiale della libertà non gli è affatto passato
per la testa – forse pensavano che bastasse tagliare quella di
qualche capitalista… Come osserva Chakrabarty (2009: 208):
Nessuna discussione sulla libertà, dal periodo dei Lumi fino
a oggi, ha tenuto conto della capacità di intervento
geologico che gli esseri umani acquisivano nel momento in
cui conquistavano la loro libertà – visto che i due processi
erano intimamente legati. I filosofi della libertà erano
principalmente, e in modo del tutto comprensibile, ansiosi di
sapere come gli esseri umani potessero sfuggire
all’ingiustizia, all’oppressione, all’ineguaglianza e addirittura
all’uniformità che imponevano loro altri esseri umani o i
sistemi creati dagli uomini. […] Il periodo che ho in mente,
dal 1750 a oggi, è stato anche il periodo in cui gli esseri
umani sono passati dall’uso del legno e di altri combustibili
rinnovabili a quello, impiegato su vasta scala, dei
combustibili fossili – all’inizio il carbone, e in seguito il
petrolio e il gas. L’edificio delle libertà moderne si appoggia
su un consumo crescente di combustibili fossili. La maggior
parte delle nostre libertà sono dipese, fino a oggi, da un uso
intensivo di energia.
Ecco perché il nome di Gaia è una provocazione antimodernista,
un modo di mettere a nudo la posizione “quasi negazionista”
(Stengers 2013a: 177) degli araldi dell’“accelerazione di sinistra” –
una posizione che, curiosamente definita da Badiou come
“affermazionista”, teme che l’intrusione di Gaia disturbi il sogno della
perfetta libertà, quella libertà che risulta da un dominio prometeico
capace di condurci a uno stato ontologicamente disincarnato, a una
trasfigurazione tecno-angelica. È il caso di domandarci chi è che stia
fumando oppio in questi ultimi tempi.
Infine, passiamo rapidamente alla questione dell’urgenza, nel
senso della rapidità che la situazione impone all’azione nel presente,
considerato quanto già avvenuto nel passato. Abbiamo visto che
Stengers esitava, giustamente, di fronte alle conseguenze (e
dunque…) che si dovevano trarre dal fatto che Gaia fosse una
minaccia urgente e globale. Il senso dell’urgenza si lascia facilmente
rovesciare, secondo Stengers, in una macropolitica di unificazione
prematura e autoritaria del mondo e dell’anthropos. L’autrice teme, in
particolare, la possibilità che le scienze siano nuovamente mobilitate
per legittimare una specie di “ecologia di guerra”, uno stato
d’eccezione decretato da una qualche istanza sovranazionale,
chiaramente sotto il controllo dell’establishment geopolitico, che
aggancerà con ancor piú fermezza la ricerca scientifica
contemporanea alla macchina divoratrice d’energia che muove
l’economia planetaria – al di là o al di sotto, sia detto di passaggio,
dei sogni di universalizzazione liberatrice promossa dall’avvento di
un’“economia immateriale”. L’appello all’urgenza potrebbe
semplicemente mascherare una grandiosa espansione del vangelo
diabolico dello “sviluppo” (ora verde, sostenibile, a investimento
elevato di capitale cognitivo – oltre che materiale, chiaramente)14,
con un Mercato sostenuto dai decreti e dagli eserciti di uno Stato
mondiale in grado di imporre un silenzio politico ancora piú assoluto
su tutti coloro – popoli, persone, paesi – che soffriranno le
“sfortunate ma necessarie conseguenze” delle decisioni prese in
nome dell’urgenza. Stengers avvisa: “È evidentemente legittimo
avvertire l’urgenza, ma il pericolo è quello di lasciare da parte, in
nome di essa, la questione di cosa accadrà quando tale urgenza
sarà infine riconosciuta” (2013b: 141). Ecco perché insiste tanto, e a
ragione, su quel “rallentamento cosmopolitico” del processo politico
che ci sembra essere il corrispettivo – o, per meglio dire, la
condizione – di un non meno necessario (e urgente!) rallentamento
dell’economia mondiale; detto meglio, di una redistribuzione radicale
dei tassi di “crescita” legittimamente (o meno) perseguiti dalle
differenti economie nazionali, di un nuovo e profondo orientamento
del modello di evoluzione tecnologica delle “forze produttive” e di
un’ampia apertura dialogica, una conversazione letteralmente
diplomatica con i popoli umani e non umani che attendono con ansia
l’arrivo delle implacabili conseguenze dell’irresponsabilità dei
Moderni. Questo ralentissement, questo rallentamento
cosmopolitico, sostiene Stengers, “appartiene allo stesso mondo che
ha inventato la politica come affare che riguarda i soli esseri umani”
– abbiamo già visto che questo non è il caso di numerosi altri mondi
“umani” svelati dall’antropologia – e dunque “risponde a un problema
che è nostro: le conseguenze atroci che il compimento di Gaia
potrebbe scatenare, nel caso in cui tale risposta venga prodotta nel
modo dell’urgenza” (ibid.; corsivo nostro).
Riconosciamo che, in qualche modo, gli Umani (nel senso di
Latour) hanno già perso la guerra; il loro mondo è già finito. I Terreni,
al contrario, non possono perdere la guerra – nei due sensi,
imperativo e constativo, di questo “non potere”. Resta da vedere
quanti esseri umani (nel senso di Linneo) resteranno nel campo
terrestre, nei decenni a venire.
Credere al mondo
Un topos che si ripete con curiosa frequenza nei discorsi sulla crisi
ambientale, sia tra coloro che riflettono sui possibili percorsi per
affrontare la catastrofe che è già tra noi, sia tra quelli che credono
nell’entusiasmo imminente di un nuovo stadio ontologico (gli
accelerazionisti di sinistra e di destra), sia infine tra gli adepti del
business as usual e del “drill, baby, drill”, è che “la storia non
cammina a ritroso”, che “non si può tornare all’Età della Pietra” (o al
Medio Evo, al tempo di Adamo ecc.). Come mai in tanti, da una
parte e dall’altra (e dall’altra ancora), sembrano essere d’accordo su
questo punto: “non si può tornare indietro”? Poiché qui non si sta
parlando della palpitante questione fisica che riguarda il senso della
“freccia del tempo”, dato che evidentemente non possiamo tornare
indietro cronologicamente – perlomeno secondo la vulgata
ontologica in vigore, che non abbiamo motivo di confutare in questo
contesto –, occorre domandarsi che cosa ci sia di non evidente in
questa frase cosí spesso ripetuta: cos’è che la rende cosí attraente
o, piuttosto, cosa ci sarebbe di cosí scioccante nel mettere in dubbio
la sua pertinenza?
Avremmo due cose da dire in proposito, per terminare questa
incursione attraverso le mitologie attuali sulla fine del mondo e
dell’umanità. In primo luogo, che l’incapacità di elaborare il lutto di
ciò che è già morto è terribile; piú precisamente, mortale. Ogni
giorno che passa, vediamo confermarsi l’impressione che stiamo già
vivendo, e che vivremo sempre di piú, in un mondo radicalmente
diminuito. Come sostenevamo in precedenza, è molto probabile che
la riduzione di scala delle nostre pretese e ambizioni presto non sarà
piú solamente un’opzione.
In secondo luogo, ciò non significa che siamo qui semplicemente
per constatare che il mondo è già finito, sta finendo o finirà. Ci sono
numerosi mondi nel Mondo15. Prima si diceva che abbiamo molto da
imparare dai popoli minori che resistono in un mondo impoverito,
che non è nemmeno il loro. Ricordiamoci ancora una volta del film di
Lars von Trier Melancholia e della fragilità e trasparenza della
piccola capanna della “zietta spezza-acciaio”. Niente sembra piú
inutile e piú patetico di questo rifugio puramente formale, questa
brutta copia del tipi indigeno, e del piccolo rituale che vi si svolge per
qualche secondo appena. Tuttavia, quel che accade al suo interno è
forse molto piú di un “mero” rituale inutile e disperato: si tratta di un
magistrale bricolage, di una soluzione di emergenza, di un concetto-
oggetto selvaggio che esprime una percezione acuta della natura
essenzialmente tecnica, tecnologica, del gesto rituale efficace – la
capanna è la sola cosa, in quel momento, in grado di trasformare lo
shock al quale non si può sfuggire (il dunque… di Stengers) in un
evento, nel senso che Deleuze e Guattari (1996: 153) danno a
questo concetto: “la parte che in tutto ciò che avviene sfugge alla
sua propria attualizzazione”. Qui, in questa capanna quasi
puramente virtuale, l’interno e l’esterno divengono indistinguibili e,
come nella macchina del tempo dell’omonimo libro di H.G. Wells
(ancora un grande mito sugli uomini senza mondo del futuro),
passato, presente e futuro divengono interscambiabili. In altre
parole, quello che accade nella capanna, il passaggio, è
un’operazione di decelerazione, di rallentamento, che permette di far
emergere una dimensione paradossale del tempo, di suscitare un
cambiamento nell’ordine del senso “tale che il tempo si interrompe
per riprendere su un altro piano” (Zourabichvili 2012). Tempo morto
(Deleuze e Guattari 1996: 155), come quello del Cavallo di Torino, in
cui nulla accade, ma attraverso cui passa il carro degli tzigani, su un
piano del tutto altro (Crisippo: “Se tu dici un carro, un carro passa
quindi per la tua bocca” – Deleuze 2005: 16): il piano dell’evento e
del divenire.
Cosí come un giorno abbiamo avuto orrore del vuoto, oggi
proviamo ripugnanza a pensare il rallentamento, la regressione, la
ritirata16, la limitazione, la frenata, la decrescita, la discesa – la
sufficienza. Tutto ciò che rimanda a uno di questi movimenti
indirizzati verso una sufficienza intensiva del mondo (piuttosto che a
un superamento epico dei “limiti” che vada alla ricerca di un
ipermondo) è tacciato molto rapidamente di localismo ingenuo,
primitivismo, irrazionalismo, cattiva coscienza, sentimento di colpa o,
addirittura, di dissimulare tendenze fasciste17. A causa di tutte le
forme assunte oggi dal pensiero dominante tra “noi”, solo una
direzione è pensabile e desiderabile, quella che conduce dal
“negativo” al “positivo”: dal meno al piú, dal possesso di pochi alla
proprietà smisurata, dalla “tecnica di sussistenza” alla “tecnologia di
punta”, dal nomade paleolitico al cittadino cosmopolita moderno,
dall’indio selvaggio al lavoratore civilizzato (Danowski 2012b). Cosí,
quando alcune comunità contadine “in via di modernizzazione”
decidono di divenire nuovamente indigene, dimostrando davanti a un
giudice la loro continuità storica con i popoli nativi ufficialmente
estinti, come stanno facendo molte popolazioni rurali in Brasile dopo
la promulgazione della Costituzione del 1988 – che ha concesso
diritti collettivi di possesso della terra agli indios e ai discendenti
degli schiavi insediati nelle campagne –, la reazione scandalizzata e
furibonda delle classi dominanti è stata uno spettacolo imperdibile.
Purtroppo, non si potrà ridere ancora a lungo di coloro che
continuano a utilizzare la frusta; la collera, sommata all’avidità di chi
ha bisogno di cancellare l’alterità, si sta traducendo in un’offensiva
concertata dai grandi proprietari terrieri – e dai loro partner, clienti e
padroni – contro gli indios e gli altri popoli tradizionali del paese,
attraverso vie legali e illegali, legislative e criminali.
Accade cosí che l’unica possibilità (e desiderio) per un individuo o
per una comunità sia quello di smettere di essere indio; è impossibile
(e ripugnante) divenire nuovamente indio (Viveiros de Castro 2006):
come può qualcuno desiderare il passato come futuro? Ebbene,
forse lo scandalo ha la sua ragion d’essere: forse è impossibile
ridivenire storicamente indio; ma è del tutto possibile, ed è ciò che
sta effettivamente accadendo, un divenire-indio, locale e globale,
particolare e generale, un incessante ridivenire-indio che sta
prendendo d’assalto importanti settori della “popolazione” brasiliana
in un modo completamente inaspettato. È uno degli eventi politici piú
significativi di cui siamo testimoni nel Brasile odierno e sta
contaminando, un po’ alla volta, un numero sempre maggiore di
popoli brasiliani, oltre a quelli indigeni. Il Brasile è un gigantesco
Aldeia Maracanã18; qui, tutti sono indios, eccetto chi non lo è. E tutti
noi sappiamo bene chi è indio e chi non lo è, e dove si trova19.
È in questo senso, infine, che gli indios, il “popolo di Pachamama”
per riprendere il tono delicatamente ironico di Latour, non sono gli
unici Terreni, ma hanno senza il minimo dubbio il pieno diritto di
condividere questo titolo. I popoli autoctoni del continente americano
– i collettivi di esseri umani e non umani la cui storia risale a millenni
prima dello scontro con il pianeta Merce – non sono che una piccola
parte della Resistenza Terrena contemporanea, un ampio
movimento clandestino che comincia appena a essere visibile sul
pianeta invaso dai Moderni: in Africa, in Oceania, in Mongolia, nei
vicoli, nei sotterranei e nelle segrete della Fortezza Europa. Non
sono realisticamente in grado di prendere l’iniziativa per nessun
combattimento finale, per nessun Armageddon cosmopolitico; e
sarebbe ridicolo immaginarli come il seme di una nuova
Maggioranza. Soprattutto, non dobbiamo sperare che possano
accorrere a salvarci, a redimere o a giustificare gli “Umani” che li
perseguitano implacabilmente da cinque secoli. Stanchi di una storia
fatta di perfidi e continui tradimenti, forse non sono molto disposti a
“negoziare” nessuna pace cosmopolitica, e ci manderanno
meritatamente al diavolo. Tuttavia, oltre a restare una componente
cruciale della megacultura demotica delle tre Americhe, e a essere
perciò capaci di generare linee di fuga potenti, inattese e di impatto
mondiale, una cosa è certa: i collettivi amerindi, con le loro
popolazioni comparativamente modeste e le loro tecnologie
relativamente semplici, ma aperte a concatenamenti sincretici ad
alta intensità, sono un’“immagine dell’avvenire” (Krøijer 2010) e non
una sopravvivenza del passato. Maestri del bricolage tecno-
primitivista e della metamorfosi politico-metafisica, sono in verità una
delle possibili chance per la sopravvivenza del futuro20.
Parlare della fine del mondo non significa parlare della necessità
di immaginare un nuovo mondo al posto di quello presente, ma un
nuovo popolo; il popolo che manca. Un popolo che crede nel mondo
e che lo dovrà creare con ciò che gli lasciamo del mondo. E
concludiamo con Gilles Deleuze, questo nipote uterino di Oswald de
Andrade:
Credere nel mondo è ciò che piú ci manca: abbiamo
completamente smarrito il mondo, ne siamo stati
spossessati. Credere nel mondo vuole anche dire suscitare
eventi, per piccoli che siano, che sfuggono al controllo,
oppure dare vita a nuovi spazi-tempo, anche di superficie e
volume ridotti. […] La capacità di resistenza o, al contrario,
la sottomissione a un controllo si giudicano a livello di
ciascun tentativo. Occorrono al tempo stesso creazione e
popolo21.
Note
1 Da quando, salvo errori, Latour ha scritto “An attempt at a
‘compositionist manifesto’” (Latour 2010).
2 Ma anche la Gaia di Latour – in quanto theos del nuovo

concatenamento cosmologico sotto la cui bandiera il popolo che


manca deve collocarsi nella sua guerra contro gli Umani – può
essere considerata un’“operazione”.
3 Vedi Lopes 2003.
4 Qui estrapoliamo l’argomento a partire da una breve allusione di

Latour 2012: 131.


5 Anche quando viene riletta da qualche filosofo analitico

eccentricamente innovatore come Galen Strawson (per es. Strawson


et al. 2006), la cui solida difesa della tesi panpsichista come
corollario necessario del “realismo fisicalista” sta dando molto filo da
torcere a diversi maestri del materialismo, per il divertimento di
quegli antropologi che da anni tentano di far prendere sul serio alla
tradizione filosofica egemonica – perché li recuperi dalla discarica
della storia della filosofia – l’animismo e il panpsichismo,
accettandoli come posizioni metafisiche sempre piú cariche di futuro.
6 Questi temi, in particolare quello dell’esitazione, avvicinano i due
filosofi a un’antropologa come Marilyn Strathern. Essi configurano
ciò che potremmo chiamare il correlato etico-affettivo dell’operazione
di “delega ontologica”, nel senso preso in prestito da Gildas Salmon
(2013), che lo ha esposto in un brillante intervento al seminario di
Cérisy Métaphysiques comparées.
7 Diciamo “primo” perché esiste una nuova versione del manifesto

che riprende gli stessi punti: Srnicek, Williams e Avanessian 2014.


8 Sul “modo di produzione cinematico”, vedi Beller 2006.
9 Contro le soluzioni improvvisate [gambiarras] del pensatore

selvaggio, che opera con ciò che ha a portata di mano, dando


instancabilmente un nuovo significato al mondo all’interno dei limiti –
e a partire dai limiti – del mondo realmente esistente, l’ingegnere
politico accelerazionista (che difficilmente esiterà di fronte alle
mirabolanti promesse della geoingegneria propriamente detta)
pretende cosí di creare il mondo ideale grazie al potere razionale del
concetto. Si vede dunque chiaramente che cosa sia in gioco in
questo confronto (Cfr. Lévi-Strauss 1976).
10 Notate che non ci domandiamo se queste cose stiano per

accadere, poiché stanno già accadendo. Ci domandiamo solo


quando diventeranno cosí evidenti da far in modo che i manifesti
futurologici del futuro diventino, come dire, un po’ piú attenti al loro
presente.
11 L’ammissione disillusa del carattere “feticista” delle libertà

democratiche suggerisce che la loro sospensione è vista come la


condizione necessaria a un’“azione politica” che permetterà all’Homo
sapiens di espandersi “al di là dei limiti della Terra e delle nostre
immediate forme corporee” (sic!). L’impressione è che gli autori
nascondano malamente il loro terrore metafisico di fronte alla
situazione terrestre e mortale della specie sotto un manto di
ottimismo autoritario, quasi isterico.
12 Si veda il recente libro di Philippe Bihouix per una ben

argomentata critica dell’idea ricorrente secondo cui una sempre


maggiore sofisticatezza della tecnologia “di punta” (“l’alta
tecnologia”) ci salverebbe dalla crisi. L’autore, al contrario, propone
la tesi “iconoclasta” secondo cui abbiamo urgentemente bisogno di
orientarci “verso una società […] basata sulle basse tecnologie,
senza dubbio piú rigide e basilari, forse un po’ meno efficienti, ma
nitidamente piú economiche e con risorse controllabili localmente”
(Bihoiux 2014: 10). Il che ci ricorda la frase di Oswald de Andrade
sull’Antropofagia come “l’unico sistema in grado di resistere quando
nel mondo finirà l’inchiostro per scrivere”.
13 Sulla “stregoneria capitalista”, vedi Pignarre e Stengers 2007.
14 L’utilizzo crescente delle “energie rinnovabili” o non inquinanti –

eolica, solare, delle maree, e le fonti ben piú controverse come


quella idroelettrica, ottenuta da dighe che bloccano interi corsi fluviali
e che implicano una deforestazione su vasta scala e lo spostamento
delle popolazioni, la conversione delle terre coltivabili per la
produzione di biocombustibili e, chiaramente, il nucleare – si è
mostrato sfortunatamente, ma in modo prevedibile, piú un
supplemento che un sostituto all’uso di combustibili fossili da effetto
serra. La fratturazione idraulica e la perforazione in acque profonde
(presto anche nell’Artico) avanzano a grandi passi e si diffondono su
tutto il pianeta nel momento stesso in cui vengono costruiti ambiziosi
dispositivi per la produzione di energia solare ed eolica. E pur
essendo molto improbabile che i progetti di geoingegneria oggi
concepiti funzionino – nel senso di stabilizzare il sistema climatico –,
e soprattutto che possano funzionare senza causare enormi danni
collaterali, l’idea in sé (poiché questi progetti si trovano ancora allo
stadio di “piano B”, almeno a livello di accordi internazionali)
contribuisce a fornire argomenti affinché venga mantenuto l’attuale
tasso di emissioni di CO2. Vedi Tanuro 2016.
15 Cfr. Gaston 2013: 132: “Mettendo in guardia contro la tentazione

di trattare questo mondo di coabitazione come un’unità semplice o


una perdita di differenza, Derrida insiste sul fatto che non si può
realmente affermare ‘che il mondo è una sola e medesima cosa’ per
due esseri umani, tanto meno per gli animali e gli esseri umani. […]
All’interno del mondo della coabitazione, dirà Derrida, c’è sempre piú
di un mondo”.
16 Su una ritirata molto reale, vedi Plumer 2014.
17 La geniale lezione di Winnicott sulla “good enough mother”, la

madre buona o abbastanza buona per creare un figlio normale (se


fosse “troppo buona”, il figlio non sarebbe sufficientemente normale),
sembra non essere giunta alle orecchie di quelli che si preoccupano
del tipo di mondo che vogliamo e possiamo vivere. Sull’idea di una
“sufficienza intensiva”, vedi il testo già citato di Viveiros de Castro
2011b e anche Anne Ryan 2009.
18 [n.d.t.: Aldeia Maracanã (Villaggio Maracanã) è il nome con cui è

noto un edificio pubblico vicino all’omonimo stadio di Rio de Janeiro.


Dopo essere stato abbandonato, è stato occupato da indios e
attivisti tra il 2006 e il 2013, quando è stato definitivamente
sgomberato e destinato alla demolizione per ordine del governo
dello Stato di Rio de Janeiro.]
19 La sinistra tradizionale, fino a poco tempo fa alleata delle “élite”

che ci governano, riesce a vedere nell’indio (ed è sempre riuscita a


vedere) soltanto un tipo di “povero”, un futuro membro della classe
lavoratrice destinata all’emancipazione. È arrivato il momento di
vedere il “povero” a partire dalla posizione strutturale dell’indio – in
fondo, la matrice etnica e vaste porzioni dell’inconscio culturale della
popolazione povera del nostro paese sono di origine
prevalentemente indigena e africana: cioè, il povero come qualcuno
che non si tratta di liberare, di migliorare, di trasformare in una
versione “meno povera” di noi stessi, ma di assistere – nella forma
sia transitiva che intransitiva del verbo – a/per/in la sua
trasformazione autodeterminata in altro da noi stessi, in altro popolo;
il popolo, in definitiva, che Darcy Ribeiro ha sognato cosí
meravigliosamente come “il popolo brasiliano”, popolo a venire se
mai ce n’è stato uno o se mai ce ne sarà.
20 “Dobbiamo dare al presente il potere di resistere al passato. Ciò

vuol dire anche rivitalizzare il passato, dargli il potere di sfuggire alla


sua classificazione come parte della storia progressiva che conduce
a ‘noi’” (Stengers 2013b: 180; corsivo nostro). Si veda anche
Strathern (1999: 246): “Sotto alcuni aspetti, le società melanesiane
‘tradizionali’ hanno molto piú a che fare con alcune visioni divenute
possibili a causa degli sviluppi socio-economici realizzatisi in Europa
a partire dal 1980, che con il mondo dell’inizio e della metà del XX
secolo”. Ma si veda soprattutto l’importante riflessione che si sta
costruendo sul concetto politico-metafisico di Antropofagia (inclusa
una delle sue componenti, l’antropologicamente sovversiva scienza
dell’“Erratica”): concetto che dobbiamo a Oswald de Andrade, il
maggior filosofo del modernismo brasiliano secondo Alexandre
Nodari e altri pensatori latinoamericani contemporanei. Una
riflessione sulla quale, sfortunatamente, non possiamo qui
dilungarci, ma che ci sembra indispensabile affinché il senso del
presente saggio possa, letteralmente, estendersi.
21 Deleuze 2000: 233.
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ISBN e-book 978-88-7452-666-6
ISBN cartaceo 978-88-7452-649-9
Titolo originale: Há mundo por vir? Ensaio sobre os medos e os fins
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Cultura e Barbárie / Instituto Socioambiental, 2014
© 2017 nottetempo srl
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Progetto grafico: Dario Zannier
In IV di copertina foto di Déborah Danowski: © Eduardo Viveiros
de Castro; foto di Eduardo Viveiros de Castro: © Bruno Fuji
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Obra publicada com o apoio do Ministério da Cultura do Brasil /
Fundação Biblioteca Nacional.
Opera pubblicata con il sostegno del Ministero della Cultura del
Brasile / Fondazione Biblioteca Nazionale.

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