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LEZIONE 16 – METODI PER LA PREVISIONE DELLA VITA A FATICA I

Quando l’approccio analitico non è facilmente applicabile (anche se il suggerimento è quello di applicarlo sempre per
avere una valutazione anche spannometrica), si passa ad approcci più complessi, l’approccio sperimentale o
l’approccio computazionale.

APPROCCIO SPERIMENTALE: è l’approccio che di solito si usa alla fine della progettazione, è quello che ci viene
imposto dalle norme. È l’approccio tradizionale che prevede l’esecuzione di prove in vitro, necessita inoltre la
costruzione di prototipi funzionali (identici al dispositivo finale come forme e materiale) e richiede tempi e costi
elevati. Normalmente non è l’approccio che possiamo utilizzare in sede di screening (fase iniziale in cui le idee via via
si eliminano), viene utilizzato eventualmente nella verifica precilinica.
Le norme sui dispositivi generalmente richiedono di fare testing for survival, cioè valutare la fatica del dispositivo
dimostrando che ha successo. Viene definito una vita desiderata per il dispositivo (per endoprotesi vita a fatica
illimitata di solito, (5·10^6 cicli per stelo protesi d’anca, impianti dentali, impianti spinali; 10^7 cicli piatto tibiale, collo
protesi d’anca; 10^8 per gli stent)) e si fanno prove di run out andando a fissare il numero di ciclic e poi osservare
come si comporta il dispositivo fino a quel numero di cicli. Questo approccio risulta però inadeguato in quanto se
arriviamo al numero di cicli limite indicato dalla norma non sappiamo quanto siamo lontani dal cedimento, cioè non
sappiamo quanto è la vita residua o quant’è il margine di sicurezza.
In altri campi (automobilistico e aerospaziale) l’approccio è diverso, si fanno prove in vitro fino a portare a cedimento
il dispositivo (testing to failure). Se sto lavorando nella zona a termine vuol dire saper rispondere a qual è il numero
di cicli limite al carico che sto imponendo, se invece sono al di sotto della fatica illimitata quanto sono al di sotto
dell’asintoto.
Le norme in ambito biomedicale suggeriscono (in quanto le norme sono di applicazione volontaria) di fare delle
prove di run out dove il run out viene indicato dalla nomra stessa.

APPROCCIO COMPUTAZIONALE: si basa sull’implementazione di simulazioni numeriche (FEM 3D). Con questo potrei
pensare di sostituire la fase preclinica, le prove invece di farle in vitro sarebbero svolte in silico permettendo di
risparmiare sui prototipi. È necessaria la validazione del modello, cioè dimostrare che le capacità predittive siano
buone: si fanno le prove in vitro e poi si confronta il dato sperimentale (con tutte le sue incertezze e variabilità) con la
simulazione. Una volta validato il modello può essere utilizzato per fare previsioni.
Ci sono due approcci computazionali:
- Classico o macroscopico: si basa sui diagrammi di Wohler e Haigh, si fa una valutazione di sforzi e si
confrontano con gli sforzi limiti a fatica del materiale opportunatamente corretti; con macroscopico si
intende che calcoliamo gli sforzi ma non ci interessiamo di cosa succede a livello microscopico
- Locale: si basa sulla meccanica della frattura, va sulla scala del materiale e va a vedere cosa succede
nell’intorno della cricca (analisi tollerante la presenza di un difetto, valuta se il difetto è pericoloso nelle
condizioni di funzionamento di interesse)
Nell’approccio computazionale classico il componente è una sorta di scatola nera di cui conosciamo le dimensioni, le
proprietà meccaniche del materiale (diagrammi di Wohler al variare della forma d’onda) e i carichi agenti. Si deduce
𝑁lim usando i criteri di resistenza a fatica nel punto più sollecitato, ossia il più pericoloso.

Anche nell’approccio locale si devono mettere le condizioni di carico ciclico e vincoli, avrò come ingresso o le
dimensioni o la durata (uguale a prima) e come obiettivo rispettivamente o la durata o le dimensioni. Quello che
cambia sono le informazioni sul materiale, siccome stiamo guardando ciò che accade nell’intorno della cricca si
faranno delle prove di propagazione dei difetti (ho dei provini in cui creo volontariamente il difetto microscopico e
osservo ciò che gli succede). Il dispositivo non è più una black box, zoomiamo su quello che accade all’apice di cricca.

METODO CLASSICO

Si parte da un modello agli elementi finiti in cui creo una mesh che discretizza, poi inserisco i dati sulle proprietà del
materiale, carichi esterni e condizioni di vincolo. Siccome sto lavorando nello spazio, per ogni punto trovo un tensore
degli sforzi e di deformazioni che danno componente media e alternata. Lo sforzo equivalente che si ricava dal
tensore utilizzando i criteri di fatica multiassiale, lo posso inserire nel diagramma di Wöhler in modo da poterlo
confrontare con lo sforzo limite.
CRITERI DI VERIFICA A FATICA: STATI DI SFORZO TRIASSALI

Il criterio di Gough-Pollard vale solo per stato di sforzo piano composto. Come mi comporto nel caso triassiale?
Si fanno prove sul materiale e sperimentalmente si è visto che la componente alternata dello sforzo gioca un ruolo
fondamentale mentre la componente statica di sforzo ha influenza solo nei casi in cui il suo invariante primo è diverso
da 0: I 1m =σ I m +σ II m + σ III m, I 1m < 0 compressione , I 1 m >¿0 trazione ¿.
Se l’invariante primo è significativamente diverso da 0 (le positive dominano sulle negative o viceversa) allora anche
nel caso triassiale si sente una dipendenza nella risposta del materiale dal valor medio dell’invariante primo; un
invariante primo chiaramente positivo è assimilabile a trazione (anche se in alcune direzioni potrei avere
compressione). Se sono in trazione, invariante primo medio positivo, resiste meno rispetto al caso in compressione
(invariante primo negativo) a parità di componente alternata.

FORMULAZIONE GENERALE DI UN CRITERIO DI FATICA MULTIASSIALE: è sempre una disequazione in cui confronto
una funzione (alfA*A+beta*M) con un valore delta  α ∙ A+ β ∙ M ≤ δ
A e M sono l’elaborazione dei dati ricavati dall’analisi FEM, rispettivamente la componente alternata e media degli
sforzi; A e M vengono combinati con alfa, beta e poi confrontati con delta che sono parametri che dipendono dalle
proprietà a fatica del materiale.

Esistono due categorie di criteri di resistenza a fatica:

- Criteri di sforzo basati sugli invarianti: molto simili ai criteri di resistenza statici, si basano sul concetto di
sforzo equivalente, cioè trasformo il mio stato di sforzo complesso (in questo caso multiassiale) in una
grandezza sola σ* equivalente dal punto di vista del pericolo (sono necessarie ipotesi sul pericolo).
L’invariante primo è la somma dei tre sforzi nelle tre direzioni (principali e non) è proporzionale a 3 volte σ H ,
lo sforzo idrostatico, sono entrambi due invarianti. I 1=3 σ H
Esempio: criterio di sines (usato per i metalli), J2 è l’invariante secondo del tensore degli sforzi
- Criteri di sforzo basati sul concetto di piano critico: gli sforzi agenti durante ogni ciclo di carico vengono
determinati per vari orientamenti (piani) e si utilizzano poi i valori relativi al piano ritenuto più sollecitato, il
piano critico. I criteri che usano il «piano critico» nascono dall’evidenza sperimentale che le cricche di fatica
nucleano spesso lungo direzioni particolari. Si assume che la nucleazione del difetto su uno specifico piano
sia funzione della componente di sforzo (deformazione) normale e tangenziale a tale piano: le componenti di
taglio causano la nucleazione del difetto (slip lines) mentre sforzi (deformazioni) normali al piano sono
responsabili dell’apertura del difetto
Esempio: criterio di matake, definisce come orientamento critico il piano in cui registro la max ampiezza dello
sforzo di taglio (tao alteranata max) poi in quel piano vado a calcolare la sigma max nel tempo (valore di
sigma max nel piano critico)

CRITERI BASATI SUGLI INVARIANTI DI SFORZO

Generalmente le quantità su cui si basano tali criteri sono il secondo invariante del deviatore di sforzo J2 e lo sforzo
idrostatico σ H (e quindi I 1)
Il criterio di Kakuno-Kawada è considerato un’estensione del criterio di Sines, mette in gioco anche una componente
idrostatica alternata rispetto al criterio di Sines.
Il criterio di Sines è un sottocaso del di Kakuno-Kawada per cui σ FAf /τ FA=√ 3

CRITERIO DI SINES: Ogni criterio ha dietro una grandezza indice del pericolo. Il criterio di Sines ha scelto come
grandezza indice del pericolo la tensione tangenziale ottaedrale della parte alternata; la grandezza limite è una
funzione lineare dell’invariante primo delle componenti medie statiche delle sollecitazioni.

Formulazione operativa del criterio di Sines:

Che significato ha? Riprendiamo il diagramma di Haigh, cerchiamo di far sparire K la pendenza della retta (K è il
rapporto tra sigma a e sigma m che sto applicando); facendo un po’ di elaborazioni si arriva a scrivere una
formulazione senza K e arriviamo alla forma finale (riquadrata). Quando usiamo il diagramma di Haigh senza saperlo
stiamo scrivendo questa disequazione (riquadrata). Questo nel caso uniassiale.
Sines nella sua forma operativa è come dire sto usando Haigh + Von Mises .

ESEMPI RISCHI DI PREVISIONI ERRATE:

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