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Appunti di Costruzione di Macchine

Prof. Penta Francesco


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Introduzione
Il corso di Costruzione di Macchine si pone come obiettivo principale il
dimensionamento degli organi meccanici che si vanno a progettare.
Si cercherà di porre particolare attenzione al comportamento meccanico dei materiali
metallici, in particolar modo gli acciai industriali (o strutturali) di più largo impiego
nella realizzazione degli organi meccanici.
La scelta del materiale per un componente di una macchina è una delle decisioni più
importanti del progettista, tale scelta viene fatta prima di stabilire le dimensioni del
componente.
Una prova fondamentale che ci fornisce indicazioni sul comportamento meccanico di
un materiale, è la prova di trazione.
1.Prova di Trazione
La prova di trazione è una prova di caratterizzazione dei materiali che consiste nel
sottoporre un provino di dimensioni standard di un materiale in esame ad
un carico F monoassiale inizialmente nullo che viene incrementato fino a un valore
massimo che determina la rottura del materiale.
La prova di trazione serve a determinare diverse caratteristiche del materiale in
esame, tra cui la resistenza meccanica, il modulo di Young o modulo di elasticità (E),
il carico unitario di snervamento, l'allungamento percentuale e la strizione
percentuale. La si usa soprattutto per materiali metallici e polimerici.
I provini possono essere di due tipi, cilindrici o piatti, e la loro dimensione è di tipo
standard.

Figura 1.1: Provini per prova di trazione


La parte più sottile del provino è detta tratto utile, mentre le estremità, che sono circa
il doppio del diametro del tratto utile, servono per consentire l’afferraggio sulla
macchina di prova universale.
Il metodo col quale si effettua una prova di trazione è descritto dal protocollo. Di
prova ASTM E8 M (A.S.T.M.= American Standard for Testing Material; la M dopo
l’8 sta per sistema metrico) che è uno standard di riferimento per tale tipo di prove.
Sul provino si tracciano 2 linee (riportate in rosso in figura 1.1) che servono per poter
misurare l’allungamento che si ha nel corso della prova, ciò è possibile tramite
l’utilizzo di strumenti chiamati Estensometri montati sul provino durante la prova.

Figura 1.2: Estensometro montato su un provino piatto.

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I valori misurati durante la prova di trazione, ovvero forza e variazione di lunghezza,
vanno ulteriormente rielaborati per poter ottenere il digramma tensioni-deformazioni
o diagramma s-e. I valori di s e e si ricavano utilizzando le formule:
F Dl
s = ; e =
A! l!
s: Tensione nominale
F: Forza che agisce in quell’istante sul provino
A0: Area della sezione utile iniziale (o Area resistente iniziale)
e: Deformazione
Dl: Variazione di lunghezza del tratto utile
l0: Lunghezza iniziale del tratto utile

Quindi facendo questo “cambiamento di scala” delle grandezze misurate, F e Dl,


otteniamo il diagramma s-e.

Figura 1.3: Diagramma Tensione-Deformazione

Nella prima fase della prova i valori di s e e crescono entrambi con legge lineare, c’è
un legame di proporzionalità tra i due valori. Raggiunto un certo punto della prova
questo legame di proporzionalità si perde, si verifica il fenomeno dello snervamento;
raggiunto un particolare valore di tensione ( sYmax) iniziano a prodursi nel provino
delle deformazioni di tipo plastico. Lo snervamento consiste, essenzialmente, in
incrementi repentini delle deformazioni sotto un livello tensionale pressoché stabile.
Raggiunto il valore di sYmax si un brusco abbassamento delle tensioni che porta il
valore delle tensioni, quasi istantaneamente, al valore sYmin , e sotto questo valore di
tensione pressoché stabile si ha un notevole incremento delle deformazioni.
Il valore per il quale si iniziano a produrre le deformazioni plastiche si chiama
tensione di snervamento massima o tensione di snervamento superiore (sYmax).
L’altro valore è detto tensione di snervamento minima o tensione di snervamento
inferiore (sYmin). La pendenza del tratto iniziale ci fornisce il valore del modulo di
Young o modulo elastico che definisce il rapporto di proporzionalità tra s e e in
regime uniassiale. Questo legame di proporzionalità si esprime nel seguente modo:
s
e" =
𝐸
e vale solo quando si verificano le condizioni tensionali del tratto utile del provino.

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Tramite un tipo di estensometro è possibile inoltre misurare l’allungamento unitario
in direzione trasversale, che sono legati ad el dalla seguente legge:
s
e # = − n e " = − n $ ¬Questa relazione vale solo per il caso di uno
stato tensionale monoassiale

Figura 1.4: estensometro per misurazione delle


deformazioni trasversali

Bisogna tener conto che il diagramma riportato in figura1.3 ha una scala non
realistica, esso viene utilizzato a scopo “didattico” per poter capire cosa succede nel
provino durante la prova di trazione. Di seguito si riporta l’andamento di un
diagramma s-e reale, che si ottiene sperimentalmente da una prova di trazione.

Figura 1.5: Diagramma tensione- deformazione nominale di un (a) Acciaio Dolce e (b) AISI 304.

Le deformazioni che si producono durante la fase di snervamento sotto sYmin sono


molto grandi; in genere i componenti meccanici, in condizioni di servizio, non
producono mai deformazioni così grandi da raggiungere la fine del plateau di
snervamento orizzontale cerchiato in figura1.3. Per questo motivo si cerca di
approssimare il comportamento meccanico in quella regione del diagramma con un
diagramma di questo tipo:

Figura 1.6: Diagramma Tensione-Deformazione

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In tale diagramma si ha un tratto lineare iniziale e poi un plateau tutto orizzontale,
questo tipo di diagramma definisce un comportamento ideale del materiale detto
comportamento elasto-plastico senza incrudimento.
Il valore di Y definisce le condizioni tensionali sotto le quali è possibile che si
abbiano deformazioni plastiche molto grandi sotto tensioni costanti. Per quanto siano
grandi le deformazioni plastiche, in un materiale metalliche le deformazioni non
possono mantenersi costanti, arrivati ad un certo punto si attiva nel materiale il
processo di incrudimento.
Incrudimento significa che per produrre ulteriori incrementi di deformazione plastica
bisogna produrre ulteriori incrementi di tensione. Questi incrementi di tensione non
possono prodursi all’infinito, il valore massimo raggiungibile della tensione è
indicato con UTS (Ultimate Tensile Stress o tensione ultima di trazione). In alcuni
tesi UTS è anche riportato con altri simboli: su ; Ru ; Rf ; Rmax.
Tale tensione massima è identificata come ordinata massima del diagramma s-e.
Raggiunto questo valore massimo della s (e quindi della forza applicata al provino)
ciò che segue nel diagramma s-e non ha più significato perché non è più
rappresentativo del reale comportamento meccanico del materiale. Ciò è legato al
fatto che quando si raggiunge il valore di UTS si innesca una particolare condizione
di instabilità che genera il fenomeno della strizione.
Introduciamo delle grandezze che ci saranno utili quando dovremo studiare la fatica
dei materiali. Le grandezze che ci interessano prendono il nome di indici di duttilità,
sono lunghezze che ci fanno capire quanto il materiale sia duttile, cioè in che misura
il materiale può deformarsi prima di fratturarsi.
"! %""
𝐴 = 100 ¬Allungamento percentuale a rottura
""

&" %&!
𝑍 = 100 &"
¬Strizione o rapporto di strizione

& ( )!!
e' = 𝑙𝑛 &" = 2 𝑙𝑛 (" = ln )!!%* ¬ Deformazione reale o naturale alla frattura
! !

&
s' = 𝑈𝑇𝑆 & # ¬Tensione vera o reale di frattura
!

lf : lunghezza raggiunta dopo la frattura; per misurarla, una volta che il provino si è fratturato si smonta
dalla macchina di prova, si riavvicinano le due parti fratturate e si misura la distanza tra le due linee segnate
sul provino.
l0 : lunghezza iniziale del tratto utile.
A0 : area resistente iniziale del tratto utile.
Af : area della superficie fratturata.
d0 : diametro iniziale del tratto utile.
df : diametro della superficie fratturata.

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Andiamo ora ad analizzare come un provino, tipicamente cilindrico, raggiunge la
frattura finale nel corso della prova di trazione.

Figura 1.7: Processo che porta alla frattura finale del provino

1) Il processo che porta alla frattura finale ha inizio col fenomeno della strizione. Per
effetto della strizione il tratto utile del provino non ha più forma cilindrica ma
assume una forma a clessidra, si forma dunque una strozzatura. Questa strozzatura
si ha perché le deformazioni plastiche tendono a concentrarsi in corrispondenza
della sezione evidenziata in figura1.7-1. Siccome in tale sezione si ha una
concentrazione delle deformazioni longitudinali si concentrano anche gli
accorciamenti trasversali. Per cui questa sezione diventa molto più piccola delle
sezioni dove le deformazioni plastiche sono più basse, e siccome la sezione
resistente è più piccola, per un assegnato carico di prova, le tensioni che agiscono
in questa sezione sono più grandi che altrove.
2) Nella regione dove si è formata la strozzatura si attivano i processi che sono
responsabili del danneggiamento del materiale (che prendono il nome di fenomeni
di danneggiamento) che porteranno alla frattura finale del provino. Questi
fenomeni di danneggiamento consistono nella nucleazione e crescita di micro-
vuoti, il fenomeno di formazione di questi micro-vuoti prende il nome di
cavitazione plastica o duttile.
3) Questi micro-vuoti si espandono fino a raggiungere la coalescenza dei micro-
vuoti e formazione di macro-cricca.
4) Questa macro-cricca si espande fino a raggiungere i bordi della sezione resistente
del provino. Quando la cricca raggiunge i bordi della sezione resistente si ha la
frattura finale del provino.
Fin quando il tratto utile del provino è cilindrico possiamo dire che s e e sono
uniformi; man mano che il provino si allunga, l’area della sezione resistente tende a
diminuire. Quindi se vogliamo calcolare la tensione che si desta nel tratto utile del
provino dobbiamo utilizzare la seguente formula
F
s + =
A
Che ci permette di calcolare la tensione vera.
Il valore di A indica l’area istantanea della sezione resistente ed è sempre minore di
A0. Quindi essendo A<A0, a parità di F, abbiamo che la tensione vera è sempre
maggiore della tensione nominale (sv>s).

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Nella figura1.7-3) sono riportate delle frecce che stanno ad indicare che una volta che
si è formata la macro-cricca in quei piani inclinati a 45° agiscono delle tensioni
tangenziali molto forti che producono scorrimenti plastici che portano alla frattura
finale del provino. Quindi la superficie di frattura sarà formata da due regioni, una
ortogonale all’asse del provino che si è formata per effetto della coalescenza dei
micro-vuoti, l’altra regione è quella che si è prodotta per effetto degli scorrimenti
plastici. Questa particolare forma che assume la superficie di frattura è detta forma a
coppa e cono.

Figura 1.8: Provino fratturato

Dalla figura si nota che il provino, che era inizialmente lucido e liscio, presenta delle
porosità in corrispondenza della superficie strizionata dovute al fenomeno della
nucleazione dei micro-vuoti e della loro crescita.
Strizione
Quando si arriva al fenomeno della strizione la sezione del tratto utile del provino
non si riduce più in maniera uniforma, le riduzioni iniziano a essere localizzate in
corrispondenza della regione strizionata. Abbiamo introdotto finora la quantità:
Dl
e" =
l!
che è la deformazione ingegneristica; essa non ci fornisce una misura reale
dell’allungamento delle fibre.
Per studiare la strizione dobbiamo introdurre una misura più realistica che ci permette
di rappresentare in maniera più verosimile ciò che sta accadendo istante per istante
alle fibre longitudinali del provino:
𝑑𝑙
𝑑e =
𝑙
de : Incremento di deformazione naturale.
dl : incremento di lunghezza della fibra.
l : valore istantaneo della lunghezza della fibra

Integrando possiamo ottenere la deformazione naturale


# "
𝑑𝑙 𝑙
e = 5 𝑑e = 5 = ln 6 7
𝑙 𝑙!
! ""
Le deformazioni plastiche di un metallo avvengono a volume costante quindi:
𝑉, = 𝐴 ∙ 𝑙 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒
Vu : volume del tronco del provino
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A : area della sezione resistente
l : valore istantaneo della lunghezza di riferimento

Quindi superato lo snervamento devo avere incrementi di volume nulli:


𝑑𝑉 = 0 = 𝑑𝐴 ∙ 𝑙 + 𝐴 ∙ 𝑑𝑙 = 0
Questa appena scritta è la condizione di conservazione del volume del tratto utile, da
cui ricaviamo:
𝑑𝐴 𝑑𝑙
= − = −𝑑𝜀
𝐴 𝑙
Se andiamo a posizionare una terna nel baricentro del provino come mostrato nella
figura successiva

consideriamo un volumetto di materiale del nostro provino, che ha spigoli di lati lx,ly
e lz, assumendo che gli spigoli siano allineati secondo gli assi del sistema di
riferimento , possiamo scrivere:
𝑉 = 𝑙- ∙ 𝑙. ∙ 𝑙/
Se per un incremento del carico di prova le lunghezze varieranno (in quanto il
volumetto si deforma), avremo una variazione di volume che scriveremo come:

𝑑𝑉 = 𝑙. ∙ 𝑙/ ∙ 𝑑𝑙- + 𝑙- ∙ 𝑙/ ∙ 𝑑𝑙. + 𝑙- ∙ 𝑙. ∙ 𝑑𝑙/


Andando a dividere per il volume V otteniamo:
𝑑𝑉 𝑙. ∙ 𝑙/ ∙ 𝑑𝑙- + 𝑙- ∙ 𝑙/ ∙ 𝑑𝑙. + 𝑙- ∙ 𝑙. ∙ 𝑑𝑙/ 𝑑𝑙- 𝑑𝑙. 𝑑𝑙/
= = + +
𝑉 𝑙- ∙ 𝑙. ∙ 𝑙/ 𝑙- 𝑙. 𝑙/

= 𝑑𝜀- + 𝑑𝜀. + 𝑑𝜀/


con dex, dey e dez gli incrementi di deformazione naturale lungo gli assi x, y e z.
Dalla precedente relazione ottengo:
∆𝑉
= 𝜀- + 𝜀. + 𝜀/
𝑉
che è la variazione unitaria di volume.
Per la conservazione del volume abbiamo che:
𝜀- + 𝜀. + 𝜀/ = 0
per come abbiamo disposto il riferimento cartesiano abbiamo che:
𝜀- = 𝜀" 𝜀/ = 𝜀. = 𝜀#
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Sostituendo nella precedente relazione otteniamo:
1
𝜀" + 2𝜀# = 0 ⟹ 𝜀" = − 𝜀#
2
quindi il coefficiente di Poisson, in fase elasto-plastica, ha valore 0,5.
La forza che agisce sul nostro provino può essere espressa come:
𝐹 = 𝜎+ ∙ 𝐴
differenziando ottengo:
𝑑𝐹 = 𝑑𝜎 ∙ 𝐴 + 𝜎 ∙ 𝑑𝐴
Il prodotto 𝑑𝜎 ∙ 𝐴 è legato alla crescita delle tensioni ed è sempre positivo, mentre 𝜎 ∙
𝑑𝐴 è legato alla diminuzione dell’area resistente ed è sempre negativo.
All’inizio della prova di trazione, per la presenza dell’incrudimento, si ha:
|𝑑𝜎 ∙ 𝐴| > |𝜎 ∙ 𝑑𝐴|
Andando avanti con la prova si raggiunge una condizione stazionaria per cui:
|𝑑𝜎 ∙ 𝐴| = |𝜎 ∙ 𝑑𝐴|
Quindi per la stazionarietà possiamo scrivere che:
𝑑𝜎 𝑑𝐴
𝑑𝐹 = 0 ⟹ 𝑑𝜎 ∙ 𝐴 = −𝜎 ∙ 𝑑𝐴 ⟹ =−
𝜎 𝐴
essendo:
𝑑𝐴 𝑑𝑙
= − = −𝑑𝜀
𝐴 𝑙
sostituendo ottengo:
𝑑𝜎
= 𝑑e
𝜎
Questo risultato può essere scritto in maniera più utile e compatto come:
𝑑𝜎
=𝜎
𝑑e
questa relazione prende il nome di condizione di Considère, che identifica le
condizioni tenso-deformative del tratto utile del provino sotto le quali la forza di
trazione diviene stazionaria, quindi si è raggiunta una situazione nella quale la forza F
ha raggiunto un massimo perché non è più suscettibile di ulteriori incrementi.
Arrivati a tale massimo, dunque, ha inizio la strizione.
Cerchiamo di dare un’interpretazione grafica alla condizione di Considère
ragionando sul seguente diagramma:

Figura 1.9: Diagramma tensione vera- deformazione naturale

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La condizione di stazionarietà si raggiunge in un punto del diagramma s-e in cui la
sottotangente (BC) a tale punto è uguale a 1.
Raggiunto tale punto si è raggiunti ad un valore della tensione di instabilità che porta
il provino ad avere un comportamento instabile; per un costruttore di macchine i
fenomeni di instabilità sono sempre da evitare in quanto dannosi.
Raggiunta la condizione di Considère le tensioni non possono più essere dedotte dalla
formula s = F/A, ma utilizziamo la formula:
𝐴!
𝜎' = 𝑈𝑇𝑆 ∙
𝐴'
Af : area della superficie di frattura; si misura alla fine della prova.

2.Flessione semplice
Ipotizziamo di effettuare una prova di flessione a 4 punti, su una trave, come
schematizzato in figura:

Figura 2.1: Schema statico della prova di flessione a 4 punti

Facciamo una serie di ipotesi iniziali:


• ipotizziamo inizialmente che la trave sia di materiale omogeneo e supponiamo
che tale materiale sia elasto-plastico;
• ipotizziamo che la trave abbia un piano di simmetria longitudinale e che su tale
piano siano applicate tutte le forze P agenti.
La trave è appoggiata su due vincoli in corrispondenza di A e B ed è sollecitata da
due forze verticali P agenti a distanza a dalle sezioni estreme.
I vincoli esplicano sulla trave le reazioni vincolari P, poste in A e B, uguali alle forze
applicate in C e D (per motivi di simmetria).
Ipotizziamo di sezionare la trave in corrispondenza della sezione m-n riportata in
figura2.1

Figura 2.2: Trave sezionata

Dalle equazioni di equilibrio alla traslazione trasversale e longitudinale otteniamo che


sia T che N sono nulli. Dall’equilibrio alla rotazione rispetto alla sezione m-n
otteniamo un momento flettente M pari al momento della coppia di forze P applicate
in corrispondenza di tale sezione. Tali reazioni valgono per tutte le sezioni rette del
tratto CD, che è sollecitato dal solo momento flettente M, mentre T e N valgono zero

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per tutto questo tratto. Questa è una condizione favorevole per lo studio della
flessione semplice di una trave.
I vari conci della trave tenderanno a deformarsi per la sola presenza del momento
flettente, il tratto CD è inflesso.
Per studiare il comportamento a flessione della trave consideriamo un concio di trave
del tratto CD e tracciamo una griglia di linee (riportate in rosso in figura2.3) parallele
e ortogonali all’asse della trave.

Figura 2.3

Quando il provino si inflette osserviamo che le linee che inizialmente erano verticali
e rettilinee, restano rettilinee anche a deformazione avvenuta. Questi segmenti di retta
ruotano nel piano rimanendo comunque rettilinei e restano sempre ortogonali alla
configurazione deformata dell’asse della trave. I prolungamenti di tali segmenti di
rette si incontrano tutti in punto C.
Le linee orizzontali invece si deformano assumendo una configurazione coincidente
ad una famiglia di archi di circonferenza concentrici con centro in C. Gli angoli che si
formano tra le linee longitudinali e quelle trasversali restano comunque angoli retti.
Da quanto detto segue l’Ipotesi di Navier: durante l’inflessione della trave, le sezioni
trasversali rimangono piane e normali alle fibre longitudinali deformate.
Cerchiamo ora di valutare quanto valgono gli allungamenti delle diverse fibre
longitudinali che compongono il concio di trave, per farlo consideriamo la figura 2.4:

Figura 2.4
Consideriamo il tronco delimitato dalle sezioni pp’-mm’, la linea tratteggiata
rappresenta la linea elastica, ovvero la configurazione deformata dell’asse della trave,

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r identifica il raggio dell’arco di circonferenza secondo cui si deforma la linea
elastica.
Per effetto della deformazione le sezioni rette pp’ e mm’ ruotano l’una rispetto
all’altra dell’angolo dj. La lunghezza dell’arco nn1(fibra neutra) possiamo calcolarlo
facendo:
nn1 = r dj = dx
dx : Lunghezza di tutte le fibre del concio prima della deformazione.

Le fibre che si trovano dalla parte concava subiscono un accorciamento, mentre le


fibre che si trovano dalla parte convessa subiscono un allungamento.
Quando ci spostiamo lungo y dalla parte concava alla parte convessa, partiamo da
fibre che sono compresse e man mano che scendiamo arriviamo a fibre tese, ci sarà
dunque ad un certo punto una fibra che non sarà né tesa né compressa e quella fibra
prende il nome id fibra neutra.
L’insieme delle fibre neutre costituisce l’asse neutro della trave.
Valutiamo ora l’allungamento della fibra ss’ che si trova a distanza y dalla fibra
neutra:
ss’= (r+y) dj
Prima della configurazione deformata la fibra ss’ aveva lunghezza uguale a nn1.
Calcoliamo l’allungamento e della fibra a distanza y dall’asse neutro:
𝑠𝑠’ − 𝑛𝑛) (𝑟 + 𝑦)𝑑j − 𝑟𝑑j 𝑦𝑑j 𝑦
e( 𝑦 ) = = = =
𝑛𝑛) 𝑟𝑑j 𝑟𝑑j 𝑟
Su questa fibra agirà una tensione di flessione data da:
𝑦
𝜎 (𝑦 ) = 𝐸
𝑟
Queste tensioni seguono una distribuzione lineare sulla sezione retta della trave,
questa distribuzione è detta Distribuzione alla Navier.

Figura 2.5: Distribuzione alla Navier


Consideriamo le tensioni da flessione che agiscono sull’area dA (riportata in azzurro
in figura 2.5), quest’area si trova a distanza y dall’asse neutro. Quando faccio il
prodotto tra dA e la s che agisce su di essa, ottengo una forza elementare dF di
braccio y rispetto all’asse neutro:
𝑦
𝑑𝐹 = s 𝑑𝐴 = 𝐸
𝑟
Questa forza genera un momento elementare dato da:
𝑦 𝐸
𝑑𝑀 = 𝑦 𝑑𝐹 = 𝑦 𝐸 𝑑𝐴 = 𝑦 0 𝑑𝐴
𝑟 𝑟

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Iniziamo a ragionare sull’equilibrio del concio di trave.
Abbiamo detto che sulla sezione retta della trave lo sforzo normale è nullo, quindi la
somma integrale di tutte le forze elementari dF, che agiscono sulla sezione retta, deve
essere uguale a zero, quindi:

𝐸
𝑁 = 0 ⇒ 5 𝑑𝐹 = 5 𝑦 𝑑𝐴 = 0
& 𝑟 &
L’integrale di ydA è il momento statico della sezione retta rispetto all’asse neutro,
quindi la condizione:

5 𝑦 𝑑𝐴 = 0
&
definisce la posizione dell’asse neutro.
Valutiamo quanto vale il momento generato dalla forza dF rispetto all’asse neutro:

𝐸 0 𝐸 0 𝐸
𝑀 = 5 𝑑𝑀 = 5 𝑦 𝑑𝐴 = 5 𝑦 𝑑𝐴 = 𝐼2
& & 𝑟 𝑟 & 𝑟

In : momento di inerzia della sezione retta della trave rispetto all’asse neutro

Da questa equazione ricaviamo la relazione:


1 𝑀
=
𝑟 𝐸𝐼2
𝟏
𝒓
: curvatura della fibra neutra;
𝑬𝑰𝒏 : modulo di rigidezza flessionale della trave.

Ricordando che:
r dj = dx
possiamo ottenere:
𝑑𝜑 1 𝑀 𝑀
= = ⟹ 𝑑𝜑 = 𝑑𝑥
𝑑𝑥 𝑟 𝐸𝐼2 𝐸𝐼2
Noto il momento flettente e il modulo di rigidezza flessionale della trave possiamo
calcolare la rotazione relativa che subiscono due facce di un concio di trave.
Avendo scritto la relazione della curvatura della fibra neutra, posso sostituirla in s(y)
e ottenere:
𝑦 𝑀 𝑀
𝜎 (𝑦 ) = 𝐸 = 𝐸 𝑦= 𝑦
𝑟 𝐸𝐼2 𝐼2
La s a flessione è tanto più alta quanto maggiore è la distanza y dall’asse neutro,
raggiunge il valore massimo nel punto più lontane dall’asse neutro
𝑀 𝑀
s34- = 𝑦34- =
𝐼2 𝑊'
Con Wf Modulo di Resistenza a Flessione, il suo valore dipende dalla geometria
della trave ed è un valore tabellato.
Quando la nostra trave è fatta di materiale che ha un comportamento elastico-lineare
abbiamo una distribuzione alla Navier delle tensioni da flessione, andiamo invece a
vedere come si distribuiscono le tensioni nel caso in cui il materiale abbia un
comportamento di tipo elasto-plastico senza incrudimento.
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Il diagramma s-e di un materiale con questo tipo di comportamento è il seguente:

Figura 2.6: Diagramma s-e di un materiale elasto-plastico senza incrudimento


Consideriamo il seguente concio di trave:

Figura 2.7
e immaginiamo di aver applicato dei momenti flettenti tali per cui sulle fibre esterne
più sollecitate agisce una tensione pari alla tensione di snervamento Y. Tale momento
è detto Momento di Incipiente Plasticizzazione Me ed è dato da:
𝑀 = 𝑊' 𝜎34- ⟹ 𝑀5 = 𝑊' 𝑌

Ipotizziamo che le due facce del concio ruotino l’una rispetto all’altra di un ulteriore
angolo, in modo che le fibre del concio subiscano degli incrementi di deformazione
tali da far sì che alcune fibre si deformino oltre il valore della tensione di
snervamento Y. In questo caso avremo una “famiglia di fibre” su cui agisce la
tensione Y, quindi avremo una distribuzione delle tensioni di questo tipo:

Figura 2.8: Distribuzione delle tensioni nel caso di materiale con comportamento elasto-plastico

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Se continuiamo ad incrementare le deformazioni del nostro concio di trave, le regioni
plasticizzate saranno sempre più ampie fino a raggiungere una situazione in cui la
distribuzione delle tensioni sarà di questo tipo:

Figura 2.9: Distribuzione delle tensioni in regime plastico

Calcoliamo ora il momento flettente che agisce sul concio di trave quando alcune
fibre della trave si sono plasticizzate. Consideriamo la distribuzione delle tensioni
sulle fibre della trave:

Figura 2.10
Per capire come variano le tensioni dobbiamo valutare l’angolo Y/hp; la tensione che
agisce su una fibra a distanza y dall’asse neutro della trave è data da:
!
𝜎(𝑦) = 𝑦 ⟵nella porzione elastica
"!

𝑌
𝑑𝐹 = 𝑏 𝑑𝑦 𝜎 = 𝑏 𝑑𝑦 𝑦
ℎ7
b :larghezza della sezione di base dy

8
Momento generato da fibre con comportamento elastico lineare. ® 𝑑𝑀5 = 𝑑𝐹 𝑦 = 𝑏 𝑑𝑦 9 𝑦 0
$

𝜎 = 𝑌 ⟵nella porzione plastica


- 16 -
Dalla figura 2.10 si capisce che:
dA=b dy
Sulla porzione elastica agiranno delle forze dF1 date da:
𝑌
𝑑𝐹) = 𝜎(𝑦)𝑑𝐴 = 𝑦 𝑏 𝑑𝑦
ℎ7
che generano momento elementare dM1 rispetto all’asse neutro:
𝑌
𝑑𝑀) = 𝑑𝐹) 𝑦 = 𝑏 𝑦 0 𝑑𝑦
ℎ7
Sulla porzione plastica agiranno invece delle forze dF2 date da:
𝑑𝐹0 = 𝜎 𝑑𝐴 = 𝑌 𝑏 𝑑𝑦
che generano momento elementare dM2 rispetto all’asse neutro:
𝑑𝑀0 = 𝑑𝐹0 𝑦 = 𝑌 𝑏 𝑦 𝑑𝑦
Se volessimo valutare il momento flettente totale agente sulla sezione dovremmo
integrare dM1 e dM2:
9$ 9: 9$ 9:
0 0
𝑌
𝑀 = 2 5 𝑑𝑀) + 2 5 𝑑𝑀0 = 2 5 𝑏 𝑦 0 𝑑𝑦 + 2 5 𝑌 𝑏 𝑦 𝑑𝑦
ℎ7
! 9$ ! 9$
9$ 9:
0
𝑌 𝑌 1 ; 1 ℎ0
= 2 𝑏 5 𝑦 𝑑𝑦 + 2𝑌 𝑏 5 𝑦 𝑑𝑦 = 2 𝑏 ℎ7 + 2𝑌 𝑏 X − ℎ70 Z
0
ℎ7 ℎ7 3 2 4
! 9$
ℎ 0
0
2 ℎ0 ℎ70
= 𝑌𝑏 + 𝑌 𝑏 ℎ7 6 − 17 = 𝑌𝑏 X − Z
4 3 4 3

Quindi abbiamo ottenuto l’espressione del momento che devo applicare per poter
deformare plasticamente la trave lasciando una porzione della sezione elastica-
lineare:
ℎ0 ℎ70
𝑀[ℎ7 \ = 𝑌 𝑏 X − Z
4 3
Possiamo calcolare, dalla precedente formula, il valore della semi altezza elastica hp:
𝑀 ℎ0 ℎ70 ℎ70 ℎ0 𝑀 0
ℎ0 𝑀
= − → = − → ℎ7 = 3 X − Z
𝑌𝑏 4 3 3 4 𝑌𝑏 4 𝑌𝑏
0
3ℎ 4𝑀
= 61 − 7 ⟹
4 𝑌 𝑏 ℎ0

ℎ 4𝑀
⟹ ℎ7 = ^3 61 − 7
2 𝑌 𝑏 ℎ0

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Quando hp è nullo raggiungiamo il valore massimo del momento flettente (abbiamo
che tutte le fibre si sono deformate plasticamente), questo valore del momento prende
il nome di Momento flettente ultimo Mu ed è dato da:
𝑏ℎ0
𝑀34- = 𝑀, = 𝑌
4
Possiamo riscrivere l’espressione di hp come:
ℎ 𝑀
ℎ7 = ^3 61 − 7
2 𝑀,
Per valutare come si deforma il concio di trave, al variare del momento flettente, ci
interessa capire come varia l’angolo dj . Valutiamo l’allungamento e della fibra
distante hp dall’asse neutro, secondo la Formula fondamentale di Navier tale
allungamento vale:
ℎ7
𝜀=
𝑟
siccome la fibra è posta nella condizione al limite elastico, il suo allungamento è dato
da:
𝑌 ℎ7
=
𝐸 𝑟
da questa relazione possiamo ottenere l’espressione della curvatura:
1 𝑌 1 𝑌 2 1
= =
𝑟 𝐸 ℎ7 𝐸 ℎ 𝑀
_3 `1 − a
𝑀,
Quest’espressione può essere ulteriormente semplificata, partendo dalla formula di
Navier e particolarizzando al caso di incipiente plasticizzazione della fibra più
distante dall’asse neutro otteniamo:
𝑦 𝑌 ℎb2 1 2𝑌
𝜀 (𝑦) = ⟹ = ⟶ = ⟵ 𝐶𝑢𝑟𝑣𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑎𝑙 𝑙𝑖𝑚𝑖𝑡𝑒 𝑒𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑜
𝑟 𝐸 𝑟5 𝑟5 𝐸ℎ

re : raggio di curvatura al limite elastico.

Abbiamo che:
1b 1
𝑟
=
1b
𝑟5 _3 `1 − 𝑀 a
𝑀,
Ricordando che 1/r=dj/dx otteniamo:
𝑑𝜑 1
= 𝑑𝑥
1b 𝑀
𝑟5 _3 `1 − a
𝑀,
Al crescere di M aumenta anche dj, il momento aumenta fino al valore di Mu
dopodiché il rapporto M/Mu tende ad 1, quindi l’argomento della radice tende a zero
il che significa che avremmo una rotazione relativa dj, tra le facce del concio,
infinitamente grande.

- 18 -
Il seguente diagramma:

Figura 2.11
ci mostra l’andamento della deformazione della trave al variare del momento
flettente. Quando M raggiunge il valore di Mu il concio assume lo stesso
comportamento di un vincolo cerniera, in particolare viene chiamato cerniera
plastica.
Ricapitolando:
𝑏ℎ0
𝑀, = 𝑌
4

𝑀5 = 𝑊' 𝑌
Il rapporto tra questi due momenti prende il nome di Fattore di forma Y (o shape
factor):
𝑀, 𝑏ℎ0 6 3
Ψ= = 0 = = 1,5
𝑀5 4 𝑏ℎ 2
Questa quantità non dipende dalle dimensioni della sezione, ma dipende solo dalla
sua geometria. Il valore di Y sta ad indicare che il momento flettente massimo che
posso applicare sul concio di trave è 1,5 volte più grande del momento al limite
elastico, nella condizione in cui la fibra più distante dall’asse neutro inizia a
plasticizzarsi.
Nella situazione di Incipiente Plasticizzazione:
𝑀 𝑀, 1 1
= =
𝑀, Ψ 𝑀, Ψ

- 19 -
3.Torsione semplice
Consideriamo un albero a sezione circolare, incastrato all’estremo superiore e
sollecitato all’estremo inferiore da una coppia torcente.

Figura 3.1: Albero sottoposto a torsione

Consideriamo che l’albero sia costituito da materiale elastico-lineare, isotropo e


omogeneo.
Vogliamo valutare come si deforma quest’albero e quali sono le tensioni che si
destano in esso per effetto del momento torcente applicato.
Si può dimostrare sperimentalmente che:
1. Le sezioni circolari dell’albero restano circolari anche durante la torsione;
2. I diametri e le distanze tra queste sezioni non mutano, purché l’angolo di
torsione si mantenga piccolo.
Un disco elementare, isolato dall’albero nel modo indicato in figura 3.2, si troverà nel
seguente stato di deformazione:

Figura 3.2
Per effetto della torsione, i lati dell’elemento abcd paralleli all’asse dell’albero
ruotano formando un angolo dj ; il punto c’ per effetto della torsione si sposta in c (la
sezione inferiore, di questo concio di albero, ruota di un angolo dj rispetto alla
sezione superiore).
L’elemento abcd si trova in uno stato di taglio puro o taglio semplice e la grandezza
dello scorrimento unitario si trova considerando il triangolo cc’a:

- 20 -
𝑐𝑐′ 1 𝑑𝜑 1
𝛾= = 𝑑 = 𝜃𝑑
𝑎𝑐′ 2 𝑑𝑥 2

Tutti i tronchi elementari dell’albero sono sollecitati allo stesso modo, pertanto la
quantità:
𝑑𝜑
𝜃=
𝑑𝑥
è uniforme lungo tutto l’albero e prende il nome di angolo unitario di torsione.
La lunghezza ac e ac’ rimangono sensibilmente le stesse in quanto l’angolo dj è un
angolo infinitesimo. Le tensioni tangenziali che agiscono sulle facce dell’elemento,
che prendono il nome di taglio puro, hanno le direzioni indicate in figura 3.2. Queste
grandezze si calcolano:
1
𝜏 = 𝐺𝛾 = 𝐺𝜃𝑑
2
G :modulo di elasticità tangenziale.

Per quanto riguarda gli elementi interni dell’albero valgono le seguenti ipotesi: non
solo il contorno circolare delle sezioni trasversali rimane indeformato, ma le sezioni
dell’albero si rimangono piane e ruotano come se fossero assolutamente rigide nel
loro piano.
Quindi, tutti i diametri di una sezione generica rimangono rettilinei e ruotano dello
stesso angolo.

Figura 3.3: Distribuzione delle tensioni

La tensione tangenziale varia proporzionalmente alla distanza r dall’asse dell’albero.


Il legame tra queste t ed il valore del momento torcente ci è dato dalla condizione di
equilibrio.

Figura 3.4

- 21 -
Dall’equilibrio della porzione di albero compresa tra l’estremo inferiore e la sezione
mn, deduciamo che le tensioni tangenziali distribuite sulla sezione trasversale sono
staticamente equivalenti ad una coppia uguale ed opposta al momento torcente Mt
applicato all’estremo libero. Dobbiamo calcolare quanto male il momento torcente
generato dalle tensioni tangenziali che agiscono su una sezione retta dell’albero.

Figura 3.5: Distribuzione emisimmetrica delle tensioni tangenziali

Consideriamo l’area elementare dA, essa è data da:


𝑑𝐴 = 𝑟 𝑑𝛼 𝑑𝑟
Le tensioni sono date da:
𝜏 = 𝐺𝜃𝑟
Su quest’area agirà una forza dF, che ha direzione tangenziale, data da:
𝑑𝐹 = 𝜏 𝑑𝐴 = (𝐺𝜃𝑟)(𝑟 𝑑𝛼 𝑑𝑟) = 𝐺 𝜃 𝑟 0 𝑑𝛼 𝑑𝑟
Questa forza genera un momento dMt rispetto al centro dell’albero:
𝑑𝑀# = 𝑑𝐹 𝑟 = 𝐺 𝜃 𝑟 ; 𝑑𝛼 𝑑𝑟
Per conoscere il momento risultante eseguiamo la somma integrale:
0= < <
1 1
𝑀# = 5 5 𝐺 𝜃 𝑟 𝑑𝛼 𝑑𝑟 = 𝐺 𝜃 2𝜋 5 𝑟 ; 𝑑𝑟 = 2𝜋 𝐺𝜃 𝑅 > = 𝜋 𝐺𝜃 𝑅 >
;
! ! ! 4 2
> >
1 𝑑 𝑑
= 𝜋 𝐺𝜃 = 𝜋 𝐺𝜃
2 16 32
Da questa espressione, noto il momento torcente, posso ricavarmi il valore
dell’angolo unitario di torsione q :
𝑀#
q=
𝑑>
𝐺𝜋
32
Quindi:
𝑀#
𝜏 = 𝐺𝜃𝑟 = 𝑟
𝑑>
𝜋
32

- 22 -
La tensione massima che agisce sull’elemento più distante dal centro della sezione
circolare è data da:
𝑀# 𝑑 𝑀# 𝑀#
𝜏34- = = =
𝑑> 2 𝑑 ; 𝑊#
𝜋 𝜋 16
32
Con Wt modulo di resistenza a torsione dato da:
𝑑;
𝑊# = 𝜋
16
Quindi per un’assegnata sezione circolare abbiamo due moduli di resistenza:
𝑑;
𝑊' = 𝜋 ⟵ 𝑀𝑜𝑑𝑢𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑎 𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒
32
𝑑;
𝑊# = 𝜋 ⟵ 𝑀𝑜𝑑𝑢𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑎 𝑡𝑜𝑟𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒
16
Il legame tra i due è dato da:
𝑊# = 2𝑊'
Queste condizioni valgono se l’albero ha un comportamento elastico-lineare.
Se invece non si ha più un legame elastico-lineare tra le t e g , ma si ha un legame
elasto-plastico senza incrudimento, come in figura:

Figura 3.6

si possono avere scorrimenti angolari, anche grandi, senza che la t aumenti.


Come abbiamo visto nello studio della flessione, si ha un diverso tipo di andamento
delle tensioni tangenziali sulla sezione circolare dell’albero.
Se il valore della t aumenta avremo una distribuzione elasto plastica del tipo:

Figura 3.7: Distribuzione delle tensioni tangenziali in regime elasto-plastico

- 23 -
Se continuiamo ad aumentare ulteriormente il valore della t si raggiungerà una
situazione in cui la distribuzione delle tensioni sarà del tipo:

Figura 3.8: Distribuzione delle tensioni tangenziali in regime plastico

Quando si è raggiunta questa situazione, il momento torcente assume il valore


massimo e prende il nome di momento torcente ultimo dato da:
𝑑𝐹 = 𝜏8 𝑑𝐴 = 𝜏8 𝑟 𝑑𝛼 𝑑𝑟
𝑑𝑀, = 𝜏8 𝑟 0 𝑑𝛼 𝑑𝑟
<
1 ; 1 𝑑; 𝑑;
𝑀, = 2𝜋 𝜏8 5 𝑟 0 𝑑𝑟 = 2𝜋 𝜏8 𝑅 = 2𝜋 𝜏8 = 𝜏8 𝜋
! 3 3 8 12
Il valore di tY può essere calcolato tramite due criteri di resistenza, che definiscono i
particolari stati di sollecitazione che producono il cedimento dei materiali. I criteri
utilizzati sono:
• Criterio di Tresca o criterio della massima tensione tangenziale;
• Criterio di Von Mises o criterio della massima energia di distorsione.
Per il criterio di Tresca:
𝑌
𝜏8 =
2
Per il criterio di Von Mises:
𝑌
𝜏8 =
√3

- 24 -
4.Stato tensionale
Uno stato tensionale nel caso di un solido tridimensionale è definito mediante un
tensore del secondo ordine, rappresentato da una matrice 3x3.
I componenti della matrice sono forze per unità di area agenti sulle facce del cubetto
elementare in figura:

Figura 4.1: Cubetto elementare

Per l’equilibrio alla rotazione abbiamo che


𝜎0; = 𝜎;0
𝜎)0 = 𝜎0)
𝜎); = 𝜎;)
Il tensore delle tensioni è simmetrico ed è quindi definito mediante solo 6
componenti.
In notazione matriciale il tensore delle tensioni si scrive:
𝜎- 𝜏-. 𝜏-/
𝜎z = {𝜏-. 𝜎. 𝜏./ |
𝜏-/ 𝜏./ 𝜎/
Per ogni stato di tensione esiste una terna di riferimento in cui le componenti
tangenziali sono nulle, questa terna è la terna principale o delle direzioni principali.
In questo riferimento particolare, il tensore delle tensioni assume forma diagonale, le
sue componenti normali s1, s2 e s3 sono le tensioni principali:
𝜎- 0 0
𝜎z = } 0 𝜎. 0~
0 0 𝜎/
Uno stato tensionale avente tutte le tre tensioni principali non nulle è detto triassiale.
Se una tensione principale è nulla lo stato tensionale è piano o biassiale.
Se una sola tensione principale è diversa da zero è invece monoassiale.

- 25 -
Sistemi piani
Lo studio dei problemi elastici è più semplice quando le tensioni oppure gli
spostamenti sono paralleli a un dato piano e nello stesso tempo siano distribuiti in
modo identico in tutti i piani paralleli a questo.
Molti problemi pratici si possono ricondurre, con buona approssimazione, a questa
situazione:
• Un solido avente la forma di una lastra piana, di spessore costante e molto
piccolo rispetto alle altre due dimensioni;
• Le forze esterne agiscono soltanto sulla superficie laterale della lastra, sono
parallele al suo piano mediano, sono uniformemente distribuite sullo spessore e
costituiscono un sistema equilibrato.

Figura 4.2
Se il riferimento è come in figura, sulle due facce della lastra avremo:
𝜎/ = 𝜏/- = 𝜏-/ = 𝜏/. = 𝜏./ = 0
Con le approssimazioni fatte si può ritenere che le tensioni siano nulle anche nei piani
interni paralleli alle facce, con un errore tanto piccolo quanto più piccolo è lo
spessore; si ha cioè un sistema delle tensioni piane.
Inoltre, se lo spessore è piccolo la distribuzione delle tensioni sx, sy e txy si può
ritenere identica in tutti i piani paralleli, ossia in tutto lo spessore per cui sx, sy e txy
sono indipendenti da z.

Stato di deformazione
Lo stato di deformazione in un punto di un solido è definito anch’esso mediante un
tensore simmetrico del secondo ordine. Le componenti di questo tensore, in
notazione indiciale sono date da (riferendosi sempre alla figura 4.1):
1 𝜕𝑢? 𝜕𝑢@
𝜀?@ = X + Z
2 𝜕𝑥@ 𝜕𝑥?
In notazione matriciale invece:
1 1
⎡ 𝜀- 𝛾-. 𝛾-/ ⎤
⎢ 2 2 ⎥
1 1
𝜀̿ = ⎢ 𝛾-. 𝜀. 𝛾 ⎥
⎢2 2 ./ ⎥
⎢1 1 ⎥
⎣2 𝛾-/ 𝛾./ 𝜀/ ⎦
2
Nella figura 4.3 è riportato l’allungamento unitario di una fibra che subisce una
deformazione:

- 26 -
Figura 4.3 Allungamento unitario di una fibra dx1 che subisce una deformazione

Nella figura 4.4 invece è riportata la determinazione dello scorrimento angolare g :

Figura 4.4

Una volta chiarito il significato delle diverse componenti di deformazione e il modo


in cui queste sono legate alle componenti degli spostamenti, possiamo analizzare cosa
si intende per sistema piano delle deformazioni. Prendiamo in esame il caso di un
corpo cilindrico o prismatico, di lunghezza molto più grande rispetto alle altre due
dimensioni, avente le estremità fisse e soggetto a forze sulle superfici laterali normale
all’asse longitudinale z, distribuite allo stesso modo in tutta la lunghezza ed
equilibrate nel loro complesso.
Sperimentalmente si rileva che le sezioni estreme, per come sono state vincolate, non
si spostano in direzione z e lo stesso fanno tutte le sezioni intermedie, che rimangono
piane e si deformano nel loro piano tutte allo stesso modo.
Valgono le seguenti condizioni per gli spostamenti:
w=u3=0 u=u(x, y) v=v(x, y)

- 27 -
Quindi per gli allungamenti e gli scorrimenti avremo che:
𝜕𝑢 𝜕𝑤 𝜕𝑣 𝜕𝑤
𝜀/ = 0 𝛾-. = 𝛾); = + = 0 𝛾./ = 𝛾0; = + = 0
𝜕𝑧 𝜕𝑥 𝜕𝑧 𝜕𝑦
Un sistema che si deforma in questo modo è detto sistema piano nelle deformazioni.
Le incognite cinematiche di questo problema sono gli spostamenti u(x,y) e v(x,y) e le
deformazioni ex, ey e gxy.
Vediamo il legame che sussiste tra le componenti di tensione incognite e le
componenti di deformazione incognite.
Nel caso di uno stato tensionale monoassiale abbiamo che la tensione s1 produce un
allungamento el lungo la direzione in cui è applicata la sollecitazione e un
allungamento trasversale et in direzione ortogonale alla precedente.
Avremo:
𝜎)
𝜀" = 𝜀) =
𝐸
𝜎)
𝜀# = 𝜀0 = −𝜈𝜀) = −𝜈
𝐸
𝜎)
𝜀; = −𝜈𝜀) = −𝜈
𝐸
Consideriamo ora il caso in cui sul nostro elemento agiscano due tensioni principali
non nulle s1 e s2. In questo caso avremo:
𝜎) 𝜎0
𝜀) = − 𝜈
𝐸 𝐸
𝜎) 𝜎0
𝜀0 = −𝜈 +
𝐸 𝐸
𝜎) 𝜎0
𝜀; = −𝜈 −𝜈
𝐸 𝐸
Nel caso in cui abbiamo che tutte e tre le tensioni principali siano non nulle, avremo
che:
𝜎) 𝜎0 𝜎; 1
𝜀) = − 𝜈 − 𝜈 = [𝜎) − 𝜈(𝜎0 + 𝜎; )]
𝐸 𝐸 𝐸 𝐸
𝜎) 𝜎0 𝜎; 1
𝜀0 = −𝜈 + − 𝜈 = [𝜎0 − 𝜈 (𝜎) + 𝜎; )]
𝐸 𝐸 𝐸 𝐸
𝜎) 𝜎0 𝜎; 1
𝜀; = −𝜈 − 𝜈 − 𝜈 = [𝜎; − 𝜈 (𝜎) + 𝜎0 )]
𝐸 𝐸 𝐸 𝐸

Oltre alle s agiranno anche le t che produrranno degli scorrimenti g :


𝜏-. 𝜏./ 𝜏-/
𝛾-. = 𝛾./ = 𝛾-/ =
𝐺 𝐺 𝐺

- 28 -
con G modulo si elasticità tangenziale:
𝐸
𝐺 =
2(1 − 𝜈)

Legame elastico: sistema piano nelle tensioni


Il legame elastico nel cado di un sistema piano nelle tensioni può essere espresso da:
1
𝜀- = ‹𝜎- − 𝜈𝜎. Œ ⟹ 𝜎- − 𝜈𝜎. = 𝐸𝜀-
𝐸
1
𝜀. = ‹𝜎 − 𝜈𝜎- Œ ⟹ 𝜎. − 𝜈𝜎- = 𝐸𝜀.
𝐸 .
𝜏-.
𝛾-. =
𝐺
Moltiplichiamo la seconda equazione per il coefficiente di Poisson:
𝜈𝜎. − 𝜈 0 𝜎- = 𝜈𝐸𝜀.
sommiamo alla prima equazione:
𝜎- (1 − 𝜈 0 ) = 𝐸[𝜀- + 𝜈𝜀. \
Da questa equazione otteniamo:
𝐸
𝜎- = [𝜀 + 𝜈𝜀. \
1 − 𝜈0 -
analogamente otterremmo:
𝐸
𝜎. = [𝜀 + 𝜈𝜀- \
1 − 𝜈0 .
e:
𝜏-. = 𝐺𝛾-.

Legame elastico: sistema piano nelle deformazioni


Il legame elastico nel caso di sistema piano nelle deformazioni può essere espresso
da:
𝛾./ = 𝛾-/ = 𝜏./ = 𝜏-/ = 0

𝜏-.
𝛾-. =
𝐺
1
𝜀- = ‹𝜎 − 𝜈[𝜎. + 𝜎/ \Œ
𝐸 -
1
𝜀. = ‹𝜎 − 𝜈 (𝜎- + 𝜎/ )Œ
𝐸 .
1
𝜀/ = ‹𝜎 − 𝜈[𝜎- + 𝜎. \Œ
𝐸 /

Il piano xy è il piano delle deformazioni, quindi: 𝜀/ = 0


- 29 -
quindi:
𝜎/ − 𝜈[𝜎- + 𝜎. \ = 0 ⟹ 𝜎/ = 𝜈[𝜎- + 𝜎. \

Sostituiamo l’espressione di 𝜎/ in 𝜀- e 𝜀. :
1 1
𝜀- = ‹𝜎- − 𝜈𝜎. − 𝜈 0 [𝜎- + 𝜎. \Œ = ‹𝜎- − 𝜈𝜎. − 𝜈 0 𝜎- − 𝜈 0 𝜎. Œ
𝐸 𝐸

1 0
(1 − 𝜈 0 ) 𝜈 (1 + 𝜈 )
= ‹𝜎- (1 − 𝜈 ) − 𝜈𝜎. (1 + 𝜈)Œ = •𝜎- − 𝜎 Ž
𝐸 𝐸 1 − 𝜈0 .

(1 − 𝜈 0 ) 𝜈
= •𝜎- − 𝜎 •
𝐸 1−𝜈 .

Introduco delle nuove costanti elastiche dette costanti elastiche irrigidite per effetto
dello stato piano delle deformazioni:
𝐸
𝐸A =
(1 − 𝜈 0 )
𝜈
𝜈A =
1−𝜈

che sono rispettivamente più grandi di 𝐸 e di 𝜈.


Utilizzando queste nuove costanti ottengo:
1
𝜀- = ‹𝜎- − 𝜈′𝜎. Œ
𝐸′

𝐸′
𝜎- = ‹𝜀 + 𝜈′𝜀. Œ
1 − 𝜈′0 -
1
𝜀. = ‹𝜎 − 𝜈′𝜎- Œ
𝐸′ .

𝐸′
𝜎. = ‹𝜀 + 𝜈′𝜀- Œ
1 − 𝜈′0 .

- 30 -
5. Recipienti in pressione (Recipienti cilindrici a parete spessa)
Si considera (Figura 5. 1) un corpo cilindrico cavo, limitato da due superfici
cilindriche coassiali di raggio ri e re sulle quali agiscono le pressioni uniformi p1 e p2.
La sua lunghezza L `e molto maggiore di r2, inoltre in tutti i punti delle sezioni di
estremità sono impediti gli spostamenti assiali. Sono quindi verificate le condizioni
perché si abbia un sistema piano nelle deformazioni: tutte le sezioni rette del cilindro
si conservano piane e si deformano allo stesso modo.

Figura 5.1: Recipiente cilindrico a parete spessa

Nel riferimento di Figura 5.1, avente asse z coincidente con l’asse del cilindro,
avremo:
𝜀/ = 𝛾/- = 𝛾/. = 0
Inoltre, ciascun piano della stella di sostegno z è un piano di simmetria geometrica e
di carico per il sistema elastico considerato, pertanto anche le sezioni meridiane del
solido, che sono eseguite con piani di questo tipo, si conservano piane e deformano
tutte allo stesso modo nel loro piano.
Per effetto della deformazione elastica, un punto generico P, posto alla distanza r
dall’asse, subisce uno spostamento radiale u funzione solo di r. Lo stato di deforma-
zione nell’intorno del punto P `e rappresentato dalle dilatazioni in direzione radiale e
in direzione periferica o tangenziale, che sono espresse da:
𝑑𝑢
𝜀B =
𝑑𝑟
𝑢
𝜀C =
𝑟
Se tracciassimo un arco di circonferenza, avente per centro l’asse del solido, tale arco
si deformerebbe con spostamenti radiali che sono uguali per tutti i punti della
circonferenza. Se esso ha inizialmente raggio r, a deformazione avvenuta avrà raggio
r+u, questo è ciò che accade alle fibre tangenziali.
Andiamo a vedere ora cosa accade alle fibre radiali.
- 31 -
Immaginiamo di avere una fibra radiale di lunghezza dr, posta tra le circonferenze di
raggio r e r+dr, per effetto della deformazione della sezione retta questa fibra subirà
degli spostamenti. Tali spostamenti non saranno uguali agli estremi della fibra
considerata, cioè il punto della fibra che si trova sulla circonferenza di raggio r si
sposterà sulla circonferenza di raggio r+u, avendo indicato con u la componente
dello spostamento in direzione radiale. L’altro estremo della fibra, che si torva sulla
circonferenza di raggio r+dr, si sposterà sulla circonferenza di raggio
(r+dr)+(u+du), con u+du lo spostamento in direzione radiale del punto che stiamo
considerando.

Figura 5.2: Deformazioni delle fibre radiali e circolari del recipiente

Quindi le fibre radiali conservano la loro direzione radiale, le fibre circolari si


deformano restando circolari con un raggio che è aumentato a valle della
deformazione.
Consideriamo il caso della fibra radiale, la sua lunghezza iniziale vale dl=dr, a
deformazione avvenuta invece varrà:

𝑑𝑙 A = (𝑟 + 𝑑𝑟) + (𝑢 + 𝑑𝑢) − (𝑟 + 𝑢)
Quindi questa fibra subirà una variazione di lunghezza data da:

𝑑𝑙 A − 𝑑𝑙 = (𝑟 + 𝑑𝑟 ) + (𝑢 + 𝑑𝑢 ) − (𝑟 + 𝑢) − 𝑑𝑟 = 𝑑𝑢
Quindi l’allungamento unitario che subisce la fibra radiale vale:
𝑑𝑙 A − 𝑑𝑙 𝑑𝑢
𝜀B = =
𝑑𝑙 𝑑𝑟
Consideriamo adesso il caso di una fibra circolare, la sua lunghezza vale:
𝑑𝑙 = 𝑟 𝑑𝛼
a deformazione avvenuta varrà:
𝑑𝑙 A = (𝑟 + 𝑢)𝑑𝛼
- 32 -
La variazione di lunghezza è data da:
𝑑𝑙 A − 𝑑𝑙 = (𝑟 + 𝑢)𝑑𝛼 − 𝑟 𝑑𝛼 = 𝑢 𝑑𝛼
Quindi l’allungamento unitario di una fibra circolare è dato da:
𝑑𝑙 A − 𝑑𝑙 𝑢 𝑑𝛼 𝑢
𝜀C = = =
𝑑𝑙 𝑟 𝑑𝛼 𝑟

Si considerano poi le condizioni di equilibrio di un elemento materiale, nell’ intorno


di P (Figura 5.3), limitato da due piani assiali a distanza dz, da due piani radiali
(comprendenti l’angolo dθ) e da due superfici cilindriche di raggio r e r+dr, sotto
l’azione delle tensioni agenti sulle singole facce.

Figura 5.3

Le forze che agiscono su questo volumetto sono riportate in figura 5.4:

Figura 5.4: Forze agenti su un volumetto appartenente alle pareti del recipiente

Le quattro forze dF1, dF2, dF3 e dF4 sono le forze elementari che agiscono sulle
quattro facce laterali del cubetto, dF1 e dF2 sono allineate tra di loro e agiscono
entrambe in direzione radiale, dF3 e dF4 agiscono invece sulle due facce ab e a’b’ che
sono ruotate dell’angolo dq. Le forze sono rappresentate nella seguente figura:

- 33 -
Figura 5.5

Tracciando la congiungente avrò un triangolo isoscele.


Componiamo le forze a due a due, prima in direzione radiale e poi quelle agenti sulle
facce laterali ruotate dell’angolo dq :
• dF1 centripeta e dF2 centrifuga Þ la loro risultante sarà centrifuga
• per quanto riguarda il contributo delle forze tangenziali componiamo
vettorialmente le forze e la risultante (freccia rossa rappresentata più in basso
solo per una questione di chiarezza. Le forze dF3 e dF4 sono ruotate
dell’angolo dq /2, siccome abbiamo un triangolo isoscele allora i triangolini
saranno uguali Þ la risultante ha direzione radiale perché le componenti
tangenziali si annullano tra loro.
Quindi l’equazione di equilibrio radiale si scrive:
𝑑𝜃
(𝑑𝐹0 − 𝑑𝐹) ) − 2𝑑𝐹; =0
2
{[𝜎B 𝑟 + 𝑑(𝜎B 𝑟 )]𝑑𝜃 𝑑𝑧 − 𝜎B 𝑟 𝑑𝜃 𝑑𝑧} − 𝜎C 𝑑𝑟 𝑑𝑧 𝑑𝜃 = 0
Iniziamo a fare delle semplificazioni:
{[𝑑 (𝜎B 𝑟)]𝑑𝜃 𝑑𝑧} − 𝜎C 𝑑𝑟 𝑑𝑧 𝑑𝜃 = 0

𝑑(𝜎B 𝑟 ) − 𝜎C 𝑑𝑟 = 0
Dividendo per dr:
𝑑 (𝜎B 𝑟) 𝑑 (𝜎B 𝑟)
− 𝜎C = 0 → = 𝜎C #𝐸𝑞𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑒𝑞𝑢𝑖𝑙𝑖𝑏𝑟𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑒𝑐𝑖𝑝𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖
𝑑𝑟 𝑑𝑟
Le incognite di questa equazione sono 𝜎C e 𝜎B .
Fin quando lasciamo le cose così non abbiamo nessuna possibilità di risolvere il
problema.

- 34 -
Per arrivare alla soluzione dobbiamo utilizzare un metodo della meccanica dei solidi
chiamato metodo degli spostamenti che consiste nell’esprimere le quantità
incognite, che in un problema di equilibrio elastico sono gli spostamenti nelle regioni
non vincolate del solido, le tensioni e le deformazioni, in genere sono dati i carichi e
sono assegnati particolari valori di spostamento in corrispondenza di certe zone
particolari del solido ovvero sono le porzioni di solido che sulle quali sono applicati i
vincoli e lì dove sono applicati i vincoli conosciamo gli spostamenti che ha subito il
solido.
Quindi scriviamo le deformazioni in funzione degli spostamenti, poi le tensioni, i
termini di deformazione e siccome le deformazioni sono espresse in termini degli
spostamenti avremo le tensioni espresse in termini dell’unica componente di
spostamento incognita che è la componente u, poi sostituiamo queste particolare
espressioni delle tensioni nell’equazione di equilibrio e otterremo un’equazione in cui
l’unica incognita è la componente di spostamento u che descrive la configurazione
deformata assunta dal recipiente.
Esprimendo la tensione in termini di deformazione:
𝐸′ 𝐸′ 𝑑𝑢 𝑢
𝜎B = ( 𝜀 + 𝜈′𝜀 ) = 6 + 𝜈′ 7
(1 − 𝜈′0 ) B C
(1 − 𝜈′0 ) 𝑑𝑟 𝑟

𝐸′ 𝐸′ 𝑢 𝑑𝑢
𝜎C = ( 𝜀 + 𝜈′𝜀 ) = 6 + 𝜈′ 7
(1 − 𝜈′0 ) C B
(1 − 𝜈′0 ) 𝑟 𝑑𝑟
Esprimendo la relazione precedente in questo modo:
𝑑𝜎B
+ 𝜎B − 𝜎C = 0 (1)
𝑑𝑟
facciamo la derivata 𝑑𝜎B rispetto a r :

𝑑𝜎B 𝐸′ 𝑑0𝑢 1 𝑑𝑢 𝑢
= X + 𝜈′ − Z
𝑑𝑟 (1 − 𝜈′0 ) 𝑑𝑟 0 𝑟 𝑑𝑟 𝑟 0

scrivendo la differenza di 𝜎B − 𝜎C in questo modo:


𝐸′ 𝑑𝑢 𝑢 𝑢 𝑑𝑢
𝜎B − 𝜎C = 6 + 𝜈′ − − 𝜈′ 7
(1 − 𝜈′0 ) 𝑑𝑟 𝑟 𝑟 𝑑𝑟
𝐸′ 𝑑𝑢 𝑢
= – ( 1 − 𝜈′ ) − (1 − 𝜈′)—
(1 − 𝜈′0 ) 𝑑𝑟 𝑟

Andando a sostituire nell’equazione (1):

𝑑0𝑢 1 𝑑𝑢 𝑢 𝑑𝑢 𝑢
𝑟 X 0 + 𝜈′ − 𝜈′ 0 Z + – (1 − 𝜈′) − (1 − 𝜈′)— = 0
𝑑𝑟 𝑟 𝑑𝑟 𝑟 𝑑𝑟 𝑟

- 35 -
𝑑0𝑢 𝑑𝑢 𝑢 𝑑𝑢 𝑢
X𝑟 0 + 𝜈′ − 𝜈′ Z + – (1 − 𝜈′) − (1 − 𝜈′)— = 0
𝑑𝑟 𝑑𝑟 𝑟 𝑑𝑟 𝑟

𝑑0𝑢 𝑑𝑢 𝑢
X𝑟 0 Z + 6 − 7 = 0
𝑑𝑟 𝑑𝑟 𝑟
Dividendo per r :

𝑑 0 𝑢 1 𝑑𝑢 𝑢
+ − =0
𝑑𝑟 0 𝑟 𝑑𝑟 𝑟 0
Che esprime l’equazione di equilibrio in termini di u (spostamento radiale).
Facciamo delle osservazioni, la seguente relazione:
1 𝑑𝑢 𝑢 𝑑 𝑢
− 0= ` a
𝑟 𝑑𝑟 𝑟 𝑑𝑟 𝑟
è la derivata rispetto a r di u / r , sostituendola nell’equazione differenziale il primo
membro può essere scritto come:

𝑑0𝑢 𝑑 𝑢
+ ` a=0
𝑑𝑟 0 𝑑𝑟 𝑟
𝑑 𝑑𝑢 𝑢 𝑑 1 𝑑 (𝑢 ∙ 𝑟 )
6 + 7= X Z
𝑑𝑟 𝑑𝑟 𝑟 𝑑𝑟 𝑟 𝑑𝑟

Sostituendo nell’equazione differenziale di partenza:


𝑑 1 𝑑 (𝑢 ∙ 𝑟 )
X Z=0
𝑑𝑟 𝑟 𝑑𝑟
È una forma più trattabile in quanto l’equazione differenziale può essere facilmente
integrata:
1 𝑑 (𝑢 ∙ 𝑟 )
= 𝐶)
𝑟 𝑑𝑟
moltiplichiamo per r e integriamo una seconda volta:
𝑑 (𝑢 ∙ 𝑟 )
= 𝐶) 𝑟
𝑑𝑟
1
𝑢∙𝑟 = 𝐶) 𝑟 0 + 𝐶0
2
dividendo per r :
1 𝐶0
𝑢= 𝐶) 𝑟 +
2 𝑟

- 36 -
Determiniamo ora le costanti. Si ottengono impegnando le condizioni al contorno
formulate o in termini di spostamento o in termini di tensioni. In questo caso di
tensioni perché conosciamo il valore delle pressioni con cui premono i fluidi
all’interno e all’esterno del recipiente.
Considerando gli allungamenti:
𝑑𝑢 1 𝐶0
𝜀B = = 𝐶) − 0
𝑑𝑟 2 𝑟
𝑢 1 𝐶0
𝜀C = = 𝐶) + 0
𝑟 2 𝑟
Calcoliamo ora le tensioni:
𝐸A 𝐸A 1 𝐶0 1 𝐶
A + 0 𝜈A7 =
𝜎B = (𝜀B + 𝜈 A 𝜀C ) = 6 𝐶) − + 𝐶 𝜈
[1 − 𝜈 A 0 \ [1 − 𝜈 A 0 \ 2 𝑟0 2 ) 𝑟0

𝐸′ 1 𝐶0 1 𝐸′ 𝐸′ 1
= ˜ 𝐶) ( 1 + 𝜈′) − (1 − 𝜈′)™ = 𝐶) − 𝐶0
(1 − 𝜈′0 ) 2 𝑟0 2 (1 − 𝜈′) (1 + 𝜈′) 𝑟 0
Questa era la tensione radiale. La tensione tangenziale si ottiene con gli stessi
passaggi:
𝐸′ 𝐸A 1 𝐶0 1 𝐶
A − 0 𝜈 A7 =
𝜎C = ( 𝜀C + 𝜈′𝜀B ) = 0 6 𝐶) + + 𝐶) 𝜈
(1 − 𝜈′0 ) [1 − 𝜈 A \ 2 𝑟0 2 𝑟0

𝐸′ 1 𝐶0 1 𝐸′ 𝐸′ 1
= ˜ 𝐶 ( 1 + 𝜈′) + (1 − 𝜈′)™ = 𝐶 + 𝐶
(1 − 𝜈′0 ) 2 ) 𝑟0 2 ) (1 − 𝜈′) 0
(1 + 𝜈′) 𝑟 0
Conviene scrivere in una forma più semplice le forme della tensione tangenziale e
radiale, che si ottiene sostituendo ai fattori tra parentesi quadra le costanti A e B:
1 𝐸′
𝐶) =𝐴
2 (1 − 𝜈′)

𝐸′
𝐶0 =𝐵
(1 + 𝜈′)
Arriviamo alle formule di Lamè:
𝐵
𝜎B = 𝐴 −
𝑟0
𝐵
𝜎C = 𝐴 +
𝑟0
Il procedimento appena scritto prende il nome di soluzione di Lamè e queste ultime
due formule scritte sono le formule di Lamè.
- 37 -
Date le condizioni di vincoli e di carico del nostro recipiente, che abbiamo visto che è
vincolato in modo da impedire gli spostamenti assiali in tutti i punti delle sezioni di
estremità, in ogni punto del recipiente agirà una 𝜎/ data da:

𝜎/ = 𝜈 A (𝜎B + 𝜎C ) = 𝜈 A (𝐴 + 𝐴) = 2𝜈 A 𝐴

Il nostro recipiente per come è vincolato e caricato è un sistema piano nelle


deformazioni recipiente piano, quando il solido di deformazione è piano abbiamo
detto che una σ si può ottenere dalle altre due attraverso questa formula.
Dunque, dalla formula vediamo che la σ è costante sulla sezione retta del recipiente.
Vediamo come possiamo determinare le costanti di integrazione: imponiamo delle
condizioni al contorno in particolare per la σr. Determiniamo prima A e B e poi
deduciamo i parametri C1 e C2.
σr deve attingere a dei valori particolare a raggi interno e esterno del recipiente.
Per capire riprendiamo in esame lo schema in figura:

Figura 5.3

Stiamo trattando il caso di un recipiente cilindrico molto lungo, delimitato da due


superfici cilindriche coassiali di raggio interno ri e esterno re, su tali superfici
premono dei fluidi con pressione pi e pe.

Figura 5.4

Qui vediamo rappresentato il volumetto del recipiente. Abbiamo detto che su tutte le
superfici cilindriche agisce la σr (radiale), mentre in tutti i piani meridiani agisce la

- 38 -
tensione circonferenziale. Quindi su ciascuna delle circonferenze verdi agisce la σr
variabile con r, in particolare agisce σr anche sulla superficie cilindrica interna e
esterna del recipiente.
Il materiale che costituisce il recipiente è sollecitato da σr sia a raggio interno che
esterno e tale σr deve avere valori particolari per essere in equilibrio con pressione
interna e esterna. Ci si può convincere facilmente che la σr che tira o schiaccia le fibre
radiali, a raggio interno eguaglia pressione interna perché fibre radiali sono premute
dal lato interno della pressione pi, quindi per equilibrio queste fibre devono essere
premute agli altri estremi da una σr.

𝜎B = −𝑝?
Discorso analogo per le fibre esterne a raggio esterno sono premuto da un lato dalla
pressione esterna e per equilibrio all’altra estremità della fibra deve agire una
tensione radiale:

𝜎B = −𝑝5

Quindi sul raggio interno e esterno le 𝜎B sono di compressione e pari rispettivamente


a 𝑝? e 𝑝5 .
Tonando alle formule di prima:
𝐵
𝐴− = −𝑝?
𝑟?0
𝐵
𝐴− = −𝑝5
𝑟50

Se moltiplichiamo la prima equazione per 𝑟?0 e la seconda per 𝑟50 otteniamo:

𝑟?0 𝐴 − 𝐵 = −𝑝? 𝑟?0

𝑟50 𝐴 − 𝐵 = −𝑝5 𝑟50


sottraiamo la seconda alla prima:

𝑟?0 𝐴 − 𝑟50 𝐴 = −𝑝? 𝑟?0 + 𝑝5 𝑟50

𝐴[𝑟?0 − 𝑟50\ = −𝑝? 𝑟?0 + 𝑝5 𝑟50

𝐴[𝑟50 − 𝑟?0 \ = 𝑝? 𝑟?0 − 𝑝5 𝑟50

𝑝? 𝑟?0 − 𝑝5 𝑟50
𝐴=
𝑟50 − 𝑟?0

Andando a sostituire e facendo le semplificazioni otteniamo:

- 39 -
𝑝? 𝑟?0 − 𝑝5 𝑟50 0
𝑟?0 𝐴 −𝐵 = 0
−𝑝? 𝑟? ⟶ 𝑟? − 𝐵 = −𝑝? 𝑟?0
𝑟50 − 𝑟?0

[𝑝? 𝑟?0 − 𝑝5 𝑟50 \𝑟?0 − 𝐵[𝑟50 − 𝑟?0 \ = −𝑝? 𝑟?0 [𝑟50 − 𝑟?0 \

𝐵[𝑟50 − 𝑟?0 \ = 𝑝? 𝑟?0 𝑟50 − [𝑝5 𝑟50 𝑟?0 \

𝑟50 ∙ 𝑟?0
𝐵 = (𝑝? − 𝑝5 ) 0
𝑟5 − 𝑟?0

Quindi ricapitolando abbiamo trovato che:

𝑝? 𝑟?0 − 𝑝5 𝑟50
𝐴=
𝑟50 − 𝑟?0

𝑟50 ∙ 𝑟?0
𝐵 = (𝑝? − 𝑝5 ) 0
𝑟5 − 𝑟?0

Siccome σz è positiva allora è una tensione di trazione uniforme.


Tornando alla figura precedente del recipiente.
Le linee tratteggiate stanno a significare che recipiente è più lungo di come è
rappresentato. Sulle sezioni d’estremità sono applicati dei vincoli che impediscono
gli spostamenti assiali di tutti i punti di queste estremità quindi il recipiente è in uno
stato piano di deformazione e su ogni sezione retta del recipiente, quindi su sezione
che noi eseguiamo con un piano normale all’asse del recipiente agisce una
distribuzione uniforme σz di trazione.
Quindi se staccassimo dal recipiente il tronco rappresentato (tratteggiato) per non
violare l’equilibrio sulle sezioni rette d’estremità dobbiamo applicare una
distribuzione uniforme di σz (che abbiamo calcolato).
Di conseguenza questo pezzo di recipiente è soggetto a due forze di trazione che
sono date dal prodotto tra l’area della sezione retta e la σz.
Ciò significa che questo tronco di recipiente è teso in direzione assiale da queste due
forze che sono date da:

𝐹/ = 𝜎/ 𝜋[𝑟50 − 𝑟?0 \

A partire da ciò è possibile costruire una soluzione che verifichi altre situazioni di
vincolo per quanto riguarda le sezioni di estremità del recipiente? Possiamo
identificare il campo tensionale che si desta nel recipiente di lunghezza l
confrontabile con le dimensioni della sezione retta e le cui estremità scariche?
Si, perché si tratta di correggere la soluzione nel caso di recipiente di lunghezza
infinita sovrapponendo a questa soluzione un’altra soluzione che modifichi l’azione
dei vincoli che prima avevamo posto per le sezioni di estremità del recipiente.

- 40 -
Avevamo detto che il recipiente era di lunghezza molto grande rispetto alle
dimensioni della sezione trasversale e sulle sezioni rette gli spostamenti erano
impediti e che questa azione di vincolo generava una forza di trazione Fz vista prima.
Ora invece vogliamo capire quali sono le tensioni che si destano in un recipiente di
lunghezza finita confrontabile con i raggi esterno e interno quando il recipiente è
soggetto alla stessa pressione interna e esterna. Dobbiamo eliminare quindi l’azione
dei vincoli che agiscono sulla sezione di estremità del recipiente che è data da questa
forza di trazione Fz. Quindi dobbiamo sovrapporre alla relazione precedente una
relazione che elimini la forza di trazione, cioè dobbiamo sovrapporre al nostro campo
tensionale un secondo campo tensionale che elimini la tensione σz. Tale forza che
elimina questi effetti è una forza di compressione che è l’opposto di Fz. Tale forza
genera una tensione σz uguale e opposta alla tensione σz che agiva nel recipiente
precedente. Quindi queste σz si eliminano e ci accorgiamo che la σz che agisce in
direzione assiale sul tronco del recipiente è pari a zero.
Quindi agiranno solo le altre sue tensioni σr e σθ.
Resta ancora un altro caso che è il caso del recipiente di lunghezza finita ma chiuso
alle sue estremità mediante dei fondi.
Quindi nel mantello del recipiente nascerà una σz:
𝜎/ = 𝐴
Scriviamo con ordine i risultati per quanto riguarda la σz.
• Nel caso di recipiente di lunghezza infinta (lunghezza molto più grande
rispetto a raggio interno e sterno):

𝜎/ = 2𝜈 A 𝐴

• Nel caso di recipiente di lunghezza finita ma senza fondi quindi alle sezioni
di estremità sono scariche:

𝜎/ = 0

• Nel caso di recipiente di lunghezza finita chiuso mediante dei fondi:


𝜎/ = 𝐴

Nel caso di recipiente lunghezza finita con fondi.


Supponiamo di trovarci nel caso di recipiente di lunghezza finita vediamo
cosa accade quando mettiamo dei fondi all’estremità: il fluido all’interno del
recipiente ha una pressione più grande del fluido all’esterno.
Il fluido all’interno preme sui fondi in direzione assiale e il compito di quest’ultimo è
di raccogliere la spinta assiale che il fluido esercita su di essi e la trasmettono al
mantello.

- 41 -
Quindi quando chiudiamo il recipiente con i fondi poiché ricevono spinta assiale e la
trasmetto al mantello, il mantello con fondi è teso in direzione assiale da una σz di
trazione pari ad A.
Prendiamo sempre in esame il caso del recipiente con fondi.
Abbiamo visto le tensioni principali che si destano nel mantello del recipiente.
Quanto severamente è sollecitato il recipiente? Regge?
Dobbiamo calcolare quindi la tensione equivalente che svolge il compito di fornirci
un indice della pericolosità del campo di tensione che agisce nel nostro recipiente.
Tale discorso vale per tutti i componenti di macchina non solo per il recipiente.
Esistono diversi criteri di resistenza è associati a un’espressione di tensione
equivalente.
Poiché non vogliamo che nella parete si abbiano deformazione plastiche, i criteri di
resistenza sono contro il cedimento plastico e prendono il nome di criteri di
snervamento
Siccome in genere ci troviamo di fronte a materiale metallici, i criteri di snervamento
sono due:
• Criterio di Von Mises o criterio della massima energia di distorsione (da non
confondere dalla massima energia di deformazione, in quanto è l’aliquota di
deformazione che spesa per cambiare forma al cubetto elementare)
• Criterio di Tresca o della massima tensione tangenziale

Nel primo si ha cedimento plastico per i cubetti elementari quando l’energia di


distorsione accumulata in questo cubetto raggiunge un valore limite massimo
tollerabile dal materiale.
Nel secondo si ha cedimento plastico quando la tensione tangenziale massima agente
nell’interno di ciascun punto raggiunge valore limite.

Calcoliamo la tensione equivalente di Von Mises in tutti i punti del recipiente:

𝜎5D = _𝜎C0 + 𝜎B0 + 𝜎/0 − 𝜎C ∙ 𝜎B − 𝜎B ∙ 𝜎/ − 𝜎/ ∙ 𝜎C =

1
= ›(𝜎C − 𝜎/ )0 + (𝜎/ − 𝜎B )0 + (𝜎B − 𝜎C )0
√2
Andando a sostituire con i valori delle 𝜎 calcolate prima otteniamo:

1 𝐵 0 𝐵 0 𝐵 0 𝐵 𝑟50 ∙ 𝑟?0 1
𝜎5D = ^6 7 + 6 7 + 6−2 7 = √3 = √3(𝑝? − 𝑝5 ) ∙
√2 𝑟 0 𝑟0 𝑟0 𝑟0 𝑟50 − 𝑟?0 𝑟 0

La 𝜎5D dipende dal salto di pressione ∆𝑝 tra pressione interna e esterna, quindi
riscriviamo la 𝜎5D facendo comparire ∆𝑝:

- 42 -
1 𝐵 0 𝐵 0 𝐵 0 𝐵 𝑟50 ∙ 𝑟?0 1
𝜎5D = ^6 7 + 6 0 7 + 6−2 0 7 = √3 0 = √3 ∆𝑝 0 ∙
√2 𝑟 0 𝑟 𝑟 𝑟 𝑟5 − 𝑟?0 𝑟 0

Vediamo quale sia l’andamento della σz (assiale), σθ (circonferenziale) e σr, lungo lo


spessore del recipiente:

Figura 5.6 Andamento delle tre componenti della tensione

In figura sono riportati gli andamenti delle tre componenti di tensioni (che sono
principali poiché agiscono su elementi piani dove non agiscono τ) di un recipiente le
cui dimensioni sono scelte a titolo di esempio:
• La tensione radiale è di compressione
• La tensione circonferenziale è di trazione
• La tensione σz è di trazione ed è costante
σθ decresce all'aumentare di r, mentre σr aumenta all'aumentare di r.
Per r che tende all’infinito quindi i punti che non appartengono al recipiente, σθ e σr
tendono al valore σz. Invece per r tendente a zero abbiamo per la σr e σθ valori che
sono pari meno infinito e più infinito.
Ritornando all’ultima formula scritta:

𝑟50 ∙ 𝑟?0 1
𝜎5D = √3 ∆𝑝 0 ∙
𝑟5 − 𝑟?0 𝑟 0

Più ci spostiamo verso la superficie esterna del recipiente e più è bassa la 𝜎5D che
agisce in questi strati, quindi gli strati più esterni del recipiente sono meno sollecitati
degli strati interni in quanto 𝜎5D decresce con il raggio.

- 43 -
Facciamo ora delle “manipolazioni” che ci consentono di riflettere sulle
caratteristiche del recipiente a parete grossa. Dividiamo numeratore e denominatore
per 𝑟?0 :

𝑟50 1
𝜎5D = √3 ∆𝑝 ∙
𝑟50 𝑟0
−1
𝑟?0
Definiamo un parametro:
𝑟5
𝑘=
𝑟?
È una quantità adimensionale e prende il nome di fattore di forma del recipiente.
Più è grande tale parametro e più è spesso il recipiente rispetto al raggio interno. Se k
è prossimo all’unità allora il raggio esterno è molto vicino al raggio interno e quindi
lo spessore del recipiente è molto piccolo. Quindi k dipende dalla forma del
recipiente.
A questo punto esprimiamo la 𝜎5D in termini di k e analizziamo i valori della 𝜎5D a
raggio interno e esterno, in particolare a raggio interno assume valore massimo
mentre a raggio esterno valore minimo:

𝑟50 1
𝜎5D = √3 ∆𝑝 0 ∙ 0
𝑘 −1 𝑟
𝑟50 1 𝑘0
𝜎5D(FGH) = √3 ∆𝑝 0 ∙ = √3 ∆𝑝 0
𝑘 − 1 𝑟?0 𝑘 −1

𝑟50 1 1
𝜎5D(FJK) = √3 ∆𝑝 0 ∙ 0 = √3 ∆𝑝 0
𝑘 − 1 𝑟5 𝑘 −1
Facendo il rapporto:
𝜎5D(FGH)
= 𝑘0
𝜎5D(FJK)

Tanto più è grande il rapporto tra raggio esterno e interno tanto più è spesso il nostro
recipiente, perché:

𝑟5 = 𝑟? + 𝑠

tanto più sarà alto il rapporto tra le 𝜎5D(FGH) e 𝜎5D(FJK) . Ciò significa che la
distribuzione della 𝜎5D dello spessore parietale risulta essere più disuniforme.
Quindi quanto più grande è k, tanto più disuniforme è la distribuzione delle tensioni
nella parete del recipiente e tanto più disuniforme è la distribuzione della 𝜎5D .
Questa disuniformità della 𝜎5D ha delle ricadute tecniche importanti, perché siccome
𝜎5D è massima a raggio esterno e minima a raggio interno, si avrà che:

- 44 -
• il materiale più vicino al raggio interno è sollecitato più severamente del
materiale vicino al raggio esterno del recipiente, in altre parole nel recipiente a
parete spessa il materiale più vicino al raggio interno sopporta di più il carico
esterno di quando facciano le fibre radiali, tangenziali ed assiali che sono
collocate in prossimità del raggio esterno. Tale differenza di lavoro, nella
severità delle sollecitazioni delle tensioni e quindi del carico di lavoro che si
prendono le diverse fibre del recipiente è più marcata quanto più grande è k,
quindi quanto più grande è il raggio esterno rispetto al raggio interno.
Tale caratteristica ha delle ricadute importanti per quanto riguarda la procedura di
dimensionamento che dobbiamo eseguire per dimensionare correttamente il
recipiente.

La formula più utile è:

𝑟50 1 𝑘0
𝜎5D(FGH) = √3 ∆𝑝 0 ∙ = √3 ∆𝑝 0
𝑘 − 1 𝑟?0 𝑘 −1
Dobbiamo decidere per cosa vogliamo dimensionare il recipiente. In genere il primo step è quello
del dimensionamento contro il cedimento plastico (snervamento), quindi vogliamo essere sicuri che,
quando il manufatto è caricato dalla pressione interna ed esterna, non si abbia cedimento plastico.
Quindi partiamo con un dimensionamento contro un cedimento plastico, per farlo è necessario che
la 𝜎5D(FGH) non superi la tensione ammissibile, di conseguenza scegliamo le forme del
componente facendo in modo da non violare questa condizione.
La tensione ammissibile è dedotta dalle proprietà meccaniche del materiale, in particolare dal valore
della tensione di snervamento, applicando opportuni coefficienti di sicurezza dove tali valori sono
fissati dalla legge o normative che regolano il dimensionamento dei diversi componenti meccanici.
Tenendo conto che per il cedimento plastico il coefficiente di sicurezza vale 1,5 avremo:

Tensione ammissibile = tensione snervamento/ coefficiente di sicurezza

La situazione più gravosa che si può tollerare è quando la tensione equivalente


massima eguaglia il valore della tensione ammissibile. Uguagliando tali espressioni:

𝑘0
𝜎43 = √3 ∆𝑝 0
𝑘 −1
questo risultato può essere riscritto dividendo primo e secondo membro per 𝜎43 :

∆𝑝 𝑘0
1 = √3
𝜎43 𝑘 0 − 1
moltiplichiamo per 𝑘 0 − 1:
∆𝑝 0
𝑘 0 − 1 = √3 𝑘
𝜎43

- 45 -
∆𝑝
𝑘 0 61 − √3 7 = 1 ⟹
𝜎43

1
⟹ 𝑘 = •
∆𝑝
`1 − √3 a
𝜎43

Quindi k che è dato dal rapporto tra raggio interno e esterno può essere riscritto nel
seguente modo:

𝑟? + 𝑠 1
=•
𝑟5 ∆𝑝
`1 − √3 a
𝜎43

𝑠 1
= −1 + •
𝑟? ∆𝑝
`1 − √3 a
𝜎43

Il rapporto in parentesi sotto radice è adimensionale.


• Δp è il salto di pressione quindi il carico a cui è assoggettato il recipiente
• 𝜎43 rappresenta la resistenza del materiale
Quindi tutte le informazioni che riguardano il carico del materiale sono a secondo
membro mentre a primo membro riguardano la geometria.
Lo spessore è la vera incognita mentre il raggio interno 𝑟? in genere non è una
quantità incognita (perché prima di eseguire il dimensionamento conosciamo il posto
dove verrà installato il recipiente quindi l’ingombro del recipiente, di conseguenza
conosciamo anche l’ingombro assiale e poi ci sarà detto il volume di fluido che deve
essere stoccato all’interno del recipiente).
Per un assegnato materiale è quindi assegnata 𝜎43 e per un assegnato sito di
installazione del recipiente di quantità di fluido stoccata quindi per un assegnato
raggio interno: lo spessore parietale s aumenta all'aumentare del salto di pressione
che c’è tra interno e esterno, quindi all’aumentare della severità dei carichi applicati
sul recipiente.
• All’aumento di Δp, lo spessore non può crescere sempre perché quando il
rapporto Δp/𝜎43 si avvicina al valore limite 1/rad3
ð il denominatore tende a zero dalla sinistra
ð la radice tende a più infinito
Così lo spessore s diventa infinitamente grande e la curva s presenta un asintoto
verticale posizionato in corrispondenza del valore Δp/𝜎43 pari a 1/rad3.
• Quando il rapporto diventa più grande di 1/rad3 allora il denominatore diventa
negativo
ð la radice quadrata darà una quantità immaginaria
ð lo spessore darà un numero complesso
- 46 -
Questo risultato significa che non esiste uno spessore parietale in grado di resistere al
salto di pressione Δp assegnato.
Tali considerazioni sono riassunte in un diagramma che si chiama curva di progetto
del recipiente a parete spessa o grossa:

Figura 5.7: Curva di progetto di un recipiente a parete spessa

All'aumentare del salto di pressione aumenta lo spessore.


• Quando il rapporto Δp/𝜎43 tende a 1/rad3 allora s/𝑟? diventa infinitamente
grande.
• Oltre questo rapporto non è possibile andare altrimenti si avrà un numero
complesso, perché non esiste uno spessore parietale in grado di resistere al
salto di pressione, quindi questa zona è chiamata No vessels in quanto non
esiste un recipiente in grado di resistere.
• Inoltre anche quando Δp/𝜎43 è minore di 1/rad3 esistono dei
valori Δp/𝜎43 per i quali non si può dimensionare perché la formula di
progetto fornisce valori del rapporto s/𝑟? molto grandi e abbiamo detto che
quando tale rapporto è molto grande la distribuzione delle tensioni equivalenti
è molto disuniforme, quindi solo una piccola porzione di materiale più vicina
agli strati interni è sollecitata in maniera severa dal valore di tensione
equivalente prossima alla tensione ammissibile, mentre tutti gli strati rimanenti
più lontani dal raggio interno lavorano con delle tensioni equivalenti che sono
molto minori della 𝜎43 . In genere nella pratica tecnica, per questa
disuniformità della tensione equivalente nello spessore parietale, si fa in modo
che il rapporto s/𝑟? non superi 2.53, altrimenti avremo un recipiente con cui
gran parte del materiale non lavora (in quanto lavorano gli strati più interni).
Per questo motivo questa regione del diagramma prende il nome di regione No
profit, in quanto non è conveniente eseguire il dimensionamento di un
recipiente a parete spessa.
Di conseguenza dalla curva di progetto teorica, si utilizza nella pratica tecnica
soltanto la porzione al di sotto della retta orizzontale di ordinata 2.53

- 47 -
Nella pratica non si costruiscono quasi mai recipienti con rapporto di forma k più
grande di 3.54, quindi con il rapporto s/𝑟? :
𝑟? + 𝑠 𝑠
𝑘= =1+
𝑟? 𝑟?
𝑟5 = 𝑟? + 𝑠
L
Quindi B non deve superare il valore 2.53
#

Quando guardiamo questo diagramma e vediamo queste due regioni nelle quali non si
possono trovare soluzioni progettuali al nostro problema, sembrerebbe che il
dimensionamento di un recipiente a parete spessa per un assegnato materiale, per il
quale salto di pressione sia prossimo o maggiore del valore limite, non abbia
soluzione e non possa essere eseguito.
Per fronteggiare queste situazioni in cui il salto di pressione è così grande da essere
prossimo al valore limite, bisogna ricorrere a particolari tecniche.
Tali tecniche, che si usano per costruire un recipiente in parete spessa in cui il salto di
pressione appartiene alla regione no vessel o no profit, sono:
1. Recipienti multistrato, multi-layer
2. Recipienti autoforzati, autofrettati
3. Recipienti nastrati
Quindi per un assegnato materiale se il salto di pressione è tale per cui cadiamo in
una delle due zone, l’unica cosa che possiamo fare è ricorrere ad una di queste tre
tecniche costruttive.
Perché queste tecniche riescono a risolvere il problema del dimensionamento nelle
condizioni “difficili”?
Perché attraverso queste 3 tecniche si riesce a introdurre nella parete del recipiente un
campo di tensioni residue. Innanzitutto, ricordiamo che le tensioni residue sono le
tensioni che rimangono intrappolate nel componente meccanico anche quando
rimuoviamo i carichi esterni agenti sul componente. Siccome questi particolari campi
di tensione sono in equilibrio con forze esterne nulle allora si parla anche di tensioni
auto-equilibrate o campo tensionale equilibrato. Auto-equilibrate perché sono in
equilibrio in assenza di forze esterne.

- 48 -
Riprendiamo il diagramma delle tre componenti di tensione:

Figura 5.6 Andamento delle tre componenti della tensione

Vediamo l’effetto di questi procedimenti costruttivi.


Queste tecniche hanno lo scopo di introdurre nella parete del recipiente un particolare
campo di tensioni residue, queste tensioni residue sono tali per cui: sono di
compressione per 𝜎C sul raggio interno e di trazione per 𝜎C sul raggio esterno.
• 𝜎B varia con continuità, però poiché sono auto-equilibrate allora 𝜎B residuo
deve essere pari a zero sul raggio interno e esterno.
• 𝜎B residua è pari a zero.
• Siccome 𝜎C residua è di compressione sul raggio interno e di trazione sul
raggio esterno, quando a questa particolare distribuzione di 𝜎C si sovrappone
quella della 𝜎C prodotta dai carichi agenti sul recipiente (che ha l’andamento in
figura), avremo una 𝜎C risultante più uniforme di quella che si avrebbe in
assenza di tensioni residue per cui la 𝜎C(FGH) risulta essere più bassa della 𝜎C
che si avrebbe in assenza di tensioni residue
ð Quindi anche la 𝜎5D nel recipiente con tensioni residue di questo tipo sarà più
bassa della 𝜎5D(FGH) che si avrebbe in assenza di tensioni residue.
Quindi queste tensioni residue hanno l’effetto benefico di uniformare almeno in un
certo grado l’andamento della tensione equivalente nello spessore del recipiente e in
particolare ridurre il valore della 𝜎5D(FGH) sul raggio interno del recipiente.

- 49 -
6. Recipienti a parete sottile o membranali
Sotto un profilo concettualmente rigoroso, tra recipienti a parete spessa e recipienti a
parete sottile non esiste alcuna differenza nella distribuzione tensionale. Ma per
ragioni di ordine pratico e per comodità di calcolo, quando lo spessore s della parete è
modesto in rapporto al raggio di curvatura r, si adotta un’impostazione di calcolo
semplificate. La semplificazione dall’ipotesi che la distribuzione di tutte e tre le
tensioni principiali sia uniforme lungo lo spessore parietale, ossia che tali solidi siano
privi di rigidezza a flessione ed a torsione.
La suddivisione tra recipienti a parete sottile e recipienti a parete grossa,
comunemente adottata, è di tipo convenzionale.
Secondo una convenzione molto diffusa, un recipiente cilindrico a sezione circolare
retta, ad esempio, viene ritenuto a parete sottile quando il suo spessore s non supera
1/10 del valore del raggio interno 𝑟? , cioè quando:
1
𝑠≤ 𝑟
10 $
Più in generale, si considerano recipienti a parete sottile quelle strutture laminari
aventi uno spessore che in nessun punto della (loro) superficie media superi il valore
di 1/10 del valore ivi raggiunto dal più piccolo dei due raggi di curvatura principali
della superficie medesima.
Poiché se le tensioni sono uniformi nello spessore e le rigidezze flessionali e
torsionali della parete sono nulle, quest’ultima si comporta come una membrana, i
recipienti a parete sottile prendono anche il nome di recipienti membranali.
Le tensioni che agiscono in questi recipienti possono essere valutate con la teoria
delle membrane curve.
Per calcolare gli sforzi nelle membrane sono sufficienti le sole condizioni di
equilibrio, per cui il problema è staticamente determinato (internamente). È inoltre
particolarmente semplice nel caso delle membrane aventi la forma di una superficie
di rivoluzione e caricate con simmetria radiale.
Invece nel caso generale di forze non simmetriche o di membrane di forma qualsiasi,
il problema pur essendo ancora staticamente determinato richiede la risoluzione di un
sistema di equazioni alle derivate parziali.
Le tensioni
Consideriamo un recipiente o serbatoio di lamiera o anche un involucro di tessuto
aventi la forma di una superficie di rivoluzione ad asse verticale.

Figura 6.1: Recipiente ellissoidico

- 50 -
La superficie può essere a doppia curvatura, oppure a semplice curvatura quando è
cilindrica o conica.
Innanzitutto, su questa superficie possiamo facilmente identificare due famiglie di
curve: le curve meridiane o meridiani ed i paralleli.
I meridiani si ottengono sezionando il recipiente con i piani meridiani, ovvero i piani
passanti per l'asse del recipiente.
I paralleli sono invece generati dall'intersezione della superficie con i piani normali al
suo asse e sono quindi delle circonferenze.
Sulla parete agiscono delle forze superficiali che sono uniformemente distribuite
lungo un parallelo e variabili lungo un meridiano ossia da parallelo a parallelo.
Esse possono avere una componente X secondo la tangente al meridiano e una
componente Z secondo la normale alla membrana, relative all'unità di area di questa;
queste componenti sono funzioni soltanto della coordinata del parallelo e non della
longitudine del punto che si considera, cioè sono distribuite in egual modo su tutti i
meridiani e costanti lungo i paralleli.
I serbatoi contenenti un liquido o altre sostanze pesanti essi sono di solito sostenuti
dall'alto, lungo l'orlo superiore del recipiente.
Lungo i meridiani agiscono le tensioni 𝜎𝑚 (o 𝜎) ) dirette secondo la tangente al
meridiano.
Queste tensioni si chiamano tensioni meridiane.
Lungo i paralleli agiscono invece le tensioni 𝜎𝑛 (o 𝜎0 ) dirette secondo la tangente al
parallelo, che si chiamano tensioni normali o circonferenziali.
Le 𝜎𝑚 si trasmettono attraverso le sezioni normali, ossia eseguite mediante delle
superficie coniche coassiali con la membrana ed avente generatrici normali a questa
Le 𝜎𝑛 si trasmettono invece attraverso le sezioni fatte con piani meridiani.

Figura 6.2: Sezione normale di un recipiente ellissoidico

Per ragioni di simmetria, nelle sezioni fatte secondo i meridiani sono nulle le tensioni
𝜏 (nel piano tangente); in altri

- 51 -
termini, due spicchi contigui di recipiente si comportano nello stesso modo
(assialsimmetria) e perciò non si trasmettono delle tensioni 𝜏0) = 𝜏32 .
Quindi sono nulle anche le tensioni 𝜏)0 = 𝜏23 . nelle sezioni secondo i paralleli.
Lo spessore s è piccolissimo ed il comportamento è quello di una membrana. Perciò
possiamo ritenere la 𝜎3 e la 𝜎2 siano uniformemente ripartite nello spessore s.

Questa è l'ipotesi che si pone a fondamento dello studio dei serbatoi a parete sottile.
Esaminiamo più attentamente il significato di questa ipotesi:
le varie strisce secondo i paralleli, essendo tese o compresse, modificano il loro
raggio r, ma si conservano circolari; ma la tensione 𝜎2 si può ritenere costante nei
vari punti dello spessore poiché questo è molto piccolo rispetto a r.
Ogni fibra subisce lo stesso allungamento totale:

Δ𝑙 = 2𝜋(𝑟 + Δ𝑟) − 2𝜋𝑟 = 2𝜋 Δ𝑟


Ma la lunghezza l delle fibre è minore per quelle più interne, per cui esse subiscono
una dilatazione 𝜀2 maggiore e quindi una 𝜎2 maggiore.
Tuttavia, se lo spessore s è piccolo rispetto a r, la differenza delle varie lunghezze è
trascurabile e la 𝜀2 è praticamente costante.
In conseguenza delle variazioni dei raggi r dei vari paralleli, le strisce secondo i
meridiani possono deformarsi e quindi la loro curvatura può modificarsi in qualunque
∗ corrispondenti ad un momento flettente,
punto. Ciò provoca delle tensioni 𝜎3
variabili linearmente nello spessore delle strisce.
∗ si sovrappongono alle tensioni 𝜎 suddette, cosi che le tensioni meridiani
Le 𝜎3 3
totali non sono più uniformemente ripartite.
Tuttavia, le tensioni 𝜎3∗ sono molto piccole, perché sono innanzitutto piccolissime le

variazioni di curvatura dei meridiani. La deformazione delle strisce meridiane è


piccolissima, perché frenata dalle strisce parallele che devono allargarsi o restringersi
e che sono poco deformabili in quanto sollecitate soltanto a trazione o a
compressione.

Inoltre, le 𝜎3 sono piccole perché è piccola la rigidezza flessionale delle strisce
meridiane in virtù della piccolezza del loro spessore s.
Il fatto che il momento flettente nelle strisce meridiane sia trascurabile fa sì che lo sia
anche il taglio e quindi anche la tensione τ diretta normalmente alla superficie media
della membrana.
Inoltre, in questi solidi la tensione radiale è molto più piccola della 𝜎3 e della 𝜎2 e
perciò trascurabile rispetto ad esse.
In ogni punto della membrana si ha dunque uno stato piano di tensione; il piano delle
tensioni è il piano tangente alla superficie media della membrana; le tensioni
principali sono le 𝜎3 e le 𝜎2 che si chiamano anche tensioni di membrana; le
direzioni principali sono quelle delle tangenti al meridiano e al parallelo per ogni
punto.
È spesso conveniente le risultanti delle tensioni 𝜎3 e 𝜎2 che indichiamo
rispettivamente con Sm e Sn relative all'intero spessore s e alla larghezza unitaria di
una striscia di membrana diretta secondo il meridiano o il parallelo. Queste quantità
rappresentano lo sforzo normale agente in tali strisce.

- 52 -
Evidentemente si ha:

𝑆3 = 𝜎3 ∙ 𝑠 ∙ 1

𝑆2 = 𝜎2 ∙ 𝑠 ∙ 1
Queste due quantità prendono dunque il nome di sforzi di membrana.
Vediamo in che modo possiamo calcolare la tensione meridiana 𝜎3 .
Immaginiamo di tagliare la membrana con una superficie conica coassiale con la
membrana e normale ai meridiani e di sostituire la parte sovrastante con le tensioni
𝜎3 che essa trasmette a quella sottostante.
A queste tensioni, che sono uniformi nello spessore, possiamo sostituire gli sforzi
𝑆3 = 𝜎3 ∙ 𝑠
agenti secondo la tangente al meridiano.

Figura 6.2: Sezione normale di un recipiente ellissoidico

La tangente al meridiano forma con il piano orizzontale un angolo 𝜃 che prende il


nome di colatitudine. Ciascuno sforzo di membrana 𝑆3 ha una componente verticale
data da 𝑆3 𝑠𝑖𝑛 𝜃, avranno anche delle componenti orizzontali che tuttavia si elidono a
due a due. Per questo motivo la risultante di questi sforzi avrà componente
orizzontale nulla e, siccome 𝑆3 è distribuito in maniera uniforme sul tutto il parallelo,
la risultante sarà diretta secondo l’asse del recipiente in virtù dell’assialsimmetria. La
risultante dunque si ottiene moltiplicando le componenti verticali degli sforzi di
membrana per la lunghezza del parallelo e deve essere uguale alla risultante Q delle
forze esterne:
𝑆3 sin 𝜃 2𝜋 𝑟 = 𝑄

da cui otteniamo l’equazione di equilibrio globale:


𝑄
𝑆3 =
2𝜋 𝑟 sin 𝜃

- 53 -
Quest’equazione permette di calcolare la tensione 𝜎3 :
𝑄
𝜎3 =
2𝜋 𝑟 𝑠 sin 𝜃
Il raggio di curvatura normale 𝜌2 lo si può calcolare se sono noti colatitudine 𝜃 e
raggio r:
𝑟
𝜌2 =
sin 𝜃
Se sostituiamo il valore di 𝜌2 nella formula della 𝜎3 otteniamo un’espressione che ci
sarà utile per calcolare le 𝜎3 e 𝜎2 per i diversi recipienti di interesse tecnico. Quindi:
𝑄
𝜎3 =
2𝜋 𝜌2 𝑠 sin0 𝜃

Per calcolare la tensione circonferenziale 𝜎2 o lo sforzo circonferenziale 𝑆2 occorre


scrivere un’altra equazione che si chiama equazione di equilibrio locale, tale
equazione esprime l’equilibrio in direzione normale alla parete del recipiente di un
elementino del recipiente (ciò vale per tutti i punti del recipiente). Per poter scrivere
l’equazione bisogna introdurre delle quantità che sono legate alla geometria della
superficie media del recipiente (membrana), queste quantità sono i raggi di curvatura
della membrana rappresentati nella figura successiva:

Figura 6.3: Raggi di curvatura di una membrana

Ora per poter arrivare a scrivere l’equazione di equilibrio locale, dobbiamo sezionare
il recipiente mediante una coppia di piani meridiani, che formano tra loro l’angolo
infinitesimo 𝑑𝜓, e una coppia di piani ortogonali all’asse del recipiente, in modo da
ottenere un elementino della parete di vertici abcd riportato in figura.

- 54 -
Figura 6.4

Con riferimento alla figura6.4 andiamo a ricavarci l’equazione di equilibrio locale:


𝑎𝑐 = 𝑑𝑙0 = 𝑑𝑙2 = 𝑟 𝑑𝜓
𝑏𝑑 = (𝑟 + 𝑑𝑟) 𝑑𝜓
𝑎𝑏 = 𝑐𝑑 = 𝑑𝑙) = 𝜌3 𝑑𝜃

𝑑𝐹2 = 𝑆2 𝑑𝑙) = 𝜎2 𝑠 𝑑𝑙)


𝑑𝐹3 = 𝑆3 𝑑𝑙0 = 𝑆3 𝑟 𝑑𝜓

𝑑𝐹3A = (𝑆3 + 𝑑𝑆3 ) ∙ (𝑟 + 𝑑𝑟) 𝑑𝜓 = 𝑆3 𝑑𝑙0


−𝑆3 𝑑𝑙0 𝑑𝜃 #Risultante degli sforzi meridiani
−𝑆2 𝑑𝑙) 𝑑𝜓 #Risultante degli sforzi circonferenziali - nel piano ortogonale all’asse
del recipiente
−𝑆2 𝑑𝑙) 𝑑𝜓 𝑠𝑖𝑛𝜃 #Componente secondo n della risultante degli sforzi
circonferenziali - nel piano ortogonale all’asse del recipiente
𝑍 𝑑𝑙) 𝑑𝑙0 #Risultante delle forze superficiali esterne
L’equazione di equilibrio dell’elementino di membrana considerato si scrive come:
𝑍 𝑑𝑙) 𝑑𝑙0 − 𝑆3 𝑑𝑙0 𝑑𝜃 − 𝑆2 𝑑𝑙) 𝑑𝜓 𝑠𝑖𝑛𝜃 = 0
Vado a sostituire 𝑑𝑙) e 𝑑𝑙0 valutati prima:
𝑍 𝜌3 𝜌2 − 𝑆3 𝜌2 − 𝑆2 𝜌3 = 0
Da cui ottengo l’Equazione di equilibrio locale:
𝑆3 𝑆2
+ =𝑍
𝜌3 𝜌2
- 55 -
Che può essere riscritta nella forma:
𝜎3 𝜎2 𝑍
+ =
𝜌3 𝜌2 𝑠
nota come Formula di Marriot per caldaie.

6.1 Recipienti contenenti gas


Nel caso in cui un recipiente contenga un gas ad una certa pressione, per calcolare la
𝜎3 bisogna utilizzare l’equazione di equilibrio globale in cui compare la risultante
delle forze esterne 𝑄 che agisce sulla porzione di recipiente delimitata dal parallelo in
corrispondenza del quale abbiamo eseguito il sezionamento.
Vediamo come si calcola 𝑄 nel caso di un recipiente contenente gas.
Su ogni elemento di membrana 𝑑𝑆 preme il gas con la pressione 𝑝? 𝑑𝑆 diretta secondo
la normale al recipiente.

Figura 6.1.1: Recipiente a parete sottile contenente gas

La componente orizzontale di questa forza è data da:


𝑝? 𝑑𝑆 cos 𝛼
La componente verticale è data da:

𝑝? 𝑑𝑆 sin 𝛼 = 𝑝? 𝑑𝑆 cos 𝜃
Però 𝑑𝑆 sin 𝛼 è l’area dell’elementino piano che si ottiene proiettando l’elemento 𝑑𝑆
su un piano 𝜋 normale all’asse del recipiente.
Pertanto, se il recipiente contiene gas la spinta è data da:

𝑄 = 5 𝑝? 𝑑𝑆 sin 𝛼 = 𝑝? 5 𝑑𝑆 sin 𝛼 = 𝑝? 𝐴7
N$ N%

𝑀& : Porzione di membrana che si trova al di sotto del punto P considerato

- 56 -
𝐴7 è l’area del cerchio appartenente al piano 𝜋 in cui si proietta la porzione di
membrana che stiamo studiando.
Questo cerchio ha raggio uguale al raggio 𝑟 del parallelo in corrispondenza del quale
è stata eseguita la sezione normale, pertanto avremo:

𝐴7 = 𝜋𝑟 0

Andiamo dunque a sostituire questo risultato nell’equazione di equilibrio globale:

𝑄 𝑝? 𝐴7 𝑝? 𝜋𝑟 0 𝑝? 𝑟 𝑝? 𝜌2
𝜎3 = = = = =
2𝜋 𝑟 𝑠 sin 𝜃 2𝜋 𝑟 𝑠 sin 𝜃 2𝜋 𝑟 𝑠 sin 𝜃 2 𝑠 sin 𝜃 2𝑠
Particolarizziamo ora la Formula di Marriot nel caso di un recipiente contenente gas:

𝜎3 𝜎2 𝑝? 1 𝑝? 𝜌2 𝜎2 𝑝?
+ = → + = ⇒
𝜌3 𝜌2 𝑠 𝜌3 2𝑠 𝜌2 𝑠

𝜎2 𝑝? 1 𝑝? 𝜌2 𝑝? 1 𝜌2
⇒ = − = 61 − 7
𝜌2 𝑠 𝜌3 2𝑠 𝑠 2 𝜌3
Da cui posso ricavare il valore della tensione circonferenziale:

𝑝? 𝜌2 1 𝜌2 𝑝? 𝜌2 𝜌2 𝜌2
𝜎2 = 61 − 7= 62 − 7 = 𝜎3 62 − 7
𝑠 2 𝜌3 2𝑠 𝜌3 𝜌3

Ricapitolando, abbiamo ottenuto:


𝑝? 𝜌2
𝜎3 =
2𝑠
𝜌2
𝜎2 = 𝜎3 62 − 7
𝜌3
Per applicare queste formule è quindi sufficiente conoscere i raggi di curvatura,
normale e meridiano, e lo spessore 𝑠 della parete del recipiente.

6.2 Recipienti per liquidi


Andiamo ad analizzare ora un recipiente ad asse verticale contenente un liquido.
Il procedimento per la determinazione della 𝜎3 e della 𝜎2 è analogo al caso
precedente, l’unica complicazione in questo caso è determinare la 𝑄.
Supponiamo di voler calcolare la tensione meridiana del punto P in figura 6.2.1
Sezioniamo il recipiente con una superficie conica coassiale avente come asse l’asse
del recipiente, e le cui generatrici sono distese secondo le normali alla parete del
recipiente.

- 57 -
Figura 6.2.1

Per applicare sulla parete della porzione di membrana la pressione esercitata dal
liquido nel recipiente, la riempiamo di liquido fino all’orlo, poi sul pelo libero
applichiamo la pressione 𝑝. presente nel recipiente alla profondità 𝑦 in
corrispondenza della quale abbiamo sezionato.
La pressione che il liquido esercita sulle pareti del recipiente varia da punto a punto
secondo la Legge di Stevino:

𝑝(𝑦) = 𝑝! + 𝛾𝑦
𝛾: Peso specifico del liquido
𝑝' : Pressione sul pelo libero = pressione atmosferica

La spinta 𝑄 che il liquido esercita sulla porzione di parete considerata vale:

𝑄 = 𝑉) 𝛾 + 𝑝. 𝜋𝑟 0 = 𝑉) 𝛾 + (𝑝! + 𝛾𝑦)𝜋𝑟 0 = 𝑉) 𝛾 + 𝑝! 𝜋𝑟 0 + 𝛾𝑦𝜋𝑟 0

6.3 Recipienti autoforzati


Per autofrettaggio od autocerchìatura si intende una particolare operazione
tecnologica eseguita su recipienti cilindrici monoparete, che produce nello spessore
parietale dei recipienti un campo di tensioni residue.
Queste tensioni, sotto opportune condizioni, hanno un effetto benefico poiché́ sono in
grado di ridurre il valore della tensione equivalente massima che si nel recipiente
sotto le pressioni interne ed esterne di servizio.
L' autofrettaggio viene eseguito nel seguente modo: per mezzo di pressione interna
idraulica, lo spessore parietale di un recipiente viene assoggettato ad un prestabilito
grado di plasticizzazione; successivamente il recipiente viene decompresso, passando
dalla pressione interna di autofrettaggio p* a quella atmosferica.

- 58 -
Figura 6.3.1: Recipiente autoforzato

Dopo la decompressione gli strati parietali interni. che erano stati assoggettati a
regime plastico. mantengono una deformazione permanente; quelli esterni,
assoggettati a deformazione elastica, tendono a riacquistare il loro assetto originario
ed esercitano un'azione di compressione sullo strato anulare interno deformato
plasticamente.
Al termine della operazione di autofrettaggio la parete del recipiente risulta soggetta
ad un particolare stato di tensione, caratterizzato da:
‐ compressione per lo strato anulare interno, deformato plasticamente; su di esso
lo strato anulare esterno, deformato elasticamente, contraendosi al cessare della
pressione idraulica esercita una pressione dall'esterno;
‐ trazione per lo strato anulare esterno, deformato elasticamente; la
deformazione permanente dello strato interno impedisce, al cessare della pressione
idraulica p* la contrazione dello strato esterno nel quale, per tale ragione, si
determina uno stato di coazione che si configura come effetto di una pressione
interna.
L' autofrettaggio costituisce un metodo particolarmente semplice per provocare delle
pretensioni nei recipienti cilindrici monoparete, che non richiede attrezzature
complesse o costose. Esso risulta specialmente vantaggioso per recipienti soggetti a
pressioni variabili nel tempo e per strutture caratterizzate da discontinuità parietali
(forature ed intagli in genere).

6.4 Recipienti a parete multipla


I recipienti a parete multipla sono costituiti da due o più cilindri calati l'uno nell'altro
con un prefissato forzamento.
In questo modo ‐ indipendentemente dall'effetto della pressione interna ‐ ciascuno
degli elementi cilindrici risulti soggetto a pressione esterna ad opera dei o degli
elementi cilindrici esterni a quello che si considera.
- 59 -
La distribuzione delle tensioni lungo gli spessori parietali varia a seconda delle
caratteristiche geometriche della parete multipla del recipiente, vale a dire a seconda
degli spessori che vengono attribuiti ai vari strati che costituiscono la parete dunque il
recipiente.
Tra le molteplici soluzioni possibili viene definita ottimale quella per cui, in
esercizio, risultano uguali tra loro, in tutti gli strati i valori massimi della tensione
equivalente che insorge per l'effetto congiunto della pressione interna e del
pretensionamento dovuto al calaggio dei vari elementi cilindrici l'uno sull'altro.
A tale condizione corrisponde la migliore possibile distribuzione della tensione lungo
lo spessore della parete e la migliore utilizzazione del materiale.
Il metodo multilayer è impiegabile convenientemente se il numero degli strati non è
superiore a quattro, poiché́ all'aumentare di questo numero diminuisce il vantaggio
derivante dal suo impiego e crescono in maniera considerevole le difficoltà
tecnologiche connesse con la realizzazione del recipiente.

Figura 6.4.1: recipiente multistrato

- 60 -
7. Fatica
Il comportamento meccanico dei materiali metallici quando sottoposti a sollecitazioni
periodiche o comunque variabili nel tempo è radicalmente diverso da quello che si ha
sotto carichi statici o gradualmente crescenti fino alla rottura.
In particolare, quando i carichi variano nel tempo la rottura può sopraggiungere sotto
sollecitazioni di livello molto più basso rispetto a quello del carico di rottura o del
carico di snervamento del materiale. Il fenomeno, noto come fatica, è la causa più
frequente (circa il 90%) di rotture in servizio degli organi di macchina e comporta,
oltre a danni economici a volte notevoli, problemi di sicurezza poiché quasi sempre le
rotture hanno luogo senza nessun segno premonitore.
Sebbene gli studi sistematici sulla fatica siano iniziati più di un secolo fa, molti
aspetti del fenomeno del danno da fatica nei materiali metallici non sono ancora ben
compresi. Inoltre, il fenomeno dipende, come si vedrà, da numerosi fattori (tra i quali
è opportuno segnalare sin d'ora l'ambiente aggressivo) e molti di questi non sono
prevedibili o quantificabili con la dovuta accuratezza in sede di progetto.
In conseguenza di ciò, secondo un approccio moderno, affinché il dimensionamento
contro il danno da fatica di un componente meccanico si dimostri efficace, è
necessario che venga impegnata, oltre alla solita figura del progettista, una vera e
propria equipe nella quale cooperino i tecnici dell'esercizio, della manutenzione,
dell'ispezione ed infine della sperimentazione preliminare necessaria
all'omologazione.
In virtù della complessità del fenomeno è necessario seguire un approccio
sperimentale.
Nelle prove di fatica tradizionali il provino può essere sottoposto a diverse tipologie
di carico: carico assiale ciclico, flessione piana, flessione rotante, torsione oppure a
carichi combinati come torsione e flessione o flessione e taglio.

Figura 7.1: Differenti tipologie di carichi di prova

Questi schemi di carico producono nel tratto utile del provino dei cicli di tensione del
tipo mostrato in fig7.2.

- 61 -
È possibile sottoporre il provino anche a cicli di sollecitazione dall'andamento più̀
complesso, in modo da riprodurre le reali condizioni operative del materiale o del
componente.

Figura 7.2: esempio di schema di carico

Questi schemi di carico producono nel tratto utile del provino dei cicli di tensione del
tipo mostrato nella figura7.2.
È possibile sottoporre il provino anche a cicli di
sollecitazione dall'andamento più complesso, in modo da riprodurre le reali
condizioni operative del materiale o del componente.
Il numero di cicli N che la tensione compie prima della rottura del provino prende il
nome di vita a fatica o durata.
La rottura può essere identificata con la comparsa di una cricca di fatica, con la
frattura completa del provino o con uno stato del provino in cui l'estensione della
cricca produce un’assegnata diminuzione della rigidezza.
Un ciclo di sollecitazione è completamente individuato assegnandone la frequenza e
due parametri di carico quali il valore massimo

Un ciclo di sollecitazione è completamente individuato assegnandone la frequenza e


due parametri di carico quali il valore massimo 𝑆34- e minimo 𝑆3?2 , oppure
parametri derivanti da quest’ultimi quali:
O()* PO(#+
• Valore medio o precarico: 𝑆3 = ;
0
O()* %O(#+
• L’ampiezza del ciclo: 𝑆4 = 0
;
• Lo STRESS-RANGE ∆𝜎: ∆𝜎 = 𝑆34- − 𝑆3?2 ;
Q
• Il coefficiente di asimmetria 𝑅 o STRESS-RATIO: 𝑅 = Q (#+ .
()*

- 62 -
Nella figura7.3 sono riportati i diversi tipi di cicli di sollecitazione con il quale è
possibile eseguire la sperimentazione.

Figura 7.3: Differenti cicli di sollecitazione

Essi sono:
• Ciclo alterno-simmetrico con 𝑆34- = 𝑆3?2 e 𝑆3 = 0;
• Ciclo alterno-simmetrico con 𝑆34- > 0 , 𝑆3?2 < 0 e 𝑆3 ≠ 0 ;
• Ciclo pulsante con 𝑆34- > 0 e 𝑆3?2 > 0 ;
• Ciclo pulsante dallo zero o dall’origine con 𝑆34- > 0 e 𝑆3?2 = 0 quindi
O
𝑆3 = ()*
0
.

Le proprietà di resistenza a fatica degli acciai e degli altri materiali metallici devono
essere studiate sperimentalmente, eseguendo prove su provini lisci (cioè non‐
intagliati), di opportuna finitura superficiale e fabbricati seguendo una procedura
definita dallo standard di prova adottato, sollecitati a flessione rotante o sottoposti a
forze assiali cicliche (prove push‐pull) con un ciclo di sollecitazione sinusoidale di
ampiezza costante.
Le indagini sperimentali finora condotte hanno mostrato che la frequenza del ciclo di
sollecitazione con cui sono condotte le prove non ha effetti significativi sulle durate
rilevabili fin quando il provino è sollecitato in ambiente non aggressivo o inerte.
Anche la forma del ciclo di sollecitazione non influenza in modo apprezzabile l'esito
delle prove, se non intervengono fattori ambientali. In altri termini, i due cicli di
figura7.4 sono praticamente equivalenti.

Figura 7.4

Il più delle volte le prove di fatica sui materiali metallici sono eseguite con cicli di
sollecitazione alterno‐simmetrici.
I risultati di queste prove sono presentati in un diagramma semi‐logaritmico o bi‐
logaritmico, in cui l'ampiezza della sollecitazione è riportata in funzione delle durate
osservate.

- 63 -
Questo diagramma prende il nome di diagramma di Wholer, dal nome dello studioso
tedesco che per primo ha condotto studi sperimentali sistematici sulle rotture per
fatica, o diagramma S‐N.
Per il modo in cui è costruito, tramite questo diagramma, è possibile associare a
ciascun valore di durata 𝑁 l'ampiezza 𝑆R del ciclo alterno‐simmetrico che produce
rottura dopo 𝑁 cicli.

Figura 7.5: Diagramma di Wholer

Nel diagramma di Wholer è possibile distinguere tre tratti:

• Il primo, con andamento quasi orizzontale, caratterizzato da durate


relativamente basse, non maggiori di 104 ÷ 105 cicli, è quello relativo alla
fatica oligociclica o alla Low Cycle Fatigue (sinteticamente LCF).
• Il secondo, con andamento lineare se il diagramma è costruito in scale bi‐
logaritmiche, si estende fino a durate dell'ordine di 106 cicli o maggiori ed è
relativo alla fatica a termine o ad alto numero di cicli (in inglese High Cycle
Fatigue ‐ HCF).
• Il terzo, che si raccorda al precedente con un ginocchio, ha inizio solitamente
intorno ai 106 cicli e può avere due diversi andamenti. Tipicamente, nel caso
degli acciai esso segue l'andamento asintotico della curva A. In questo caso
esiste un valore limite 𝑆S , detto limite di fatica, dell'ampiezza di sollecitazione
sotto il quale la provetta ha vita (tecnicamente) illimitata.
Per altri materiali, quali le leghe leggere, l'andamento del terzo tratto è quello
decrescente della curva B. In questo caso, in luogo del limite di fatica si
definisce il "limite di durata" ovvero il valore di ampiezza della sollecitazione
a cui corrisponde un numero di cicli a rottura particolarmente grande (108cicli).

- 64 -
In figura7.6 è riportato un esempio di digramma ottenuto tramite prove sperimentali a
fatica eseguite su provini standard.

Figura 7.6: Esempio di diagramma di Wholer ottenuto da una prova sperimentale


La curva di Wholer viene ottenuta tipicamente sperimentando con cicli alterno-
simmetrici, quindi con cicli il cui valor medio è uguale a zero.
La durata a fatica di un materiale è influenzata oltre che dalla ampiezza della tensione
anche dal suo valor medio o precarico.
In una prova condotta con un ciclo di carico non simmetrico di cui il precarico è di
compressione e maggiore in valore assoluto dell’ampiezza, una cricca di fatica che
dovesse nucleare sulla superficie del provino non riuscirebbe a propagare per
provocare la frattura del provino, poiché sarebbe costantemente sotto una tensione di
compressione.
Per valori negativi di Sm si assume, conservativamente, che la durata dipenda solo
dall’ampiezza.
D’altra parte, un precarico di trazione facilita la rottura del provino.

Figura 7.7

Nel primo diagramma di figura7.7 vi è rappresentata la curva di Wholer, ottenuta


quindi con precarico 𝑆3 = 0, e altre curve che si ottengono con precarichi di
trazione via via crescenti.
Per passare dal diagramma 𝑆4 − 𝑁 al digramma 𝑆4 −𝑆3 scegliamo un valore di
durata, ad esempio 10> cicli, e identifichiamo i punti riportati sul primo diagramma.
Quei quattro punti possono essere riportati su un diagramma 𝑆4 −𝑆3 e si andranno a
- 65 -
posizionare su una curva che identifica i valori di ampiezza 𝑆4 e precarico 𝑆3 di cicli
pulsanti in grado di produrre la frattura del provino dopo 10> cicli.
Le curve riportate nel secondo diagramma sono dette curve isodurata e sono
ottenute sperimentalmente tramite un certo numero di prove.
In sostituzione alle curve sperimentali si possono tracciare dei diagrammi
approssimati:

Figura 7.8: Diagramma di prima e seconda approssimazione di Haigh-Soderberg

I diagrammi in figura prendono il nome di diagramma di prima e di seconda


approssimazione di Haigh-Soderberg.
La prima approssimazione consiste nel tracciare una retta che passa per il punto
(0;𝑆R ), che è rappresentativo di un ciclo alterno-simmetrico, e per il punto (𝑈𝑇𝑆; 0).
Il diagramma di seconda approssimazione si ottiene tracciando una retta orizzontale
partendo dal punto (0;𝑆R ) poi identifichiamo i due punti aventi ascissa pari a 𝑦 e
ordinata pari a 𝑦 e tracciamo la retta congiungente, identifichiamo così il punto di
intersezione tra le due rette. Una volta identificato tale punto di intersezione
tracciamo una retta che congiunga tale punto al punto (𝑈𝑇𝑆; 0).
Nei problemi di dimensionamento si usa spesso il diagramma di prima
approssimazione di Haigh-Soderberg perché permette di fare stime in maniera
semplice e diretta.
Solitamente la retta approssimante è espressa tramite la seguente formula:
𝑈𝑇𝑆
𝑆R = 𝑆4
𝑈𝑇𝑆 − 𝑆3
Per valori negativi di 𝑆3 si assume che la durata dipenda solo dall’ampiezza.
Tutti i punti al di sotto della retta 𝑆R − 𝑈𝑇𝑆 corrispondono a rotture dopo un numero
di cicli maggiore di 𝑁, mentre i punti posti al di sopra corrispondono a rotture con
durate minori di 𝑁.
Si osservi che, secondo l'approssimazione di Haigh‐Soderberg, il ciclo alterno‐
simmetrico di ampiezza 𝑆R data dalla precedente formula genera la stessa durata 𝑁
del ciclo pulsante di precarico 𝑆3 ed ampiezza 𝑆4 e per questo motivo, come si vedrà,
genera lo stesso danno. I due cicli sono quindi iso‐durata (e quindi iso‐danno).

- 66 -
Per analizzare gli effetti del precarico si utilizza spesso anche un secondo tipo di
diagramma, detto di Goodman‐Schmith dal nome degli studiosi che per primi ne
hanno proposto l'impiego.

Figura 7.8: Diagramma Goodman-Schmith

Esso reca in ascissa il precarico 𝑆3 ed in ordinate i valori massimi e minimi, 𝑆34- e


𝑆3?2 , dei cicli di sollecitazione che producono la stessa durata 𝑁.
Osserviamo allora che, se si utilizza la stessa scala per le ascisse e le ordinate, i punti
della bisettrice del primo e del terzo quadrante hanno come ordinate proprio 𝑆3 .
Per costruire il diagramma, possiamo immaginare di riportare, per ciascun valore di
𝑆3 verticalmente verso il basso e verso l'alto a partire dal ciascuno di questi punti
l'ampiezza 𝑆4 : si ottengono le curve limiti del diagramma.
Esse si incontreranno in corrispondenza del punto di coordinate (𝑈𝑇𝑆, 𝑈𝑇𝑆) ed
intersecheranno l'asse delle ordinate in due punti di ordinata pari a ± 𝑆R . L' area da
esse racchiusa è l'area di sicurezza relativa alla durata N.
Val la pena far notare che, per il modo in il diagramma può essere costruito, la curva
limite inferiore è simmetrica, secondo la direzione verticale rispetto alla bisettrice,
della curva limite superiore (simmetria obliqua).
Anche il diagramma di Goodman‐Schmith deve solitamente essere tracciato a partire
da un numero limitato di informazioni.
Per questo motivo, è spesso impiegato in forma approssimata. La più semplice di
queste approssimazioni, equivalente per altro alla prima approssimazione di Haigh-
Soderberg, è quella mostrata nella figura7.9-a) in cui sia la curva limite superiore che
quella inferiore hanno andamento lineare.

- 67 -
Figura 7.9: Diagrammi approssimati di Goodman-Schmith

Nel caso degli acciai e per durata illimitata, lo stesso Goodman ha riscontrato che:
TUO
• 𝑆34- = −𝑆3?2 = se 𝑆3 = 0;
;
TUO
• 𝑆34- = se 𝑆3?2 = 0.
0

Se è necessario eseguire il dimensionamento anche contro le deformazioni plastiche,


oltre che contro il danno da fatica, l'area di sicurezza del diagramma di Goodman‐
Smith deve essere ridotta escludendo la regione al di sopra della retta orizzontale
𝑆 = 𝑌. Una correzione del tutto analoga può essere effettuata anche alla regione di
sicurezza del diagramma di Haigh‐Soderberg.
Se eseguiamo delle prove di fatica in controllo di carico o in controllo di
deformazione (con cicli comunque simmetrici) e misuriamo, nel corso delle prove,
anche le ampiezze di deformazione o di tensione, vedremo che queste ampiezze non
sono costanti, ma varieranno.
A seconda delle sue condizioni iniziali (trattamenti termici) e delle condizioni di
prova, sotto le sollecitazioni cicliche di una prova di fatica, un materiale può dar
luogo ai seguenti tipi di comportamento:
• incrudimento ciclico (cyclic hardening);
• addolcimento ciclico (cyclic softening);
•ciclicamente stabile;
•comportamento misto (cioè si ha incrudimento o addolcimento a seconda del livello
delle sollecitazioni applicate al provino).

Figura 7.10:

- 68 -
Nella figura7.10 sono riportate le leggi secondo cui possono variare le tensioni nel
tratto utile di un provino nel corso di una prova di fatica eseguita in controllo di
deformazione, cioè applicando cicli di deformazione di ampiezza costante.
Nel caso a l’ampiezza dei cicli di tensioni aumenta con il numero di cicli eseguiti o
applicati, si ha cioè l'incrudimento ciclico del materiale.
Se invece, quando si sperimenta in controllo di deformazione, l'ampiezza dei cicli di
tensione diminuisce, come mostrato nella figura, si ha l'addolcimento ciclico.
Dopo un certo numero di cicli, l’ampiezza della tensione si stabilizza. Da questo
momento in poi e fino a poco prima della frattura del provino, la tensione varierà in
funzione del valore istantaneo della deformazione imposta al provino secondo una
legge caratteristica: il ciclo di isteresi.

Figura 7.11: Ciclo di Isteresi

Le grandezze caratteristiche di questo ciclo sono:


• la sua altezza, data dallo stress‐range;
• la sua larghezza, data dallo strain‐range
espresso, a sua volta, come somma dello strain‐range elastico ∆𝜀5" e di quello plastico
∆𝜀7" :
∆𝜀 = ∆𝜀5" + ∆𝜀7"

Mediante la legge di Hooke, il termine elastico della precedente equazione può essere
espresso facilmente in termini dello stress-range ottenendo la seguente espressione
per ∆𝜀5" :
∆𝜎
∆𝜀5" =
𝐸
L'area racchiusa dal ciclo è il lavoro di deformazione dissipato per unità di volume
del materiale durante un ciclo di sollecitazione.

- 69 -
Criterio di rottura
Consideriamo un materiale la cui curva sforzi-deformazioni ha equazione:
𝜎
𝜀 = + 𝐶𝜎 3
!
𝐸
Con 𝐶𝜎 detta Formula di Ramberg-Osgood
ed analizziamo il comportamento sotto sollecitazioni cicliche.

Figura 7.12

Durante la prima rampa di carico esso segue la curva 𝑂𝐵 di figura7.12.a) mentre nei
cicli successivi si avrà il comportamento isterico dato dal ciclo 𝐶𝑂A 𝐴𝐵′ di
figura7.12.b).
Come mostrato nella figura7.12.b), in cui gli assi di riferimento sono modificati in
modo da semplificare i calcoli, l’energia (per unità di volume) dissipata è data da:
𝑊 = 𝐴𝑟𝑒𝑎(𝑂A 𝐴𝐵 A 𝐶 ) = 𝐴𝑟𝑒𝑎(𝑂A 𝐴𝐵 A 𝐷) − 𝐴𝑟𝑒𝑎 (𝑂A 𝐶𝐵 A 𝐷 ) =
= 𝐴𝑟𝑒𝑎(𝑂A 𝐴𝐵 A 𝐷 ) − 𝐴𝑟𝑒𝑎(𝑂A 𝐴𝐵 A 𝐸 ) =
∆W ∆Q
= 5 𝜎 A 𝑑𝜀 − 5 𝜀 A 𝑑𝜎
! !

Se accogliamo l’ipotesi di Massing, si otterrà per 𝑊 l’espressione:


𝑚−1
𝑊= 𝐶∆𝜎 3P)
𝑚+1
Pertanto, dopo 𝑁 cicli di stress range ∆𝜎 e di strain range ∆𝜀, l’energia dissipata sarà:
𝑚−1
𝑁𝑊 = 𝑁 𝐶∆𝜎 3P)
𝑚+1

- 70 -
La rottura per fatica avviene quando l’energia dissipata 𝑁𝑊 eguaglia un valore
critico caratteristico del materiale.
Al limite, ritenendo che l’ampiezza della sollecitazione che produce rottura in mezzo
ciclo sia uguale alla tensione del punto di instabilità 𝜎, (ottenuto dalla condizione di
Considère) di una prova di trazione, per valori di stress range ∆𝜎 la corrispondente
durata 𝑁 deve allora verificare la condizione:
𝑚−1 1 𝑚−1
𝑁 𝐶∆𝜎 3P) = (2𝜎, )3P)
𝑚+1 2 𝑚+1
Dove la tensione di instabilità 𝜎, è esprimibile in funzione della resistenza ultima a
trazione 𝑈𝑇𝑆 e della riduzione percentuale d’area a rottura 𝑅𝐴 mediante la formula:
100
𝜎, = 𝑈𝑇𝑆
100 − 𝑅𝐴
Si ottiene allora la seguente espressione dello stress range ∆𝜎 in funzione della durata
a fatica 𝑁:
100 )
%3P)
3
∆𝜎 = 𝑈𝑇𝑆 ∙ 𝑁 ∙ 2 3P) (𝑨)
100 − 𝑅𝐴

Come mostrato dalla figura7.12, lo stress range è dato dalla somma dell’aliquota
elastica:
∆𝜎
∆𝜀5" =
𝐸
e di quella plastica data da:

∆𝜀7" = 𝐶∆𝜎 3

Utilizzando l’espressione dello stress range che abbiamo appena ottenuto, possiamo
esprimere la condizione di rottura nella seguente forma:
3P) 3P)
𝑚−1 ) 3
1 𝑚−1
𝑁 𝐶 ∆𝜀7" =
3 [2𝜀' \ 3
𝑚+1 2 𝑚+1
con 𝜀' allungamento a rottura.
Dalla precedente equazione si ottiene la seguente espressione del plastic strain range
in funzione di N:
) 100 3
∆𝜀7" = 23P) 𝑙𝑛 6 7 𝑁 %3P) (𝑩)
100 − 𝑅𝐴

Il valore dello strain range totale sarà quindi dato da:


∆𝜀 = ∆𝜀5" + ∆𝜀7" =
1 100 ) ) 100 3
= 𝑈𝑇𝑆 3P) + 23P) 𝑙𝑛 6 7 𝑁 %3P)
𝐸 100 − 𝑅𝐴 100 − 𝑅𝐴
- 71 -
OSS: Nelle prove di fatica, il provino è assoggettato ad un carico meccanico che
varia ciclicamente tra due valori estremi costanti nel tempo. Nelle prove a
carico/deformazione controllato (load/strain controlled tests), la nucleazione di una
cricca di fatica e la sua successiva propagazione sono responsabili di ampiezze
crescenti dei cicli di deformazione/tensione e di incrementi significativi dei loro
valori medi. Pertanto, le equazioni (A) e (B) non sono applicabili a queste condizioni
di prova, poiché esse sono state ottenute nell’ipotesi che tensione e deformazione
varino tra valori costanti e con valori medi uguali a zero.
Inoltre, occorre tener presente anche il fatto che, nel derivare le equazioni (A) e (B),
si è implicitamente assunto che il ciclo d’isteresi del materiale dopo un qualunque
numero di cicli sia uguale a quello osservato dopo il primo ciclo.
In quasi tutti i materiali, invece, durante i primi cicli di sollecitazione si verificano,
come visto, il fenomeno dell’hardening o del softening.
Nonostante tutte queste limitazioni, le equazioni (A) e (B) sono in ottimo accordo con
i dati sperimentali ottenuti a temperatura ambiente in ambiente non corrosivo e con
alcune equazioni empiriche.

Ipotesi di Massing
Secondo questa ipotesi, il ciclo di isteresi del materiale sotto un assegnato ∆𝜀 può
essere costruito nel seguente modo:
• si considera il tratto della curva 𝜎 − 𝜀 (ottenuta mediante prova di trazione)
compreso tra le zero e il valore massimo della tensione stabilizzata;
• da questa curva se ne ottiene una seconda mediante ribaltamento dapprima
intorno all’asse 𝑥 e poi intorno all’asse 𝑦, che sarà traslata nel piano 𝜎 − 𝜀 fino a
far coincidere i suoi estremi con quelli della curva di partenza;
• dalla curva chiusa così definita se ne ricava una seconda, mediante espansione
omotetica (trasformazione geometrica che dilata o contrae gli oggetti
mantenendo invariati gli angoli) di rapporto 2;
• quest’ultima curva chiusa, quando posizionata con i corrispondenti stress e
strain ranges centrati sull’origine degli assi, è il ciclo di isteresi del materiale.

Figura 7.13: Ipotesi di Massing per la costruzione del ciclo di isteresi

- 72 -
In virtù di questa costruzione, il ramo ascendente del ciclo nel riferimento 𝑂′𝜀′𝜎′ di
figura7.12, avrà equazione:
𝜎′
𝜀 A = + 𝐶𝜎′3
𝐸

Generalmente i fenomeni di addolcimento e di incrudimento ciclico hanno carattere


transitorio. Essi si verificano solo nella prima fase delle prove di fatiche, dopodiché il
materiale raggiunge una condizione ciclicamente stabile (vedi diagrammi
sperimentali a destra). Questo comportamento dei materiali è rappresentabile dai
diagrammi sperimentali di figura7.14.

Più precisamente, il ciclo d'isteresi del materiale solitamente si stabilizza dopo un


numero di cicli compreso tra il 20 ed il 40% della vita del provino. Per questo
motivo, le proprietà cicliche dei materiali vengono misurate 'a meta vita' (half‐life
properties), quando il ciclo di isteresi è con ogni probabilità stabilizzato.

È facile convincersi, a questo punto, che la classica curva 𝜎 − 𝜀 ottenuta mediante


una prova di trazione non è in grado di rappresentare il legame sforzi‐deformazioni
sotto sollecitazioni cicliche. È necessario utilizzare, in questo caso, la curva ciclica
del materiale.

Figura 7.15: Curva ciclica di un materiale

- 73 -
Essa è ottenuta sperimentalmente, acquisendo una serie di cicli d'isteresi stabilizzati
di diversa ampiezza di tensione o di deformazione. La curva ciclica si ottiene
connettendo gli apici di questi cicli, come mostrato nella figura7.15
Esaminando i diagrammi riportati in figura7.16 riconosciamo che l’incrudimento
ciclico corrisponde ad una curva ciclica posizionata al di sopra di quella monotona,
viceversa l’addolcimento o softening si verifica quando la curva ciclica è al di sotto.

Figura 7.16

Un materiale che da luogo a softening ciclico avrà una tensione di snervamento sotto
carichi ciclici molto più bassa di quella misurata mediante un'usuale prova di
trazione. Ciò comporta una situazione di potenziale pericolo, poiché se il
dimensionamento contro il danno da fatica è eseguito utilizzando le proprietà
monotone, si potranno ottenere valori di deformazione appartenenti al campo elastico
quando invece il componente darà luogo a forti scorrimenti plastici con una durata
molto minori di quella stimata.

Effetto di intaglio (Notch Effect)


Molto raramente nella pratica tecnica un elemento meccanico, sia pure ad asse
rettilineo, presenta lungo questo una sezione resistente sempre uniforme, oppure
variabile in modo sufficientemente graduale da giustificare l’ipotesi d’una
distribuzione alla De Saint‐Venant delle tensioni.
Nella quasi totalità dei casi sono presenti brusche variazioni di sezione, (dovute ad
esempio a gole di scarico, filettature, forature, cave per chiavette, etc.) che prendono
il nome di intagli.
L’effetto di questi intagli consiste non solo in una riduzione della sezione resistente,
ma anche in un incremento localizzato delle tensioni (effetto di concentrazione delle
tensioni) responsabile, specie nel caso della fatica, di cedimenti localizzati prematuri.
L’effetto d’intaglio, cioè l’influenza esercitata da ciascuna di queste irregolarità sulla
resistenza statica o a fatica dell’elemento meccanico, è da lungo tempo noto ed è
stato oggetto di numerosissimi studi.
L’obiettivo principale di queste indagini è stato quello di determinare il fattore di
forma o fattore di concentrazione delle tensioni teoriche, definito come il rapporto tra
- 74 -
la tensione massima a fondo intaglio, valutata nell’ipotesi di comportamento elastico
lineare del solido, e la nominale, che agirebbe in questo punto della regione intagliata
se fossero applicabili le usuali formule della resistenza dei materiali.
In figura7.17 è mostrato schematicamente cosa accade in una barretta avente sezione
rettangolare tesa da una forza assiale pari a 𝑃, questa forza assiale produce nelle
sezioni rette della barretta, lontane dal foro, distribuzioni uniformi della 𝜎 di trazione.
Quando ci avviciniamo al foro, che è posizionato in corrispondenza dell’asse della
barretta, questa distribuzione uniforme delle tensioni non si ha più; le tensioni
tendono a distribuirsi in maniera disuniforme sulla sezione, in particolare nella
sezione intagliata le 𝜎 di trazione sono distribuite come in figura7.17.

Figura 7.17: Distribuzione delle tensioni in una barretta a sezione rettangolare con foro circolare

In figura7.18 vediamo invece come sono distribuite le tensioni nel caso di una lastra di acciaio di
spessore uniforme inflessa da una coppia di momenti flettenti nel piano medio della lasta. La lastra
è caratterizzata dalla presenza di due intagli. Nella prima sezione intagliata si ha un effetto di
concentrazione delle tensioni che fa sì che l’andamento delle tensioni sia come quello mostrato in
figura.

Figura 7.18: Distribuzione delle tensioni in una lastra a sezione costante che presenta due intagli

In figura7.19 è riportata la distribuzione delle tensioni in un albero a sezione circolare


indebolito dalla presenza di una gola di forma toroidale, su cui agisce una coppia di
momenti torcenti. Nelle sezioni lontane dalla gola le distribuzioni hanno un
andamento a farfalla mentre in corrispondenza della sezione intagliata si ha un effetto
di concentrazione delle 𝜏 da torsione, e le 𝜏34- da torsione sono molto più grandi
della 𝜏 nominale calcolata a fondo intaglio.

- 75 -
Figura 7.19: Distribuzione delle tensioni in un albero a sezione circolare con gola di forma toroidale

Per quantificare l’effetto di concentrazione delle tensioni si usa un particolare


parametro che si chiama fattore di concentrazione delle tensioni teoriche.
Le tensioni teoriche sono quelle calcolate nell’ipotesi di comportamento elastico del
materiale.
Indicando queste tensioni rispettivamente con 𝜎#,34- e con 𝜎2Y3 , nel caso della
flessione e dello sforzo normale, e con 𝜏#,34- e 𝜏2Y3 nel caso della torsione, il fattore
di concentrazione delle tensioni teoriche 𝑘# sarà dato da:
𝜎#,34- 𝜏#,34-
𝑘# = 𝑘# =
𝜎2Y3 𝜏2Y3
Il fattore di concentrazione delle tensioni teoriche dipende esclusivamente dalla
forma del componente, per questo motivo è anche chiamato fattore di forma (o
shape factor).
Questo è uno strumento utilizzato nel momento in cui dobbiamo effettuare il
dimensionamento di un componente che presenta delle sezioni di intaglio.
L'analisi dell'effetto di concentrazione delle tensioni, che permette di determinare il
valore del fattore di forma, può essere svolta sperimentalmente su modelli o su
componenti in piena scala.
Tra i metodi sperimentali impiegati è opportuno ricordare il rilievo delle
deformazioni mediante estensimetri elettrici (strain‐gages), la Fotoelasticità, l'effetto
Moiré, l'Olografia.
Sono però oramai molto più spesso usati i metodi numerici quali il metodo degli
elementi finiti ed il metodo degli elementi di contorno.

- 76 -
Metodologia strain-life
In alternativa al metodo di dimensionamento che si basa sulle curve di Wholer e
sull'analisi delle tensioni agenti nei punti critici dei componenti (metodo stress‐life), è
possibile seguire l'approccio strain‐life che si è dimostrato particolarmente accurato
nel caso di componenti severamente intagliati.
L'ipotesi fondamentale della metodologia strain‐life è la seguente:
la durata di un componente intagliato è ben approssimata da quella di un provino
liscio che si trovi nelle stesse condizioni di deformazione che si hanno a fondo
intaglio.
Pertanto, secondo questa ipotesi, è possibile determinare la vita di un componente se
si conosce il legame tra deformazioni cicliche del tratto utile del provino e durata.
Tipicamente, questo legame è dato da una curva ∆𝜀 − 𝑁, costruita con i dati ottenuti
da prove di fatica su provini lisci eseguite in controllo di deformazione e con cicli di
deformazione alterno‐simmetrici.
Poiché nel corso di queste prove sono acquisiti anche i cicli di isteresi del materiale, è
possibile analizzare non solo il legame ∆𝜀-𝑁, ma anche quelli esistenti tra gli strain
range elastico e plastico e la durata. Nella maggior parte dei casi, questi legami
possono essere formalizzati dalle seguenti equazioni:
∆𝜀5" ∆𝜎 𝜎′' Z
= = [2𝑁' \ 𝑭𝒐𝒓𝒎𝒖𝒍𝒂 𝒅𝒊 𝑩𝒂𝒔𝒒𝒖𝒊𝒏
2 2𝐸 𝐸
∆𝜀7" [
= 𝜀′' [2𝑁' \
2
2𝑁, : numero di alternanze
b: esponente di resistenza a fatica
c: esponente di duttilità a fatica
𝜎′, : coefficiente di resistenza a fatica
𝜀′, : coefficiente di duttilità a fatica

Le due equazioni definiscono delle rette del piano bi-logaritmico: i diversi parametri
che vi compaiono sono determinati mediante regressione lineare.
La deformazione totale può essere espressa in termini della durata mediante la
seguente formula:
∆𝜀 ∆𝜀5" ∆𝜀7" 𝜎′' Z [
= + = [2𝑁' \ + 𝜀′' [2𝑁' \
2 2 2 𝐸
che è la formula fondamentale del metodo strain-life e prende il nome di formula di
Manson-Coffin.
Il numero di cicli in corrispondenza del quale i range di deformazione elastica e
plastic sono uguali tra loro è dato da:
)
1 𝜎′' [%Z
𝑁# = X Z
2 𝜀′' 𝐸

- 77 -
Questa durata è indicata spesso come vita o durata di transizione.

Figura 7.20

Dall’esame della figura7.20 si vede che per durate minori di 𝑁# , il ciclo di isteresi è
molto ampio e le deformazioni plastiche sono predominanti. Al contrario, per durate
maggiori di 𝑁# il ciclo diviene molto stretto e la deformazione totale è per buona
parte di natura elastica.
Questo diagramma permette anche di comprendere che esiste un legame tra l’area del
ciclo, o equivalentemente l’energia dissipata per unità di volume, e la durata.
Quando non si hanno a disposizione i dati sperimentali, sia le proprietà cicliche che
quelle di fatica del materiale devono essere stimate sulla base di correlazioni
empiriche stabilite con altre proprietà meccaniche del materiale. È questa una
situazione o un problema che si verifica spesso nella pratica tecnica, specialmente
nelle primissime fasi della progettazione di nuovi componenti, quando le incertezze
riguardanti i requisiti tecnici e commerciali del nuovo manufatto non giustificano gli
oneri dovuti ad un'estesa campagna di sperimentazione. In letteratura è possibile
infatti trovare numerose formule empiriche che consentono di dedurre i parametri di
resistenza e di duttilità a fatica dalle proprietà tensili del materiale o da misure di
durezza superficiale. Tra queste, di frequentissimo impiego sono le seguenti stime
empiriche di Manson, ottenute sulla base di dati di fatica e di resistenza statica
relativi ad una classe piuttosto ampia di materiali:
!.]
100
𝑏 = −0.12 𝑐 = −0.6 𝜎 A' 2Z = 3.5 𝑈𝑇𝑆 𝜀 A' 2[ = 6𝑙𝑛 7
100 − 𝑅𝐴
Quando sostituite nell’equazione di Manson-Coffin, permettono di valutare lo strain
range totale in funzione della durata e delle proprietà tensili del materiale, poiché si
ottiene:
!.]
3.5 𝑈𝑇𝑆 %!.)0 100
∆𝜀 = 𝑁 + 6𝑙𝑛 7 𝑁 %!.]
𝐸 100 − 𝑅𝐴
tale equazione prende il nome di legge delle pendenze universali di Manson.

- 78 -
Uno strumento molto utile per il dimensionamento dei componenti intagliati è la
formula di Neuber. Quando a fondo intaglio si producono deformazioni plastiche
non possiamo più utilizzare il fattore di concentrazione delle tensioni teoriche, poiché
le tensioni teoriche si instaurano nel componente solo in regime elastico-lineare.
Bisogna quindi utilizzare il fattore di concentrazione delle tensioni effettive 𝒌𝝈 e il
fattore di concentrazione delle deformazioni effettive 𝒌𝜺 :
𝜎34-
𝑘Q =
𝜎2Y3
𝜀34-
𝑘W =
𝜀2Y3
Otteniamo quindi la formula di Neuber:
𝑘 Q ∙ 𝑘 W ≈ 𝑘#0
Sostituiamo nella formula di Neuber i valori delle varie componenti:
𝜎34- 𝜀34-
∙ ≈ 𝑘#0
𝜎2Y3 𝜀2Y3
ricordando che:
0
𝜎2Y3
𝜀34- =
𝐸
ricaviamo:
𝜎34- 𝜀34-
0 = 𝑘#0
𝜎2Y3
𝐸
da cui otteniamo:
0
𝜎2Y3
𝜎34- 𝜀34- = 𝑘#0
𝐸
la quantità a secondo membro è nota, mentre la quantità 𝜎34- 𝜀34- = 𝑐𝑜𝑠𝑡 definisce
nel piano 𝜎34- −𝜀34- un’iperbole equilatera che prende il nome di iperbole di
Neuber. Avremmo tuttavia un’equazione nelle due incognite 𝜎34- e 𝜀34- , bisogna
quindi introdurre un’altra condizione che lega il valore di 𝜎34- al variare di 𝜀34- e
viceversa
𝜎34- = 𝑓 (𝜀34- )
Questo legame è dato dalla curva stress-strain (𝜎 − 𝜀) del materiale.

- 79 -
In figura7.21 è rappresentato il legame tra l’iperbole di Neuber e la curva stress-
strain:

Figura 7.21

Per analizzare più nel dettaglio le potenzialità della formula di Neuber si può
utilizzare il diagramma di Neuber di figura7.22, in cui è riportato l’andamento di
𝑘 Q e 𝑘 W al variare della tensione nominale che agisce sul nostro componente:

Figura 7.22: Diagramma di Neuber

Come esempio consideriamo il caso di un provino prismatico a sezione rettangolare,


lateralmente intagliato con due intagli semicircolari (figura7.23):

Figura 7.23: Andamento delle tensioni in un provino intagliato

- 80 -
Fino a quando siamo in regime elastico-lineare, a fondo intaglio agisce una tensione
massima data da:
𝜎34- = 𝑘# 𝜎2Y3
con:
𝐹
𝜎2Y3 =
𝐴2
Nella condizione al limite elastico la tensione massima a fondo intaglio è uguale alla
tensione di snervamento 𝑌:
𝑌 = 𝑘# 𝜎2Y3
da cui ricaviamo:
𝑌 𝜎2Y3 1
𝜎2Y3 = ⇒ =
𝑘# 𝑌 𝑘#
Quest’ultima situazione ci definisce dunque la situazione al limite elastico.
Passiamo ora a definire il fattore di riduzione della resistenza a fatica per effetto
di intaglio 𝒌𝒇 :
𝑆R
𝑘' =
𝑆′R
𝑆- : resistenza a fatica per 𝑁 cicli misurata su un provino liscio
𝑆′- : resistenza a fatica per 𝑁 cicli misurata su un provino intagliato

Il 𝑘' è un parametro utilizzato per il calcolo a fatica dei componenti per l’approccio
stress-life.
La quantità 𝑆′R è l’ampiezza della tensione nominale che produce la rottura del
provino intagliato dopo 𝑁 cicli.
Il valore di 𝑘' è sempre compreso tra due valori:
1 ≤ 𝑘' ≤ 𝑘#
Analizziamo cosa accade nel nostro provino intagliato (figura7.24).
Le tensioni che si instaurano nella sezione retta in regime elastico-lineare hanno un
andamento con due picchi di valore 𝜎34- (andamento rappresentato in rosso).
Se vogliamo che il nostro provino intagliato abbia una durata di 𝑁 cicli è necessario
che a fondo intaglio sia presente un’area su cui agisce una sollecitazione di ampiezza
maggiore o uguale ad 𝑆R .

- 81 -
Figura 7.24

Introduciamo un parametro che ci definisce una correlazione tra 𝑘' e 𝑘# , detto


coefficiente di sensibilità all’intaglio 𝒒:
𝑘' − 1
𝑞=
𝑘# − 1
Questo parametro varia con 𝑁 come varia 𝑘' , per 𝑁 molto piccolo 𝑘' tende a 1 e 𝑞
tende a 0.
Se conosciamo la sensibilità all’intaglio del provino per una certa durata, possiamo
ricavare che:
𝑘' = 1 + 𝑞(𝑘# + 1)

Per calcolare la sensibilità all’intaglio possono essere usate due diverse formule:

1
𝑞= 𝑎 𝐹𝑜𝑟𝑚𝑢𝑙𝑎 𝑑𝑖 𝑃𝑒𝑡𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛
1+𝜌
a: parametro caratteristico del materiale, detto costante di Peterson
𝜌: raggio di curvatura a fondo intaglio

1
𝑞= 𝐹𝑜𝑟𝑚𝑢𝑙𝑎 𝑑𝑖 𝑁𝑒𝑢𝑏𝑒𝑟
𝜌∗
1+_
𝜌
𝜌∗ : è una costante caratteristica del materiale.

- 82 -
8. Danno da Fatica
Uno dei problemi che il progettista deve più spesso affrontare è la stima della durata
di un componente sotto carichi di fatica di ampiezza variabile. Consideriamo allora il
caso di un provino liscio di un dato materiale nel quale siano applicati 𝑛) cicli
alterno-simmetrici di stress-range ∆𝜎) , 𝑛0 cicli di stress-range ∆𝜎0 ,…., 𝑛D cicli di
stress-range ∆𝜎D .

Figura 8.1

L’energia dissipata (per unità di volume) è data da:


D
𝑚−1
𝑊 = ½ 𝑛? 𝐶 (∆𝜎? )3P)
𝑚+1
?a)

e si avrà rottura quando questa energia 𝑊 raggiunge un valore critico caratteristico


del materiale 𝑊[ .
Quindi se 𝑁? è la durata sotto il ciclo di stress-range ∆𝜎? , possiamo definire le
condizioni di rottura attraverso la seguente catena di uguaglianze:
D
𝑚−1 1𝑚 − 1 𝑚−1
½ 𝑛? 𝐶 (∆𝜎? )3P) = 𝐶 (2𝜎? )3P) = 𝑁? 𝐶 (∆𝜎? )3P)
𝑚+1 2𝑚 + 1 𝑚+1
?a)

Questo risultato può essere semplificato dividendo primo e secondo membro per
𝑚−1
𝑊[ = 𝑁? 𝐶 (∆𝜎? )3P)
𝑚+1
ottenendo:
D
𝑛?
½ =1
𝑁?
?a)

nota come legge lineare di accumulo del danno o come formula di Palmgreen-
2
Miner. Il rapporto R# è la frazione di vita consumata sotto il livello di carico 𝑖.
#
Pertanto, secondo la formula di Palmgreen-Miner, si avrà la rottura del provino
quando la somma delle frazioni di vita consumate raggiunge il valore unitario.
- 83 -
2
Ciascuna frazione R# è indicata solitamente come danno da fatica 𝑫𝒊 accumulato dal
#
materiale o dal componente sotto il livello di carico i-esimo. Pertanto, la legge di
danno lineare si può anche enunciare dicendo che la rottura sotto carichi di ampiezza
variabile interviene quando il danno totale 𝐷 o danno cumulato, dato dalla somma dei
danni parziali 𝐷? che si sono prodotti sotto i diversi livelli di carico, raggiunge il
valore unitario, cioè quando:
D

½ 𝐷? = 1
?a)

Numerosissime sono state le indagini sperimentali condotte finora per definire il


campo di validità della formula di Palmgreen‐Miner.
Nella maggior parte dei casi, le prove sono state condotte considerando storie di
carico con due soli livelli. Queste prove consistevano nell'applicare inizialmente sul
provino un certo numero 𝑛) di cicli di carico al livello ∆𝜎) e nel valutare il numero di
cicli 𝑛0 dopo i quali si ha rottura sotto il livello ∆𝜎0 . Se ∆𝜎) > ∆𝜎0 la sequenza di
livelli con la quale è eseguita la prova è detta sequenza High‐Low, se ∆𝜎) < ∆𝜎0 si
ha una sequenza Low‐High.
I risultati sperimentali prodotti mostrano che, in corrispondenza della rottura dei
provini, il valore del danno totale D risulta variabile nel campo 0.5 ‐ 2. Nella maggior
parte dei casi esaminati, il valor medio di D risulta essere molto vicino a 1. Inoltre,
per sequenze Low‐High il valore di D è in genere maggiore di 1 (effetto di
allenamento), mentre risulta essere inferiore a 1 per prove eseguite con sequenze
High‐Low (effetto di over‐stressing). In altri termini, la formula di Miner è non
conservativa per sequenze High‐Low.
I pochi risultati ottenuti sperimentando con storie di carico più realistiche, ottenute
combinando in modo random carichi di diversa ampiezza, sono invece in ottimo
accordo con le previsioni di danno ottenute con il modello lineare.
In definitiva, la formula di Palmgreen-Miner non è in grado di descrivere le modalità
secondo cui si danneggia per fatica un materiale per i seguenti motivi:
• essa non considera gli effetti della sequenza secondo cui sono applicati i carichi;
secondo tale formula infatti, il danno parziale 𝐷? prodotto dal livello ∆𝜎? non
dipende dalla storia dei carichi precedentemente applicati. Ne è una conferma
di ciò le osservazioni fatte riguardo agli effetti delle sequenze High-Low e Low-
high.
• la velocità con cui si danneggia un materiale reale dipende dal suo stato attuale
di danneggiamento e dal livello attuale di carico e queste dipendenze non sono
presenti nell’espressione del danno parziale.

Per stimare, mediante la formula di Miner, la durata di un componente assoggettato


ad una storia di carico reale comunque complessa è necessario ridurre questa storia
ad una sequenza di cicli di sollecitazione di ampiezza costante che producono lo

- 84 -
stesso danno della storia reale. Questo processo di riduzione è eseguito analizzando la
storia reale mediante un metodo di conteggio dei cicli (cycle counting method).
Diversi sono i metodi finora proposti, tra questi quello di più frequente impiego nella
pratica è il metodo rain‐flow.
Per eseguire il conteggio dei cicli con questo metodo occorre innanzitutto
diagrammare la storia delle sollecitazioni in un
riferimento cartesiano avente asse dei tempi verticale ed orientato verso il basso.
In questo modo, la curva delle sollecitazioni si presenterà simile al profilo dei diversi
spioventi che costituiscono un tetto a pagoda.
I cicli di sollecitazione che la compongono sono quindi definiti dal modo in cui il
flusso dell’acqua piovana scorre lungo i diversi spioventi del tetto. Proprio in ciò
consiste l’analogia invocata da Matshuishi ed Endo (i due studiosi che per primi
hanno utilizzato questa tecnica di conteggio), dalla quale il metodo del rain‐flow
prende il nome.

Figura 8.2

Per estrarre dalla stress time history i cicli di carico affaticanti equivalenti alle
variazioni di carico effettive distribuite casualmente nel tempo, si stabilisce di seguire
l’anzidetto flusso di acqua applicando le seguenti regole alla storia dei carichi,
diagrammata in modo che inizi e finisca con il valore massimo in valore assoluto (per
eliminare il conteggio di cicli incompleti):
• partendo da un punto di minimo (valle) del diagramma (falda del tetto) si segua
l’ipotetico flusso di pioggia che scorre verso il basso, fino a raggiungere, senza
intercettare un altro flusso considerato in precedenza, quel massimo relativo
(picco) che è seguito da un minimo (valle) più piccolo di quello di partenza. La
differenza tra il valore del picco raggiunto e quello della valle di partenza fornisce
il campo di tensione del ramo ascendente di un ciclo di carico;
• partendo da un punto di massimo (picco) del diagramma (falda del tetto) si segua
l’ipotetico flusso di pioggia che scorre verso il basso, fino a raggiungere, senza
intercettare un altro flusso considerato in precedenza, quel minimo relativo
(valle) che è seguito da un massimo (picco) più grande di quello di partenza. La
differenza tra il valore della valle raggiunta e quello del picco di partenza fornisce
il campo di tensione del ramo discendente di un ciclo di carico;

- 85 -
• se il flusso intercetta un altro considerato in precedenza, va arrestato nel punto
di intercettazione e si calcola il campo del ramo, ascendente o discendente, del
ciclo di carico da costruire facendo la differenza tra il valore della tensione
corrispondente al punto di intercettazione e quello del picco o valle di partenza;

Questa procedura va applicata a tutti i punti, di picco e di valle, che si susseguono


nella storia di carico, dal primo all’ultimo. Una volta individuati tutti i rami di cicli di
carico, si proceda ad accoppiarli, uno ascendente con uno discendente di pari
ampiezza, per ottenere i cicli equivalenti richiesti.
Il significato delle diverse regole può essere facilmente chiarito mediante un esempio.
Nel diagramma della slide precedente è riportata una stress time history con i diversi
flussi di acqua piovana da considerare.
La stress time history inizia e termina con il valore estremale massimo in valore
assoluto (punto A). Un flusso parte da ciascun punto di massimo o di minimo
relativo.
• Il primo flusso parte da A e supera i punti B e D senza arrestarsi, poiché
nessuna delle condizioni a), b), c) è soddisfatta;
• il secondo flusso parte da B e si arresta in C, perché il massimo in D supera il
valore di partenza (B)(condizione b);
• il terzo flusso, che inizia nel punto C, deve arrestarsi quando incontra il flusso
proveniente dal punto A;
• il quarto flusso che inizia nel punto D scorre sulla falda superando i punti E e
G, fino a raggiungere l’ultimo punto della storia rappresentata, poiché nessuna
delle condizioni a), b) c) è verificata;
• il flusso proveniente dal punto E va considerato fino al punto F, per il
verificarsi della condizione a);
• il flusso che parte da F si arresta quando incontra il flusso proveniente dal
punto D (condizione c);
• il flusso proveniente dal punto G va considerato fino al punto H, per il
verificarsi della condizione a);
• il flusso che ha origine nel punto H deve fermarsi quando incontra il flusso
proveniente dal punto D (condizione c)).

Figura 8.3: Esempi di diagrammi che si ottengono da prove di fatica

- 86 -
Dalla figura8.3 si evince che è evidente che i risultati delle prove di fatica non hanno
un andamento regolare.
I dati sono dispersi intorno a una curva del piano 𝑆-𝑁, ciò è dovuto in parte alla forte
dipendenza della durata a fatica dalle condizioni superficiali che sono difficili da
mantenere uguali per tutti i provini. Un’altra fonte di errore responsabile della
dispersione dei dati di durata sono le dimensioni dei provini, nonché la misura ed il
controllo dei valori di carico, tensione o deformazione imposti al provino.
Ad esempio, se assumiamo che la durata sia prossima al limite di fatica, cioè
dell’ordine di 10] cicli, e che l’esponente 𝑚 della legge di incrudimento sia uguale a
7, dall’equazione di Manson, trascurando il range di deformazione plastica si ha:
1 100
∆𝜀 ≈ 𝑈𝑇𝑆 ∙ 𝑁 %!.)0
𝐸 100 − 𝑅𝐴
𝑑∆𝜀 𝑑𝑁
≈ −0.12
∆𝜀 𝑁
Se, quindi, l’errore nella misura dello strain-range è pari al 5%, le variazioni
osservate nelle durate, escludendo semplicisticamente altri fattori, sarà del 40%.
Se invece la durata è molto piccola, dell’ordine di 10> cicli o meno, trascurando
questa volta le deformazioni elastiche, dalla formula di Manson si ottiene:
100
∆𝜀 ≈ 1.1 ∙ 𝑙𝑛 6 7 ∙ 𝑁 %!.]
100 − 𝑅𝐴
𝑑∆𝜀 𝑑𝑁
≈ −0.875
∆𝜀 𝑁
Dunque, lo stesso errore nella determinazione del ∆𝜀 produrrà una variazione della
durata del 6%. Ciò è in accordo con i risultati sperimentali, che esibiscono uno scatter
gradualmente crescente con la durata 𝑁.
In conseguenza della forte dispersione dei dati di durata, è necessario definire la
probabilità di sopravvivenza dei provini testati sotto lo stesso livello di carico. Solo
una frazione di questi provini sopravvivrà per un determinato numero di cicli 𝑁.
Se il campione di provini sottoposti a prova sotto le stesse condizioni è
sufficientemente grande, la probabilità di sopravvivenza 𝑅 è data da:
𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑖𝑛𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑣𝑣𝑖𝑣𝑜𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑁 𝑐𝑖𝑙𝑐𝑖
𝑅=
𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑖𝑛𝑖 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎𝑡𝑖
e dipende da 𝑁 oltre che dalle condizioni di prova.
Per eseguire in modo corretto il dimensionamento, è necessario conoscere la
probabilità di sopravvivenza dei provini o del componente sottoposto ad una tensione
di ampiezza 𝑆 in corrispondenza di un’assegnata durata 𝑁 e, se la sicurezza è il
parametro più importante, questa probabilità dovrà essere la più elevata possibile (𝑅
molto prossimo all’unità).

- 87 -
In alcune situazioni, le considerazioni economiche sono più importanti e può essere
preferibile ridurre la probabilità di sopravvivenza, anche se ciò comporta frequenti
sostituzioni di componenti. Per questo motivo sono molto utili i diagrammi che
mostrano la variazione di 𝑃 o di 𝑅 in funzione di 𝑁 come quelli mostrati.
La probabilità di sopravvivenza associata alle durate stimate con l’equazione di
Manson è dell'ordine del 20 ‐ 30%.
Le curve di progetto possono essere ricavate da queste equazioni riducendo la durata
calcolata per un dato range di tensione o di deformazione oppure riducendo il campo
di tensione o di deformazione corrispondente ad una certa durata mediante i fattori di
sicurezza riportati nella seguente tabella:

Figura 8.4: Fattori di sicurezza

In genere il cedimento di un materiale duttile sottoposto ad un carico statico è


descritto come un processo di instabilità geometrica, implicante grandi deformazioni
di tipo plastico. Inoltre, le deformazioni plastiche hanno anche un ruolo fondamentale
nell'innesco delle micro‐cricche e nel la loro successiva crescita sotto un carico
ciclico.
Nei materiali duttili, la presenza di piccoli intagli o difetti produce deformazioni
dell'ordine di grandezza delle deformazioni di snervamento o anche maggiore,
localizzate in una regione grande quasi quanto il difetto stesso. A parte l'effetto di
ridurre la sezione ‐ e quindi il carico di rottura ‐ e la resistenza a fatica rispetto ai
valori relativi ad un provino liscio, i difetti non causano nessuna alterazione
significativa del meccanismo di rottura.
Nei materiali fragili, invece, la forma, il numero e la distribuzione dei difetti hanno
un effetto significativo sulla resistenza, come ha mostrato Griffith, che affermò che
"la resistenza dei materiali isotropi... è dovuta alla presenza di discontinuità, o difetti
come sarebbe corretto chiamarli, le cui dimensioni lineari sono grandi se paragonate
alle distanze molecolari".

Figura 8.5: Rottura fragile di un materiale duttile

- 88 -
N.B.
Esistono condizioni sotto le quali un materiale duttile si comporta come se fosse
fragile.
In altri termini esistono situazioni nelle quali un acciaio può rompersi o fratturarsi
come il vetro (esempio figura8.5)

I difetti nei materiali vengono spesso considerati come le principali cause di innesco
delle fratture fragili. Gli effetti di concentrazione delle tensioni nelle vicinanze di
imperfezioni o irregolarità sono d’altra parte ben noti da lungo tempo.
Già nel 1898 Kirsch forniva la soluzione al problema di una lastra infinita con foro
circolare sottoposta a trazione (figura8.6):
𝜎C = 𝜎 ∙ (1 − 2 ∙ cos(2𝜃 ))

La tensione massima sul bordo del foro risulta tre volte più grande di quella applicata
esternamente.

Figura 8.6: Piastra infinita con foro circolare soggetta a trazione

Ciò significa che la resistenza di una lastra forata di dimensioni assai maggiori di
quelle del foro risulta ridotta ad un terzo rispetto alla resistenza della lastra integra,
indipendentemente dalle dimensioni del foro.
Sembra ci sia una situazione di compromesso tra quantità di materiale asportato e
curvatura del foro. Al limite, anche un foro infinitesimo provoca un fattore di
concentrazione uguale a 3, sebbene il materiale asportato sia pressoché nullo. Il
raggio di curvatura del foro è infatti in questo caso molto piccolo e crea condizioni di
particolare severità.

Il problema del foro ellittico è stato risolto invece da Inglis.


La tensione massima sul bordo del foro con asse maggiore ortogonale alla direzione
del carico, risulta in questo caso amplificata per il fattore:
𝑎
𝑘# = 1 + 2 ∙
𝑏
La resistenza della lastra forata viene così a dipendere unicamente dal rapporto tra i
semiassi dell'ellisse di contorno del foro.

- 89 -
Figura 8.7: Piastra infinita con foro ellittico soggetta a trazione

Il fattore di concentrazione delle tensioni teoriche aumenta all’aumentare


4
dell’eccentricità dell’ellisse. Per Z → ∞, cioè quando l’ellisse è molto eccentrica, il
fattore di concentrazione tende all’infinito.
È evidente che questo modo di affrontare il problema non è utile per descrivere la
condizione di criticità di una fessura di lunghezza 2𝑎 e larghezza 2𝑏 tendente a zero.
È sufficiente quindi una tensione nominale 𝜎 molto piccola per superare la resistenza
a trazione del materiale all’estremità della fessura.
Tuttavia, nella realtà i solidi fessurati possono resistere anche a sollecitazioni
considerevoli.
Approccio energetico di Griffith
Griffith considerò una fenditura, di lunghezza 2𝑎, in una piastra di larghezza 2𝑤
molto maggiore di 2𝑎, avente spessore unitario e sottoposta alla tensione (nominale)
monoassiale 𝜎 (figura8.8).

Figura 8.8
L'energia di deformazione elastica che si libera dalla piastra quando realizziamo in
essa la fenditura, senza cambiare le condizioni al contorno, è:
𝜎0
𝑊= 𝜋𝑎0 ∙
𝐸
- 90 -
Se la cricca, per qualche motivo, avanza o si estende di 2 𝑑𝑎 (cioè di 𝑑𝑎 a sx e di 𝑑𝑎
a dx), l’energia rilasciata per l’incremento unitario della sua lunghezza è:
𝑑𝑊 𝜎0
= 𝜋 𝑎
𝑑(2𝑎) 𝐸
L’energia che occorre spendere per generare le nuove superfici di frattura
corrispondenti a questa estensione della cricca o della fessura è invece data da:

𝑑𝑊O = 4 𝛾O 𝑑𝑎
𝛾/ : lavoro che occorre spendere per rompere i legami atomici o molecolari del materiale e creare una nuova
superficie di frattura di area unitaria

Griffith suppose che, purché una fessura preesistente di lunghezza 2𝑎 si estenda,


l’energia elastica rilasciata in un’estensione virtuale debba risultare maggiore o
uguale di quella richiesta per la creazione della nuova porzione di superficie libera
che si crea:
𝑑𝑊 𝑑𝑊O

𝑑(2𝑎) 𝑑(2𝑎)
La condizione di instabilità è perciò la seguente:

𝜎0 2 𝛾O 𝐸
𝜋 𝑎 = 2 𝛾O → 𝜎 = ^
𝐸 𝜋 𝑎

Possiamo diagrammare la curva definita da questa equazione sul piano 𝜎-𝑎

Figura 8.9

La precedente disequazione è valida sia per la tensione applicata 𝜎 che per la semi-
lunghezza 𝑎 della cricca.

- 91 -
Le coppie di valori 𝑎 e 𝜎 che cadono al dì sotto della curva costituiscono casi stabili,
mentre le coppie che cadono al di sopra riguardano casi instabili.
Esplicitando la precedente condizione rispetto alla tensione applicata si ottiene:

2 𝛾O 𝐸 𝐺cd 𝐸
𝜎≥^ =^
𝜋 𝑎 𝜋 𝑎

dove 𝐺cd = 2 𝛾O rappresenta l’energia di frattura.


Quando si applica la teoria di Griffith ad una piastra con un intaglio centrale
costituita di materiale duttile, si trova che il valore critico della tensione e la
corrispondente lunghezza della cricca (un attimo prima che si raggiunga la
condizione di instabilità e che avvenga la rottura improvvisa) definiscono un valore
critico dell’energia elastica rilasciata molto più grande di quello che si deduce
dall’energia 𝛾O .
Si scopre, inoltre, che perfino a temperature molto basse, al disotto dell'intervallo di
transizione, si ha una certa deformazione plastica all'apice della cricca che si propaga.
Per questi due fatti, nel caso dei materiali duttili 𝐺cd ha il significato di "lavoro
plastico", che rappresenta l'energia necessaria a produrre deformazioni plastiche
all'apice della cricca sufficientemente grandi da strappare i lembi della cricca,
permettendone la crescita di una lunghezza unitaria.
L'indice 𝑐 indica che la tensione e la deformazione sono calcolati nella condizione di
incipiente instabilità.
Il lavoro plastico è un'energia per unità di lunghezza di estensione della cricca per
una piastra di spessore unitario e le sue dimensioni sono 𝐹𝐿%)
Per un dato materiale, il valore del lavoro plastico dipende dall'ambiente, nella misura
in cui quest'ultimo può causare una perdita di duttilità e pertanto includerà l'effetto di
un attacco chimico, di danno causato da radiazioni o dalla temperatura, di trattamenti
termici, di lavorazioni a freddo. ecc.
Le condizioni di prova (temperatura e velocità di deformazione) e, come vedremo in
seguito, la geometria del provino, avranno anche un effetto sul lavoro plastico.
Nel caso dei materiali duttili, la validità della teoria di Griffith è limitata, a causa del
metodo di analisi elastico utilizzato per determinare l'energia di deformazione
rilasciata dal sistema, ai casi in cui le deformazioni plastiche sono piccole.
Ovviamente non ha senso applicare questo tipo di analisi ad un componente in cui la
frattura finale è preceduta da un diffuso snervamento.
Il valore di 𝐺d può essere determinato sperimentalmente sottoponendo a trazione una
piastra con intaglio centrale.
Se si provano più piastre dello stesso materiale e di uguali dimensioni, ad eccezione
dello spessore, si scopre che 𝐺d varia con lo spessore.
Dal diagramma, che rappresenta la variazione di 𝐺d con lo spessore, si vede che nelle
piastre sottili ad un valore elevato del lavoro plastico corrisponde una rottura per
precisione, dovuta al taglio.

- 92 -
Figura 8.10

All'aumentare dello spessore l'entità del lavoro plastico e l'estensione della zona
caratterizzata da rottura dovuta al taglio diminuiscono finché, per uno spessore
sufficientemente grande, il lavoro plastico raggiunge il valore minimo e la rottura è di
tipo fragile. Questo valore minimo dipende solo dal materiale e viene indicato con il
simbolo Gef .
Per valutare l’energia elastica rilasciata per un incremento virtuale unitario della
lunghezza di cricca (energy release rate) è necessario determinare il campo di
tensione agente intorno alla fessura.

Figura 8.11

È possibile dimostrare che, nell'ipotesi di materiale elastico lineare, in


qualunque componente contente una cricca il campo tensionale che si desta intorno
all'apice della fessura, nel riferimento locale di figura8.11 avente origine in
corrispondenza dell'apice della cricca, è esprimibile nella forma:
ccc
𝐾g (g)
𝜎?@ = ½ ∙ 𝑓?@ (𝜃)
gac
√2𝜋𝑟

dove 𝜎?@ sono le componenti del tensore delle tensioni, 𝑟 e 𝜃 sono le coordinate polari
definite nel piano 𝑥𝑦 ed il pedice 𝐽 identifica il particolare modo secondo il quale si
deformano le facce della fessura. Infine, il parametro 𝐾g e le funzioni adimensionali
(g)
𝑓?@ dipendono dalla geometria e dalle condizioni al contorno.

- 93 -
I modi secondo il quale si possono deformare le facce di una fessura sono
rappresentati nella seguente figura:

Figura 8.12

In un solido elastico lineare, all’apice di una cricca che si deforma nel piano 𝑥𝑦
secondo il modo I, le tensioni valgono:

𝐾c 𝜃 𝜃 3𝜃
𝜎- = cos 6 7 ∙ 61 − sin 6 7 ∙ sin 6 77
√2𝜋𝑟 2 2 2

𝐾c 𝜃 𝜃 3𝜃
𝜎. = cos 6 7 ∙ 61 + sin 6 7 ∙ sin 6 77 (∗∗)
√2𝜋𝑟 2 2 2

𝐾c 𝜃 𝜃 𝜃
𝜏-. = ∙ sin 6 7 ∙ cos 6 7 ∙ sin 6 7
√2𝜋𝑟 2 2 2

Figura 8.13

Riguardo alle precedenti espressioni delle componenti delle tensioni è opportuno fare
le seguenti osservazioni:
0
• le tensioni presentano una singolarità 𝑟 1 all’estremità della fessura. La potenza
)
dipende esclusivamente dalle condizioni al contorno sulle facce della fessura.
0

- 94 -
• il campo di tensione nell’intorno dell’apice della fessura è determinato dal
fattore 𝐾c che viene chiamato fattore di concentrazione degli sforzi (stress
intensity factor) relativo al modo I ed indicato spesso con l’acronimo SIF.

Nel caso generale il S.I.F. ha l’espressione:

𝐾c = 𝛽 𝜎 √𝜋𝑎

dove 𝛽 è un fattore adimensionale che dipende dalla geometria e dal tipo di carico, 𝜎
;
invece è la tensione nominale. Dunque, le dimensioni del S.I.F. sono: [𝐹 ][𝐿]% :0 .

Anche per i modi II e III esistono i corrispondenti S.I.F.: 𝐾cc e 𝐾ccc rispettivamente, le
cui equazioni generali sono riportate nella seguente figura:

Figura 8.14: Equazioni generali del S.I.F.

Prendiamo in esame una lastra piana fessurata di materiale elastico lineare e di


piccolo spessore, soggetta a spostamenti imposti sul suo bordo esterno tali da attivare
il modo I della fessura.

Figura 8.15

Indichiamo al solito con 𝑎 la lunghezza della fessura. Immaginiamo che questa si


estenda virtualmente di una quantità 𝛥𝑎 e denotiamo con 𝑣 gli spostamenti verticali

- 95 -
delle facce della cricca in questa nuova configurazione. Applicando il teorema di
Clapeyron, si ha la seguente variazione dell'energia elastica immagazzinata nella
lastra:
∆'
1
𝑊 = 2+ 𝜎 (∆𝑎 − 𝑟, 0) 𝑣(𝑟, 𝜋)𝑑𝑥
( 2 %

𝐾)*
𝑊= ∆𝑎 = 𝐺) ∆𝑎
𝐸

Abbiamo visto che, nell'ipotesi di materiale dal comportamento elastico lineare, il


campo tensionale che si desta intorno all'apice presenta una singolarità. Le
componenti di tensione, per 𝑟 tendente a zero divengono infinitamente grandi. Questo
risultato non è compatibile con il comportamento reale del materiale.

Figura 8.16

Nella realtà intorno all'apice della cricca si crea una zona plastica, che risulta essere,
per un dato valore del carico, tanto più estesa quanto più è duttile il materiale.
L'andamento della tensione teorica 𝜎. agente sul piano contenente la fessura, nel caso
di modo I, può essere ottenuto dalla seconda delle eq.(∗∗):
𝐾c
𝜎. = 𝜎. (𝜃 = 0) =
√2𝜋𝑟

Mediante la precedente equazione è relativamente semplice ottenere una stima


dell’estensione 𝑟7 della regione plasticizzata: ricerchiamo il valore 𝑟7 di 𝑟 per il quale
la 𝜎. eguaglia il valore di snervamento:

𝐾c
𝑌=
›2 𝜋 𝑟7

- 96 -
Otteniamo in questo modo il valore del raggio plastico:
1 𝐾c 0
𝑟7 = 6 7
2𝜋 𝑌

Figura 8.17: Raggio plastico

Quando la cricca avrà raggiunto la condizione di instabilità, l’estensione della regione plastica sarà
data quindi da:

1 𝐾d 0
𝑟7d = 6 7
2𝜋 𝑌
Mediante la precedente formula è possibile ottenere soltanto una stima molto
grossolana del raggio plastico. Per stime più accurate, è necessario tener conto del
fenomeno della ridistribuzione delle tensioni agenti di fronte alla fessura.
Osserviamo innanzitutto che, nel caso di materiale elastico lineare perfettamente
plastico senza incrudimento, l'andamento teorico della componente 𝜎. riportato nel
diagramma dovrebbe essere 'troncato' al livello 𝜎 = 𝑌 (fig.8.17), per tener conto del
fatto che in un materiale di questo tipo non è possibile avere valori della tensione
equivalente maggiori di 𝑌.
La distribuzione delle 𝜎. che si ottiene correggendo il diagramma teorico in questo
modo, però, viola l'equilibrio, poiché viene eliminata la forza interna data dal
prodotto dell'area tratteggiata per lo spessore della piastra.
Per tener conto di ciò, la curva teorica troncata deve essere traslata orizzontalmente,
estendendo la regione in cui la 𝜎. è costante, fino a che l'integrale della curva teorica
o elastica risulti uguale a quello della curva elasto‐plastica.
L'integrale della distribuzione teorica valutato tra l'apice della fessura ed il valore del
raggio plastico 𝑟7 di prima approssimazione vale:

B$
𝐾c 2 ):
5 𝑑𝑟 = ^ 𝐾c 𝑟7 0
! √2𝜋𝑟 𝜋

Sostituendo nella precedente equazione l'espressione di 𝐾c che si ottiene dalla


equazione del raggio plastico otteniamo:
B$
𝐾c
5 𝑑𝑟 = 𝑌𝑟7
! √2𝜋𝑟
- 97 -
Dunque, l’area tratteggiata, eliminata dal diagramma teorico quando lo si tronca al
livello 𝑌, è pari all’area 𝑌𝑟7 del rettangolo sottostante. Pertanto, affinché non sia
violato l'equilibrio il diagramma troncato deve essere traslato proprio di 𝑟7 .
Si ottiene quindi la stima di seconda approssimazione del raggio plastico in
condizioni critiche:
1 𝐾c 0
𝑟′′7 = 2𝑟7 = 6 7
𝜋 𝑌
Si può tener conto della ridistribuzione degli sforzi seguendo l'approccio di Irwin.
Egli osservo che le tensioni che agiscono di fronte all'apice, per effetto della
ridistribuzione sono più grandi di quelle teoriche ed ad esse deve corrispondere un
fattore di intensificazione 𝐾5'' maggiore di quello 𝐾c valutato con una semplice
analisi elastica.
Per tal motivo, Irwin ipotizzò che le tensioni presenti nel componente reale fossero
quelle generate fa una cricca (virtuale) di lunghezza 𝑎5'' maggiore di quella reale,
ponendo così l'apice della cricca nel centro della zona plastica :
𝑎5'' = 𝑎 + 𝑟8
)
con: 𝑟8 = 𝑟
0 7
L’espressione del fattore di intensificazione effettivo 𝐾5'' è:

𝐾5'' = 𝛽𝜎›𝑎5''

Il valore di 𝑎5'' e quindi di 𝑟8 si ottiene risolvendo la precedente equazione per un


dato valore della tensione nominale o del carico.
Per farlo si utilizza il seguente algoritmo iterativo, proposto dallo stesso Irwin:
• calcolare il valore del S.I.F. senza correzione, cioè con 𝑟7 = 0;
• stimare il valore di 𝑟7 ;
• eseguire iterativamente le seguenti operazioni:
§ calcolare il valore di 𝐾5'' con questo valore di 𝑟7 ;
§ con il valore di 𝐾5'' ottenuto, calcolare un nuovo valore di 𝑟7 .

fin quando i valori di 𝑟7 e del 𝐾5'' non variano più in modo apprezzabile.

Il raggio plastico svolge un ruolo fondamentale nelle applicazioni pratiche poiché


esso consente di verificare l'applicabilità ai casi concreti della Meccanica della
Frattura Elastica Lineare, cioè dei risultati teorici riguardanti la stabilità delle
cricche ottenuti nell'ipotesi di elasticità lineare.
Si è visto che il criterio di Griffith può essere esteso al caso dei materiali duttili se le
deformazioni plastiche che si hanno intorno all'apice della fessura rimangono piccole
o, equivalentemente, se la regione plastica è poco estesa. In queste condizioni, la
soluzione elastica è un'ottima approssimazione del campo tenso‐deformativo reale
che si ha intorno all'apice e, attraverso il SIF, si hanno ottime stime dell'energia
elastica rilasciata dal componente (per estensione unitaria dell'area della cricca), che è
- 98 -
il parametro che governa il fenomeno della propagazione instabile dei difetti. Per
enfatizzare questo aspetto, l’energia G è anche indicata come crack driving force.
I risultati della Meccanica della Frattura Elastica Lineare posso essere utilizzati solo
se il raggio plastico è molto piccolo, cioè, in termini più concreti, se esso è almeno un
ordine di grandezza più piccolo della minore delle dimensioni che caratterizzano la
geometria del componente nella regione contenente la fessura o la cricca.

Formula di Gough-Pollard
La formula di Gough-Pollard è usata per il dimensionamento a fatica degli alberi sul
quale agiscono sollecitazioni di flessione rotante più una coppia torcente stazionaria:

𝑆4 0 𝜏3 0
6 7 +6 7 =1
𝑆R 𝜏8

che possiamo scrivere come:

(') 0 (#) 0
𝜎 𝜏
– 34- — + – 34- — = 1
𝑆R 𝜏8

Figura 8.18: Dominio di sicurezza alberi sollecitati da flessione e torsione

(') (#)
Esplicitiamo il valore di 𝜎34- e di 𝜏34- :

(') 32𝑀'
𝜎34- = 𝐾# (') ∙
𝜋𝑑 ;
(#) 16𝑀#
𝜏34- = 𝐾# (#) ∙
𝜋𝑑 ;
Sostituiamo questi valori nella formula di Gough-Pollard e otteniamo:

32𝑀' 1 0 16𝑀# 1 0
6𝐾# (') ∙ ∙ 7 + 6𝐾# (#) ∙ ∙ 7 =1
𝜋𝑑 ; 𝑆R 𝜋𝑑 ; 𝜏8

- 99 -
Da cui ottengo il valore del diametro incognito:

32𝑀' 1 0 16𝑀# 1 0
𝑑] = 6𝐾# (') ∙ ∙ 7 + 6𝐾# (#) ∙ ∙ 7
𝜋 𝑆R 𝜋 𝜏8

32𝑀' 1 0 16𝑀# 1 0
𝑑 = ^6𝐾# (') ∙ ∙ 7 + 6𝐾# (#) ∙ ∙ 7
𝜋 𝑆R 𝜋 𝜏8

Ricordiamo che 𝜏8 si calcola utilizzando il criterio di Von Mises

𝜎5D = ›3 ∙ 𝜏 0 = 𝑌
𝑠𝑖 ℎ𝑎 𝑠𝑒𝑛𝑟𝑎𝑣𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝜎+, = 𝑌

𝑌
𝜏8 =
√3

9.Analogia Idrodinamica
È uno strumento preziosissimo per lo studioso di problemi d'intaglio, poiché permette
di identificare facilmente le forme ed i dettagli strutturali responsabili degli effetti d
concentrazione.
Mediante l'analogia idrodinamica, inoltre, ci si può rendere conto ‐ almeno
qualitativamente ‐ dell'andamento delle tensioni nella regione intagliata.
L'analogia consiste nel far corrispondere alla tensione ed al flusso di forza
rispettivamente la velocità ed il flusso di corrente di un fluido che scorra in regime
stazionario in un condotto avente la forma del solido (fig.9.1).

Figura 9.1: Analogia Idrodinamica

L’analogia non è in genere esatta, nel senso che le equazioni relative al moto del
fluido non presentano la stessa struttura formale di quelle che reggono il problema
dell’equilibrio elastico.
È rigorosa nel caso della torsione, per il quale esiste una perfetta identità formale fra
le eq. che legano le componenti tangenziali di tensione agenti sulla sezione retta del

- 100 -
solido e le equazioni che governano il campo di velocità di un fluido perfetto di
vorticità uniforme.
Per chiarire l'utilità dell'analogia, riferiamoci ancora alla figura ed osserviamo che se
la corrente fluida nel condotto incontra un ostacolo, le linee di corrente devono
deviare il loro percorso per addensarsi maggiormente in prossimità dell'ostacolo e,
come è noto dalla fluidodinamica, a ciò corrisponde un incremento locale della
velocità.
Analogamente, se un ostacolo rappresentato da un intaglio si oppone
al flusso di tensione, questo flusso in prossimità dell'ostacolo diventerà più intenso,
cioè le tensioni aumenteranno in corrispondenza dell'intaglio.
Ad una certa distanza dall'intaglio l'effetto della perturbazione che esso genera si
attenuerà fino ad estinguersi.
L’analogia permette quindi di definire gli intagli come particolari regioni di un
elemento meccanico o di una costruzione nelle quali la forma e la configurazione
locale di un elemento strutturale sono tali da produrre una deviazione più o meno
brusca delle linee di forza.
Questa deviazione provoca un addensamento di queste linee e quindi un aumento
locale del livello di sollecitazione.
L’effetto di deviazione e addensamento delle linee di forza è evidente nella seguente
figura, ove sono riportati gli andamenti delle linee isostatiche, rilevati mediante
indagine fotoelastica, di una trave inflessa con intagli ad U nella sezione di mezzeria.

Figura 9.2: Linee di forza di una trave inflessa con intagli a U

Figura 9.3: Linee di forza nei cordoni d’angolo di un giunto a sovrapposizione

- 101 -
10. Vita a Fatica
La vita a fatica di un componente meccanico o più semplicemente di un provino sul
quale si esegue la sperimentazione di laboratorio, può essere suddivisa in tre fasi:
• fase di nucleazione della macro‐cricca, durante la quale si verifica la
nucleazione di una micro‐cricca, solitamente in corrispondenza di un difetto
del materiale appartenente alla scala microscopica, e la successiva
propagazione di quest'ultima fino a divenire una macro‐cricca;
• fase di propagazione stabile della macro‐cricca, durante la quale la cricca
propaga fino al raggiungimento della sua dimensione critica;
• fase di propagazione instabile, per effetto della quale si ha la rottura di schianto
del componente o del provino.
È opportuno sottolineare che il passaggio dalla prima alla seconda fase non può
sempre essere definito in modo rigoroso. Ai fini pratici è conveniente, però, ritenere
che una cricca è una macro‐cricca quando ad essa sono applicabili i risultati della
Meccanica della Frattura Lineare Elastica.

Figura 10.1: Vita a Fatica

I due fenomeni di nucleazione e di propagazione sono una conseguenza degli


scorrimenti plastici ciclici che si producono in
corrispondenza delle slip‐band's ovvero di quelle famiglie di piani di scorrimento in
corrispondenza delle quali sono concentrati gli scorrimenti (slittamenti) plastici.
Sebbene, infatti, il fenomeno della fatica dei materiali si verifichi con ampiezze della
sollecitazione inferiori alla tensione di snervamento, in alcuni dei grani cristallini di
cui è costituito il materiale possono aversi delle deformazioni plastiche.
Questi fenomeni di micro‐plasticità si verificano più frequentemente nei grani
superficiali, dove l'effetto di costrizione plastica esercitato dai grani adiacenti è molto
debole.
È necessario poi tener presente che le tensioni non sono uniformi sulla scala
microscopica. In particolare, il valore della tensione tangenziale agente sui piani
cristallografici di slittamento varia da grano a grano, a seconda della forma, delle
dimensioni e dell'orientamento del grano.
In alcuni dei grani superficiali si verificano quindi le condizioni più favorevoli per gli
scorrimenti plastici.
Quando, nella prima fase di un ciclo di sollecitazione, su di uno dei piani di
scorrimento più favorevolmente orientati di un grano superficiale si ha uno
slittamento plastico, in corrispondenza di esso sulla superficie libera del grano si
forma un piccolo scalino (a). La nuova superficie che si è creata in corrispondenza di
questo scalino si ricopre rapidamente, nella maggior parte dei casi di uno strato

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d'ossido. Inoltre, lo scorrimento plastico che si è avuto è accompagnato da
incrudimento localizzato.
Quando la sollecitazione prende a diminuire lo slittamento avviene nella direzione
opposta ma su piani paralleli ai primi in quanto l'inversione dello slittamento sui piani
già slittati è impedita dall'incrudimento e dall'ossidazione delle nuove superfici che si
sono formate (b).

Figura 10.2: Slittamenti plastici

Poiché questo fenomeno degli slittamenti irreversibili si ripete un gran numero di


volte, sulla superficie libera si formeranno estrusioni ed intrusioni della dimensione
di qualche micron (c e d). Un’intrusione è di fatto un intaglio sufficientemente
aguzzo in grado di generare un severo effetto di concentrazione locale delle tensioni;
essa inoltre è in grado, per effetto delle deformazioni plastiche che si hanno in
corrispondenza del suo apice, di estendersi verso l'interno del grano in cui si è
formata sotto forma di cricca di fatica.

La cricca propagherà con velocità relativamente bassa (10%h ÷ 10%] mm/ciclo) lungo
uno dei piani di slittamento della slip‐band (stadio I). Raggiunta poi una certa
profondità, devia su di un piano ortogonale alla direzione della tensione massima di
trazione.
Il meccanismo di nucleazione appena descritto, noto come modello di Wood o dello
slittamento irreversibile, fornisce una descrizione schematica del fenomeno della
nucleazione della cricca nel caso dei metalli puri.

- 103 -
Figura 10.3: Modello di Wood

Nel caso leghe metalliche di interesse tecnico, la nucleazione di una cricca avviene in
genere in corrispondenza di una delle discontinuità o micro‐intagli situate negli strati
superficiali o sub‐superficiali del materiale.
Per discontinuità del materiale si intendono le inclusioni, le particelle costituite da
seconde fasi, i micro‐crateri di corrosione, i bordi dei grani, le porosità ed infine i
vuoti da cavitazione.
Nel caso degli acciai, la nucleazione delle cricche è spesso osservata in
corrispondenza delle inclusioni non metalliche, dovute alle impurità nella
composizione della lega, di dimensione compresa nel range ‐. Per le leghe leggere
invece i siti preferenziali di nucleazione sono le inclusioni intermetalliche che
contengono solo parzialmente gli elementi della lega.
Nonostante il gran numero di studi finora svolti, il meccanismo secondo cui una
cricca possa nucleare a partire da un'inclusione non è ancora del tutto chiaro.
È un risultato consolidato però l’effetto peggiorativo che alcune tipologie di
inclusioni hanno sulla resistenza a fatica di
ciascun materiale e quindi è universalmente accettata la necessità di un loro attento
controllo durante la fase di produzione dei materiali.

Poiché la rottura per fatica è dovuta alla propagazione di una cricca fino alla
condizione di instabilità, mediante i parametri della MFEL sono state formulate delle
leggi in grado di prevedere il comportamento delle cricche sotto l'azione dei carichi
di fatica.
Questi modelli di propagazione sono applicabili ai casi concreti in virtù del principio
di similitudine. Nel caso del S.I.F., il principio di similitudine si può enunciare nel
seguente modo:
(Condizioni geometriche ed esterne simili) + (uguali condizioni del materiale) = uguale velocità di propagazione.

È opportuno tener presente, inoltre, che per poter utilizzare il S.I.F. come parametro
in grado di controllare la propagazione di una cricca di fatica è necessario che la
regione plastica intorno al suo apice sia "piccola".

- 104 -
Mediante prove di laboratorio è stato verificato che per sollecitazioni di ampiezza
(4
costante una cricca di fatica propaga con una velocità (R esprimibile con una legge
del tipo:
𝑑𝑎
= 𝑓 (∆𝐾, 𝑅 )
𝑑𝑁
in cui 𝑓 (∆𝐾, 𝑅 ) è una funzione caratteristica del materiale che dipende dallo stress-
ratio 𝑅 e dal SIF-range ∆𝐾 = 𝐾34- − 𝐾3?2 con 𝐾34- e 𝐾3?2 valori massimi e
minimi del SIF in un ciclo di sollecitazione.

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Figura 10.4: Diagramma − ∆𝐾
!#

(4
I dati di propagazione quando riportati in un diagramma (R − ∆𝐾, avente entrambi
gli assi in scala logaritmica, descrivono una famiglia di sigmoidi parametrate in 𝑅.
L'analisi di queste curve permette di trarre alcune importanti conclusioni.
Esiste un particolare valore del SIF‐range, detto di soglia (threshold value), al di sotto
del quale la velocità di propagazione diviene piccolissima, cosicché può dirsi che
quando il SIF è inferiore a questo particolare valore la cricca praticamente non
avanza. Questo valore di soglia, solitamente indicato con il simbolo ∆𝐾#9 , dipende da
𝑅 secondo una relazione del tipo ∆𝐾#9 = 𝐴 ∙ (1 − 𝑅 )i con ed 𝐴 valore assunto dal
∆𝐾#9 per 𝑅 = 0.

Figura 10.5

- 105 -
Esiste un intervallo di valori del SIF‐range, corrispondente alla regione II del
diagramma (fig.10.5), nel quale il legame tra velocità di propagazione e ∆𝐾 è
rappresentabile con una retta del diagramma bi‐logaritmico di equazione:
𝑑𝑎
= 𝐶∆𝐾 3
𝑑𝑁
con 𝑚 costante del materiale e 𝐶 parametro dipendente da 𝑅. Questa equazione è
chiamata equazione di Paris, dal nome del ricercatore che per primo negli anni '60
ne ha fatto un uso sistematico per la stima delle durate.
Quando al crescere del 𝛥𝐾, il 𝐾34- si avvicina al valore critico 𝐾d del SIF (regione
III), si osserva un incremento molto repentino della velocita di propagazione. Infine,
quando è raggiunta la condizione 𝐾34- =𝐾d si ha la rottura di schianto, per
propagazione instabile del componente.

La legge di Paris, al pari di tutti i modelli di propagazione, può essere utilizzata per
effettuare stime accurate della durata di un componente contenente un macro‐difetto.
Se infatti sono note le costanti 𝐶 ed 𝑚 ed inoltre mediante un'analisi elastica del
componente difettato è stato possibile calcolare la legge di variazione del SIF range
in funzione di 𝑎, l’eq di Paris permette di calcolare il numero di cicli che una cricca
di lunghezza iniziale 𝑎! impiega per raggiungere la lunghezza critica 𝑎d . Infatti,
dall'equazione di Paris, separando le variabili ed integrando tra i valori iniziali e finali
si ottiene agevolmente:
R! 4!
𝑑𝑎
𝑁' = 5 𝑑𝑁 = 5
! 4" 𝐶∆𝐾 3

L'equazione di Paris è molto utilizzata nella pratica perché è semplice e compatta e


consente di effettuare stime piuttosto accurate a partire da una quantità relativamente
limitata di dati sperimentali. Essa, per contro, non considera in modo esplicito
l'effetto di 𝑅 ed approssima bene l'andamento della sigmoide sperimentale solo nella
fase II.
Per superare queste limitazioni sono state proposte finora un gran numero di modelli
di propagazione più raffinati, derivati da quelli di Paris mediante l'introduzione di
diversi fattori correttivi.

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11. Effetti che influenzano la durata a fatica di un materiale
Le curve P‐S‐N di un materiale metallico sono costruite a partire da dati di durata
ottenuti eseguendo prove su provini standard, lavorati seguendo una procedura
standard e con tolleranze dimensionali e geometriche particolarmente strette.
Pertanto, i valori di durata e di resistenza a fatica che si ottengono da queste curve
devono essere opportunamente corretti. La gran mole di dati di durata prodotti dai
ricercatori ha ben evidenziato che le proprietà di fatica di un materiale sono
sensibilmente influenzate dai seguenti fattori:
‐ dimensioni
‐ tipo di carico
‐ finitura superficiale
‐ trattamenti superficiali
‐ temperatura di esercizio ‐ ambiente
In genere, si tiene conto nei calcoli di questi fattori mediante alcuni coefficienti
correttivi, ovvero esprimendo la resistenza a fatica nella forma:
𝑆′R = 𝐶L?/5 ∙ 𝐶"Y4( ∙ 𝐶L,B' ∙ … ∙ 𝑆R
Questi coefficienti correttivi sono solitamente valutati e specificati nelle normative
con riferimento al limite di fatica, ma possono essere utilizzati anche per le resistenze
a termine.
Questa scelta è conservativa, poiché l'effetto dei fattori prima elencati diviene via via
più debole al diminuire delle durate.
Effetto delle dimensioni
Il cedimento per fatica è prodotto dall'interazione tra tensioni e difetti ed è ovvio che,
per un assegnato livello di tensioni, la probabilità che una cricca nuclei a partire da
uno di questi difetti aumenta con il numero di difetti, cioè con il volume di materiale
sollecitato da quel livello di tensioni.
Questo fenomeno è evidente nei risultati ottenuti da prove condotte su provini di
dimensioni diverse ma dello stesso materiale.
Nel caso della flessione rotante, l’effetto dimensionale o delle dimensioni può essere
correlato ad un altro effetto: l’effetto gradiente.
Quanto più grande è il diametro del tratto utile del provino, minore è il gradiente
delle tensioni e, a parità di tensione massima di flessione, maggiore sarà il volume di
materiale più severamente sollecitato. L’effetto gradiente è stato già preso in esame
quando abbiamo studiato l’effetto di intaglio sotto carichi di fatica.

Figura 11.1

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Effetto del tipo di carico
A parità di diametro del tratto utile e di tensione nominale di prova, il volume di
materiale interessato dalle tensioni più alte nel caso della flessione rotante è molto
minore di quello di una prova di tipo push‐pull. Per questo motivo, il limite di fatica
𝑆S2 ottenuto da dati prodotti mediante prove di rotating bending risulta essere
maggiore di quello 𝑆S$$ ottenuto mediante prove push‐pull. Nel caso degli acciai, tra
i due limiti sussiste la seguente relazione empirica:
𝑆S$$ = 0.7 ∙ 𝑆S2

Il rapporto tra i limiti di fatica misurati mediante prove di torsione e di flessione


rotante è variabile per i diversi materiali nel range 0.5 ‐ 0.6. Se utilizzassimo il
criterio di Von Mises per correlare questi due limiti otterremo invece il valore 0.577
che è largamente impiegato nel caso degli acciai duttili.

Figura 11.2: Macchinario utilizzato per il bending rotating test e provino standardizzato

Effetto di finitura superficiale


Graffi, piccoli crateri di corrosione e tracce di lavorazioni (per asportazione di
truciolo) sono a tutti gli effetti dei veri e propri (micro‐)intagli che riducono
sensibilmente la resistenza a fatica del materiale.
Il coefficiente correttivo per le condizioni superficiali è solitamente riportato in un
diagramma come quelle mostrato in figura11.3, in cui ciascuna curva è
rappresentativa degli effetti di un tipo di lavorazione.
In alcuni casi è stato possibile costruire invece delle correlazioni con uno o più indici
di rugosità superficiale, come quella mostrata nel diagramma di figura 11.4.

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Figura 11.3: Diagramma dei coefficienti correttivi relativi alle varie lavorazioni

Figura 11.4: Diagramma degli indici di rugosità superficiale

È opportuno sottolineare che:


• gli effetti delle condizioni superficiale sono particolarmente importanti nel
caso degli acciai alto‐resistenti;
• le tensioni residue prodotte dalle lavorazioni negli strati superficiali possono
essere deleterie.
• nel campo della fatica oligo‐ciclica, in cui gran parte della vita del componente
corrisponde alla fase di crack‐growth, le
condizioni superficiali sono poco influenti.
• tutte le irregolarità superficiali, incluse le stampigliature, producono
concentrazione delle tensioni e non devono essere
mai trascurate durante la fase di design.

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Trattamenti meccanici e termici
Poiché le cricche nucleano sulla superficie o negli strati sub‐superficiali dei
componenti, tutti i trattamenti termici o meccanici che inducono tensioni residue di
compressione in queste regioni del componente ne incrementano la resistenza a fatica
o la durata.
Tra i trattamenti meccanici ricordiamo la pallinatura (shot peening), che consiste
nel bombardare letteralmente la superficie del componente con sferette di acciaio o di
ghisa proiettate a forte velocità (60 m/sec) per forza centrifuga o mediante aria
compressa, e la rullatura. Quest'ultima operazione è eseguita su organi cilindrici di
grosse dimensioni e consiste nel deformare plasticamente la zona esterna del pezzo
mediante due o tre rulli di acciaio che premono contro la sua superficie mentre è in
rotazione intorno al proprio asse. Quest'ultima operazione è eseguita su organi
cilindrici di grosse dimensioni e consiste nel deformare plasticamente la zona esterna
del pezzo mediante due o tre rulli di acciaio che premono contro la sua superficie
mentre è in rotazione intorno al proprio asse.

Figura 11q.5: Macchinario utilizzato per la rullatura

Infine, i trattamenti termici di carbo‐cementazione e di nitrurazione superficiale si


sono dimostrati particolarmente efficaci nel migliorare le proprietà di fatica degli
acciai.
Questi processi producono l'effetto combinato di incrementare la durezza superficiale
dell'acciaio e di generare dilatazioni volumetriche permanenti accompagnate da
tensioni residue di compressione.

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