Sei sulla pagina 1di 56

romanogasparotti@ababrera.

it

ACCADEMIA di BELLE ARTI di BRERA MILANO

CORSO di
FENOMENOLOGIA DELL’IMMAGINE
2016/2017
Corso monografico

IL QUADRO INVISIBILE
Duchamp e Magritte

Dispense

Prof. Romano Gasparotti

1
romanogasparotti@ababrera.it

Parte Prima MAGRITTE


1.Il quadro dev’essere invisibile
Renè Magritte, in una lettera del novembre 1956, scrisse: “I(…)Il quadro dev’essere invisibile. II.(…)i quadri
che amiamo(…), non mostrano ‘oggetti’”.
Che cosa voleva dire Magritte con questa così netta e perentoria affermazione?
Cominciamo dalla prima proposizione.
L’uso del verbo DEVE(essere invisibile) sottolinea il fatto che ciò che i quadri mostrano è certamente qualcosa
di visibile, per quanto sia NECESSARIO non ridurre totalmente né esclusivamente ciò che è all’opera in un
quadro a quanto esso esibisce a livello determinatamente visibile.
Magritte non vuole smentire l’evidenza del fatto che il quadro presenti alla vista determinate figure visibili, ma
vuole ricordare che il quadro in quanto opera d’arte non si risolve tutto nell’elenco o nella sequenza dei
particolari visibili, che esso evidentemente manifesta. Per questo, quando AMIAMO un certo quadro, non lo
amiamo semplicemente per gli oggetti determinati che esso offre alla nostra vista; il piacere del quadro in
quanto opera d’arte non sta tutto qui. Non amiamo un quadro di Van Gogh semplicemente perché mostra dei
tulipani…
Ciò che ci fa amare un quadro, ciò da cui dipende il piacere suscitato dall’incontro con l’opera d’arte è
l’invisibile che il visibile RI-VELA.
[NOTA 1 SUL RI-VELARE
Va precisato che il ri-velare non è affatto un dis-velare. Ogni dis-velare – alla lettera=togliere ogni velo – è un
mettere totalmente a nudo senza più alcun segreto; è un completo spogliare, che espone tutto ciò che c’è
immediatamente alla luce del sole.
Il ri-velare è, invece, un mostrare che non mette immediatamente e totalmente a nudo tutto ciò che c’è di
profondo; non è un portare alla superficie ogni profondità, in maniera tale che, alla fine, resta solo una
superficie priva di qualsiasi profondità, priva di qualsiasi spessore.
Il ri-velare è un mostrare che protegge e tutela ciò che è nascosto, mantenendolo nell’inviolabile profondità del
suo segreto nascondersi. Lo mostra nella sua inappropriabile profondità, senza dis-velarlo, senza metterlo
totalmente a nudo, senza rendere tutto un’unica superficie priva di qualsiasi spessore. E, nel contempo, senza
coprirlo completamente sottraendolo a qualsiasi esperibilità.
Per fare dei banali esempi: il rossetto sulle labbra rivela la nudità delle labbra, senza esporla, senza metterla a
nudo, ma ricoprendola. Ricoprendola senza occultarla completamente, ossia senza negarla. La maschera,
invece, copre completamente il volto naturale, sovrapponendo ad esso un altro volto completamente diverso il
quale si sostituisce del tutto a quello originario, negandolo. Il rossetto e il maquillage in generale mostrano ed
esaltano le qualità di ciò che mostrano, senza occultarlo completamente e, insieme, senza metterlo a nudo così
com’è, bensì mantenendo e rispettando sino in fondo il senso della profondità.
Nel disvelare tutto è in primo piano, tutto è reso noto nell’immediatezza di una superficie senza profondità. Nel
rivelare, invece, vi è sì un mostrare, il quale però mostra ciò che è velato nel suo non essere immediatamente
esibito e quindi nella sua intoccabile o inattingibile profondità.]
Per Magritte i quadri che AMIAMO, nella loro visibilità, rivelano la profondità di un invisibile, il quale è reso
dal quadro esperibile sì, ma non immediatamente visibile nella sua superficie. Per questo i quadri non sono
oggetti e non si limitano ad esibire oggetti sensibili.
[NOTA 2 sull’OGGETTO
Che cosa si intende propriamente quando si parla di oggetti?
Etimologicamente la parola oggetto deriva dal latino objectum, che, alla lettera, significa: ciò che è stato
proiettato davanti nella sua determinatezza. Davanti a chi? Davanti al soggetto. Il termine oggetto è il diretto
correlato di soggetto. Gli oggetti esistono nella misura in cui esistono i soggetti, ovvero esistono coloro che
trovano davanti a sé delle cose determinatamente date. Per la filosofia moderna, infatti, come spiega molto bene
Kant, gli oggetti non sono altro che le determinate rappresentazioni del Soggetto(ossia dell’universale uomo
pensante, il quale attraverso il suo intelletto proietta davanti a sé un mondo fatto di oggetti determinati ognuno
dei quali è se stesso nella misura in cui è differente da ogni altro).

2
romanogasparotti@ababrera.it

Gli oggetti, ossia le cose determinate e differenti che il soggetto proietta davanti a sé, secondo le proprie
categorie soggettive, possono essere tanto oggetti fisico-materiali(gli alberi, le case ecc.), quanto oggetti ideali
come idee, concetti, entità astratte.
Gli oggetti, in quanto tali, rispondono ad una logica oppositiva ed escludente, che la filosofia moderna ha
indicato come logica dell’identità/differenza, nel senso che un oggetto è sé stesso(ossia è ciò che è) in quanto
NON E’ nessun altro oggetto, ossia in quanto la sua determinata identità si può costituire solo escludendo e
respingendo da sé ogni diversa identità: la notte è tale in quanto esclude il giorno e viceversa. Eraclito(filosofo
pre-socratico) aveva definito tale logica Polemos(Guerra), nella misura in cui l’identità di ogni cosa riesce a
porsi solo escludendo conflittualmente ogni altra identità.]
Per Magritte se l’opera pittorica si limitasse solo a mostrare oggetti, allora non vi sarebbe alcun bisogno della
pittura. Perché? Perché per VEDERE degli OGGETTI basterebbe aprire gli occhi e si entrerebbe in contatto
visivo con una grandissima quantità di oggetti l’uno diverso dall’altro. Gli oggetti, insomma, sono sempre dati a
noi soggetti umani e non hanno bisogno di nulla se non di essere visti nella loro datità. Gli oggetti ci sono dati,
nella misura in cui abbiamo dei sensi che li percepiscono e tutto ciò non ha nulla a che fare con il proprium
della creazione artistica.
Il fatto è che, a giudizio di Magritte, nemmeno il mondo che si offre ai nostri sensi è totalmente ed
esclusivamente riconducibile alla sola superficie degli oggetti visibili dati. Il mondo non è tutto e solo negli
oggetti che di esso si rendono direttamente visibili.
Ciò che il mondo stesso offre ai sensi, secondo Magritte, RIVELA una profondità, un’ulteriorità, che non può
essere percepita a livello sensibile( i sensi ci rendono presenti gli oggetti e i dati visibili), ma attrae, coinvolge,
chiama ed impegna il nostro PENSARE al di là dei sensi, pur essendo veicolato dai sensi.
Tutta la filosofia non ha fatto che sottolineare ciò, da quando Aristotele nel De Anima disse che gli esseri umani
non dispongono solo dell’anima vegetativa(come le piante) e nemmeno solo dell’anima vegetativa e
sensitiva(come gli animali), ma possiedono l’anima vegetativa, l’anima sensitiva e l’anima razionale, che li
rende esseri viventi che non si limitano ad avere sensazioni e basta.
Ciò che il mondo rivela nella sua dimensione del profondo, secondo Magritte è il MISTERO. Le cose del
mondo sono avvolte dal mistero, sprofondano nel mistero, per quanto le nostre ordinarie ed abituali modalità di
esperienza, anche quando coinvolgono l’attività del pensare, non sono in grado di sperimentarlo. Perché?
Perché, a detta di Magritte, nella nostra vita quotidiana noi non esercitiamo le possibilità del nostro pensare sino
in fondo, in tutta la loro ricchezza e profondità, ma esercitiamo il pensare per così dire in modalità limitata. Ciò
è dovuto al fatto che abitualmente noi ci rapportiamo agli oggetti per servircene, per manipolarli, per utilizzarli,
affinchè essi siano in grado di soddisfare i nostri bisogni fondamentalmente pratico-utilitaristici. In tale
prospettiva, allora, la dimensione del profondo costituisce un ostacolo da rimuovere, perché tale ulteriorità
sfugge alla nostra presa, non è da noi totalmente dominabile, in quanto non è totalmente a nostra disposizione.
Pertanto, quando ci rapportiamo agli oggetti quali “utilizzabili”(come disse Heidegger) dobbiamo avere tutto a
portata di mano e quindi ogni dimensione del profondo viene ad essere rimossa. Noi di norma VOGLIAMO
avere a che fare con puri oggetti e solo con oggetti, perchè solo i puri oggetti sono manipolabili, utilizzabili,
consumabili. Ecco che allora è il MISTERO del mondo che così viene ad essere rimosso ed esso rischierebbe di
restare per sempre rimosso, se non ci fosse l’arte, se non ci fosse la pittura, la quale, invece, ci risintonizza col
mistero, riscoprendo – senza disvelarla – quell’invisibile(in quanto non visibile sensibilmente in primo piano
come gli oggetti) ulteriorità, quell’invisibile profondità, nella quale riposa il SENSO stesso del mondo. Il
SENSO, non il significato, non questo o quel significato dato, dal momento che i significati determinatamente
attributi alle cose del mondo, non sono altro che oggetti, oggetti ideali e quindi pur sempre oggetti aventi la loro
immediata e superficiale visibilità e manipolabilità.
Come si ricava dai suoi scritti, Magritte considera la pittura e l’arte come la possibilità di dischiudere
un’esperienza che è in primo luogo esperienza di ciò che Magritte chiama “mistero del mondo”, la quale è
un’esperienza dell’invisibile inteso come ciò che il visibile rivela.
In un altro brano dei suoi Scritti, Magritte afferma che la pittura, nel mostrare delle apparenze visibili, le
“restituisce”, – egli usa proprio questo termine, “restituire”, cioè riconsegnare – “al mistero, senza cui non ci

3
romanogasparotti@ababrera.it

sarebbe alcuna possibilità di mondo né alcuna possibilità di pensiero.”1


E’ il mistero, infatti, che mette in moto il pensare nelle sue modalità meno superficiali e meno condizionate
dall’utilizzabilità degli oggetti. E’, potremmo dire, un mistero che chiama, in quanto sollecita il pensiero ad
uscire dai ristretti schemi abituali. Ma questo pensiero profondo – che è anche pensiero del profondo – di solito
sopito nella quotidianità, viene risvegliato in primis dall’arte, dalla pittura, nella misura in cui essa, nel suo
mostrare, non si limita a manifestare oggetti visibili, ma RESTITUISCE il mondo al suo mistero.
E restituire il mondo al suo mistero equivale, per Magritte, a fare esperienza degli oggetti come se essi non
fossero esclusivamente ciò che manifestano essere, come se essi non fossero come si dice siano.
Se vediamo una pipa sul tavolo di un fumatore, essa è una pipa; se un quadro, a livello immediatamente visivo,
ci mostra una pipa, essa NON E’ UNA PIPA! Né vera, né finta. In maniera tale che, sollecitati, educati dalla
pittura, potremmo giungere a pensare e sperimentare anche nel mondo, che quell’albero non è (solo) un albero,
che quel cielo non è (solo) un cielo, ossia non è solo quel determinato oggetto dato che appare.
Secondo Magritte la pittura ci offre la possibilità di sperimentare un approccio al mondo – un approccio che
coltiva il senso del mistero – che ci insegna a guardare con un diverso sguardo tutte le cose del mondo.
La pittura, dunque, da questo punto di vista, ci offre un’ ESPERIENZA davvero esemplare, capace di
trasformare radicalmente il nostro modo di pensare le cose.
Pensare, infatti, secondo Magritte, non significa semplicemente constatare questa è una cattedra, questi sono
studenti, oggi è martedì. Non significa operare una semplice registrazione di oggetti dati.
Pensare significa sporgersi oltre la mera datità degli oggetti, cercando di sperimentare il loro limite- non da
un lato solo(quello interno), ma anche verso l’esterno…
Magritte distingue il “pensiero libero” dal “pensiero coincidente”.
Quest’ultimo è quello che aderisce a ciò che è dato così come ci è dato e quello che aderisce a ciò che è saputo.
Il “pensiero libero” è, invece, quello che, senza misconoscere e senza negare ciò che appare a livello
immediatamente sensibile, si spinge più in profondità, verso quell’ulteriorità possibile, che gli oggetti rivelano a
chi è sensibile rispetto a tale rivelazione.
Restituiti a tale ulteriorità possibile, gli oggetti perdono il loro fondamento oggettivo, perdono il loro
radicamento e perdono anche l’identità differente che li caratterizza dal punto di vista meramente logico.
Il pensare libero fa il vuoto attorno e dentro gli oggetti stessi, in maniera tale che pensare comporta sottrarre alle
cose la loro forza di gravità, affidandole al mistero impalpabile, in cui esse sono sospese e da cui sono avvolte e
permeate.
Ed è la pittura che ci consente di sperimentare tale libera capacità di pensare. Perciò, se Klee affermava che la
pittura consiste essenzialmente nel “rendere visibile”, Magritte precisa che la pittura, nel suo rendere visibile –
e nel suo non poter che far vedere qualcosa di visibile – restituisce, però, totalmente questo visibile
all’invisibile, che costituisce la sua profonda natura, la sua origine, la sua provenienza e la sua destinazione.
2. La pittura quale esperienza in senso forte
Secondo Magritte, l’esperienza in senso forte è solo l’esperienza del mistero, l’esperienza dell’invisibile.
Perché? La stessa etimologia ci aiuta a capirlo.
Esperienza, dal latino experientia è un termine costruito sul tema del nome greco peira, che ritroviamo, per
esempio, anche nei termini latini periculum o periculosum. Far esperienza significa, perciò, mettersi alla prova,
in modo appunto pericoloso. Tra l’altro, il verbo greco corrispondente, peiro, nel greco antico significa trafiggo,
trapasso, attraverso. L’esperienza, dunque, è ciò che ci mette pericolosamente alla prova, consentendoci di
sperimentare un ATTRAVERSAMENTO. Di che cosa? Dell’oggettività visibile di ciò che ci sta davanti, la
quale viene ad essere trapassata e quindi anche tra-guardata. In maniera tale che, quando abbiamo fatto
veramente esperienza, mettendoci rischiosamente alla prova, noi non siamo più com’eravamo prima, ma siamo
stati profondamente trasformati, trasfigurati, sfigurati e il mondo stesso non è quello che noi abbiamo
conosciuto fosse.
L’esperienza, quindi, non sta semplicemente nel percepire o nel recepire qualcosa, un certo oggetto, attraverso
un pensare meramente coincidente, in maniera tale che il nostro esserci resti tale quale era prima e così anche il
mondo resti quello che è sempre stato.

1 R.Magritte, Scritti. Vol.II, a cura di A.Blavier, tr.it. Abscondita, Milano 2005, p.290.
4
romanogasparotti@ababrera.it

L’esperienza, potremmo ora aggiungere, quando è veramente tale ha sempre un valore ESISTENZIALE.
Esistenziale da existere, verbo latino che significa proiettarsi oltre – oltre ciò che si è e oltre ciò che si ha –
provenendo da.
E ogni autentica esperienza è proprio un passaggio, da una certa condizione di partenza ad un’altra condizione
del tutto diversa.
Per questo percepire o prendere semplicemente atto della presenza di un certo oggetto visibile, non è
propriamente un’esperienza, ma è una semplice adesione.
Far esperienza comporta trapassare la visibilità dell’oggetto, senza negarlo, in maniera tale da
protendersi sull’orlo estremo di un abisso, appunto l’abisso del mistero, l’abisso del mistero del mondo.
3. La pittura quale arte della somiglianza
Perché proprio la pittura è questa esperienza esemplare? Uno dei principali motivi, secondo Magritte, sta nel
fatto che essa, essendo ATTO DI PENSIERO, ovvero manifestazione di PENSIERO IN ATTO, mette all’opera
un pensare che non passa attraverso la mediazione dei segni del linguaggio verbale.
Nei suoi scritti Magritte insiste sul fatto che la pittura, in quanto “arte della somiglianza” è manifestazione di
“pensiero somigliante”. In che senso?
Nel senso che nella pittura e grazie alla pittura il pensiero si fa mondo senza alcun bisogno di passare attraverso
l’intermediazione dei segni del linguaggio verbale. Il mondo è quello che appare essere a seconda di come il
pensiero lo mostra. Ebbene, secondo Magritte, il logos verbale, attraverso i suoi segni, configura il mondo
secondo un certo aspetto, mentre il pensare che è all’opera della pittura lo mostra secondo un diverso aspetto, il
quale non dipende affatto dai segni del linguaggio verbale.
Per Magritte, in generale, il PENSARE è sempre un MOSTRARE, è sempre un MOSTRARE MONDO, ma
tale mostrare non è unico né unilaterale. Per Magritte il pensare non è ad una sola dimensione. C’è pensare e
pensare. La modalità più diffusa e dominante è quella logico-verbale, la quale si affida ai segni del linguaggio, i
quali hanno certe caratteristiche intrinseche, funzionano in un certo modo e producono certi effetti ben precisi.
[NOTA 3 sui SEGNI DEL LINGUAGGIO VERBALE E SUI LORO EFFETTI
La moderna scienza linguistica, a partire da F. De Saussure(1857-1913, autore del Corso di linguistica
generale), ha definito il segno linguistico come: unità di significante e significato.
Ogni segno linguistico è caratterizzato da una natura duplice. Da un lato esso appare come significante, il quale
è il corpo esteriore e sensibile della parola, è ciò che della parola è percepibile direttamente ed empiricamente
attraverso i sensi dell’udito(nel caso della parola orale)e/o della vista(nel caso della parola scritta). Se esso,
però, fosse solo significante esso sarebbe un semplice oggetto fisico-sensibile, una cosa tra le cose e quindi non
sarebbe propriamente SEGNO, in quanto quest’ultimo è tale solo nella misura in cui indica altro da sé, ossia
rinvia, rimanda a qualcos’altro (che non è semplicemente sé stesso). Si ha, quindi, propriamente un segno
linguistico, solo quando al significante viene associato un determinato significato. Che cos’è il significato?
Mentre il significante è un oggetto sensibile, il significato non è qualcosa di sensibile, non è qualcosa di
percepibile attraverso i sensi, ma è essenzialmente una IDEA, un oggetto ideale pensabile, ma non sensibile.
La teoria linguistica, a questo punto, introduce un terzo elemento decisivo in ogni comunicazione affidata ai
segni linguistici. In quanto unità di significante e significato, il segno può rinviare, ossia può esplicare la sua
funzione segnica di rinviare, rimandare ad altro. A che cosa il segno linguistico rinvia? All’OGGETTO. Ecco il
terzo elemento della triangolazione in cui consiste il rinviare del segno linguistico. Grazie all’associazione di un
significato ad un significante, il segno così costituitosi INDICA un determinato oggetto.
Va da sé che il pensiero logico-verbale, che si esplica attraverso i segni linguistici, non può che restituirci un
mondo fatto di oggetti, appunto perché questa è la struttura, la funzione e l’effetto del segno linguistico stesso]
I segni linguistici ci offrono un mondo necessariamente costituito da oggetti.
Ma, secondo Magritte, il pensare in quanto tale non è solo pensiero logico-verbale. Accanto al pensare-che-
dice, c’è anche un pensare-che-mostra(senza dire, ovvero senza passare necessariamente attraverso il mezzo dei
segni linguistici). Per indicare qualcosa a qualcuno posso usare il linguaggi verbale, se esso è condiviso dal mio
interlocutore, altrimenti posso mostrargli ciò che penso per esempio disegnandolo. Sono equivalenti tali due
modalità dell’indicare/mostrare? Il problema sta tutto qui. Da un punto di vista puramente COMUNICATIVO
sembrerebbero essere del tutto equivalenti e quindi sostituibili l’uno all’altro a seconda delle situazioni, come è
accaduto anche nel passato artistico, quando, per esempio, nel Medio Evo, gli affreschi e le pitture nelle chiese
5
romanogasparotti@ababrera.it

avevano la funzione di illustrare a chi non era in grado di leggere i testi sacri(allora solo in latino) il valore
morale e religioso delle scene e dei personaggi biblici. Ma l’arte post-avanguardistica ha testimoniato che l’arte
non si può ridurre solo ad una forma di comunicazione. E infatti, Magritte ci ricorda che la pittura insegna che il
pensare-che-mostra non è affatto equivalente al pensare-che-dice e quindi intercambiabile con esso, a meno
che noi non vogliamo semplicemente fare comunicazione utilizzando l’arte(come è stato fatto nel passato e
talvolta si fa anche ora).
La pittura è, quindi, l’esercizio di questo pensare mostrante, che eccede i limiti del pensare logico-verbale. Esso
è definito da Magritte pensiero somigliante. Perché? Perché esso è un pensare che, scaturendo dal
mondo(essendo il pensante immerso nel mondo) e aprendosi al mondo, non può che mostrare in sembianza di
mondo. Tale pensare è alimentato dal mondo e intende esplicarsi nel mondo, in maniera tale che ciò che mostra
non è altro che mondo, ossia è qualcosa che appare secondo un aspetto inevitabilmente mondano.
Se sto pensando ad una pipa mentre sono assieme a degli interlocutori cinesi, ai quali vorrei esternare che sto
pensando ad una pipa, disegno una pipa, ossia qualcosa che ha l’aspetto mondano delle pipe che esistono e si
vedono nel mondo. Appunto perché se voglio far capire che sto pensando ad una pipa a qualcuno che non
capisce la mia lingua, non disegno un geroglifico. Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con l’arte!
La pittura, in quanto pensiero somigliante mostra in sembianza di mondo, ciò che i segni del linguaggio
verbale non sono né saranno mai in grado di indicare: l’esteriorità del limite, l’ulteriorità del possibile,
l’indeterminatezza del profondo, in una parola IL MISTERO.
Tutta la pittura, sia quella più figurativa, sia la pittura più astratta, dal momento che anche le figure astratte
scaturiscono da un pensiero che è immerso nel mondo e aggiungono mondo a mondo, ossia arricchiscono il
mondo di nuove forme mondane(non aliene).
La pittura ci costringe, perciò, ad uscire dalla dittatura del pensiero verbale e dall’impero dei suoi segni. Essa,
quindi, non vuole che ciò che essa mostra sia interpretato come segno-di! Se io lo interpreto e lo considero
come segno, finisco per ricadere negli schemi del pensiero logico-verbale anche se ho esercitato
apparentemente il pensiero che mostra. Ho utilizzato il pensiero che mostra come equivalente o surrogato del
pensiero logico-verbale, se considero le figure disegnate o dipinte come se fossero segni che indicano o
rappresentano rinviando a qualcos’altro. Per esempio, se disegno la figura di una pipa, volendo che essa
RAPPRESENTI una pipa reale o rinvii all’oggetto-pipa. E’ come se usassi il pensiero-che-mostra come
sostitutivo del pensare-che-dice, per FARE LA STESSA COSA e cioè produrre il medesimo effetto: quello di
indicare, usando un certo segno, un certo oggetto.
In questo modo la peculiarità del pensare-che-mostra rispetto al pensiero-che-dice viene meno, dal momento
che utilizzo il pensiero non verbale come se fosse il pensiero verbale. E’ come se utilizzassi un cacciavite per
piantare un chiodo anziché usare il martello, perché non ho a disposizione un martello, oppure utilizzassi un
martello per conficcare una vite nel muro non disponendo del cacciavite e usando il martello come un suo
surrogato.
Il pensiero logico-verbale, in effetti, è talmente potente e talmente invadente, che tende ad assoggettare anche il
pensiero-che-mostra alle sue caratteristiche. E ciò avviene ogniqualvolta io considero le raffigurazioni visibili
prodotte dal pensiero che mostra COME SEGNI, ossia come indicazioni o rappresentazioni di qualcos’altro,
esattamente come fa il segno linguistico. Per il filosofo Bergson, ogni segno in quanto tale segue il modello
del segno linguistico.
Quando accade questo – cioè quando le figurazioni espresse dal pensare-che-mostra vengono interpretate e
utilizzate come segni, ovvero come equivalenti o surrogati del segno linguistico – secondo Magritte, da un lato
HO PERSO DI VISTA IL QUADRO, dal momento che considero il quadro come un sistema di segni, che
indicano degli oggetti – ossia come l’equivalente di un testo di scrittura da leggere - e mi precludo quindi
l’esperienza dell’invisibile, ovvero del mistero. Dall’altro lato nego la peculiarità e la specificità del PENSARE
SOMIGLIANTE, in quanto lo assoggetto al modello del linguaggio logico-verbale, il quale diventa così IL
PENSIERO UNICO, il quale ci inchioda ad un mondo di soli oggetti tutta superficie e senza nessuna
profondità.
Per evitare di cadere in questa trappola, che è sempre in agguato – data la potenza e l’invadenza del pensare
logico-verbale – non devo interpretare e considerare le figure che il pensiero somigliante mostra
attraverso l’arte della pittura quqali segni, ossia come oggetti che rinviano ad altri oggetti.
6
romanogasparotti@ababrera.it

Come faccio ad evitare di cadere in questa trappola, la quale dissolve completamente la capacità della pittura di
far sperimentare il mistero del mondo?
Facendo esperienza di ciò che il quadro mostra non nella prospettiva della indicazione/rappresentazione-di
– ovvero non nella direzione del segno – bensì nella prospettiva della RIVELAZIONE(che non è mai
indicazione e non si serve dei segni)
Ciò che il quadro MOSTRA non indica qualcos’altro, non rinvia a qualcos’altro, non rappresenta qualcos’altro,
ovvero un determinato oggetto corrispondente – Questo non è una pipa !!! – ma allude, senza indicarlo e senza
disvelarlo, solo al mistero, nel senso della RIVELAZIONE(vedi Nota 1)
Solo in questo modo il pensare-che-mostra viene ad essere custodito e salvato nella sua irriducibilità rispetto al
pensare-che-dice. E la pittura può realizzarsi appieno come PENSIERO SOMIGLIANTE.
La pittura, pertanto, potremmo dire, è MOSTRAZIONE di PENSIERO SOMIGLIANTE.
E IN QUANTO TALE non è mai una sorta di equivalente del linguaggio verbale, magari più adatto del
linguaggio verbale per comunicare qualcosa ad un pubblico.
La pittura non è affatto, per Magritte, un modo più immediato o immediatamente comprensibile per comunicare
certi significati o indicare certi oggetti.
Per il semplice fatto che i significati appartengono alle parole, sono legati all’universo delle parole, così come
gli stessi oggetti sono legati ai segni linguistici. La pittura, insomma, non è l’equivalente della comunicazione
verbale seppure con altri mezzi!
E’ l’atto di un pensare autonomo e originario, che non ha bisogno dell’ausilio o dell’appoggio del pensiero
verbale, ma sta ACCANTO ad esso senza farvi concorrenza.
La vocazione della pittura in quanto arte non è quella di comunicare.
Per Magritte, la pittura non parla! Né è un surrogato o un equivalente del parlare.
Essa, semmai, mostra un certo gesto di pensiero in figura, laddove tale figura, però, non è l’equivalente del
segno linguistico e quindi non rende visibili oggetti.
Per questo Magritte detestava la cosiddetta “arte impegnata”, che già con l’espressionismo aveva cominciato a
fare capolino quale strumento di denuncia sociale e poi aveva avuto una certa fortuna nel secondo dopoguerra,
pensiamo al neorealismo.
“Io mi sforzo, nella misura del possibile, di dipingere immagini che ‘mi impegnino’ solo nel mistero.” 2
Sempre riguardo al mistero, in un breve scritto del 1960, Magritte ha modo di precisare:
“Il mistero non è una possibilità del reale; esso nomina l’impossibilità del reale privo del mistero che dà al
reale la sua possibilità di esistere”3.
Il mistero, per Magritte, è ciò “senza il quale non ci sarebbe alcuna possibilità di mondo né alcuna possibilità
di pensiero”4.
La parola, da parte sua, non può rispettare il mistero come mistero, ossia nella sua silenziosa invisibilità.
Perché? Perché la parola oggettiva e riduce tutto a significato. Cosa facciamo quando leggiamo? Estrapoliamo
dai segni scritti, ovvero dai significanti, i loro significati, in maniera tale che tali significati si riferiscano a degli
oggetti, fisici o ideali che siano.
La pittura, invece, ha a che fare con il mistero del mondo attraverso un PENSARE PER IMMAGINI.
“L’immagine non è tangibile”5 – sosteneva Magritte.
L’immagine non è originariamente ciò che viene percepito attraverso i sensi. L’IMMAGINE è ciò da cui
proviene e in cui sfuma la determinatezza delle figure sensibili.
L’immagine esplica un potere di INDETERMINAZIONE, al contrario degli oggetti che invece, esaltano
la determinatezza del determinato.
Scrive ancora Magritte:
“L’immagine pittorica di una fetta di pane con marmellata non è sicuramente né una fetta di pane vera, né una

2 Ivi, p. 101
3 Ivi, p. 134
4 Ivi, p. 158
5 R. Magritte, Scritti, vol.II, a cura di A. Blavier, tr. it. Abscondita, milano 2005, p.291
7
romanogasparotti@ababrera.it

fetta di pane finta”6.


In un’intervista rilasciata nel 1965, R. Magritte dichiarò:
Io direi che il mondo offre delle cose visibili; ciò che il mondo offre di visibile è immediato.(…)L’uomo è
un’apparizione visibile, come una nuvola, un albero, una casa, come tutto ciò che vediamo. Io non nego la sua
importanza, e d’altra parte non gli accordo un primato in una gerarchia delle cose che il mondo visibilmente
offre. In effetti, se io faccio vedere un essere umano, è la sua esistenza che è in gioco(…) e la sua esistenza è un
mistero, come, d’altronde, quella di ogni altra cosa.7
Le cose appaiono come appaiono, ma la loro esistenza, il loro esistere è un mistero, è invisibile…
L’arte in quanto manifestazione di “pensiero somigliante”, non è altro che il mettersi in opera del processo,
sempre aperto e interminabile, della “restituzione” del mondo al suo mistero:
Un’immagine(parola, pittura, musica ecc.)non è un’espressione del pensiero. Essa è il pensiero(…)Essa è
ispirata, essendo un mistero evidente, e non essendo apparentemente separata dal mistero che essa è8
Operare con i segni, con gli oggetti per scopi pratici e/o comunicativi, elimina, rimuove il mistero del mondo.
Il mondo, invece, sprofonda nel mistero, secondo Magritte, proprio perché la sua sostanza, la sostanza profonda
del mondo, non è una sostanza oggettiva, bensì è una sostanza immaginale.
Il pensiero stesso, per Magritte, è originariamente IMMAGINAZIONE alla lettera, ovvero potenza che
trasforma tutto in immagine
La vita dell’immagine, però, si espone a delle alterazioni e delle alienazioni, quando viene ad essere oggettivata
e utilizzata per scopi comunicativi.
La forza originaria dell’immagine si è indebolita al massimo, secondo M. quando essa è diventata oggetto, sia
oggetto fisico, sia oggetto ideale. Le idee non sono altro che immagini oggettivate.
Per questo l’autore del quadro Le vacanze di Hegel invita il filosofo a distrarsi e a prendersi una vacanza,
lasciando perdere l’idolatria delle idee e dedicandosi, piuttosto, alla caccia alle immagini.
Anche le parole sono immagini, per così dire, degenerate.
[NOTA 4
La forza e l’interesse delle riflessioni di Magritte sul far pittura sta nel fatto che l’artista sostiene che la pittura,
prima ancora di essere scienza e tecnica, è la messa all’opera di un pensare che eccede quello logico verbale,
senza, però, negarlo e senza porsi come alternativo ad esso. E’ l’atto di un pensare che non ha bisogno di
esprimersi attraverso le parole, cioè attraverso i segni linguistici.
Il pensiero logico-razionale non può fare a meno dei segni linguistici. Senza segni linguistici nessun logos
riuscirebbe ad articolarsi. Il pensiero logico-razionale si organizza attraverso sequenze di segni linguistici
opportunamente collegati tra loro tramite determinati operatori, anche se e quando non si è ancora espresso o
estrinsecato. A tale proposito già Aristotele sosteneva che il pensiero, già quando scaturisce aney phonés, ossia
senza voce, è un “dialogo che l’anima intrattiene con se stessa”, ossia è già discorso – dia-logos significa
discorso tra e tra – che, però, non si è ancora esternato attraverso la voce. Che il pensiero si esterni attraverso la
voce non è affatto necessario. Secondo il Peri ermeneias di Aristotele, il dialogo silenzioso dell’anima con sé
stessa è l’origine di ogni pensiero, ovvero è il pensiero nella sua originarietà ed esso è già dia-logos, ossia già
discorso, sia pure ancora muto. Esso può eventualmente esternarsi attraverso la voce, traducendosi in un
discorso orale, il quale discorso orale, a sua volta, può essere trascritto, ossia duplicarsi ulteriormente in
discorso scritto, in maniera tale che, secondo Aristotele: il discorso scritto è la rappresentazione attraverso la
scrittura del discorso orale affidato alla voce, il quale è la rappresentazione orale del discorso interiore privo di
voce, che costituisce il pensare originario. Tutti questi tre livelli progressivi di discorso sono accomunati
dall’avere la medesima struttura logico-sintattica, che è essenzialmente una struttura nominale e proposizionale,
ossia è una struttura che consiste nella connessione, secondo certi criteri e certe regole, di segni, all’interno di
unità proposizionali.
Tra le parole che vengono ad essere collegate tra loro all’interno delle unità proposizionali, le funzioni
principali spettano ai nomi e ai verbi, in quanto, secondo la filosofia platonico-aristotelica, i verbi indicano le

6 Ivi, p.122.
7 Ivi, pp. 231-232
8 Ivi, p. 385
8
romanogasparotti@ababrera.it

azioni, mentre i nomi indicano, in primo luogo, chi compie o subisce le azioni designate dai verbi. Per avere
una proposizione, pertanto, è sufficiente collegare opportunamente tra loro nomi e verbi(i quali possono essere
transitivi o intransitivi), secondo sequenze del tipo: Il cane abbaia o Il gatto mangia il topo…
Questo significa che quando le maestre alla scuola elementare ci insegnano i primi rudimenti della grammatica
della lingua, ci insegnano a strutturare il nostro pensiero nel modo corretto.
Perché, secondo questa impostazione di origine platonico-aristotelica, il cui impianto, però, non è mai stato
smentito nelle sue linee principali, dalle filosofie successive, noi colleghiamo nomi e verbi secondo certe regole
invarianti, anche quando pensiamo senza voce. A conferma del fatto che il nostro pensare , in quanto tale, ha
una struttura discorsiva e logico-nominale, ossia incentrata sui segni linguistici, sempre e comunque, ovvero sia
semplicemente quando pensiamo silenziosamente, sia quando esterniamo i nostri pensieri attraverso la voce, sia
quando scriviamo ciò che pensiamo.
Così funziona quella che W.Benjamin, nel primo ‘900, definiva “lingua nominale degli uomini”? Benjamin, già
in uno scritto giovanile del 1916, la stressa epoca della nascita del movimento Dada e degli scritti di Kandinskij
sullo “Spirituale nell’arte”, sostiene che nominale, ossia basata sui segni linguistici(nomi e verbi in primis) è
solo la lingua degli uomini. E tuttavia non solo gli esseri umani sono caratterizzati dall’avere e dal fare uso di
una lingua. Tutte le cose del mondo, naturali e artificiali, hanno la possibilità di esprimersi e dunque hanno una
lingua. Anche i viventi non-umani e le cose in generale hanno la loro lingua, la quale, tuttavia, non ha alcun
carattere nominale e non ha nessuna delle principali caratteristiche della lingua nominale degli uomini. Tutte le
cose, dice Benjamin, si esprimono attraverso una lingua, la loro lingua anominale, e lo fanno in un modo che
non ha nulla a che vedere con la lingua nominale degli uomini. Solo la lingua nominale degli uomini comunica
attraverso dei segni, attraverso i segni linguistici costituiti dall’unità di un significante e di un significato, unità
che indica un certo oggetto(fisico-materiale o ideale). Ma le cose del mondo non umane – e Benjamin fa
l’esempio della volpe, della montagna e della lampada, per indicare tutti i generi di enti del mondo, vegetali,
animali, naturali, artificiali – si esprimono secondo una lingua che non ha bisogno né di voce né di scrittura e
non si affida affatto a dei segni linguistici.
E’ una lingua universale, la lingua anominale delle cose mute, la quale non ha soggetto – in quanto il soggetto
esiste solo per la lingua nominale, dove è posto dal nome che designa chi compie o subisce l’azione indicata
dalla parola-verbo – e non determina nemmeno oggetti.
Al di fuori dell’uomo logicamente pensante e parlante, nel mondo non ci sono né soggetti né oggetti. Come
funziona secondo Benjamin la lingua delle cose mute, ovvero la lingua della montagna, della volpe e della
lampada?
Benjamin, per spiegarlo, utilizza come chiave di volta l’esempio della lampada, in quanto è l’esempio più
evidente. La lampada comunica, nel senso che si comunica, ossia partecipa sé stessa, si dona, dona sé stessa,
come? Illuminando. Ossia irradiando quella luce grazie alla quale si rendono visibili le cose. Il comunicare
della lampada e di tutte le cose non-umane è un comunicarsi effusivo, che consiste nell’offrirsi, nel fare dono di
sé in modo che ciò comporti dei concreti effetti. Nel caso della lampada, essa partecipando sé stessa
effusivamente fa spazio ad altre cose, ognuna delle quali, a sua volta, si partecipa nei suoi peculiari modi
effusivi, ognuna accanto alle altre. L’orizzonte non umano, secondo Benjamin, non ha alcuna gerarchia, non
conosce alcuna priorità né alcuna subordinazione, in quanto le cose esistono semplicemente l’una accanto alle
altre. Sono gli uomini che ordinano e sistemano gerarchicamente le cose, proprio perché hanno il logos, il quale
è anche principio d’ordine. Il logos, come aveva rilevato espressamente Aristotele, mette in fila le cose l’una
dopo l’altra e stabilisce priorità, prima viene questa e dopo quest’altra, anche se tutto è avvenuto
contemporaneamente.
Il logos è incapace costitutivamente di esprimere la simultaneità di tante cose l’una accanto all’altra… Inoltre,
mentre la lingua nominale degli uomini, attraverso i suoi segni linguistici, scambia, trasmette messaggi, cioè
oggetti da un soggetto emittente a un soggetto ricevente, oggetti i quali sono del tutto esterni ed estranei rispetto
al segno linguistico che li indica, la lingua non segnica delle cose mute non fa che assecondare il comunicarsi e
il parteciparsi di ogni cosa, che fa dono di sé nel suo effondersi e diffondersi, che ogni volta illumina altre cose,
l’una accanto all’altra, ognuna con la medesima importanza.
La lingua delle cose non si serve di segni; non conosce segni e quindi nemmeno oggetti e soggetti.

9
romanogasparotti@ababrera.it

Magritte ha l’ambizione di sostenere che la lingua anominale non è solo delle cose estranee all’uomo e alla
dimensione umana, in quanto è un pensare che esiste negli uomini pensanti, accanto al pensare verbale. Ed è
dalla pittura, che Magritte ha appreso ciò. Se, dunque, il mondo dipende da come lo si pensa, la pittura, ancora
prima di essere una téchne, una certa tecnica artistica, è un modo di pensare originale ed autonomo. E’ proprio
per questo che la lingua della pittura non conosce oggetti, né è lo strumento comunicativo di un soggetto.]
4. La somiglianza non è similitudine
L’invadenza del pensiero logico-verbale è tale da tendere a fagocitare il pensiero della somiglianza e la prova
più evidente di ciò, per Magritte, sta nel fatto che la somiglianza di solito viene ad essere identificata alla
“similitudine”. Scrive Magritte: “la somiglianza è un atto spontaneo del pensiero e non un rapporto di
similitudine”. Cosa vuol dire?
La somiglianza è un modo spontaneo di esprimersi del pensiero, in quanto non è l’esito, il risultato del
confronto tra qualcosa e qualcos’altro, nel senso della similitudine appunto, ossia nel senso secondo il quale noi
diciamo che due cose sono simili l’una all’altra. La somiglianza è un atto spontaneo del pensiero quale pensiero
somigliante, in quanto non è il risultato di un confronto logico-analitico e comparativo in seguito al quale viene
ad essere stabilito che qualcosa è simile a qualcos’altro.
Secondo Magritte le figure della pittura nella misura in cui appaiono sulla tela FANNO MONDO, non essendo
simili a nulla, appunto perché non sono né segni-di, né rappresentazioni.
Quando Magritte parla della pittura come “arte della somiglianza” non vuol dire che sulla tela pittorica appare
la figura di una montagna, perché il pittore ha voluto imitare e realizzare qualcosa di simile alla montagna reale.
Quello della pittura è mondo, che sta accanto a tutto il resto del mondo, senza essere simile a nulla, anche
quando apparentemente potrebbe sembrare tale – ma Questo(in pittura) non è una pipa !
[NOTA 5 Magritte è ben lungi dal replicare la concezione dell’arte pittorica esposta da Platone nel X libro della
Repubblica, quando il filosofo stigmatizza i pittori-imitatori, dicendo che essi addirittura andrebbero espulsi
dalla Polis ideale, in quanto è come se essi giocassero con degli specchietti, attraverso i quali colgono e
riproducono il riflesso delle cose sensibili esistenti naturalmente o dei manufatti, realizzando così immagini di
immagini, doppiamente lontane dall’idea. Il falegname imita l’idea di tavolo realizzando un’immagine di primo
grado del tavolo, dopodichè il pittore imita l’immagine del tavolo prodotta dall’artigiano, dipingendo
un’immagine di quell’immagine, allontanandosi, quindi, dalla verità anziché avvicinarsi ad essa e ponendosi,
come dice Platone, a due lunghezze di distanza dalla verità.
Magritte non vuole affatto replicare tale concezione. ]
Continuiamo la lettura del brano magrittiano:
“La somiglianza è un pensiero che emerge(…)divenendo ciò che il mondo gli offre(…)
La somiglianza – che è suscettibile di diventare visibile attraverso la pittura - non comprende le figure se non
come appaiono nel mondo: persone, tende, armi, astri, solidi, ecc.
Quel che si deve dipingere è l’immagine della somiglianza, se il pensiero deve diventare visibile nel mondo.
Nel momento in cui il pensiero emerge – dice Magritte – ossia si affaccia pittoricamente nel mondo, assume
sembianza di mondo – al di là di ogni similitudine.
E’ come se per Magritte vi fosse uno scambio circolare, nel senso di una circolarità continua, che non viene mai
interrotta, tra pensiero e mondo. Una circolarità e uno scambio analoghi a quelli della respirazione. E’ come se
il pensiero respirasse. Noi respiriamo aria dall’atmosfera e poi restituiamo di nuovo aria all’atmosfera, al
mondo. Entra aria ed esce aria. Se, nel pesce, entra acqua esce acqua. Il pensiero pensa nel e dal mondo e
restituisce mondo.
Ecco la somiglianza. Il pensiero si nutre di immagini di mondo e restituisce al mondo immagini di mondo, in
una circolarità continua.
Il linguaggio verbale spezza tale circolarità, interrompe e segmenta in un senso lineare la continuità di questo
scambio. Perché è vincolato alla macchina segnica, alla macchina dei segni, la quale ha una sua struttura molto
complicata.
E’ come se il pensiero logico-nominale potesse esprimersi solo attraverso degli strumenti, delle protesi
meccaniche altamente sofisticate, le quali modificano in un certo modo il pensiero in uscita, in maniera tale che
i pensieri che si esprimono affidandosi a questa macchina – la macchina dei segni – non possano che essere
rigidamente formattati secondo i tipi e i codici di questa macchina.
10
romanogasparotti@ababrera.it

La pittura realizza un’altra modalità, una modalità non logica ma artistico-simbolica, la quale si basa non sui
segni, che producono similitudini, bensì sulla somiglianza.
Il pittore all’opera pensa pittoricamente, così come il musicista jazz, quando fa l’assolo pensa musicalmente e
quindi ha magari ancora bisogno dello spartito ma non più per eseguire ciò che gli viene dettato dai segni
musicali dello spartito, ma solo per far sì che la sua improvvisazione emerga somigliante alla musica che si sta
eseguendo.
Che cosa fa, allora, secondo Magritte, il pittore quando pensa pittoricamente e quindi dipinge?
Non fa altro che “distendere dei colori su una superficie, in modo tale che il loro aspetto effettivo svanisca e
lasci apparire un’immagine del somiglianza”
In ciò, precisa Magritte, non ci deve essere nessuna ricerca di originalità né alcun ricorso ad una presunta
“fantasia”. Il problema, infatti, sta nel riuscire ad assecondare nel modo più immediato l’emergere del pensiero
che si fa mondo, in un approccio piuttosto vicino a quella orientale taoista del wei wu wei: portare a
compimento agendo il meno possibile, darsi da fare lasciando tutto così com’è, assecondare il movimento
spontaneo di ciò che si sta esprimendo, senza aggiungere né togliere nulla…
La pittura, secondo Magritte, non deve far altro che assecondare l’emergere dell’immagine o delle immagini del
pensiero, che hanno urgenza di affacciarsi al mondo, semplicemente stendendo i colori sulla superficie della
tela, in modo tale da RENDERE VISIBILE tale immagine di pensiero, la quale non è oggetto, né è
oggettivabile.
Il quadro mostra un mondo unico, una sorta di tonalità generale, la quale lascia apparire una IMMAGINE
UNITARIA DELLA SOMIGLIANZA.
Ciò che il quadro mostra è una totalità olistica – olon, in greco, significa: unità concreta di elementi che si
tengono inseparabilmente tutti assieme - nel senso che appare come un tutt’uno e non come una somma o un
insieme di particolari o elementi diversi.
E’ una sorta di tessuto unico, che non va scomposto analiticamente nelle sue fibre. Invece ciò che si manifesta
secondo il pensare logico è un insieme di oggetti determinati, i quali sono scomponibili in una serie di entità
discrete, che si rapportano a vicenda secondo relazioni spazio/temporali, causali, gerarchiche.
Gli oggetti del mondo pensato logicamente – che è poi il nostro mondo ordinario, quello che Magritte chiama
mondo abitudinario, del tutto privo di qualsiasi mistero – si dispongono, infatti, l’uno dopo l’altro, secondo
successioni crono-logiche, si dispongono spazialmente secondo diversi piani, in primo piano, in secondo piano,
come sanciscono le leggi della prospettiva e infine sono spiegabili secondo relazioni di causa ed effetto.
Le immagini olistiche della somiglianza che appaiono sulla tela, invece, non sono scomponibili, non si
dispongono cronologicamente in successione, non conoscono gerarchie spaziali; sono sottratte ad ogni
relazione causa/effetto. E non hanno alcun significato – perché solo gli oggetti hanno significato e sono
significabili.
Le figurazioni pittoriche della somiglianza, pertanto, in questo, proprio in questo loro mostrarsi così, evocano il
mistero del mondo che, invece, il mondo abitudinario degli oggetti non è in grado di evocare.
E qui torniamo al discorso inaugurale del fatto che i quadri, nella loro invisibilità, non mostrano oggetti.
L’esperienza del quadro è un’esperienza riuscita quando io, a partire da ciò che si vede nel quadro, non mi
limito a riscontrare: ecco questa è una casa, quest’altra è una montagna, quest’altra ancora è una nuvola…
Ciò che la pittura ha mostrato sulla superficie della tela, non è una sequenza di determinati oggetti diversi. E’ il
pensiero logico-verbale, che sa disporre gli accadimenti solo linearmente in sequenza(ovvero in modo
letteralmente crono-logico). Se io mi limito a riscontrare questo non ho fatto alcuna esperienza artistica della
pittura, ma ho compiuto solo un’esperienza logica o gnoseologica, ossia un’esperienza conoscitiva basata sulla
logica della similitudine, nella rimozione della somiglianza.
Un approccio conoscitivo, anche scientificamente, al quadro è più che legittimo e sempre possibile – è ciò che
fa lo studioso, il filologo e storico dell’arte, i quali sottopongono il quadro al metodo logico-analitico,
trattandolo da oggetto conoscibile e/o da testo. Ma in questo modo la peculiarità dell’atto di pensiero pittorico è
stata negata e sostituita dal pensare logico secondo i segni, col risultato che ogni mistero è stato dissipato.
Invece, ciò che la pittura mostra sulla tela in quanto “arte della somiglianza” è un tutto unitario – mai divisibile
in questa determinata figura, quest’altra determinata figura – che lascia apparire solo un’immagine unitaria
della somiglianza, la quale evoca il mistero del mondo.
11
romanogasparotti@ababrera.it

Non il mondo come insieme di oggetti, ma il mistero stesso del mondo!


In un altro testo del 1960 intitolato “La somiglianza”, Magritte ribadisce che:
“La somiglianza si identifica con l’atto essenziale del pensiero. Quello di somigliare. Il pensiero assomiglia
diventando ciò che il mondo gli offre, e restituendo ciò che gli viene offerto al mistero, senza il quale non ci
sarebbe alcuna possibilità di pensiero. L’ispirazione è l’evento in cui emerge la somiglianza”
La somiglianza, per Magritte, costituisce l’atto più essenziale del pensiero, proprio perché in esso il pensiero
“assomiglia diventando ciò che il mondo gli offre” attraverso quello scambio circolare analogo ad una sorta di
respirazione, che abbiamo sottolineato.
Il pensiero logico, che si affida ai segni, non è caratterizzato da alcuna somiglianza, ma semmai è capace solo
di dare adito a similitudini.
Che cos’è allora la cosiddetta “ispirazione”?
Per Magritte non è altro che quell’evento, in cui appare la somiglianza. Una pittura è “ispirata” quanto più in
essa appare l’immagine unitaria della somiglianza e quanto più con ciò viene evocato il mistero del mondo.
Tutto ciò è un “evento”, però – precisa e avverte Magritte.
E’ un evento non programmabile, non predeterminabile, non progettabile nei suoi esiti, perché accade, se
accade quando accade…
In questo modo Magritte ci sta dicendo che non rientra, né potrebbe mai rientrare in nessun progetto artistico-
pittorico, quello di realizzare con certezza una certa immagine della somiglianza. Potrebbe benissimo accadere
che la tela compiuta non susciti alcun mistero e quindi non risulti “ispirata”...
Il testo originale francese degli Scritti di Magritte parla di ressemblance per indicare la “somiglianza” e di
similitude per indicare la “similitudine”.
Il linguaggio abituale quotidiano di solito confonde la “somiglianza(ressemblance)” con la
similitudine(similitude)”. Rigorosamente parlando, però, la “somiglianza” non ha nulla a che vedere con la
similitudine. Ricapitoliamo: la similitudine riguarda il rapporto tra due o più termini posti a confronto da un
pensiero logico-analitico, il quale valuta e calcola – tra i significati originari primari della parola logos vi sono
anche quelli di calcolo e rapporto – ciò che è comune all’uno e all’altro.
La SOMIGLIANZA, invece, per Magritte designa un atto di pensiero attraverso il quale il pensare diventa
direttamente mondo, senza la mediazione di segni.
La SOMIGLIANZA riguarda l’atto di pensiero, nella misura in cui pensare, per Magritte, significa sempre
lasciar apparire qualcosa.
Secondo Magritte vale l’uguaglianza: PENSARE=QUALCOSA SI MOSTRA, cioè QUALCOSA E’ USCITO
DAL SUO NASCONDIMENTO E APPARE
Non importa cosa.
La similitudine, invece, è il risultato di un certo modo logico di usare il pensiero.
E’ uno dei risultati del modo di pensare logico-analitico, il quale confronta qualcosa con qualcos’altro dopo
averli diversificati.
In una Lettera a Michel Foucault, Magritte, riferendosi ad una delle opere più note e importanti del filosofo “Le
parole e le cose”, lo rimprovera per non avere sufficientemente differenziato i due termini e motiva la necessità
di differenziarli nettamente con queste ragioni. La similitudine è sempre e solo tra cose giudicate simili in
quanto aventi in comune elementi visibili e sensibili(colore, grandezza, sapore) o invisibili(per es. natura, peso,
proprietà nutritive).
La somiglianza, invece, riguarda l’attuarsi del pensiero, nella misura in cui esso “diventa ciò che il mondo gli
offre”.
La pittura, secondo Magritte, è pensiero all’opera in quanto pensiero somigliante e ciò non ha nulla a che
vedere con la similitudine, nel senso che non riguarda il fatto che una certa figura pittorica risulti simile a
qualche aspetto del mondo sensibile.
Questa sarebbe una similitudine, a partire dalla quale la figura, in quanto figura della similitudine, diventerebbe
SEGNO, segno-di(qualcos’altro).
Con la pittura e grazie alla pittura, invece, il pensiero, nell’atto di pensare, diventa mondo.
Un’immagine dipinta – dice Magritte – non è altro che la “coincidenza” di ciò che la pittura produce con
l’apparire di un certo mondo visibile.
12
romanogasparotti@ababrera.it

In quanto arte della somiglianza, la pittura fa qualcosa di molto semplice: stende dei colori su una superficie, in
maniera tale che, alla fine, l’aspetto assunto da tale stesura di colori “coincide” con quello di “figure riunite
nella spazialità del mondo visibile”
Tale complesso di figure riunite nella spazialità del mondo visibile” coincidenti con l’aspetto della stesura dei
colori operata dalla pittura, è sempre un tutto unico e vale sempre come tale.
Non questa figura+questa figura+ questa figura…
La tela non presenta una somma o una sommatoria di entità discrete, ma appare come un continuum, il quale va
percepito, esperito e considerato in quanto tale, ossia in quanto continuum olistico.
Mai – aggiunge Magritte – tale immagine olistica “va confusa con la cosa rappresentata. L’immagine pittorica
di una fetta di pane con marmellata sicuramente non è né una fetta di pane vera, né la copia di una fetta di
pane”(p.494)
Ciò che il quadro mostra non deve essere analiticamente scomposto in una somma di figure visibili ognuna
delle quali va valutata nel suo essere o meno SIMILE a qualche aspetto del mondo sensibile extrapittorico.
Un tale modo di esperire la pittura e il quadro è un modo logico-analitico, il quale è condizionato dalla
similitudine e dimentica la somiglianza…
Tutto ciò conferma del fatto che la pittura in quanto arte della somiglianza non ha nulla a che fare con la
questione di origine platonica del rapporto tra l’immagine quale copia e un presunto originale.
Il pensiero somigliante non è nemmeno un pensiero a tesi, ossia non è un pensiero che riflette e rappresenta un
certo modo di pensare, per esempio, voglio rappresentare pittoricamente la condanna di ogni guerra e allora
riempio la tela di corpi sanguinanti, dilaniati e orrendamente massacrati.Questo non è pensiero somigliante,
perché è una forma di pensiero rappresentativo, è rappresentazione nell’accezione più pura e letterale del
termine.
Rappresentare, dal latino re-praesentare significa aver pensato qualcosa per poi ri-presentare, cioè riprodurre
esternamente qualcosa di simile, nel senso della similitudine, al contenuto mentale che ho prefigurato. Ma il
pensiero della somiglianza, all’opera nella pittura, non è rappresentazione e non ha nulla a che vedere con le
similitudini, né col rapporto tra l’immagine/copia e il corrispettivo originale, proprio perché è un pensare che
nel suo atto essenziale immediatamente si mostra in sembianza di mondo, al di fuori e a prescindere da ogni
rapporto, da ogni confronto, da ogni rappresentazione rispetto ad un mondo “vero” posto come termine di
riferimento.
Non c’è un originale da una parte e una copia dall’altra, in maniera tale che possiamo sempre confrontare l’una
con l’altro.
L’immagine pittorica “ispirata” comporta la radicale sospensione di ogni verosimiglianza, di ogni ordine
abituale e familiare e proprio per questo ci pone al cospetto del mistero del mondo.
La pittura, d’altro canto, non ci presenta affatto un altro mondo. E la pittura non può presentarci un altro
mondo, perché, secondo Magritte(vedi 140. “Il pensiero e il linguaggio”) il pensiero somigliante all’opera nella
pittura non conosce il NON e non conosce la NEGAZIONE, i quali sono i più tipici tra i dispositivi logici, ossia
propri del pensiero logico-verbale.
[NOTA 6 sulla NEGAZIONE. Il non e la negazione svolgono la funzione logica di sostituire un certo positivo
con un altro positivo ad esso alternativo, in modo tale che tra i due positivi opposti vi sia un irriducibile aut…
aut….: o questo o quello…
Ma il mistero che la pittura può evocare, nella misura in cui il suo pensiero è ispirato, non è altro rispetto al
mondo stesso – all’unico mondo che c’è, il mondo è uno - ma è il mistero del mondo, di questo mondo,
dell’unico mondo che è possibile. Quindi per far esperienza di tale mistero non dobbiamo andare oltre il
mondo, né sostituirlo con un altro mondo “misterioso” alternativo ad esso.
Per questo la pittura non mostra né un altro mondo, né il mondo così come siamo abituati di solito a vederlo,
secondo i nostri clichè abitudinari, bensì ci fa esperire il mondo sotto una luce completamente diversa, che ne
pone in evidenza il mistero.]
Secondo Magritte la pittura è anche scienza ed è anche tecnica – e questi sono elementi indispensabili – ma,
ancora prima, è “arte della somiglianza” e cioè pensiero,che immediatamente si esprime in sembianza di mondo
– un mondo però sottratto al suo ordine abitudinario e familiare.
La pittura è “poesia visiva”, la quale, però, non si serve di segni linguistici.
13
romanogasparotti@ababrera.it

Tornando sulla questione nel testo “Il pensiero e le immagini”, Magritte scrive:
Il pensiero somigliante è quello che immediatamente vede e fa vedere ciò che si pensa, saltando del tutto la
mediazione dei segni linguistici, i quali, nella loro costitutiva unità di significante e significato indicano degli
oggetti, in modo che il mondo offertoci dal logos che si serve dei segni linguistico-verbali è necessariamente un
mondo di oggetti determinati e differenti ognuno dall’altro, mentre il pensiero somigliante all’opera nella
pittura non ci mostra, invece, oggetti, né un mondo di oggetti determinati, bensì solo un’immagine olistica e
possibilmente ispirata della somiglianza.
In un altro testo del volume 2 degli Scritti – il 132 – Magritte afferma che “tutto ciò che è ‘determinato’ o,
piuttosto, ritenuto tale, è del tutto privo di fascino e di interesse”(p.89)
E se noi ci concentriamo su ciò che è ‘determinato’, “perdiamo di vista il quadro”!
Se noi consideriamo nel quadro la determinatezza di ciò che esso rende visibile, ci chiudiamo nell’orizzonte
del pensare logico-analitico, il quale è condizionato dalla similitudine e, pur davanti ad un quadro, perdiamo di
vista il quadro, cioè l’opera d’arte, perché è come se ci mettessimo alla finestra ed elencassimo gli oggetti
determinati che vediamo: due alberi, tot case, uno spicchio di cielo, una strada con delle automobili…
Non c’è nessun quadro, nessuna pittura in ciò. E nessuno charme…nessun mistero.
5. I significati e il Senso del mondo
Secondo Magritte, il mondo degli oggetti determinati, ossia il mondo che ci è dato dal pensiero logico-
rappresentativo, il quale si serve dei segni linguistici quali unità di significante e significato, non ha SENSO.
Solo il mondo che ci è restituito dalla pittura può avere senso.
Perché? Perché, come Magritte scrive in “Il senso del mondo”(105): “Il Senso è l’Impossibile per il pensiero
possibile”
Scrive subito dopo Magritte:
“pensare al Senso significa, per il pensiero stesso, liberarsi dalle condizioni che lo caratterizzano
abitualmente.
Queste condizioni, le quali fanno coincidere il pensiero con ciò che non lo riguarda traggono il loro valore in
relazione ad una energia di opposizione.(…)
Il valore è dato dal pensiero. Solo il pensiero libero ha un valore che non dipende affatto da una opposizione.
La libertà del pensiero è il pensiero possibile del Senso, ovvero il pensiero dell’Impossibile.”
Cerchiamo di capire cosa voglia esprimere Magritte attraverso queste parole dense e anche un po’ enigmatiche.
Sicuramente Magritte sta toccando una questione filosofica, che, per la filosofia di matrice post-
fenomenologica e post-heideggeriana del ‘900, è la questione della “differenza” tra Senso e significato.
I PASSO
Ho messo tra parentesi la parola “differenza”, in quanto tra Senso e significato non vi è la differenza che
Heidegger chiama logica e ontica, ossia la differenza nella sua accezione logica più usuale. Non stiamo
parlando della differenza che c’è tra un certo ente determinato e un altro o altri enti determinati, come quando si
dice che l’albero non è la casa, il cielo non è la terra ecc.
Heidegger quando parla della Differenz – Differenza con la D maiuscola – tra l’Essere e gli enti nella loro
plurale totalità, sostiene che essa non è la stessa differenza(con la d minuscola) che intercorre tra un ente e
l’altro all’interno del campo della totalità dell’ente. La Differenz nomina il fatto originario che l’Essere in
quanto tale non è nessuno degli enti, non è un ente determinato, né indica la totalità degli enti. Per Heidegger,
l’Essere è l’Origine(Arché) che fa dono di sé, ovvero, donandosi, si manifesta onticamente, vale a dire, nel suo
donarsi, dà luogo agli essenti, in quanto si manifesta come ente, il quale essente o ente non è che l’essere stesso
in quanto manifestatosi. L’in quanto va sottolineato, perché l’essere in quanto manifestatosi NON E’ l’essere in
quanto originaria possibilità di manifestare il manifestabile. Ecco perché, nel sistema ontologico
heideggeriano, l’Essere in quanto tale – ovvero quale origine di ogni infinita manifestazione possibile - non
coincide con questo o quell’ente che si sono venuti a manifestare e che, nel loro essersi manifestati, sono l’uno
diverso dall’altro secondo l’accezione logica e ontica del differire. Potremmo dire che la Differenz heideggerian
tra l’Essere e gli enti è la stessa Differenza originaria e intrascendibile che c’è tra l’Origine in quanto tale e gli
originati. L’Origine, ciò che gli antichi greci chiamavano Arché panton, non coincide con nessun originato, né
con la totalità degli originati, perché se così fosse, nulla potrebbe più originarsi. Se l’origine in quanto tale
coincidesse totalmente con l’originato, non si originerebbe più nulla, mentre qualcosa di nuovo continuamente
14
romanogasparotti@ababrera.it

ha origine, proprio perché l’Origine non coincide con l’originato, ma mantiene con gli originati una irriducibile
Differenza la quale – si badi! – non è la stessa differenza che c’è tra originato e originato! Se fosse la stessa
differenza tra originati, ciò che io chiamo origine, in realtà, sarebbe un originato, il quale presupporrebbe
un’Origine nella sua originaria Differenza rispetto a qualsiasi originato.
Quella tra un ente e l’altro ente è la classica differenza logica, la quale fa sì che ogni ente, nella sua determinata
identità, non ha nulla a che vedere con qualsiasi altro ente differente da esso, come l’identità determinata di un
certo ente escludesse e respingesse fuori e lontano da sé la diversa identità dell’ente differente.
Nel caso, invece, della Differenz, ossia della Differenza non logica, essa non comporta questa alterità di tipo
escludente ed esclusivo, per il semplice fatto che l’ente e gli enti, per Heidegger sono l’essere, sono l’essere in
quanto si è manifestato, fermo restando il fatto che l’essere in quanto manifesto non è l’Essere manifestante,
così come nessun originato coincide con l’origine.
Insomma la Differenz sfugge ad ogni logica; non è logicamente qualificabile, in quanto ammette che i
componenti di una dualità siano, insieme e simultaneamente, lo stesso e non lo stesso.
II PASSO
Ebbene, c’è chi, a livello filosofico, su questa base heideggeriana, nel corso del ‘900, ha applicato tale
Differenza al legame che c’è tra Senso e significati. In che modo? Da un lato ogni significato in quanto tale è
una certa espressione o manifestazione del Senso. Ogni significato è una certa determinazione del Senso. Ma il
Senso non coincide mai con nessun significato in particolare, né con la totalità dei significati dati, proprio
perché il Senso è l’origine, la fonte, la sorgente inesauribile di qualsiasi infinito significato possibile e quindi
non può coincidere con questo o quel significato e nemmeno con la totalità dei significati dati.
III PASSO
Veniamo ora a Magritte.
Egli ribadisce che il Senso non è mai nessuno dei significati che noi abitualmente attribuiamo alle cose.
Quello che Magritte chiama “pensiero coincidente”, che è tutt’altro dal pensiero libero, è il pensiero che
aderisce e si conforma ai significati abituali, ai significati dati, dandoli per scontati e aderendo ad essi.
Questa è una pipa. La vedete tutti? Ve la posso anche disegnare: è una pipa.
Prendere semplicemente atto di questo, però, non è pensare liberamente, non è usare il pensiero libero, perché il
pensiero libero non è il pensiero che aderisce e si conforma passivamente ai significati abituali, dandoli per
scontati, ma – dice Magritte – è il pensiero che si apre al Senso, il quale ci libera dalla schiavitù nei confronti
dei significati dati, perché va oltre essi e al di qua di essi – senza peraltro negarli - cercando di sintonizzarsi
con l’Arché, con l’Origine di ogni significato possibile.
Nessuno può sapere a priori o in anticipo quali saranno i significati, nei quali si manifesterà il Senso. Il Senso è,
quindi, l’originaria e infinita apertura di tutti i possibili significati. Non è questa o quella possibilità. E’la
possibilità pura di tutte le infinite e imprevedibili compossibilità. E quindi è in quanto tale Impossibilità!
Scrive magritte:
La libertà del pensiero è il pensiero possibile del Senso. L’Impossibile per il pensiero possibile.
Che vuol dire?
Vuol dire che il Senso, in quanto originaria apertura e possibilità di tutti gli infiniti significati possibili, cui il
Senso può dar luogo, rispetto ad ogni significato e rispetto alla totalità dei significati possibili è l’Impossibile,
perché è ciò che non sarà mai possibile come è possibile questo o quel significato determinato! Non si
manifesterà mai come questo significato qui o quest’altro significato qua; non si manifesterà mai come un certo
significato, proprio perché è il senso, ossia la fonte inesauribile, l’Archè infinita di ogni possibile significato.
Come è Impossibile che l’origine in quanto tale coincida con un determinato originato, così è anche impossibile
che il Senso venga a coincidere e a manifestarsi come uno dei determinati significati possibili o come la loro
totalità data.
Il Senso, in quanto origine di ogni possibilità, è l’Impossibile
E allora se la pittura è atto di pensiero libero in quanto pensiero somigliante, che non vuole chiudersi aderendo
a questo o quel significato determinato, ma è aperto al Senso, è pensiero dell’Impossibile!
Ad ulteriore conferma del fatto che ciò che sulla tela sembrerebbe una pipa, a livello di puro visibile, non è una
pipa, perché 1)non è isolabile dal tutto olistico e continuo del quadro, 2) non è significabile attraverso il
significato ‘pipa’.
15
romanogasparotti@ababrera.it

In una Lettera al critico M.Lecomte, Magritte scrive:


“Ciò che viene detto la maggior parte del tempo sulla pittura le è estraneo. L’idea che le si addice è che non si
deve ignorare che si tratta de: il pensiero che vede”(p.383/377)
Quello all’opera in pittura è un pensiero che VEDE, ovviamente nel senso di un vedere che non coincide con il
semplice vedere sensibile, ossia proprio del senso della vista, anche se esso vede qualcosa che è anche
sensibilmente visibile.
Essendo un pensiero che vede, il pensiero pittorico somigliante, non vede, però oggetti!
Non può vedere oggetti, perché gli oggetti si rappresentano, sono dei rappresentati, in modo tale che poi siano
anche visibili a livello sensibile. Il pensiero pittorico non DICE, e quindi se, in quanto pensiero somigliante, ci
restituisce un mondo, questo mondo non è un mondo oggettivo, non è un mondo di oggetti, non è un mondo di
cose determinate secondo il principium individuationis. Non è un mondo SOLO di oggetti visibili.
Noi possiamo DIRE, di fronte ad un quadro, che esso fa vedere questo o quell’oggetto visibile, ma
diciamo qualcosa che è estraneo al quadro e alla pittura IN QUANTO TALI.
Perché? Appunto perché il quadro, in quanto opera di pittura ed espressione del pensiero somigliante, non si
limita a mostrare oggetti. DICIAMO che il quadro mostra degli oggetti, ma, mentre DICIAMO questo, siamo
già fuoriusciti dal pensare pittorico, perché stiamo usando il pensiero logico-rappresentativo, il quale non può
che ridurre tutto ad oggetti determinati – anche ciò che appare sulle tele dei quadri.
Ma il pittore quando pensa dipingendo e il fruitore stesso dell’opera d’arte nella misura in cui si abbandona al
mondo che essa gli offre, così come gli viene offerto, sospendendo l’esercizio del pensare logico-
rappresentativo, non VEDONO oggetti, ma sperimentano immagini, il che è ben diverso, dal momento che
l’immagine, per Magritte, è l’indeterminarsi stesso del determinato.
Nell’universo dell’immagine, tutto è possibile e nulla è reale
Per il pensiero logico-rappresentativo invece: se vedo una pipa, questa è una pipa, ovunque la veda anche nel
quadro. Per il pensiero somigliante invece è-possibile che sia una pipa.
Che cosa significa è-possibile che sia una pipa. Non è una pipa, ma è-possibile che sia una pipa e anche
infinitamente altro….
Per il “pensiero libero”, tutto è sempre possibile, appunto perché esso non vede né pensa oggetti, bensì pensa e
mostra immagini.
6. Immagini e oggetti
In che cosa differiscono, pertanto, le immagini dagli oggetti?
Il pensiero libero, perciò, pensa e mostra immagini e le immagini, come abbiamo detto, non sono in quanto tali
oggetti e non hanno le proprietà e le caratteristiche degli oggetti.
La possibilità compete alle immagini, la realtà determinata agli oggetti. E le immagini non si identificano con
gli oggetti e viceversa.
Innanzitutto gli oggetti, nel loro essere perfettamente individuati, sono stanti, la loro dimensione è quella dello
STARE. Gli oggetti pesano e dipendono totalmente dalla forza di gravità. Gli oggetti hanno ognuno il loro
determinato posto nel mondo oggettivo, dove ogni oggetto si colloca in un certo determinato spazio.Gli oggetti,
inoltre, perdurano relativamente nel tempo. Un oggetto non è sempre diverso ad ogni istante, ma - fatti salvi gli
inevitabili processi di invecchiamento, deterioramento, corruzione ai quali va incontro – perdura identico col
passare del tempo, ossia mantiene la stessa identità col passare del tempo: Socrate, come esemplificava
Aristotele, è sempre Socrate da neonato, da bambino, da vecchio, da sposato, da padre, da non filosofo, da
filosofo ecc.
Quindi gli oggetti si individuano nel loro determinato e reale stare, secondo lo spazio/tempo.
Inoltre gli oggetti agiscono gli uni con gli altri secondo regole e leggi, in primis la legge che il pensiero logico
definisce come legge di causalità, secondo la quale qualcosa è effetto di una certa altra cosa quale causa, oppure
qualcosa è causa di una certa altra cosa quale effetto.
E’ sempre il logos, in quanto giudizio, che determinando gli oggetti come tali, anche li stabilizza nella loro
REALTA’ secondo le forme o categorie di spazio, tempo, causalità(che, per Schopenhauer costituiscono il
principio di ragion sufficiente).

16
romanogasparotti@ababrera.it

Il risultato è che il mondo oggettivo è un mondo di entità discrete – tutte separabili l’una dall’altra -
sostanzialmente stabile nelle sue differenti identità, nonostante il passare del tempo.
Nulla di tutto questo si addice all’immagine in quanto esistenza puramente possibile.
L’immagine, da parte sua, non essendo in quanto tale un oggetto – per quanto possa essere sempre
oggettivabile, ossia trasformabile in oggetto – non ha alcuna stabilità, non ha alcuna identitaria determinatezza,
non ha alcun peso, nè soggiace alle categorie di spazio, tempo, causalità. Non risponde al principium
individuationis, né al principio di ragion sufficiente.
Nella sua possibilità ha una natura proteiforme, caratterizzata dalla perenne metamorfosi.
Mentre nel mondo oggettivo ogni oggetto entrando in relazione o contatto con altri oggetti provoca o subisce
relazioni di causa/effetto, mantenendo inalterata la sua identità di oggetto autonomo e chiuso in sé stesso,
l’immagine, invece, nel suo continuo movimento si modifica incessantemente attraverso processi di continua
autometamorfosi.
Come è stato sottolineato da molti autori già nel Medio evo e poi nel Rinascimento, l’immagine ha una natura
ninfale. Chi erano le ninfe?
Innanzitutto erano delle nature acquatiche e quindi, come l’acqua, prive di una forma rigida e precostituita -
l’acqua scorre ovunque nella sua liquidità, adattandosi e conformandosi alle caratteristiche dei luoghi nei quali
scorre. Analogamente la natura dell’immagine è liquida.
Le ninfe del mito, inoltre, nella loro acquatica liquidità, erano per natura perennemente sfuggenti, inafferrabili,
impossedibili e per questo suscitatrici e vittime di desideri sempre più furiosi e destinati ad essere sempre
inappagati, proprio perché le ninfe non possono essere in alcun modo catturate, conquistate, possedute. Proprio
come le immagini che Aby Warburg associava alle farfalle e alle falene, le quali, se vengono toccate, muoiono.
Le immagini sfumano e il processo del loro sfumare avviene in un continuum caratterizzato da differenti gradi
di intensità che può essere crescente tanto quanto decrescente, ma senza una legge precisa, e all’interno di una
continuità ininterrotta.
Come raccontano i miti antichi, solo se trasformate in oggetti, come accadde per esempio alla povera Dafne,
della quale si era perdutamente invaghito il dio Apollo, ossia solo una volta trasformata in albero di alloro – la
sua estrema, ultima e definitiva metamorfosi – allora possono essere toccate, baciate, possedute…
E allora, se il pensiero coincidente è quello che aderisce agli oggetti nella loro realtà, il pensiero libero svuota
ed alleggerisce il mondo in quanto mondo di pure immagini possibili, meravigliose, incatturabili e avvolte nel
mistero. Un mistero che il mondo oggettivo invece ha completamente rimosso, ma che il pensiero all’opera
nella pittura e il quadro possono risvegliare, purchè il quadro non venga esperito come un oggetto che mostra
determinate figure/oggetti.
Nel testo intitolato “Il pensiero e le immagini”, Magritte scrive:
“La nostra vita, privata del pensiero, potrebbe senza dubbio continuare, come quella di una pianta, della quale
non si sa se pensi. E’ il pensiero che dona un valore alla vita. Tutti i valori sono doni del pensiero. Ciò che esso
dona è libero.. Il pensiero è essenzialmente libero. E’ la Luce. Tuttavia, nei momenti ordinari e straordinari
della vita, il nostro pensiero non manifesta tutta la sua libertà. Esso è incessantemente minacciato , interessato
da tutto ciò che ci capita. Esso coincide con mille e uno cose che lo limitano. Questa coincidenza è quasi
permanente.
Il pensiero ritrova una qualche libertà, quando per esempio, dona del valore alla simpatia che si prova per una
pietra o quando accorda il più grande valore alla vita e all’universo dal quale la vita dipende.
Bisogna, in nome della libertà del pensiero, amare Ruskin, questo appassionato d’arte, quando egli scrive:
‘Periscano tutte le opere d’arte piuttosto che gli uccelli che cantano sugli alberi’.”
Il pensiero è essenzialmente libero e, nella sua libertà, è come la Luce.
Che cosa fa la luce? Essa si irradia per ogni dove e filtra e penetra dovunque può farlo, senza scegliere, senza
avere preferenze, senza privilegiare deliberatamente questa o quella cosa da illuminare. Per la Luce non
esistono gerarchie, non esistono cose più importanti e cose meno importanti. Per la luce, ovvero alla luce di una
fonte di luce, ogni cosa sussiste accanto all’altra, in modo tale che questo essere l’una accanto all’altra si
dispiega in un continuum.
La luce in quanto tale non separa le cose, non le stacca allontanandole l’una dall’altra – questo semmai lo fa la
mancanza di luce, ossia l’ombra – ma le distende tutte assieme nel continuum della luminosità stessa. I margini
17
romanogasparotti@ababrera.it

d’ombra sì che staccano una cosa dall’altra, ma la luce tende a dissipare e sconfiggere ogni zona d’ombra, per
quanto non vi sia alcuna opposizione e tantomeno alcuna separazione nemmeno tra la luce e l’ombra. Perché?
Perché si dà ombra là dove non arriva la luce. L’ombra non è altro che mancanza di luce e quindi appartiene
alla luce nella misura in cui è luce che non riesce più ad illuminare.
Tecnicamente dal punto di vista filosofico, l’ombra rispetto alla luce è privazione. Aristotele si sofferma sulla
nozione di privazione(stéresis) sostenendo che essa, nel riferirsi sempre ad una certa sostanza, non si oppone
affatto ad essa, né la nega nel preciso significato logico del termine. Ma anzi, la conferma nella sua natura e nel
suo potere.
[NOTA 7 SULLA PRIVAZIONE. Nella Fisica, Aristotele polemizza con Platone, il quale aveva posto la quiete
come genere diverso e opposto al movimento, sostenendo che, invece, essa è semplice «privazione (steresis) di
movimento in quanto tale» (VIII, 251 a, 26-27). La quiete è privazione di movimento in quanto tale, ovvero in
quanto movimento, ossia, per Aristotele, la quiete appartiene al movimento confermando la natura cinetica, in
quanto “privazione”, ossia mancanza di movimento, vale a dire movimento al quale capita momentaneamente
di non muoversi, restando sempre movimento. Insomma, la quiete, in quanto privazione, è movimento che non
si muove, ma sempre movimento; non l’opposto del movimento; non tutt’altro genere rispetto al movimento
come aveva detto Platone.
Lo stesso dicasi dell’ombra rispetto alla luce. L’ombra è luce che non risplende, laddove il non risplendere
appartiene alla luce in quanto è luce, nel suo esaurirsi, che è esaurirsi della luce in quanto luce. L’ombra non è,
quindi, totalmente altro rispetto alla luce stessa, non è un’altra cosa.
A questo proposito il filosofo neoplatonico Plotino, nel quinto trattato della Enneade IV, tutto dedicato alla
Luce, scrive che innanzitutto la luce è “forza attiva”, la quale né irradiandosi abbandona e si separa dalla
sorgente luminosa, né va mai perduta, fintantoché perdura la sua fonte. Dunque essa, in quanto forza attiva
irradiantesi non ha propriamente né un inizio né una fine. E quando essa illumina i corpi, dice Plotino, non lo fa
come una loro proprietà, perchè la luce non è una proprietà dei corpi, ma semmai sono i corpi ad essere fatti
della luce che li illumina e li permea. Essa, dice ancora Plotino, è “vita sovrabbondante”, nella misura in cui è
sempre anche oltre dove noi diremmo che possa scemare. Essa, perciò, non si sofferma su nessun determinato
corpo, perché avvolge e permea indifferentemente ogni corpo, essendo sempre anche, almeno un po’, oltre di
esso.]
Potremmo dire che, per Magritte, la libertà del pensiero è la medesima libertà della luce.
In che senso allora libertà? Certamente non nel senso delle libertà legata al concetto di libero arbitrio di origine
cristiana. Non libertà nel senso che può scegliere, decidere, optare – liberamente appunto – per questo piuttosto
che per quello. La luce non fa affatto ciò. La luce non sceglie mai nulla. E così il pensiero. Il pensiero, come la
luce, è libero, in quanto tendenzialmente nulla, quando si mette all’opera, potrebbe bloccarne, né interrompere
l’irradiarsi, il quale procede senza arresti, senza interruzioni, senza cesure, liberamente in questo senso. E il
pensiero, nel suo accadere e libero fluire, come la luce non ha nemmeno un preciso inizio, né una precisa fine.
Esso è forza attiva che manifesta una vita sovrabbondante, come dice Plotino.
E tuttavia, rileva Magritte, la libertà del pensiero è costantemente minacciata da ciò che la limita. Che cosa
minaccia il pensiero limitandolo? Ormai dovremmo saperlo bene: gli oggetti che costituiscono il mondo
configurato dal logos a partire dai segni linguistici.
Anche l’irradiarsi della luce più potente può essere limitata dalla massa di oggetti inerti e statici. Le montagne,
per esempio, limitano l’irradiarsi della luce dello stesso sole, per quanto essa sia potentissima e
sovrabbondante.
E così la libertà del pensiero è costantemente minacciata dagli innumerevoli oggetti ai quali noi siamo di volta
in volta INTERESSATI.
E’ come se, nella nostra vita quotidiana, il pensiero, anziché fluire liberamente come si addice alla sua natura,
tende a coincidere e quindi a incagliarsi negli oggetti, ai quali noi ci interessiamo e/o che intendiamo utilizzare
per soddisfare i nostri bisogni pratici.
In questo COINCIDERE con questo o quell’oggetto, il pensiero assieme alla sua libertà, perde anche la sua
continuità.
E’ come se gli oggetti, facendo aderire il pensiero alla loro oggettività, frantumassero, segmentassero,
parcellizzassero l’originaria e connaturale continuità olistica della forza del pensare stesso in quanto tale. E in
18
romanogasparotti@ababrera.it

questo modo gli oggetti, per il pensiero, vengono a costituirsi secondo gerarche di importanza. Il senso della
vita letteralmente universale viene così a perdersi. E questo comporta l’essere assorbiti dai significati e con ciò
la perdita del Senso delle cose.
Magritte scrive:
“Pensare il Senso comporta, per il pensiero, liberarsi dalle idee ordinarie, quasi ordinarie e straordinarie”
E cioè liberarsi da tutte le idee, dalle idee di qualsiasi tipo.Perché? Perché l’ idee non sono altro che oggetti
ideali. Perché le idee non sono altro che significati portati al massimo grado di cristallizzazione. Del resto come
aveva definito le idee il filosofo del mondo delle idee per antonomasia, ovvero Platone? Realtà eterne,
immobili, immutabili, trascendenti.
Nel mondo delle idee, secondo Magritte, la luce del pensiero non passare più; le idee sono, per il pensiero,
come le montagne per la luce del sole.
La libertà del pensiero si perde anche, secondo Magritte, ogniqualvolta si rispettano “tradizioni morte” e
quando di ubbidisce a “mode ridicole”.
In generale ogniqualvolta si segue – ossia si aderisce-a - qualcosa, qualsiasi cosa, perché la luce del pensiero
libero non segue nulla, ma fa luce lasciando apparire ogni volta un universo unico ed irripetibile.
Poco più sotto, nello stesso testo, Magritte mette in guardia dagli equivoci in cui si può cadere facilmente
quando si parla impropriamente del Senso, cioè dell’Impossibilità di tutti i possibili.
Pensare il Senso, grazie alla libertà del pensiero, non ha nulla a he fare con il chiedersi che senso ha questo o
quest’altro. Perché, in questi casi, il Senso viene scambiato con il significato.
E rispetto ai quadri, ribadisce Magritte, è del tutto insensata la domanda: “qual è il Senso di queste immagini?”
Perché ciò, scrive Magritte, equivarrebbe a “far assomigliare il Senso, l’Impossibile, a un’idea possibile”.
7. Immagini dipinte e parole
In una lettera a André Bosman poeta e ammiratore dell’opera di Magritte, il pittore scrive:
“Le immagini dipinte sono l’equivalente della parola, senza confondersi con essa. Ciò che l’immagine può
mostrare, la parola può dirlo; ciò che il linguaggio dice, la parola non può mostrarlo. Ciò che le immagini
dipinte “mostrano” e ciò che la parola “dice”, tuttavia, sono (possono essere) la stessa cosa. Ma trasporre nel
dire ciò che è mostrato(ovvero trascendere nel mostrarlo ciò che è detto) non consiste affatto in una
“traduzione” della quale si avrebbero i termini equivalenti, una sorta di dizionario immagini-parole, parole-
immagini. La “trasposizione” è un incontro, che risulta unicamente da una creazione uguale a quella della
cosa da trasporre.”
In generale, dice Magritte, sembra esserci una equivalenza tra ciò che le parole possono dire e ciò che le
immagini dipinte possono mostrare, in quanto sia il dire attraverso i suoi segni verbali, sia il mostrare attraverso
le figure pittoriche si riferiscono alla stessa cosa. Quale “stessa cosa”? Attenzione! Non agli stessi oggetti,
perché gli oggetti sono solo i prodotti del linguaggio verbale, quello che si affida ai segni linguistici, mentre i
quadri non sono oggetti, né mostrano oggetti.La stessa cosa è il PENSIERO. Il pensiero si attua, del pensiero
affiora, si illumina improvvisamente e illumina irradiandosi come la luce, ma l’atto di pensiero si può
manifestare, come sappiamo: a) come pensiero pensante che mostra direttamente figure di mondo, b)come
pensiero che, pensando, dice e si esterna attraverso i segni verbali, dando luogo ad oggetti.
L’equivalenza tra pensiero che vede e mostra e pensiero che dice dovuta al fatto che entrambe le forme sono
atto di pensiero, comporta tuttavia una asimmetria. Secondo Magritte, mentre ciò che l’immagine può mostrare,
la parola può benissimo dirlo, non è sempre vero il contrario, ossia ciò che il linguaggio dice l’immagine non
può mostrarlo. Perché? Perché il linguaggio dice oggetti dotati di significato, il linguaggio verbale può e sa solo
dire questo: oggetti significanti, oggetti che hanno un certo significato. Mentre la pittura non mostra oggetti,
bensì immagini(che non sono oggetti).
Non è quindi mai possibile una sorta di traduzione reciproca immagini-parola, parole-immagini, perché i
termini in gioco sono del tutto eterogenei
Si tratta, potremmo dire, di lingue così diverse l’una dall’altra e così lontane l’una dall’altra da rendere
impossibile qualsiasi traduzione.
Inoltre, quando le parole possono dire ciò che appare come figura dipinta, non si tratta di una traduzione, – non
vi è traducibilità possibile tra le due manifestazioni di pensiero che sussistono l’una accanto all’altra - bensì,
dice Magritte, di una “trasposizione”, che è un trascendimento, il quale implica una RICREAZIONE vera e
19
romanogasparotti@ababrera.it

propria. Non traduzione, ma completa ricreazione, in quanto si tratta di ricreare l’atto di pensiero di partenza e
poi rimanifestarlo in un sistema espressivo del tutto diverso ed eterogeneo.
In ogni caso, di fronte a ciò che viene mostrato in pittura nel quadro, io posso sempre farne una sorta di
parafrasi verbale, che è poi ciò che fanno comunemente i critici di professione di livello medio. Che cosa fa, di
solito, il cosiddetto critico d’arte nei suoi resoconti giornalistici o nelle presentazioni a catalogo: si pone davanti
a ciò che il quadro mostra e illustra a parole ciò che nel quadro ritiene sia visibile. La sua descrizione, però, per
quanto sempre fattibile e comunemente fatta, non è, per Magritte, mai una traduzione. Il pensare pittorico quale
arte della somiglianza non è traducibile! Semmai è in gioco una trasposizione logico-discorsiva, la quale
LEGGE il quadro come se esso presentasse degli oggetti determinati, finendo quindi per TRASCENDERE,
ossia andare totalmente al di fuori e al di là di ciò che il quadro in quanto tale mostra di per sé, ossia
un’immagine olistica colorata.
La medesima operazione al contrario, ossia il trasporre ciò che il linguaggio dice in immagini dipinte è del tutto
irrealizzabile. Non potrei mai trasformare in quadro “La scienza della logica di Hegel” o la “Metafisica” di
Aristotele. Né trasformare in un quadro queste Dispense…
Perché? Perchè mentre è sempre possibile passare dalle immagini agli oggetti, essendo gli oggetti, per così dire,
immagini degenerate, immagini alienate, immagini estraniate, una volta che si è arrivati agli oggetti e si sono
trascese le immagini, non è più possibile tornare indietro.
Il processo che dalle immagini porta agli oggetti è un processo lineare, unidirezionale e irreversibile. La
trasformazione dell’immagine in oggetto determinato è come l’ultima metamorfosi della ninfa, in virtù della
quale non c’è più alcuna ninfa, ossia non c’è più alcuna immagine, ma solo l’irreversibilità DEFINITIVA
dell’oggetto(per es. l’albero di alloro al posto della povera ninfa Dafne).
Potremmo anche dire che il pensiero logico-verbale, nella sua oggettività e inflessibilità, tende alla totalizzante
e intrascendibile definitività e alla irreversibilità, a differenza dal pensare-che-mostra, il quale può sempre
essere trasposto in altro e/o trasceso.
La conclusione sibillina della lettera a Bosman è:
“Le immagini dipinte sono invisibili, non sono conoscibili se si considera i prodotti coloranti con i quali sono
state dipinte…”
In che senso le immagini dipinte sono “invisibili”? Nel senso che non hanno la visibilità che compete agli
oggetti, in quanto non sono traducibili in oggetti, i quali hanno la loro visibilità di oggetti per l’appunto.E le
immagini dipinte, aggiunge Magritte, sono anche inconoscibili.
Possiamo conoscere i prodotti coloranti usati dal pittore, ma ciò che appare sulla superficie della tela è
inconoscibile. In che senso inconoscibile? Perché inconoscibile?
Perché la conoscenza propriamente è conoscenza di oggetti, empirici o ideali, mentre la pittura non mostra
oggetti. E perché la conoscenza passa sempre attraverso il logos di origine verbale, non può fare a meno di essa.
Rileggiamo il testo magrittiano:
“Le immagini dipinte sono l’equivalente della parola, senza confondersi con essa. Ciò che l’immagine può
mostrare, la parola può dirlo; ciò che il linguaggio dice, l’immagine non può mostrarlo. Ciò che le immagini
dipinte “mostrano” e ciò che la parola “dice”, tuttavia, sono (possono essere) la stessa cosa. Ma trasporre nel
dire ciò che è mostrato(ovvero trascendere nel mostrarlo ciò che è detto) non consiste affatto in una
“traduzione” della quale si avrebbero i termini equivalenti, una sorta di dizionario immagini-parole, parole-
immagini. La “trasposizione” è un incontro, che risulta unicamente da una creazione uguale a quella della
cosa da trasporre.”
Il mondo pensato pittoricamente è un mondo in figura, che appare come totalità olistica all’insegna della
continuità, nel senso che non è possibile frammentare, segmentare le diverse parti del tutto. Il mondo visivo
mostrato dalla pittura o sta tutto insieme, oppure non è più quel mondo. Frammentarlo e ritagliarlo, in modo
logico-analitico, in una pluralità di parti autonome e indipendenti, ossia oggettivarlo, significa trascenderlo e
ricrearlo come mondo di oggetti, trasponendolo quindi nell’orizzonte del pensiero logico-verbale l’unico
responsabile dell’esistenza degli oggetti. Tale trasposizione-trascendimento- ricreazione è sempre fattibile.
Ma gli effetti del logos sono irreversibili. Una volta che il potere sovrasensibile dei significati ha preso piede e
si è imposto, non si può più tornare indietro.
8. Magritte e la rivoluzione comunista-surrealista
20
romanogasparotti@ababrera.it

Perché Magritte inizialmente aderì al partito Comunista?


In uno scritto di carattere autobiografico del 1938, comparso sulla rivista di Bruxelles Combat e
intitolato(42)La linea della vita, Magritte afferma la necessità di combattere e rovesciare, ognuno a modo
proprio e attraverso ciò che sa e può fare, la società borghese, in quanto società fondata sull’IDOLATRIA,
sull’idolatria del denaro, delle razze, delle patrie, degli dei, dell’arte stessa.
La società borghese, nel suo essere dedita totalmente ai suoi culti idolatrici si oppone del tutto alla natura, la
quale natura è, però, intesa da Magritte – al di là di ogni naturalismo, che sarebbe anch’esso una ennesima
forma di idolatria borghese – come realtà di sogno e di follia, dalla quale possono provenire le uniche occasioni
di libertà che possiamo sperimentare nel mondo attuale. Da qui il suo iniziale apprezzamento del Surrealismo,
in quanto questo movimento – che in parte eredita la lezione del dadaismo - si propone di esplorare e
sperimentare liberamente, al di là dei conformismi borghesi, proprio i territori sconfinati del sogno e del
mistero. Magritte dichiara di aver apprezzato anche la pittura di De Chirico per la sua capacità di evocare, con
la sua pittura, “il silenzio del mondo”.Fu attraverso lo studio e l’influenza delle opere di de Chirico, Max Ernst,
Derain, Picasso, Duchamp e, in parte, dei futuristi, che Magritte, per sua esplicita ammissione, inizia a
dipingere quadri i quali svuotano il mondo dalla sua oggettiva pesantezza, mostrando figure di oggetti, i quali
vengono spogliati di tutte le loro caratteristiche accidentali e quindi talmente ridotti alla loro essenzialità, da
risultare incomparabilmente e totalmente diversi rispetto agli oggetti che si offrono ai nostri sensi nel mondo
empirico. Questi sono gli esordi di Magritte in pittura. Egli parte dagli oggetti sensibili del mondo empirico e
poi, con un’opera di ablazione, ovvero di sistematica e completa sottrazione, li spoglia di tutti gli attributi, di
tutte le determinazioni particolari che concorrono a determinare il loro apparire sensibile ed empirico, cercando
di dipingere la pura ed essenziale forma che ogni oggetto nasconde in quanto rivestito dal complesso dei suoi
accidenti.
Il secondo passo compiuto da Magritte, come egli stesso confessa, fu quello di cercare e ritrovare nel mondo
reale stesso quelle immagini astratte che egli aveva sperimentato nei quadri attraverso la pittura. Poi, però, egli
si avvede che, dipingendo in questa maniera astratta – nel senso di una astrazione che Magritte stesso dichiara
era cominciata con gli impressionisti, quando essi cercavano di dissolvere le qualità direttamente sensibili degli
oggetti percepiti –
egli non riusciva ancora a mostrare pittoricamente la pura ESISTENZA degli oggetti.
E il suo fine ultimo era proprio questo: mostrare l’esistere stesso di ogni cosa, un esistere che tutte le
determinazioni oggettive, sensibili e significative dell’oggetto finivano inevitabilmente per occultare, per
nascondere, per rivestire attraverso un velo, una patina fondamentalmente rappresentativi.
Si tratta di un’operazione pittorica che sembra molto vicina all’atteggiamento filosofico perseguito dalla
fenomenologia di origine husserliana.
Magritte voleva mostrare pittoricamente l’ESISTENZA stessa delle cose e del mondo. Era quella – la via da lui
inizialmente intrapresa dell’astrazione – la strada giusta in relazione a tale fine?
Magritte comincia a capire che l’attività di ablazione, ovvero di astrazione che, in un primo tempo, l’aveva
condotto a spogliare gli oggetti da ogni loro particolare proprietà e qualità, produceva solo un atto di astrazione-
da, il quale non restituiva, però, l’esistere stesso delle cose.
Insomma Magritte capisce che togliere dagli oggetti tutto ciò che li caratterizza sensibilmente ed empiricamente
come tali non conduce alla loro esistenza, perché le cose esistono in tutti gli aspetti secondo i quali essi
vengono a manifestarsi nel mondo.
L’astrazione, si rende conto Magritte, è pur sempre un’operazione di carattere logico e puramente teorico-
filosofico e si basa sulla negazione.
E allora – dichiara Magritte – egli a partire dal 1925, iniziò a dipingere gli oggetti con tutte le particolarità
accidentali secondo le quali essi apparivano nel mondo. Interessato, però, non a questo o quel particolare
accidente e nemmeno all’oggetto come sintesi di tutti gli accidenti che lo determinano come tale, ma interessato
solo al mistero, il quale mistero è negli oggetti in ciò che essi manifestano di essere, senza essere, però, ciò che
resta dopo che ho sottratto e eliminato dall’oggetto tutto ciò che ne determina e caratterizza l’apparenza
empirica e sensibile.

21
romanogasparotti@ababrera.it

Magritte si rende conto che l’astrazione non ci dà affatto l’esistere, ma semmai solo un puro quantum
dell’oggetto e/o il suo puro concetto, appunto l’essenza, la quale è una nozione teorico-ideale, la quale ha a che
fare con il logos.
Questo spiega perché la pittura matura di Magritte sembri – e sottolineo sembri – una pittura figurativa o
figurale, per nulla astratta. E infatti la via della pittura astratta da lui tentata in un primissimo momento fu poi
quasi subito abbandonata, appunto perché l’astrarre è un tipico procedimento logico, addirittura iperlogico, se
non addirittura scientifico.
[NOTA 8. In effetti, colui che inaugurò il metodo scientifico-sperimentale, nella prima metà del XVII secolo,
ovvero Galileo Galilei, in una delle sue opere principali Il Saggiatore scrive:
“Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea,
a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è
grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella
tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da
queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato
odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente
accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per sé stessa non
v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto
nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo
sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì
come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli degli altri primi e reali accidenti, volessimo
credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse”
La scienza moderna nasce proprio da questa rimozione dell’animale che è in noi o che noi siamo, alla ricerca di
ciò che invece compete alla sostanza stessa delle cose nella misura in cui è oggettivamente quantificabile,
misurabile, calcolabile e quindi riducibile a dei rapporti matematico-geometrici. Ma tale ratio scientifico-
razionale, la quale si basa sulla cosiddetta matematizzazione della natura, ci attesta appunto, come dice Galileo,
il numero delle cose che ci sono, una due tre, la loro figura geometrizzabile, dove essa si colloca nello spazio, il
tempo in cui essa appare, le relazioni determinabili che essa intrattiene con altre, ma non il suo esistere, mai
l’esistere…
L’esistere non è quantificabile, non è geometrizzabile, non si esaurisce nelle sue determinazioni spazio-
temporali.]
L’esistere di ciò che esiste non è un qualcosa, non è nessuna cosa e quindi, in quanto tale, non è né un oggetto,
né un concetto, né la presunta essenza di qualcosa. Nemmeno è l’origine, se intesa come statico punto di
partenza, perché semmai l’esistere è l’originarsi e l’attivo e dinamico inoltrarsi nell’apparire di ciò che si è
originato. L’esistere non è un oggetto, non è una cosa, ma è una azione all’opera, una tensione in corso d’opera,
uno slancio vitale.

E in quanto slancio vitale, come ha detto un filosofo come Bergson, esso non è rappresentabile, non è
misurabile, non è quantificabile, non è determinabile spazio-temporalmente e non è nemmeno definibile.
Ogni sua misurazione, ogni sua determinazione, ogni sua collocazione, ogni sua definizione – dice Bergson –
presuppone la sua riduzione a una datità statica, riduzione che è possibile solo ex-post, ossia solo quando
l’evento è già accaduto come è accaduto, nella sua inafferrabile irripetibilità, come quando si rivede il filmato di
ciò che è accaduto scomponendolo attraverso la moviola, riducendolo quindi alla sommatoria di parti o sezioni
statiche, le quali sono tali solo nella misura in cui sono state artificialmente fermate ex post.
E l’esistere per Magritte ha a che fare in primo luogo con il Senso, con l’impossibile e con il mistero. Non con
il significato, non con la possibilità data, non con ciò che è noto o conoscibile.
Al tempo stesso, per Magritte l’esistere fa tutt’uno con ciò che esiste e non è quindi né separabile né
astraibile da esso.
Ecco perché Magritte rinuncia all’astrazione e ritorna alla figuralità, restituendo agli oggetti tutti gli accidenti
che essi manifestano nel mondo empirico e sensibile, perché l’ESISTERE non sta mai nel che cosa, ma nel
come il che cosa viene ad apparire e la pittura cerca di concentrarsi sul come mostrare qualcosa, non sul
che cosa mostrare.
22
romanogasparotti@ababrera.it

Detto questo Magritte, ripercorrendo la propria vicenda autobiografica, parla del suo interesse per il
Surrealismo, che gli sembrava andasse nella questa direzione di una autentica rivoluzione anti-borghese e,
attraverso il Surrealismo, approda anche all’impegno per la rivoluzione proletaria e al partito comunista. Ma –
dichiara Magritte – “Fu un fallimento”.
I politici di sinistra, riscontra Magritte, da un lato sono troppo vanitosi, dall’altra troppo poco intelligenti e del
senso della rivoluzione surrealista essi non erano in grado di capire assolutamente nulla.
E’ interessante al proposito rilevare che in una lettera a Bosman del 1959, a proposito di uno scritto di Lenin da
lui letto, Magritte scrive che le parole che il rivoluzionario sovietico continuamente usa: Stato, Potere, Classi,
Capitale - sono del tutto uguali alle parole Amore, Sempre, tra le mie braccia, che ricorrono nelle canzonette
sentimentali.
E in un’altra lettera a Bosmans Magritte scrive:
“Gli scritti di Lenin hanno una musica che mi annoia quanto quella del discorso di un consiglio di
amministrazione.(…)Non mi piace pensare che il mondo abbia il ‘senso’ che gli dà Lenin, un ‘senso’ che
soltanto lo spirito scientifico è capace di designare”
Anche Lenin, dunque, in quanto rappresentante della politica rivoluzionaria anticapitalistica e antiborghese, è
l’ennesimo intellettuale che scambia il Senso con il significato e attribuisce al mondo un significato di tipo
logico-scientifico e scrive testi noiosamente banali tanto quanto canzonette o verbali da consiglio di
amministrazione!
La vera rivoluzione antiborghese, nell’accezione più radicale del termine, per Magritte sembrava invece
rappresentata meglio dal Surrealismo. Ma si ricrederà anche di questo.
Il limite proprio del Surrealismo, per Magritte, consiste nel fatto che esso cercava di evocare un altro mondo
possibile al di là e oltre il mondo comune a tutti.
Invece, sin da quando Magritte inizia a dipingere in modo realistico o addirittura iperrealistico dal punto di vista
della téchne pittorica, egli intende evocare il mistero insito in questo mondo, nel mondo in cui tutti viviamo, il
quale è l’unico mondo che c’è.
Il suo scopo, quindi, non è quello di far evadere lo spettatore da questo mondo, proiettandolo in un’altra
dimensione più profonda, più originaria, più decisiva, appunto la surrealtà dei Surrealisti, bensì è quello di far
sprofondare il più possibile lo spettatore nel mondo, affinché, grazie alla pittura quale manifestazione del
pensiero somigliante, lo spettatore possa sperimentarne il mistero, quel mistero che avvolge e permea ogni cosa
del mondo, ma che normalmente, al di fuori della pittura, gli uomini non sono in grado di sperimentare, in
quanto dediti al pensiero coincidente e obnubilati dall’impero dei segni.
Fintantoché le figure apparenti vengono interpretate come segni-di, da un pensiero esclusivamente logico-
razionalistico modellato sul logos verbale, ogni mistero si dilegua e ci si trova di fronte al dominio incontrastato
e incontrastabile del dato, del noto, del conoscibile, dell’oggetto.
Riuscire a sperimentare il mistero non comporta, però, per Magritte, evadere dal mondo, proiettarsi al di là o al
di qua di esso, trascenderlo quindi, bensì comporta abbandonarsi ad esso nel modo più immanente possibile,
standoci perciò dentro, senza perderlo di vista in tutta la sua complessità.
Ecco che allora, lo scopo di Magritte è quello di non allontanare lo spettatore dal mondo, che è misterioso in
quanto tale, e un mezzo efficace a tal fine è quello di servirsi(strumentalmente) delle similitudini a livello
tecnico proprie di quella che Magritte chiama scienza della pittura,
non rinunciando affatto nemmeno agli espedienti di carattere illusionistico, compreso l’uso della tecnica del
trompe l’oeil quando è il caso.
Perché per Magritte il pensiero pittorico è atto di pensiero autonomo, che può avvalersi dei mezzi e delle
tecniche più idonee ai suoi fini. E la pittura è ANCHE tecnica e anche scienza della pittura e in quanto tale può,
anzi deve, servirsi delle similitudini se ciò si rende necessario per ammaliare lo spettatore e tenerlo legato al
mondo carico di mistero.
Il vizio del Surrealismo sta, invece, nell’indurre lo spettatore attraverso l’arte, ad oltrepassare il mondo comune,
per sperimentare un mistero che non è proprio di questo mondo, ma è altrove e lo trascende.
La risposta che, allora, darà Magritte ai limiti del Surrealismo – che comunque, per Magritte, resta la più
radicale e coerente contestazione della mentalità borghese e di tutte le sue idolatrie – sarà il Manifesto
dell’Amentalismo.
23
romanogasparotti@ababrera.it

Dunque per Magritte il problema non è quello di evadere da questo mondo, non è quello di proiettarsi al di là di
esso alla scoperta del mistero e del vero, perché questo per Magritte è il tipico atteggiamento delle filosofie
letteralmente meta-fisiche, le quali, a cominciare da quella platonica, pongono il mondo vero o la superrealtà
da ricercare al di là e al di fuori del mondo esistente. Restare immersi nel mondo esistente, in quanto è l’unico
mondo che c’è, non comporta, però, per Magritte, aderire agli oggetti dati di questo mondo secondo il pensiero
coincidente, perché tale modalità di esperienza genera l’idolatria del dato e l’idolatria dell’oggetto.
Idolatria del dato e idolatria dell’oggetto che sono la caratteristica principale sia della mentalità borghese, sia
della mentalità razionalistico-scientifica, ma non del pensiero somigliante che si mette all’opera nella pittura.
Riuscire a sperimentare il mistero del mondo, allora, comporta non allontanarsi da questo mondo in tutti i suoi
aspetti visibili, senza, però, cadere nell’idolatria degli oggetti e dei segni e nella superstizione dei significati –
perché tali atteggiamenti quali espressione del pensiero coincidente e non libero precludono ogni possibilità di
sperimentare il mistero, cioè il Senso, cioè l’Impossibile di ogni possibile.
Gli aspetti tecnici della scienza della pittura consentono al pittore di mantenere legato lo spettatore a tutti gli
aspetti visibili del mondo, ma tale scienza e tale tecnica, che comportano un uso anche disinvolto della
similitudine, si devono porre al servizio del pensiero somigliante, che è il pensiero proprio dell’artista quando è
impegnato nel mettere all’opera.
9. L’amentalismo
Il MANIFESTO DELL’AMENTALISMO è fondamentale per comprendere, nel modo migliore, come Magritte
intenda il mistero del mondo quale mistero dell’esistere. Questo Manifesto è anche una risposta al Surrealismo,
una sorta di contro-manifesto, il quale dichiara l’appartenenza di Magritte non al movimento surrealista, ma al
movimento amentalista.
L’AMENTALISMO è, innanzitutto, definito da Magritte una misura di “igiene mentale” consistente “nello
sbarazzarsi dell’abitudine filosofica in tutte le sue forme”
Perché tale avversione per la filosofia? Perché – spiega Magritte – i filosofi e le loro “tristi vittime” vivono
nella fede in un inconoscibile e in entità ignote chiamate, a seconda dei casi, spirito o materia. Magritte giudica
le filosofie correnti come delle visioni parareligiose – basate, quindi, su una forma di fede – le quali anziché
credere in un dio credono nella divinità di un inconoscibile altrettanto trascendente – ossia posto al di là e al di
sopra di tutto ciò che esiste – e altrettanto irraggiungibile ed inattingibile, ma solo infinitamente ricercabile.
Magritte, pertanto, ironizza sull’idolo filosofico di una Verità che può essere solo ricercata all’infinito senza
mai poter essere conquistata, raggiunta, posseduta, sostenendo che ciò condanna i filosofi e le loro tristi vittime
ad una condizione di perenne frustrazione e impotenza.
La vita per i filosofi è dunque priva di qualsiasi gioia e piacere, proprio perché si perde nel vano inseguimento
di una chimera: la verità.
Inoltre, Magritte vede i filosofi come coloro che anziché abbandonarsi alla vita agendo attivamente, non fanno
altro che produrre teorie su teorie, il che condanna il pensiero filosofico alla sterile teoreticità, anche quando
esso vorrebbe velleitariamente intraprendere una via rivoluzionaria, come è accaduto alle filosofie marxista e
marxista-leninista, le quali hanno avuto bisogno di ancorarsi ad una ennesima teoria: quella materialistico-
dialettica.
Tutte queste caratteristiche negative fanno parlare a Magritte di “male filosofico”, il quale conduce
all’impotenza, alla tristezza e alla frustrazione.
L’amentalismo consiste, allora, nel più potente antidoto nei confronti del male filosofico e in esso si
custodiscono le possibilità di ottenere piacere e gioia, da raggiungersi attraverso un atteggiamento pratico(e
non puramente teorico o teoretico) caratterizzato da “una gioiosa indifferenza nei confronti delle inquietudini
filosofiche”.
[NOTA 9 - Magritte non sostiene affatto che l’amentalismo consiste nella negazione dell’atteggiamento
filosofico, perché la negazione è uno dei dispositivi più tipici e propri dell’atteggiamento filosofico stesso, di
fronte al quale l’atteggiamento etico-pratico da tenere è semmai quello della gioiosa indifferenza.]
Dal momento che l’amentalismo è una pratica e non una mera teoria Magritte passa a fornire alcune istruzioni
d’uso al fine di praticare l’amentalismo.
Tali consigli sono esposti secondo la forma di massime generali.
La prima è
24
romanogasparotti@ababrera.it

I. TUTTO AVVIENE NEL NOSTRO UNIVERSO MENTALE


E per tutto Magritte comprende: sensazioni, sentimenti, ragioni, immaginazioni, intuizioni, istinti, idee,
significati…Tutto ciò che riguarda il nostro esistere di animali umani, appartiene al nostro universo mentale, il
quale è intrascendibile, nel senso che non ha nulla oltre di sé, nulla fuori di sé, nulla di altro con cui rapportarsi
II. NON E’ POSSIBILE AVERE NESSUNA COSA TRANNE CHE ATTRAVERSO L’UNIVERSO
MENTALE
Tutto ciò che noi trasmettiamo agli altri così come tutto ciò che noi riceviamo dagli altri – in termini totali di
emozioni, suggestioni, idee, concetti, sentimenti – avviene sempre nella forma di un passaggio da universo
mentale ad universo mentale.
Lo stesso Manifesto che stiamo commentando – dice Magritte - è frutto dell’universo mentale di chi l’ha scritto
e, una volta letto, entrerà nell’universo mentale di chi lo legge in modi e con esiti del tutto imprevedibili e
incontrollabili da parte di chi riceve il messaggio e lo declina a suo modo nel proprio universo mentale a
seconda delle condizioni e delle propensioni del proprio universo mentale.
III.LA NOZIONE DELL’ESISTENZA DELL’AMENTALE E’ LA SOLA CHE POSSIAMO AVERE A
PROPOSITO DELL’AMENTALE
L’universo mentale – dal quale non si scappa, dal momento che tutto avviene nello scambio e nelle relazioni tra
universi mentali - implica anche l’esistenza dell’amentale, del quale, però, a livello mentale possiamo solo
dire che esiste e niente altro. Perché? Perché qualsiasi cosa diciamo determinatamente dell’amentale appartiene
all’universo mentale. Ma l’universo mentale implica la pura esistenza dell’amentale. In che senso? Nel senso
che, secondo Magritte, l’amentale non è altro che il limite stesso del mentale.
L’universo mentale, infatti, in quanto universo, in quanto orizzonte, è circoscritto e quindi ha un suo limite. Non
c’è universo senza limite, non c’è orizzonte senza limite. Il limite, a sua volta, può essere pensato come rivolto
verso l’interno o come rivolto verso l’esterno – pensiamo, per es. al bordo di un foglio da disegno, alla cornice
di un quadro o al confine tra due Stati.
Ebbene, il lato del limite rivolto verso l’esterno è ciò che Magritte chiama amentale.
Di esso si può dire solo che esiste e basta, perché per poter dire che cos’è, per poterlo conoscere e definire
dovrei essere già oltre di esso e invece ogni universo mentale è al di qua del suo limite, non può essere anche al
di là. Al di là del limite di un certo universo mentale c’è solo un altro universo mentale, non c’è l’amentale, che
è il limite stesso di ogni universo mentale.
L’universo mentale è in continua espansione. Attraverso gli scambi e le relazioni tra universi mentali, ogni
universo mentale può espandere(o, al contrario, contrarre) i suoi limiti e ciò è possibile proprio grazie
all’amentale, nella misura in cui l’amentale è il limite stesso del mentale nella sua flessibile elasticità, la quale
consente agli universi mentali di dilatarsi, espandersi o contrarsi all’infinito nelle loro imprevedibili reciproche
relazioni dinamiche.
E’ interessante rilevare che la concezione del limite – e dell’infinito – che Magritte espone trattando
dell’amentale quale limite del mentale, sono pienamente in linea con la concezione matematica del calcolo
infinitesimale, la quale matura nel XVIII secolo, alla luce della rivoluzione epistemologica, che caratterizza tale
secolo sia a livello filosofico, che matematico-scientifico.
Il calcolo infinitesimale – le cui prime elaborazioni si devono a Newton – sarà messo a punto nella sua forma
più compiuta da Leibniz, il quale, prima ancora di essere un filosofo(il filosofo della Monadologia) era un
matematico.
Secondo la teoria del calcolo infinitesimale, l’infinito non è altro che l’attiva tensione verso un suo
indeterminato limitarsi, come nel caso geometrico del poligono, il quale, se pensassimo di moltiplicare
all’infinito i suoi lati, tenderebbe al cerchio, fermo restando il fatto che nessun poligono è un cerchio.
Una tale concezione infinitesimale dell’infinito comporta anche una corrispettiva ridefinizione del limite stesso.
Prima dell’introduzione del calcolo infinitesimale nel XVII secolo, dominava l’idea del limite inteso
semplicemente come limite contenente, il quale circoscrive qualcosa chiudendone i confini. Prima della
rivoluzione filosofico-scientifica del 1600, dominava una concezione statica e rigida del limite-contenente,
secondo la quale il limite era pensabile solo come statico perimetro e chiusa cornice. Gilles Deleuze, nei suoi
studi sulla filosofia di Spinoza, al cui pensiero si era direttamente ispirato Leibniz, sostiene che questa

25
romanogasparotti@ababrera.it

concezione statica e astratta del limite è di tipo essenzialmente tattile, nel senso che il miglior modo sensibile di
percepire tale limite sta nel toccarlo con mano, a livello tattile quindi.
Le idee di Platone, in quanto perfette perché perfettamente limitate, inaugurano, secondo Deleuze, tale
concezione tattile del limite e stano alla base del concetto classico di perfezione, la quale consiste nella perfetta
finitezza. Il limite, in questo caso, è ciò che impedisce che il limitato vada incontro a possibili sviluppi,
modificazioni dei suoi limiti e della sua forma, garantendo quindi il suo essere perfectum(ovvero letteralmente:
avente raggiunto definitivamente il massimo compimento del suo sviluppo, non essendo più suscettibile di
ulteriori modificazioni). L’esatto contrario di tale concezione classica del limite è il concetto di infinito come
ciò al di là del quale c’è sempre indefinitamente qualcos’altro, come secondo la definizione aristotelica di
apeiron, cioè infinito-illimitato-indeterminato. Secondo Aristotele l’infinito non esiste, perché non è atto né ha
forma. Ciò che realmente esiste, secondo Aristotele, è ciò che è in atto(e non semplicemente in potenza), ovvero
la sostanza formata e l’atto è sempre de-terminato, quindi finito, così come la forma è il principio che determina
la pura materia(che, in sé stessa, è pura infinita indeterminatezza) dando luogo alla sostanza. L’infinito,
pertanto, non esiste e non ha alcuna realtà e tuttavia, ammette Aristotele, la sua nozione(priva di esistenza) e
indispensabile a livello di puro pensiero, ossia a livello puramente teorico, perché senza la nozione di infinito il
pensiero non riuscirebbe a risolvere alcuni problemi teorici.
Per il pensiero classico, dunque, ciò che è perfetto è ciò che è perfettamente e compiutamente limitato, mentre
l’infinito no n ha alcuna esistenza né reale né sostanziale.
Nell’età post-classica ed ellenistica, però, qualcosa cambia. Se per Platone la vera realtà sta solo
nell’Idea(eterna, immobile, immutabile nella sua perfetta finitezza) e se per Aristotele la vera realtà sta nella
sostanza attuale(anch’essa perfettamente limitata), per gli Stoici le uniche vere realtà esistenti sono i corpi, i
quali sono fulcri di irradiazione di forza attiva e perennemente in movimento. Per gli Stoici tutto ciò che non è
corporeo non è esistente, ma semmai solo “sussiste”, ossia è pensabile quale caratteristica dei corpi solo
laddove si esplica l’azione reale dei corpi stessi. Tali corpi, essendo fulcri di irradiazione di forza,
continuamente, nel loro movimento relazionale, si contraggono o si espandono e i loro limiti, quindi, non sono
né chiusi, né rigidi, né statici.
Il limite di ogni corpo, pertanto, non è dato una volta per tutte, ma si modifica continuamente a seconda
dell’attività e del movimento del corpo mobile, in modo tale che non si può mai sapere a priori e in anticipo
qual è il limite di un certo corpo, appunto perché le azioni dei corpi sono sempre in progress, sempre in corso
d’opera. Quindi il limite non è più il perimetro statico e dato una volta per tutte così come è dato. Con ciò,
secondo Deleuze, viene meno la tattilità del limite e si passa ad una esperienza ottica del limite stesso.
Il limite diventa un limite dinamico e mai dato a priori, che sfugge ad ogni contenimento di tipo tattile. La sua
natura assomiglia all’irradiarsi di una fonte luminosa, ecco perché è qualcosa di ottico: l’irradiarsi della luce lo
posso seguire a livello visivo, ma non lo posso circoscrivere e contenere a livello tattile.
Il pensiero stoico, in quanto pensiero dominante all’epoca dei primi secoli dell’impero romano, verrà
completamente oscurato dal cristianesimo e la Chiesa, nel medio evo, tornerà al pensiero aristotelico, con la
conseguenza che riprenderà corso la concezione tattile e statica del limite.
Nel Seicento sia in filosofia, sia in matematica, sia in fisica si afferma la concezione dell’infinito attuale, che è
la ripresa e la formalizzazione della concezione ottica del limite di origine stoica. Ora, sulla base della
concezione del calcolo infinitesimale, si dice che ogni realtà infinita ha un termine, nella misura in cui esso
tende all’infinito.
A livello filosofico, Spinoza parla di corpi infinitamente piccoli e infinitamente grandi, i quali non sono atomi e
non sono nemmeno corpi dei quali si è in grado di stabilire esattamente dove arrivi il limite. A partire da ciò, la
teoria matematica degli insiemi parlerà di insiemi infiniti, ossia di un insieme che, nella sua finitezza di
insieme, contiene al suo interno infiniti elementi.
Ebbene, quando Magritte parla dell’amentale quale limite intrinseco dell’universo mentale(che è insieme di
infiniti possibili) riprende tale concezione ottica del limite.
Se ne ricava che l’amentale non è un’altra cosa rispetto al mentale, ma è ciò verso cui tende il mentale nel suo
infinito limitarsi

26
romanogasparotti@ababrera.it

Tali considerazioni magrittiane sul rapporto mentasle/amentale ci consentono di comprendere meglio non solo
la concezione magrittiana del mistero in quanto mistero-dell’-esistere, ma anche il giudizio che Magritte dà del
pensiero logico-razionale e logico-verbale.
In Magritte non c’è alcuna aspirazione all’irrazionalismo puro e nessun ridimensionamento delle funzioni
logico-razionali del pensare. Tutt’altro. Per Magritte tutto, a livello umano, passa attreaverso l’universo
mentale, che è tutto ciò che abbiamo. E l’universo mentale non può affatto prescindere dalla componente
logico-razionale, anche quando esperisce sentimenti, emozioni, passioni, i quali, in quanto emozioni, passioni,
sentimenti umani, non sono mai completamente privi di qualsiasi rapporto con l’elemento razionale. Ma gli
universi mentali, nella misura in cui possono espandersi(o contrarsi) non possono non fare i conti con
l’amentale che costituisce il limite del mentale stesso. Un limite tendente all’infinito, del quale si può DIRE
solo che esiste, ma non che cos’è, in maniera tale che esso sia destinato a rimanere un inviolabile mistero, il
quale non sta oltre il mondo e oltre gli universi mentali, perché il limite non può stare al di là del limitato,
essendo per l’appunto ciò che delimita il limitato stesso.
Qualsiasi cosa dica del limite, ovvero dell’amentale, ovvero del mistero, dico qualcosa che appartiene al
mentale e quindi è al di qua del limite.
Il pensiero logico-verbale, in quanto pensiero-che-dice, non può che restare al di qua del limite,
precludendosi l’esperienza del mistero.
Il pensiero pittorico, in quanto pensiero-che-mostra, è l’unico che, privo dell’impedimento dei segni
linguistici – che trattengono e vincolano all’interno del limite dell’universo mentale - può sperimentare il
protendersi del limite all’infinito nel suo indeterminato autolimitarsi.
L’amentale, pertanto, non ha nulla a che fare con la Verità della malattia filosofica, perché non è ciò che può
essere solo cercato senza poter essere mai trovato(con conseguente frustrazione e tristezza). L’amentale è ciò
che può essere PRATICATO, ESERCITATO, nell’esercizio di un PENSARE-AL-LIMITE
Scrive MAGRITTE nella conclusione del Manifesto:
“l’amentalista è colui che preferisce il piacere all’intelligenza e per il quale l’intelligenza non ha valore se non
nella misura in cui può servire ad aumentare o provocare il piacere”
Tale piacere può essere sperimentato, secondo Magritte, nella pratica dell’”isolamento” del mentale. In che
senso “isolamento” del mentale? Quella dell’isolamento del mentale è la pratica ottica che consiste nello
sperimentare il limite, nella misura in cui limita, ossia nella misura in cui delimita l’universo mentale nelle sue
possibili espansioni e contrazioni. Con ciò Magritte ribadisce che la questione non è quella di trascendere il
mentale, come fanno le filosofie idealistiche e come fanno anche i surrealisti, ma semmai di “isolare”, ossia di
stare-al-limite, rispettando il senso del limite. Questa è l’esperienza del mistero. Questa è l’esperienza
dell’esistere(quale existere).
E l’isolamento dell’universo mentale è possibile solo in virtù dell’amentale che ne costituisce il limite
isolante(non, però, in maniera statica e rigida, bensì flessibile e dinamica).
Solo quindi nella pratica dell’isolamento del mentale noi possiamo sperimentare il mistero dell’amentale,
appunto perché il mentale non è affatto in relazione con l’amentale, in quanto un universo mentale è sempre e
solo in relazione con altri universi mentali.
Dovrebbe apparire chiaro, allora, che la pratica pittorica del pensiero somigliante non è affatto un’esperienza
della negazione del mentale, ma semmai è un esercizio di isolamento del mentale, quale pratica del pensare-al-
limite.
Il che rende la pittura una pratica ottica nell’accezione deleuziana del termine.
Nel testo “La vera arte pittorica”, Magritte scrive che la pittura “è un’arte di pensare, la cui esistenza
sottolinea l’importanza del ruolo che nella vita dell’uomo hanno gli occhi(…). L’arte pittorica ha lo scopo di
rendere perfetto il funzionamento dello sguardo, grazie ad una percezione visiva pura”
Che cosa intende Magritte per “percezione visiva pura”? Tutt’altro che “un funzionamento meccanico degli
occhi”, che resta alla superficie delle cose.
Il pittore è colui che proietta in profondità lo sguardo cercando di seguire l’infinito tendere del limite.
Nell’infinita perfettibilità del guardare.

27
romanogasparotti@ababrera.it

Parte Seconda DUCHAMP

II.1 Marcel Duchamp e l’oltrepassamento della pittura retinico-olfattiva


Uno degli artisti, attraverso i quali lo spirito dadaista si è realizzato e prolungato ben oltre i limiti temporali
dell’avventura Dada è Marcel Duchamp.
Nato nel 1887 vicino a Rouen, a soli 25 anni abbandona quella che egli stesso aveva definito pittura
olfattiva(per il caratteristico odore di trementina) e pittura retinica – in quanto realizzantesi nelle forme e figure
visibili, che essa offre alla percezione sensibile. Siamo nel 1913, quando in concomitanza con l’esposizione del
suo ultimo dipinto ancora “retinico” Nu descendant un escalier n.2, l’artista realizza con la Roue de bicyclette il
suo primo ready made.
Da quella data in poi, Duchamp, pur avendo abbandonato la pittura olfattivo-retinica, continua, a suo giudizio,
ad operare artisticamente all’interno dell’universo pittorico, dedicandosi a quella che egli chiama pittura-idea.
Dove sta la differenza tra la pittura retinica e la pittura-idea?
La prima è considerata da Duchamp la pittura che si risolve totalmente in ciò che, dell’opera, si offre alla pura
percezione visiva, il che, di norma, tende a concentrare l’attenzione sul mero referente del quadro, ossia su ciò
che il quadro mostra, sull’oggettività esteriore di quanto viene ad essere raffigurato, attraverso la stesura dei
colori odorosi di trementina, sulla superficie della tela.
Nel 1913, però, Duchamp ha ormai deciso di intraprendere la strada dell’ opera oltre l’oggetto9, in quanto è
convinto del fatto che l’opera artistica propriamente agisce in quell’intervallo indeterminato, che si apre tra
l’oggetto empirico con il quale può avere a che vedere l’opera e le molteplici relazioni possibili, che tale
oggetto genera o che lo coinvolgono ai più diversi livelli.
Duchamp ha ormai, infatti, maturato la convinzione, che ritroveremo poco dopo nei Manifesti del movimento
DADA, secondo la quale l’opera d’arte in quanto tale non è mai totalmente oggettivabile. L’opera d’arte non
coincide mai in toto con i suoi oggetti, in un duplice senso:
1)Nel senso che l’opera d’arte non è mai quel determinato oggetto fisico nel quale sembrano terminare molte
forme del fare artistico stesso(a cominciare dalla pittura e dalla scultura). Anche a proposito del quadro, l’opera
non si identifica totalmente ed esclusivamente con quell’oggetto circoscritto dalla cornice, il quale, appena
dipinto, odora di trementina, ha un certo formato, un certo peso, un certo spessore e può essere appeso alla
parete o appoggiato al muro. L’opera d’arte ha a che fare certamente anche con quel determinato oggetto, ma
non solo con esso. Tant’è vero che sono sempre state considerate espressioni artistiche a pieno titolo anche
manifestazioni che non danno luogo propriamente a degli oggetti, come la musica e la danza, le quali, in certi
periodi o secondo certi punti di vista sono addirittura state considerate più originariamente ed essenzialmente
artistiche delle stesse pittura e scultura, basti pensare alla filosofia dello stoicismo ellenistico e
romano(Cicerone), alle filosofie tardo-moderne di Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, a molte pratiche
artistiche della seconda metà del ‘900 incentrate sull’azione, sulla performance e sugli happenings e alla
filosofia dell’ultimo Derrida.
Secondo Duchamp, anche quando l’azione artistica sembra non poter prescindere dagli oggetti nei quali essa si
manifesta e ricade o con i quali evidenzia di avere a che fare, tali oggetti svolgono la loro fondamentale e
innegabile funzione artistica quali mezzi, strumenti, supporti ed effetti dell’opera, ma non sono l’opera d’arte in
quanto tale. Come nella musica e nella danza, in fondo...
Quindi, rispetto al quadro, esso non sta tutto e solo all’interno di ciò che è delimitato e chiuso dalla cornice.
Anche nel caso dei quadri meramente “retinici”.
Una delle prime conseguenze che Duchamp trae da ciò, come si desume dai suoi scritti, è il fatto che in arte non
esiste progresso, dal momento che il progresso riguarda solo la storia degli oggetti. Scrisse Duchamp:
“L’arte(…)non è una questione di progresso. Il progresso è solo una pretesa esorbitante da parte nostra.”10

9 Cfr. R.Gasparotti, L’opera oltre l’oggetto, Moretti&Vitali, Bergamo 2015


10 M. Duchamp, Dichiarazioni raccolte da James Johnson Sweeney, trad. it. in Marcel
Duchamp, a cura di E. Grazioli, Marcos y Marcos, Milano 1993
28
romanogasparotti@ababrera.it

E a chi è convinto di aver fatto un grande investimento, puntando sul valore dell’arte del passato, avendo
acquistato, per esempio, un Holbein(XVI sec.), Duchamp replicava: “sono il telaio o la tela o il legno che
costano caro, perché hanno cinquecento anni”!11
Un dannoso equivoco, dal quale Duchamp intende liberare l’approccio all’arte, è quello secondo il quale, per
esempio, se il quadro mostra, raffigurandolo, un certo oggetto, è come se l’arte volesse trattare, parlare di
quell’oggetto. In questo caso, è come se l’arte all’opera si esaurisse tutta nel portare l’attenzione dello spettatore
o del fruitore su quell’oggetto, o quegli oggetti esibiti pittoricamente, esaurendosi semplicemente in una forma
di COMUNICAZIONE, oltretutto uniformata al modello dominante della comunicazione linguistico-verbale.
Le figure esibite dal quadro, infatti, in questo caso, indicano degli oggetti esattamente come fanno le parole di
un discorso.
[NOTA I - E’ questo un equivoco assai radicato, al quale non sono sfuggiti nemmeno autorevolissimi filosofi,
come lo stesso Heidegger. Quest’ultimo, in quel famoso saggio del 1936 intitolato L’origine dell’opera d’arte,
che, pure, per altri aspetti, viene considerato una delle massime espressioni della filosofia dell’arte del ‘900,
prende lo spunto da un noto quadro di Van Gogh, appartenente ad una serie di oli aventi come soggetto, ossia
come referente visivo principale delle vecchie calzature e lo interpreta considerandolo esclusivamente dal
punto di vista del referente visibile stesso, che appare in primo piano sulla tela, ossia a partire da ciò che,
secondo il filosofo, è un paio di scarpe da contadino indossate da una contadina. E’, infatti, proprio a partire da
una riflessione su ciò che è implicato da questi zoccoli di contadina raffigurati sulla tela del quadro
vangoghiano, che Heidegger giungerà a dimostrare come l’opera d’arte è la messa all’opera della verità quale
verità dell’essere. Heidegger dichiara di aver interrogato quel quadro di Van Gogh, nella misura in cui “il
quadro ha parlato”, ma, ammettendo anche che il quadro abbia “parlato”, esso ha parlato di scarpe?
Il carattere alla fine grottesco di questa operazione è emerso ulteriormente quando, a distanza di circa
trent’anni, un insigne storico dell’arte come M. Schapiro, in maniera assai documentata, giungerà a sostenere
che, invece, quelle calzature fossero appartenute ad un uomo(e non a una donna) e per di più di città(non di
campagna), ossia – colpo di scena - all’autore stesso: Van Gogh! Ebbene, se anche questa fosse la “verità” delle
scarpe raffigurate in quel quadro, l’artisticità dell’opera si riduce a questo?]
Sta di fatto che Duchamp, a partire dal 1913, abbandona la pittura olfattiva e la pittura meramente retinica,
volendo esplorare le POSSIBILITA’ dischiude dal fare arte. Duchamp, infatti, considera l’arte la figurazione di
un possibile. E lo fa proprio in una Nota scritta nel 1913, nell’anno della svolta, ossia dell’abbandono definitivo
della pittura olfattiva e retinica. Se leggiamo per intero questa Nota [vedi p.87 della raccolta di Scritti di
Duchamp tradotta e pubblicata in italiano dall’editore Abscondita], l’arte è il figurarsi all’opera di un possibile,
che l’opera lascia e mostra nella sua pura possibilità intesa nel modo più radicale.
Duchamp chiarisce che quando egli parla del possibile in relazione all’opera artistica, egli intende la parola
‘possibile’ né come il contrario di ‘impossibile’, né come subordinato al verosimile, né come sinonimo di
probabile.
Ricordo che probabile, etimologicamente, significa ciò che può essere approvato e quindi, in tal senso, rinvia
alla verosimiglianza o, comunque, alla sua conformità rispetto ad una realtà data, venendo così a perdere la sua
natura di puro possibile.
Dal punto di vista matematico-statistico, la probabilità sta nella determinazione del grado di prevedibilità di
eventi futuri sulla base del calcolo della frequenza di eventi simili già accaduti.
Ma, per Duchamp, il possibile non è mai subordinato né al reale, né al verosimile, in quanto il possibile può
eccedere qualsiasi realtà e qualsiasi verosimiglianza e non tollera di essere vincolato a nessuna realtà data e
determinata. Appunto perché il possibile, in quanto tale, comprende lo spettro infinito delle possibilità
egualmente compossibili. Per questo, esso non è nemmeno il contrario dell’impossibile. Anzi, l’impossibile è
incluso nell’orizzonte infinito del possibile stesso. Insomma, secondo Duchamp, il possibile non è ciò che
risponde alla domanda ‘Domani che tempo fa, bello o cattivo?’ sulla base di una più o meno ristretta gamma di
opzioni verosimili rispetto alle probabili condizioni temporali (a partire dalle quali, in questa stagione, la
risposta è vincolata, dal momento che domani potrebbe verosimilmente esserci il sole, essere nuvoloso, piovere

11 M. Duchamp, Conversazione con Otto Hahn


29
romanogasparotti@ababrera.it

o nevicare, ma non grandinare per esempio) delle quali opzioni in ogni caso una sola si verificherà escludendo
tutte le altre.
Perché POSSIBILE implica la aperta compresenza della totalità delle possibilità possibili compresa quella che
domani non ci possa essere più alcun domani – ovvero l’impossibile!
La possibilità, radicalmente intesa, comprende la propria stessa impossibilità, ossia l’impossibilità di ogni
possibile.
[NOTA 2 – Il pensiero occidentale, sin dall’età classica, si è reso conto degli ingestibili rischi connessi al
POSSIBILE, tant’è vero che ha sempre cercato di addomesticarlo in diversi modi. Innanzitutto subordinando e
vincolando il possibile al reale, sino a considerare possibile solo la scelta all’interno di una certa ristretta
gamma di opzioni date.
Aristotele ha pensato il possibile trattando della potenza(dynamis) e della materia – infinite e indeterminate in
quanto tali – ma all’interno di una concezione fondata sul primato e sulla realtà dell’atto(entelécheia), il quale,
nel suo realizzarsi nega, ogni volta, la potenzialità presupposta, in maniera tale che reale è sempre e solo l’ente
attuale formato, ovvero la sostanza determinata.
Aristotele considera potenza e atto un binomio indissolubile sì, ma a partire dal necessario e incontrovertibile
primato dell’atto, che è sempre anteriore rispetto alla potenza, la quale indica la possibilità ricostruibile solo a
posteriori quando si è realizzato l’atto e a partire dall’essersi realizzato di quel certo determinato atto.
Io posso dire che quest’albero ora in atto ha perso le foglie in quanto aveva già potenzialmente la possibilità di
perderle anche in pieno luglio, solo dopo che l’albero si è attualmente mostrato autunnalmente spoglio. DEVO
AVERE GIA’ L’ATTO PER POTER DIRE CHE ESSO, PRIMA DI ESSERE TALE, ERA GIA’ IN POTENZA,
OSSIA ERA POSSIBILE IN QUANTO NON ANCORA REALE/REALIZZATO.
Analogamente posso dire che l’albero fiorito in primavera ha manifestato i suoi fiori, in quanto aveva già in sé
la potenza/possibilità di farlo, solo quando i fiori sono attualmente apparsi. Perché non prima?
Perché Aristotele si rende conto del fatto che la potenza/possibilità, considerata da sola in quanto tale, NON è
NIENTE e ciò avrebbe un effetto vanificante rispetto a qualsiasi realtà, in quanto il NI-ENTE(=nessun ente
determinato) del POSSIBILE identificherebbe infinitamente e indifferentemente tutto e il contrario di tutto e
renderebbe lecito dire non solo che un albero di melo in fiore potrebbe in estate produrre in atto banane, ma
anche ammettere che quell’albero di melo possa diventare una fabbrica di scarpe e così via…
Insomma, la possibilità lasciata allo stato puro e svincolata rispetto al primato e all’anteriorità della realtà
attuale sovvertirebbe ogni principio di realtà, nella violazione del principio di non contraddizione, e non
consentirebbe di giustificare l’apparire di qualsiasi realtà determinata. Infatti, chiediamoci(come si domanda
Aristotele): se la possibilità/potenzialità fosse anteriore e venisse prima di ogni realtà attuale, da dove
scaturirebbero gli enti determinati che percepiamo con i sensi? Dal nulla? No, dal nulla, per i greci, è
impossibile: ex nihilo nihil fit!
Ma se qualcosa di determinato appare esso deve pur avere una provenienza, nella misura in cui esso non è
eterno, e la provenienza non potrebbe essere il nulla(cioè un nulla di provenienza=nessuna provenienza!). Per
questo Aristotele si trova costretto a dire che l’ente in atto proviene dal suo essere in potenza, ossia dall’essere
possibile ma non ancora reale. Ma la potenza/possibilità non può venire prima, perché non appare – in quanto,
secondo Aristotele, appare solo ciò che è determinatamente uno, ossia l’ente determinato in atto, la cui forma ha
“avvolto” e circoscritto la materia(che è il corrispettivo della potenza, nella coppia materia/forma, che è
perfettamente analoga alla coppia potenza/atto), eliminando tutte le possibilità possibili fuorché una(quella che
si è realizzata in atto).
Inoltre, allo scopo di vincolare ancora di più la possibilità/potenza alla attualità/realtà, Aristotele sostiene anche
che, se ogni movimento/mutamento è sempre il passaggio da ciò che è in potenza a ciò che è in atto - passaggio
considerato sempre, però, retrospettivamente a partire da ciò che è in atto, ossia dal suo risultato – questo
passaggio è avvenuto in quanto causato necessariamente da un altro ente, che, per esercitare tale ruolo causale e
causante, deve essere già in atto.
D’altro canto Aristotele non vuole eliminare totalmente la potenzialità/possibilità, perché? Perché altrimenti
non riuscirebbe a spiegare e a giustificare la provenienza, il passaggio, il mutamento di condizione da…a…,
che ogni divenire comporta e la realtà finirebbe per diventare una realtà immobile ed immutabile come quella
dell’Essere parmenideo.
30
romanogasparotti@ababrera.it

Al tempo stesso, però, la potenzialità ammessa per giustificare il divenire di ciò che si muove e muta, deve
essere blindata attraverso la sua subordinazione all’attualità, in modo da far trionfare sempre il principio di
realtà.
Nel ‘900, però, il filosofo Bergson sosterrà che, per riconciliarci con la vita vivente, il pensiero dovrebbe
riappropriarsi del possibile, senza subordinarlo più al primato della realtà attuata, cominciando a pensare che “il
possibile è più del reale”, in modo tale che il peso ostruente e opprimente del reale possa essere continuamente
sgravato e alleggerito, riportando ogni volta il reale al possibile e non viceversa. ]
Secondo Duchamp, il pensiero che si mette all’opera nell’arte non può che essere proprio il pensiero possibile
del possibile nelle azioni in cui esso si manifesta.
La conclusione della Nota di Duchamp, dice che il possibile, inteso nella sua radicale purezza, ha il potere di
agire come mordente, come se fosse del vetriolo, il quale brucia ogni estetica e ogni callistica.
Per callistica si intende ogni metafisica della bellezza, ossia ogni concezione dell’arte che giudica l’opera
rispetto ad un modello eterno, immutabile e trascendente di Bellezza.
Ricordiamo che il movimento DADA riteneva che l’opera d’arte non fosse in alcun modo valutabile né
giudicabile sulla base del bello e del brutto moralisticamente intesi, ossia concepiti secondo il modello morale
di buono e cattivo.
Ogni morale è tale nella misura in cui pone in assoluto ciò che è bene e il suo contrario ciò che è male, in modo
da prescrivere inderogabilmente la necessità sempre e comunque di seguire ciò è universalmente e
incontrovertibilmente Bene ed evitare ciò che è universalmente e incontrovertibilmente Male. La tavola dei 10
comandamenti sta all’origine di ogni morale.
Una volta che abbiamo sostituito al bene e al male il bello e il brutto, abbiamo quella che Duchamp chiama
callistica.
Ma l’opera d’arte, per Duchamp e per Dada, come è al di là dell’oggetto, così è sempre al di qua e al di là del
bello e del brutto.
Sono gli oggetti ad essere belli o brutti, a seconda dei gusti personali o dell’applicazione di certi criteri di
giudizio.
Ma l’arte all’opera – sottolinea Duchamp – è e resta del tutto INDIFFERENTE rispetto ad ogni gusto personale,
così come rispetto a qualsiasi valutazione bello/brutto.
Proprio perché la sua dimensione è quella della pura possibilità! E il possibile è ciò che necessariamente sfugge
ad ogni determinazione, ad ogni cattura, ad ogni possesso, ad ogni identificazione.
Duchamp poi aggiunge anche che l’arte come figurazione di un possibile brucia anche ogni estetica. Cosa vuol
dire Duchamp con ciò?
Innanzitutto Duchamp considera il termine estetica nella sua accezione etimologico-letterale: estetica deriva da
aisthesis che, in greco, significa percezione sensibile. E per Duchamp, come si è già detto, l’opera d’arte non è
MAI totalmente riducibile a ciò che di essa appare sensibilmente. Proprio per questo Duchamp vuole spingersi
oltre la pittura olfattiva e retinica!
L’arte all’opera non è mai ciò che si identifica ad un oggetto fisico-sensibile, nel quale la possibilità è già stata
oltrepassata e negata. “Usare ritardo al posto di quadro”, scrive Duchamp all’inizio delle Note contenute nella
Boîte Verte confezionata nel 1914 e pubblicata in 300 esemplari contenenti le riproduzioni di tutti gli studi e
schizzi preparatori e accompagnatori della realizzazione dell’opera il Grande Vetro, assieme agli appunti stesi
da Duchamp a Monaco, Parigi e New York tra gli anni 1912 e 1915.
Perché quando io mi concentro sull’oggetto-quadro nella sua dimensione esclusivamente “retinica”, sono
costretto ad aderire ad una realtà determinata, dove il possibile, in cui consiste l’opera, è stato già
definitivamente superato e negato. Con la conseguenza che ci troviamo ormai irrimediabilmente in
irrecuperabile ritardo rispetto alle possibilità proprie dell’arte all’opera in quanto tale e siamo pronti, invece, per
consegnarla all’estetica(nell’accezione indicata) e alla callistica.
In senso più lato, per estetica Duchamp intende anche ogni approccio all’opera d’arte che finisce per attribuire
un significato a ciò che sensibilmente appare.
Il fatto è che per Duchamp l’opera d’arte è ciò che inevitabilmente suscita e attira inevitabilmente su di sé un
continuo significare e risignificare, restando, però, sempre indifferentemente immune – nella sua aseità –
rispetto a tutti i molteplici significati possibili che ad essa vengono attribuiti, nessuno dei quali cattura, né
31
romanogasparotti@ababrera.it

possiede, né identifica, né risolve l’opera, la quale rimane sempre vergine – come la Sposa del grande vetro -
rispetto a qualsiasi significazione. Anche le significazioni attribuibili all’opera sono possibili e quindi nessuna
di esse in particolare identifica l’opera e la inchioda ad un certo significato. Del resto, il Senso si custodisce
nell’Impossibile, come dirà un altro grande artista novecentesco come Magritte.
Da parte sua, Duchamp pone in rilievo come ogni determinata figurazione , secondo la quale, di volta in volta,
il possibile viene ad apparire artisticamente, è destinata ad essere immancabilmente oltrepassata. Oltrepassata,
ma non negata. Perché l’opera esige, chiama e invita potentemente ad andare oltre ogni determinato significato
– senza che ciò implichi la negazione delle significazioni – e anche oltre determinata figurazione, in cui pure
essa si rende visibile sensibilmente. Proprio perché nessuna determinata figurazione identifica ed esaurisce il
senso dell’opera stessa, così come nessun significato tra i possibili attesta che: l’opera vuol dire questo.
Se allora superare la pittura olfattiva e la pittura retinica, secondo Duchamp, comportò andare verso una pittura-
idea, come egli disse, tale approdo non indica affatto una pittura concettuale, nell’accezione più corrente del
termine. Il motivo sta nel fatto che se la pittura non può ridursi totalmente ed esclusivamente a ciò che di essa
viene percepito a livello meramente retinico, così anche essa non può nemmeno essere ridotta all’illustrazione
di un concetto o di una idea, per quanto chi fa esperienza dell’opera possa sempre associare – questo è il
termine usato da Magritte – concetti o idee ad un certo quadro o ad una certa opera d’arte. Il fatto è che come
ciò che appare a livello puramente retinico va TRA-GUARDATO, analogamente va oltrepassato, vale a dire
ULTRA-PENSATO, anche qualsiasi significato e qualsiasi concetto attribuibile all’opera stessa.
Questo aspetto, secondo le indicazioni suggerite da un altro grande artista del ‘900 COME Yves Klein, era già
stato messo in rilievo da Eugene Delacroix, nei suoi Diari, in un passo citato come emblematico da Klein nella
sua Conferenza alla Sorbonne:
“Guai al quadro che non mostri niente al di là del finito! Il merito del quadro è l’indefinibile: ciò che sfugge
appunto alla precisione”.
Non è arte ciò che non mostra nulla oltre la determinatezza del finito che sta sotto gli occhi, come afferma il
grande pittore romantico francese, particolarmente apprezzato, com’è noto, anche dal poeta Baudelaire.
L’artisticità del quadro consiste in ciò che esso ri-vela attraverso ciò che si mostra, OLTRE ciò che di esso è
sensibilmente e precisamente osservabile, laddove tale eccedenza, che si dischiude al di là della finitezza del
quadro stesso, è qualcosa di “indefinibile”.
Il filosofo italiano Emilio Garroni, a questo proposito, scrisse che lo sguardo che l’opera d’arte esige non è un
semplice guardare, non è il semplice guardare sensibile, ma è semmai un TRA-GUARDARE, nel senso che
parte da un percepire sensibilmente l’osservabile per spingersi inevitabilmente, a partire da esso e senza mai
trascenderlo, oltre di esso, verso quel non-osservabile, che ogni opera d’arte custodisce nella sua eccedenza.
Questo tipo di esperienza, secondo Garroni, è simile a quella che ci è stata indicata poeticamente da Giacomo
Leopardi nell’idillio L’infinito, nel quale la protagonista è proprio la siepe, nella misura in cui essa attraverso la
sua corposa visibilità sensibile in primo piano occupa la totalità della scena visiva. Il poeta, infatti, ama vedere
solo la siepe, perché solo così egli ha la possibilità di attivare contemporaneamente un altro tipo di vista, non
più meramente sensibile: quella dell’immaginazione…
La siepe visibile, in tal modo, è ciò che offre la possibilità di fingere nel pensiero – “io nel pensier mi fingo” –
ossia di plasmare, di dipingere col pensiero qualcosa che non è direttamente osservabile a livello sensibile, ma è
indotto e reso possibile dall’osservato medesimo. Se il poeta di Recanati, dall’alto del colle dove amava cercare
la solitudine, avesse visto direttamente anche ciò che la siepe nasconde, non avrebbe più potuto abbandonarsi
all’immaginazione, perché avrebbe visto direttamente tutto quello che c’è nel dettaglio. E invece è proprio
guardando la siepe, ovvero attraverso la siepe, ben in mostra in primi piano, che si dischiude la possibilità di
evocare “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”, ossia quell’universo del possibile che si annuncia in una
fantasmagoria di pure immagini apparenti/sparenti.
Duchamp, da parte sua, per indicare un’esperienza analoga di guardare-attraverso, nella Scatola Verde, ha usato
l’espressione Quadro di cerniera. Ogni quadro funge da cerniera, tra l’osservabile e quell’indefinito che
l’osservabile evoca.
Tale caratteristica si addice sia al Grande Vetro, sia, forse in maniera ancora più esemplare, all’ultima opera di
Duchamp, quella che, a detta di molti, rappresenta il suo testamento artistico: Dati:1) la caduta d’acqua; 2)il
gas d’illuminazione (1946/66).
32
romanogasparotti@ababrera.it

Come dice il titolo - e per Duchamp il titolo di un’opera è di estrema importanza, anzi è elemento essenziale come
il colore e il disegno nella pittura, come disse Duchamp stesso – quest’opera in quanto concreta figurazione di un
possibile offre allo sguardo alcuni essenziali dati sensibili. Il primo dato evidente è una vecchia porta di legno
chiusa e incardinata all’interno di una cornice di mattoni. In alto a sinistra si nota il ritaglio di una finestrella dello
stesso legno della porta, che, però, è anch’essa chiusa, il che rende, di prim’acchito, questa soglia del tutto
impenetrabile. E’ una porta che non si apre, ossia il contrario di ciò che dovrebbe essere una porta, la quale di
norma dovrebbe girare sui suoi cardini per fare da soglia e consentire il passaggio…Se il visitatore si avvicina
maggiormente, però, ecco che compaiono sulla superficie della porta due fori posti proprio all’altezza media degli
occhi di un possibile guardante o addirittura guardone(nel senso del voyeur). La presenza di questi fori ad altezza
d’occhio induce ogni semplice spettatore a comportarsi da “testimone oculare”, come nel grande Vetro o
addirittura come un perverso voyeurs, spiando come dal buco della serratura... La presenza dei fori – che
rappresentano un altro dei dati - alimenta il desiderio perverso di guardare attraverso di essi. E sbirciando,
dapprima appare un generico ALTROVE dall'atmosfera luminosa e arcana e poi, avvicinandosi di più e
focalizzando meglio lo sguardo, ecco che appare oltre la porta – a distanza, una distanza impercorribile,
invalicabile - l’immagine enigmatica di una strana ragazza nuda, presumibilmente vergine, stesa tra l’erba, con il
volto nascosto dalla fluente capigliatura, ma con in bella mostra una vulva completamente depilata e ben aperta.
Il suo braccio destro esce dal campo visivo dello sguardo, mentre l’altro braccio regge una piccola lampada a gas
di vetro e metallo, che è accesa nonostante la luce estiva che avvolge la scena. A questo punto lo sguardo può
spaziare ancora oltre, verso le colline sullo sfondo, alcune rocce e una cascata sotto un cielo azzurro offuscato. In
un silenzio assoluto. Non è affatto comodo, però – oltre che piuttosto indecente - spiare tutto questo da parte dello
spettatore divenuto voyeur, il quale in tal modo è riuscito a configurare in un certo modo i dati visivi offertigli
dall’oggetto/opera. A questo punto lo spettatore si ritrae e si ritrova di nuovo al cospetto della impenetrabile porta
chiusa sulla cui cornice vi è il titolo dell’opera. E l’esperienza del guardare-attraverso è sempre pronta a
ricominciare….In questo caso, sono proprio gli spettatori, cioè i guardoni TRA-GUARDANTI, coloro i quali
riescono a guardare-attraverso il quadro cerniera, che fanno l’opera, come Duchamp ha ribadito più volte.
II.3. Che cosa offre l’artista?

In un intervento alla riunione dell’American Federation of Arts a Houston(Texas), Duchamp dichiarò che l’artista
si limita a offrire un semplice “coefficiente d’arte” – nella forma di una pura relazione tra “’ciò che è
inespresso, ma era progettato’ e ‘ciò che è espresso non intenzionalmente’”12 – il quale puro coefficiente
potenziale dovrà essere “raffinato” ed elaborato dallo spettatore, affinché possa darsi ciò che viene chiamato
quadro.
In questo modo Marcel Duchamp sostiene che il proprium dell’opera d’arte è in primis una RELAZIONE. Non
una certa cosa, non un oggetto e nemmeno un’idea o concetto, bensì essenzialmente una relazione. Detto questo,
Duchamp precisa che tale RELAZIONE consiste, in primo luogo, tra quanto l’artista stesso ha progettato ma non è
risultato espresso così com’era stato progettato nelle intenzioni preliminari dell’artista e ciò che si manifesta e
continua a manifestarsi incessantemente al di là di quelle che potevano essere state le determinate intenzioni
dell’artista medesimo. Quest’ultimo, pertanto, opera come non potrebbe che fare qualsiasi homo faber, ossia
progettando e cercando di dar corpo a quanto è stato anticipato e prefigurato idealmente a livello di progetto, ma
ciò che prende forma a partire da ciò sorprende per primo l’artista medesimo. Quanto è lì manifesto come opera
d’arte è un “coefficiente” potenzialmente aperto e perennemente in progress, il quale si riconfigura ogni volta in
quanto effetto di una molteplicità aperta di relazioni, le quali coinvolgono l’artista – il quale non è il creatore, né
l’artefice e nemmeno il produttore originale dell’opera, ma semmai un semplice medium – e tutti coloro che, nei
più diversi modi, hanno ed avranno a che fare con ciò a cui l’artista ha dato solo il primo input.
Affermando ciò, ancora una volta Duchamp si guarda bene dal proporci una sorta di nuova visione o concezione
alternativa del fare artistico. In realtà mantiene e riprende tutti gli elementi tradizionali che la riflessione
occidentale sulle pratiche artistiche ha sottolineato: c’è il progetto preliminare dell’artista, cui sono le sue
intenzioni originarie, c’è la manifestazione di quanto progettato, c’è il ruolo attivo dei fruitori e degli spettatori…
Ma questi dati o elementi “trovati” e accettati concorrono nel presentare l’opera d’arte come un plesso di relazioni

12 M.Duchamp, Op. cit., p.162


33
romanogasparotti@ababrera.it

aperte all’opera e sempre in corso d’opera, ovvero sempre in procinto di farsi e di autocostruirsi. Sono, per
l’appunto, relazioni possibili, a conferma del fatto che l’arte è figurazione di un possibile.
Octavio Paz, nel libro su Duchamp L’apparenza nuda, sostiene che le opere dell’artista mostrano “Un’arte che
obbliga lo spettatore e il lettore a trasformarsi in artista e in poeta”(p.75)
Nella sua indagine sull’opera di Duchamp, Paz – che, non dimentichiamolo, è un poeta, premio Nobel per la
letteratura - si sofferma a lungo sul rapporto di Duchamp col linguaggio, mettendo in risalto il fatto che Duchamp
fu sempre affezionato e attratto dal linguaggio verbale sì, ma nella misura in cui esso è “lo strumento più perfetto
per produrre significati e ugualmente per distruggerli”(Paz, p.18)
Duchamp è interessato al linguaggio verbale non in quanto macchina di produzione di significati, i quali, una volta
prodotti si depositano e stanno lì in modo permanente, bensì, secondo Paz, in quanto capace di scatenare continui
cortocircuiti tra la produzione dei significati e la loro contemporanea, istantanea autodistruzione. Anche rispetto al
mondo dei significati portati dal linguaggio delle parole – quali unità di significante e significato – l’arte in quanto
figurazione del possibile sviluppa il suo potere corrosivo e dissolvente. Questo spiega la predilezione di Duchamp
per i giochi di parole e per il nonsense, i quali esaltano al massimo i poteri di significazione del linguaggio al fine
di decostruirli e di mandare il linguaggio fuori giri...
Paz parla dell’uso da parte di Duchamp della META-IRONIA. In che senso? In quanto essa è un’ironia sull’ironia,
un’ironia portata alla ennesima potenza, la quale salva l’ironia stessa dal cadere nella trappola logica della
negazione. La semplice ironia, infatti, spesso è usata quale semplice maschera della negazione. Per esempio, ad
uno studente che ha fatto scena muta all’esame, il docente può dire ironicamente: “Hai fatto proprio un
bell’esame!” Applicare l’ironia sull’ironia sull’ironia…evita tale effetto paralogico.
Del resto, l’arte, anche per Duchamp, come ormai sappiamo, non è mai pura e semplice espressione del pensiero
logico, per quanto sia a pieno titolo manifestazione di pensiero pensante/pensato all’opera…
Tristan Tzara, nei suoi Manifesti sul dadaismo, disse che l’arte è AL DI Là DEL Sì E DEL NO e quindi l’arte non
conosce opposizioni logiche, né pratica la negazione.
In particolare, il linguaggio verbale, nelle opere di Duchamp, interviene nei titoli, che sono parte integrante
dell’opera e, in più, nelle eventuali Note che sono incluse in opere duchampiane come per es. la Scatola verde che
abbiamo già citato. E tuttavia, nella misura in cui tali titoli e tali note verbali sono dei puri nonsense e applicazioni
sul piano verbale della META-IRONIA, IL POSSIBILE esercita sino in fondo tutto il suo potere corrosivo – come
vetriolo – nei confronti di ogni estetica, di ogni callistica e di ogni determinata significazione.
L’arte, per Duchamp, non nega e non esclude mai nulla. Piuttosto essa accoglie tutto, senza esclusioni: anche gli
oggetti, anche i significati, i quali, però, messi artisticamente all’opera non funzionano mai determinatamente e
univocamente come dovrebbero funzionare.
Le opere di Duchamp accolgono, per mandarlo fuori fase, anche il meccanicismo, come è testimoniato dalle
cosiddette “macchine celibi”, le quali, a detta di O.Paz, sono essenzialmente “macchine di simboli”(p.22), che
funzionano non in modo esattamente meccanico, bensì erotico-sessuale, ma nel senso di una sessualità né
generativo-produttivistica e nemmeno intesa come macchina del godimento. Quello delle “macchine celibi”, come
appare evidente anche nel Grande Vetro, è un erotismo, potremmo dire, caratterizzato dalla finalità senza scopo.
Infatti la Sposa del Grande Vetro, pur rimanendo vergine, fiorisce, si apre. Duchamp usa al proposito
un’espressione propria della lingua francese che è difficilmente traducibile: épanouissement. Octavio Paz
commenta: “Non è l’orgasmo, ma ciò che lo precede”(p.41)

II.3. Il ready made


Il primo ready made duchampiano risale al 1913 ed è Ruota di bicicletta. L’originale è andato perduto ed è rimasta
solo una copia del 1951 posseduta da un collezionista statunitense. La Ruota di bicicletta è il primo di una serie
non lunghissima di opere simili. Alcuni dei ready made sono “puri”, nel senso che ciò che viene “trovato” già
pronto non ha subito alcuna manipolazione, né alcun intervento da parte dell’artista. Altri sono invece “rettificati”,
in quanto gli oggetti trovati subiscono qualche intervento o manipolazione di solito di carattere ironico, nel senso
della meta-ironia.
Innanzitutto va sottolineato che quello del ready made è, innanzitutto, un gesto, il quale vale nella sua AZIONE e
per l’azione, che esso mette all’opera. A conferma del fatto che l’arte, per Dada e per Duchamp, è azione all’opera,
o ancor meglio re-azione all’opera come mostra, appunto, il ready made, il quale propriamente è
34
romanogasparotti@ababrera.it

postproduction(anche secondo la definizione recente di Bourriaud) e non produzione originaria, né creazione ex


novo o ex nihilo. E’ importante leggere quanto disse Duchamp stesso a proposito del ready made, alle pp. 166 e
167 dell’edizione italiana dei suoi scritti(edita da Abscondita).Come presenta, in sintesi, Duchamp tale operazione?
1)Il ready made è “una forma di manifestazione artistica” e quindi happening inteso quale GESTO, che, nella sua
azione, si mette all’opera NON nel suo risultato, NON nel suo oggetto, bensì dissolve e decostruisce l’oggettività
dell’oggetto, facendolo diventare un potenziale campo aperto di relazioni possibili.
L’oggetto scelto – evidenzia Duchamp - è del tutto accidentale e la scelta di esso piuttosto che di un altro è
casuale. E’ il caso che decide quale oggetto debba dar luogo al gesto7azione del ready made.
Tale causalità, secondo Duchamp, opera nel senso di una “reazione di indifferenza visiva” – cosa vuol dire?
Innanzitutto l’opera-ready made incarna un gesto reattivo: una sorta di contraccolpo, non di azione originaria e
originale. In secondo luogo, esso produce i suoi effetti all’insegna di ciò che Duchamp chiama INDIFFERENZA
VISIVA. Non importa quale sia l’aspetto determinato e la funzione determinata degli oggetti casualmente scelti.
Siamo ormai ben oltre l’aspetto retinico-olfattivo. Non è importante né decisivo che cosa appare, e tantomeno il
fatto che ciò che sensibilmente appare sia giudicato bello/brutto, interessante/non interessante,
piacevole/spiacevole, attraente/non attraente ecc – INDIFFERENZA TOTALE.[N.B. Duchamp, quando usa il
termine “indifferenza” lo usa nella duplice contemporanea accezione a) di non-differente(nell’accezione letterale)
e di assolutamente neutro]
Ciò che conta, nel ready made, è il gesto manifestativo, nella misura in cui esso innesca un complesso
imprevedibile di relazioni possibili.
La sua apparenza oggettivo-oggettuale esige di essere tra-guardata, ovvero guardata-attraverso, e non osservata o
contemplata nel suo mero apparire sensibile.
Duchamp indica tra gli effetti principali della messa all’opera del ready made, quello di una “completa anestesia”,
laddove il termine anestesia indica il fatto che la dimensione puramente sensibile è stata oltrepassata, non ha
alcuna centralità. Lo sguardo, pertanto, non agisce più in quanto semplice senso della vista, ma diventa
direttamente e pienamente SGUARDO DEL PENSIERO in quanto pensiero del possibile. Ricordiamo che, a detta
di Duchamp, il ready made è uno dei primi passi verso quella che egli chiama pittura-idea.
Pertanto l’oggetto, nel suo essere destinato ad essere tra-passato, è talmente poco il centro e il proprium dell’opera,
che Duchamp lo equipara ai tubetti di colore utilizzati dall’artista retinico-olfattivo. E i colori il pittore, sottolinea
Duchamp, li trova già pronti, esattamente come gli oggetti del ready made!
Tutto ciò ribadisce il fatto che i ready made, nella loro oggettualità che vediamo, non sono l’opera, ma hanno
una funzione strumentale e/o di supporto rispetto alla manifestazione dell’opera, esattamente come il
pennello e i tubetti di colore o le tele, che il pittore acquista nel negozio.
2)Duchamp afferma che parte integrante del GESTO del ready made è la frase abbinata al ready made stesso, che,
Duchamp precisa, non è un semplice titolo, ma è “destinata a condurre la mente dello spettatore verso altre
regioni più verbali”. Tale frase verbale è finalizzata a condurre la mente dello spettatore verso ulteriori
dimensioni verbali. Anche i significati delle sue parole vanno tra-guardati e ultra-parlati.
3)Duchamp sottolinea che il ready made, in quanto opera, non ha niente di unico e non vi è alcun originale da
preferirsi alla copia, così come nessuna copia è più adeguata o conforme all’originale rispetto ad altre copie
possibili. In-differenza suprema anche in questo caso. Appunto perché l’opera non sta in nessun oggetto fisico e
solo gli oggetti sono quello che sono e non altro: la pipa è solo la pipa, la casa è solo la casa, ecc..
4) Duchamp sottolinea “l’antinomia fondamentale” tra l’arte e il ready made. In che senso “antinomia
fondamentale”? L’espressione va interpretata in un duplice senso. Da un lato, il ready made è un possibile approdo
della ricerca di una pittura non più retinico-olfattiva e quindi ha superato le tradizionali concezioni dell’arte ancora
legate alla dimensione retinica, essendo ormai incompatibile con esse.
Inoltre, – e questo è di primaria importanza – se l’arte all’opera implica l’oltrepassamento non solo dell’oggettività
dell’oggetto, ma anche della determinatezza del significato, di ogni significato, allora il ready made mostra che
non esiste nemmeno qualcosa che è arte, ossia qualcosa che ha l’identità di essere arte e, in quanto tale, NON E’
altro, ossia è solo ed esclusivamente arte e niente altro.
Se il ready-made mostra che nessun oggetto è solo ed esclusivamente quello che è e che niente riposa nella sua
identità data una volta per tutte – proprio perché la sua esperienza ci fa precipitare nell’abisso del puro possibile –
allora esso non è nemmeno arte e in quanto tale non non-arte!
35
romanogasparotti@ababrera.it

Del resto, la alogica del possibile(radicalmente inteso) impedisce di usare tanto l’espressione categorica ‘E’’,
quanto l’espressione ‘NON E’’, le quali andrebbero sostituite entrambe dall’espressione “è possibile”(la quale non
ha alcun contrario).
5)Quale corollario di quanto appena precisato, Duchamp mette in luce molto perentoriamente un altro aspetto
fondamentale del gesto del ready made, che spesso è stato assai poco considerato dalla critica e dalla storiografia.
E questo riguarda il proposito di “servirsi di un Rembrandt quale tavolo da stiro”.
Quasi tutte le interpretazioni che sono state date del ready made di origine duchampiana hanno sempre considerato
unilateralmente e a senso unico ciò che, invece, Duchamp aveva pensato sin da subito come RECIPROCO – egli
parla esplicitamente di reciprocal ready made.
L’azione artistica del ready made non consiste, pertanto, secondo le intenzioni del suo autore, semplicemente e
unilateralmente nel presentare un oggetto trovato o d’uso comune e sottrarlo definitivamente alla sua utilità e
funzionalità di oggetto. L’indifferenza rispetto agli oggetti non equivale alla negazione degli oggetti e della
loro funzionalità/utilità!
Quello del ready made è un gesto sempre circolarmente reversibile(nel senso di una circolarità non chiusa, ma tale
da riaprirsi continuamente). Pertanto è Duchamp stesso a non escludere affatto che la ruota di bicicletta collocata
su uno sgabello da cucina possa essere riattaccata alla bicicletta o possa essere usata come giostrina nella gabbia
dei criceti, così come nulla esclude che l’orinatoio-Fontana possa benissimo essere usato per orinarvi, oppure
essere usato come vaso per i fiori e ancora per altro e poi essere di nuovo esposto in una galleria ...
Come ciò che ha l’aspetto oggettuale di un orinatoio può essere esposto in una galleria d’arte, così una tela di
Rembrandt può essere usata come asse da stiro. E poi, assolto l’uso, riappesa alla parete del museo…
Sotto questo punto di vista, il gesto possibilmente artistico/non artistico del ready made mostra come l’ossessiva e
feticistica ossessione per l’oggetto finisca per assumere un carattere evidentemente necrofilo e scatologico, nella
misura in cui l’oggetto-feticcio assume il medesimo status del cadavere o dell’ excrementum, dal quale solo il gesto
dadaista può salvarlo.
E per questo che, nel corso dell’Intervista di Duchamp con il direttore del Solomon Guggenheim di New York
James Sweeny del 1955 poi divenuta film, l’artista dichiara che i ready made nacquero in opposizione alla
“disumanizzazione dell’opera d’arte”(vedi p.158 degli Scritti duchampiani). E la disumanizzazione sta proprio
nella oggettivazione, nella oggettivazione come uccisione della vita e come riduzione del mondo ad un immenso
obitorio pieno di cadaveri.

II.4. Alcune tra le principali interpretazioni codificate del ready made


Il ready made duchampiano ha suscitato diverse interpretazioni, le quali, però, sembrano tutte volerlo identificare
in modo univoco, tradendo così la concezione duchampiana secondo la quale la sua dimensione propria è quella
del PURO POSSIBILE.
Alcune tra le interpretazioni e significazioni attribuite al ready made, in ogni caso, hanno avuto e hanno una
rilevante importanza per la storia dell’arte e quindi almeno le principali meritano di essere prese in considerazione.
Partiamo da quella di Josef Kosuth, il fondatore dell’arte concettuale, il quale considera i ready made duchampiani
come “l’origine dell’arte moderna”, in quanto – dichiara Kosuth - essi spostano la natura dell’arte dalla
dimensione dell’”apparenza” a quella della “concezione”. Con ciò, Kosuth vuol dire che, a partire dal ready made,
l’opera d’arte non è più ciò che APPARE COME TALE, a livello sensibile ed empirico, dal momento che, al
cospetto del ready made, sul piano empirico e percettivo dell’apparenza, ci troviamo di fronte ad oggetti qualsiasi-
ora un orinatoio, ora una ruota di bicicletta, ora un pettine, ora un apribottiglie e così via – la cui apparenza
empirica non ha nulla di specificamente artistico. Eppure tali oggetti, secondo Kosuth, sono arte – già in questa
affermazione, però, Duchamp avrebbe smentito Kosuth(vedi sopra) - e lo sono, perché, a dispetto della loro
apparenza sensibile e fenomenica, sono stati PENSATI come opere d’arte.In questo modo, Kosuth si serve del
ready made duchampiano per dimostrare l’origine delle tesi e delle pratiche concettuali dell’arte da lui stesso
patrocinate, secondo le quali l’opera d’arte è una proposizione – del tutto analoga a quella linguistico-verbale – la
quale esprime e significa una certa riflessione su che cosa sia arte.
Secondo Kosuth questa nuova frontiera dell’arte si giustifica sulla base del fatto che, in generale, nell’epoca
post-moderna, l’arte ha liquidato la filosofia e preso il posto di essa, nella cultura contemporanea, assumendo
essa stessa il ruolo di ricerca e di investigazione anche su che cosa sia arte.
36
romanogasparotti@ababrera.it

Se per lungo tempo, l’opera d’arte è sempre stata considerata come il semplice OGGETTO delle investigazioni
filosofiche volte a ricercare l’essenza o la natura profonda dell’opera d’arte, ricerca e investigazione e
riflessione che ha prodotto le grandi estetiche moderne in quanto universali filosofie dell’arte, da quella di Kant,
a quella di Hegel, a quella di Heidegger(l’ultima della serie), ora, secondo Kosuth, più la filosofia ha
progressivamente smarrito la sua capacità di investigazione e profonda speculazione – in quanto i filosofi si
sono trasformati in semplici “Librarians of the Truth”, ovvero meri bibliotecari della verità, ai quali ormai
manca la forza investigativa e speculativa che avevano i grandi classici del pensiero occidentale antichi e
moderni – più il compito di tale investigazione e ricerca è passato agli artisti, le cui opere – a partire da
Duchamp, per l’appunto, secondo Kosuth – non sono altro che la proposizione di una certa IDEA di arte. La
quale IDEA, in quanto tale, non si colloca sul piano degli oggetti, ma su quello della sua pura PENSABILITA’.
Secondo questa tesi concettuale kosuthiana, insomma, l’arte è ormai esercizio di pensiero critico e ricercante
all’opera.
Sul versante, invece, più squisitamente critico e storiografico, le più diffuse e correnti interpretazioni del ready
made sono le seguenti.
Innanzitutto, c’è quella – la più diffusa e onnipresente - la quale sostiene che il gesto artistico duchampiano
consista nel mostrare come l’artisticità dell’opera derivi dal semplice trasporre, decontestualizzandolo, un
oggetto qualsiasi dal contesto utilitaristico, che originariamente gli compete, ad un contesto altro – quello
dell’arte appunto – in cui ogni funzionalità dell’oggetto viene ad essere sospesa, in maniera tale che, assunto
all’interno del nuovo contesto artistico, quell’oggetto appaia ora come inutile e inutilizzabile.
Tuttavia, questa interpretazione misconosce e non considera affatto che Duchamp sottolinei la reciprocità e la
piena reversibilità del suo gesto artistico.
A parte questo, una tale interpretazione si basa – antiduchampianamente – su una ben determinata
identificazione di che cos’è arte.Infatti, sostenere che l’operazione del ready made consiste nel trasporre un
certo oggetto qualsiasi dal suo originario contesto funzionale e utilitaristico ad un nuovo contesto artistico nel
quale regna l’inutilità, implica sapere e dare per scontato che cosa sia essenzialmente arte – ciò che è inutile - e
che cosa, invece, non lo sia mai.
Le motivazioni di tale precomprensione sono, poi, sostanzialmente di due tipi.
L’una sostiene che diventa arte ciò che è esposto in un contesto artistico riconoscibile come tale.
L’altra sostiene che arte è ciò che è inutile.
a)La prima potremmo sintetizzarla con l’espressione comune “E’ l’abito che fa il monaco”, nel senso che è la
cornice che fa il quadro – come invece deprecava Duchamp!
Sembra infatti che, secondo tale versione, perché qualcosa diventi arte da semplice oggetto d’uso comune è
sufficiente che l’oggetto venga esposto in un luogo e in un ambiente intersoggettivamente riconosciuti come
artistici(una galleria, un museo o comunque qualcosa che, per via convenzionale, sia istituito e riconosciuto
come sede artistico-espositiva).
Perciò, semplicemente esibendo l’oggetto in origine d’uso comune in un luogo artistico deputato, io lo
riqualifico come opera d’arte. Come a dire: se appoggio semplicemente il vater che ho appena sostituito, fuori
di casa o presso i cassonetti dell’immondizia, non succede nulla di artistico; se, invece, lo esibisco nella galleria
d’arte del mio amico, magari con un titolo, ecco che esso assume valore artistico. Definitivamente?
Reversibilmente? Non si sa…
Secondo questa interpretazione, l’arte ha sì una propria identità e natura specifica, ma di origine meramente
convenzionale, sulla base di un certo accordo o patto valido intersoggettivamente e quindi riconosciuto come
tale. E’ insomma l’abito che fa il monaco!
b)L’altra opzione relativa a questo tipo di interpretazione consiste nel considerare artistico tutto ciò che viene
esibito, da un punto di vista puramente estetico, al di fuori e al di là di qualsiasi utilità e funzionalità pratica.
Questa opzione è più solida di quella precedente, se non altro perché può trovare giustificazione in alcune delle
grandi filosofie dell’arte prodotte dalla filosofia moderna(basti pensare alla concezione kantiana sull’inutilità
dell’arte).
E tuttavia, tale interpretazione, è tutt’altro che dadaista e tutt’altro che duchampiana.

37
romanogasparotti@ababrera.it

Duchamp disse che il ready made, nella sua reciprocità, consiste nell’utilizzare un Rembrandt come asse da
stiro, sottolineando che il ready made non è affatto l’opera che appare esclusivamente nella sua inutilità e non
funzionalità, come è stato recepito, dopo Duchamp, da alcuni artisti contemporanei.
Per esempio, l’artista francese Pierre Pinoncelli, nel 1993 utilizzò una delle copie della Fontana duchampiana
esposta a Nimes, per orinarvi dentro, proclamando “In questo modo intendo restituire all’oggetto la dignità
della sua funzione”. Parole, in fondo, molto duchampiane! Le quali sottolineano che non è affatto vero che la
funzionalità o l’utilità siano fattori incompatibili con l’artisticità dell’opera d’arte.
E nel 2006, 13 anni dopo, Pinoncelli, al Centre Pompidou, prese a martellate la medesima Fontana.
Sei anni prima, nel 2000, nell’occasione dell’esposizione dell’opera alla Tate Modern di Londra anche Cai Yuan
e Jian Jun Xi cercarono di orinarvi, per quanto ostacolati dalla teca che proteggeva l’opera.
Ma, a parte questi gesti provocatori, sono molto frequenti - dal Gruppo Gutai e da certi esperimenti di Land Art
in poi - i casi in cui l’opera non è esposta solo per essere contemplata a distanza, ma è fatta per essere usata.
Un’altra interpretazione del ready made duchampiano, che ha avuto una certa fortuna, è quella che considera il
ready made come operazione volta a provocare una sorta di cortocircuito speculativo(nell’accezione finanziaria
del termine) all’interno del sistema e delle logiche del mercato capitalistico.
Nel senso che da un lato l’oggetto artigianale o industriale originario, nell’essere risignificato quale oggetto
artistico può incrementare di molto il suo valore di scambio sul mercato, continuando a valere come merce,
come merce che artisticamente si super-valorizza. Non quindi il superamento o il sovvertimento delle logiche
capitalistiche di mercato, bensì la dimostrazione del fatto che, nel mercato e secondo le logiche capitalistiche,
l’opera d’arte in quanto tale può realizzare plus valore (nel senso indicato dal Capitale di Marx)addirittura più
che la produzione industriale di beni.
C’è poi l’interpretazione di Octavio Paz, nel libro “L’apparenza nuda”. Paz non è un critico d’arte, né uno
storico dell’arte, bensì un poeta messicano, premio Nobel per la letteratura nel 1990 e, per questo, il suo studio
su Marcel Duchamp è più poeticamente simpatetico, rispetto all’approccio dei critici e degli storici dell’arte,
che di solito è piuttosto rigido e legato a schemi pre-definiti e talvolta scolastici.
Paz fa partire la sua interpretazione dall’assunto secondo il quale i ready made nascano in Duchamp come
l’equivalente sul piano non verbale dei nonsense e dei giochi di parole e sostiene che essi siano l’effetto di un
gesto che trasfigura sì “oggetti anonimi” in opere artistiche, dissolvendo, però, nel contempo, la nozione stessa
di “oggetto d’arte”(p.27 e ss). E quindi, come, per Paz, i giochi di parole producono significato per distruggerlo
nell’atto stesso in cui l’hanno prodotto, analogamente i ready made sono opere d’arte che esibiscono oggetti
determinati e comunissimi, distruggendo contemporaneamente l’oggettività dell’oggetto.
Sino a questo punto Paz sembrerebbe rimanere abbastanza fedele a quello che, come abbiamo visto, era
l’intendimento originario di Duchamp, per quanto subito dopo Paz mostri di condividere anche
l’interpretazione concettualistica, quando sostiene che i ready made – nel loro attaccare e decostruire le
concezioni tradizionali dell’opera d’arte - valgono come “critica attiva”(p.28), ossia come esercizio di puro
pensiero critico, avvicinandosi molto, quindi, al giudizio di Kosuth e alle posizioni dell’arte concettuale. Tant’è
vero che Paz aggiunge che il ready made duchampiano “non è tanto un’operazione artistica, quanto un gioco
filosofico o meglio dialettico”(p.32)
Infine, anche Paz insiste sul fatto che il ready made si presenta come una “cosa inservibile” , mentre Duchamp
– come abbiamo visto – non considera unilateralmente a senso unico il passaggio dall’oggetto utile e funzionale
all’opera, ma lo considera reciprocamente e reversibilmente secondo una circolarità che si riapre sempre
indefinitamente.
II.5. L’arte relazionale secondo N.Bourriaud

Nicolas Bourriaud proviene dalla pratica curatoriale e dalla direzione di importanti istituzioni museali di arte
contemporanea come il Palais de Tokyo. Attraverso un trittico di recenti libri tradotti anche in Italia ha cercato
di fornire una interpretazione complessiva del fare artistico contemporaneo nel mondo globalizzato.
E questa interpretazione, pur essendo stata elaborata a stretto contatto con un consistente gruppo di artisti
contemporanei mondiali, operanti dagli anni ’90 in poi – quelli con i quali egli si è trovato ad interagire
direttamente nel corso delle sue attività di critico e curatore – riserva, in tutti e tre i libri principali, una
particolare attenzione alla figura, all’esempio e all’opera di Marcel Duchamp, considerandolo l’artista
38
romanogasparotti@ababrera.it

novecentesco che più di tutti gli altri ha dischiuso non la strada al singolare, bensì le strade, al plurale, che
saranno percorse dagli artisti di fine secolo e dell’inizio del nuovo millennio, ritenendolo l’anticipatore sia del
carattere essenzialmente relazionale delle pratiche artistiche, sia della postproduction, sia di un certo modo
etopoietico di abitare artisticamente la globalizzazione(che, all’epoca di Duchamp, peraltro, era qualcosa di
ancora ignoto).
Dal punto di vista della relazionalità dell’arte, tema che Bourriaud sviluppa in particolare nel volume Estetica
relazionale, Bourriaud considera il ready made duchampiano come una testimonianza originaria ed
emblematica del fatto che l’opera d’arte – nella sua tendenzialmente infinita “disponibilità simbolica” – è ciò
che sollecita continuamente possibilità di incontro sempre diverse, “gestendo la propria temporalità”(p. 29 ER)
– come sostenevano i filosofi stoici - ossia non soggiacendo al tempo esteriore, all’universale tempo
cronologico, ma producendo e governando autonomamente un proprio tempo, che si dà, di volta in volta, per
attimi e interrompe e buca, ogni volta, lo scorrere regolare del tempo esteriore.
Nel primo dei suoi libri Bourriaud considera innanzitutto il ready made come il frutto più evidente
dell’influenza della nuova arte cinematografica nell’arte pittorica, nella misura in cui, secondo Bourriaud, nel
gesto del ready made, l’artista è come se portasse in giro, portasse a spasso l’occhio mobile di una telecamera,
rinunciando a rappresentare il reale tramite segni, ma facendo in modo che sia il finito e mutevole apparire del
reale stesso ad AUTOPRESENTARSI, in virtù di un medium. Per Bourriaud, la scelta dell’oggetto trovato
equivale alla determinata inquadratura della telecamera.
A partire da questa definizione generale di ready made – che aggiungiamo al nostro repertorio – Bourriaud, sin
dal primo capitolo del libro ricorda i rendez-vous d’art escogitati da Duchamp, quando l’artista decideva che
ad una certa ora del giorno, qualsiasi oggetto fosse stato intercettato dal suo sguardo sarebbe istantaneamente
diventato un ready made. Questi “appuntamenti d’arte” – che non erano appuntamenti con qualcuno o con un
pubblico, ma erano appuntamenti arbitrari e del tutto casuali con oggetti qualsiasi destinati, però, in quest’atto a
trascendere la loro natura meramente oggettuale, rimarcano la “reazione di indifferenza visiva”, che Duchamp
aveva associato al ready made, nonché il fatto che l’oggetto abbia solo un ruolo – fondamentale, peraltro, e
imprescindibile - strumentale o di supporto e non costituisca l’opera in quanto tale. Secondo Bourriaud,
l’evento d’arte non è originariamente legato o vincolato né ad un certo luogo, né ad un certo tempo esterni ed
estrinseci rispetto all’evento artistico stesso. Affinché accada l’evento artistico non è necessario né trovarsi in
alcun luogo deputato – galleria, museo, ecc. – né doversi adattare a certi orari prestabiliti(quelli dell’apertura
del museo, della galleria), perché in un momento qualsiasi – non abitudinario, né prevedibile una volta per tutte
– è possibile che accada qualcosa di artistico in un incontro con l’opera. A conferma del fatto che il tempo
dell’atto artistico scaturisce dal suo evento stesso e non è separabile da esso, né risponde ad altre logiche o
sovrastrutture esterne o estranee rispetto all’evento stesso.
Tra l’altro, le considerazioni di Bourriad ridimensionano di molto l’interpretazione più comune e frequente del
ready made, quella secondo la quale la sua artisticità nascerebbe dal fatto di estrapolare un certo oggetto dal suo
contesto funzionale per ricontestualizzarlo all’interno di una diversa dimensione avente un puro carattere
estetico, in quanto Bourriaud sottolinea che da un lato quella che viene chiamata esibizione o esposizione è, in
realtà, la vera produzione, in quanto postproduzione e, dall’altro, ogni collocazione spazio/temporale del
ready made è del tutto CASUALE ED INDIFFERENTE, in quanto l’azione artistica, il gesto del ready made
non dipendono affatto dalla natura o dalle caratteristiche specifiche dello spazio espositivo, né dai tempi nei
quali tale spazio espositivo si rende fruibile, ma è legato ad un evento che può scaturire DAPPERTUTTO e in
un momento qualsiasi.
Secondo Bourriaud, il ready made duchampiano costituisce il presupposto di ciò che verrà messo all’opera da
un artista contemporaneo come Philippe Parreno, per il quale, l’oggetto non è la conclusione nè il prodotto
finale del lavoro artistico, bensì solo un “lieto evento”, in cui si celebra l’evento del lavoro artistico. L’oggetto
ha un valore solo festivamente celebrativo e di testimonianza dell’evento artistico stesso.
Bourriaud, poi, si sofferma sulla famosa Conferenza di Houston di Duchamp, nella quale l’artista pronuncia la
frase sul fatto che l’artista offre e dona solo un puro “coefficiente artistico”, il quale consiste nella relazione
tra “’ciò che è inespresso, ma era progettato’ e ‘ciò che è espresso non intenzionalmente’”. Qui, come
abbiamo già considerato, Duchamp viene a sottolineare: innanzitutto che l’arte non sta in un oggetto dato, non
sta nei suoi prodotti, non sta in una cosa, non sta in nessun qualcosa, ma si dischiude all’interno di una pura
39
romanogasparotti@ababrera.it

RELAZIONE aperta – priva di ogni sé - i cui poli, tutt’altro che rigidi e fissi, sono da un lato il rivelarsi
come inespresso di ciò che è stato progettato dalla mente dell’autore e dall’altro ciò che viene ad apparire al di
là delle intenzioni dell’autore stesso. In maniera tale che è lo spettatore colui che - di volta in volta, e in
maniera mai prevedibile – attualizza in un certo modo tale relazione, diventando così pienamente
corresponsabile del processo creativo stesso, il quale, pertanto, non è affatto prerogativa esclusiva dell’autore,
ossia di colui che mette a disposizione il coefficiente artistico. Il fruitore, ogni fruitore, è co-produttore, assieme
all’artista.
Bourriad, a questo punto, associa tali considerazioni duchampiane alle teorie sull’arte dello psicoanalista e
collaboratore di Deleuze, Felix Guattari, il quale sottolinea che non si dà arte quando ci troviamo di fronte ad
una “immagine passivamente rappresentativa”, ma solo quando un’immagine diventa “shifter di
soggettivazione”, ossia agisce come ciò che decostruisce e spiazza l’identità data del soggetto, per aprirla e
reindirizzarla verso imprevedibili possibilità di nuova soggettivazione.
Tutto ciò, per Guattari citato da Bourriaud, implica che l’opera d’arte non ha affatto la funzione né la
prerogativa di fermare lo sguardo su qualcosa di stabilmente dato, ma invece è ciò che in modo fascinatorio e
para-ipnotico coinvolge lo sguardo estetico a proiettarsi verso molteplici e imprevedibili punti di fuga.
In sostanza, ciò che di Guattari Bourriaud associa a Duchamp, esplica ciò che avevamo tratto da Duchamp
stesso a proposito del fatto che l’opera d’arte è ciò che va guardato-attraverso e tra-guardato.
II.6. Postproduction
Nel secondo libro del trittico, postproduction, Bourriaud parte dall’assunto, secondo il quale, dall’inizio degli
anni ’80 in poi, le opere d’arte sono sempre meno creazioni primarie a partire da una materia prima totalmente
vergine e non ancora segnata da alcuna forma, ma operano sempre – potremmo dire con i filosofi medievali –
con una materia signata.
Perciò, ogni creazione artistica in quanto post-produzione di ciò che è già stato (post)prodotto, trasforma,
riproduce, riutilizzano più o meno parzialmente, interpreta, riprende, cita, assembla ciò che è stato già prodotto
in precedenza.
E tutto questo rappresenta, per Bourriaud, una delle implicazioni più strette della relazionalità dell’arte, ossia il
fatto che il fare artistico, in questo caso, nel suo mettersi all’opera non può che relazionarsi in molteplici
maniere con ciò che è già stato fatto.
Bourriaud indica come prototipi di tale condizione artistica le figure “gemelle” del deejay – dedito al mash-up -
e del programmatore informatico, ma curiosamente dimentica la musica jazz, che, segnatamente almeno dagli
anni ’40 in poi, non ha fatto altro che interpretare e rielaborare sempre i medesimi standards o materiali sonori
della più disparata ed eterogenea provenienza, al di fuori di ogni mera imitazione.
Questa omissione probabilmente si spiega sulla base del fatto che Bourriaud ritiene che sia stata l’apparizione e
la diffusione sempre più capillare della Rete ciò che ha orientato la produzione artistica in questa direzione
dominante. Infatti, secondo Bourriaud, è l’attività del web surfer esercitata in primis dal deejay ciò che
accomuna tutte le pratiche degli artisti contemporanei che si dedicano alla postproduzione, in quanto
semionauti, ossia esploratori nell’universo dei segni, “immaginando luoghi e relazioni possibili tra i siti più
disparati”(Postproduction, p.14)
E proprio a questo punto Bourriaud cita una frase di Duchamp, il quale parlò dell’arte come di “un gioco tra
uomini di tutte le epoche”, dopodichè richiama anche la più nota affermazione duchampiana, secondo la quale
“Sono gli spettatori che fanno i quadri”(p.15). Allo scopo di sottolineare il fatto che l’arte, in questa
prospettiva, non è più il semplice risultato della visione del mondo dell’artista, ma AGISCE attivamente quale
orizzonte generatore di infiniti riutilizzi potenziali, ognuno dei quali ridà vita alle forme messe a disposizione
dalla ricerca e dalla esplorazione artistica nell’universo dei segni.
Bourriaud, per indicare qualcosa di molto vicino a ciò, preferisce parlare di “comunismo formale”, nel senso
che la forma non è più qualcosa di privato e immodificabile nella sua privatistica identità, ma è una sorta di
potenzialità formale, che si mette a disposizione di tutti coloro che ne intendano riattuare le potenzialità.
Parlare di fine della proprietà privata – in relazione alla concezione e pratica della forma – e di comunismo
formale, evoca, sullo sfondo, la figura e il pensiero di Karl Marx, colui che ha ridefinito la natura dell’umanità
dell’uomo - prima ancora di aver messo a nudo le logiche e i meccanismi del capitalismo inteso come modo di
produzione universale di merci, nelle quali, in quanto tali, il valore di scambio tende a prevalere sul valore
40
romanogasparotti@ababrera.it

d’uso – come der Arbeiter, ossia lavoratore/ri-produttore prima ancora che “animale dotato di
logos”(Aristotele), nel senso che per Marx il logos stesso è uno degli elementi decisivi, attraverrso i quali, gli
uomini cooperano (ri)producendo se stessi e insieme il mondo.
Bourriaud, nel cap. secondo di postproduction mette direttamente in rapporto la concezione marxiana del
produrre con il gesto artistico duchampiano e, in particolare, con il ready made.
In che senso? Nel senso che il ready made duchampiano, secondo B. , traspone all’interno del mondo dell’arte
ciò che Marx aveva indicato come struttura fondamentale del processo di produzione nell’epoca del
capitalismo, secondo due principali aspetti:
a) il fatto che la produzione capitalistica si sviluppa a partire da lavoro già accumulato e incorporatosi negli
oggetti;
b) il fato che, nel sistema capitalista, il consumo stesso non sia che uno dei modi del produrre.
A quest’ultimo proposito, Bourriaud cita un passo del testo marxiano de Per la critica dell’economia politica,
nel quale Marx scrive:
”Il consumo è allo stesso modo , immediatamente, produzione; proprio come in natura la pianta consuma
elementi e sostanze chimiche” e l’uomo stesso “durante la nutrizione, che è una forma di consumo, produce il
proprio corpo”
Che attinenza hanno questi due pilastri della dottrina marxiana del capitalismo con Duchamp e il ready made?
Dal punto di vista a), secondo Bourriaud, quando Duchamp sottolinea che l’oggetto, nel ready made, è un
manufatto, un prodotto che viene utilizzato al fine di manifestare l’opera, ma non è esso stesso l’opera, viene ad
indicare il fatto che la produzione artistica, nel suo gesto, è un lavoro che si serve di altro lavoro, quello
accumulato e incorporato nell’oggetto già prodotto.
Dal punto di vista b) – quello secondo il quale per Marx il consumare è sempre un produrre – la pratica
duchampiana mette all’opera qualcosa che è destinato ad essere, a sua volta, consumato e riutilizzato, cioè
rimesso all’opera, nel ciclo tendenzialmente infinito di continue post-produzioni.
A questo proposito Bourriaud cita un’altra volta Marx quando, per chiarire meglio il senso della sua tesi
secondo la quale, in generale(e non solo nel capitalismo), il consumo è uno dei modi principali del produrre, il
filosofo tedesco scrive che: “un vestito è tale solo quando lo indossiamo e una casa disabitata non è una vera
casa” Con ciò sottolinea che un prodotto è tale solo quando e nella misura in cui viene utilizzato
consumandolo. E siccome il prodotto, per definizione, è l’oggetto della produzione, quest’ultima – la
produzione – in questo caso si identifica al consumo del bene stesso, ossia al suo utilizzo consumatorio, che si
realizza compiutamente nella perfetta distruzione dell’oggetto!
Analogamente, per Duchamp, l’opera non sta nell’oggetto materiale che è stato scelto ed esibito, ma nasce, cioè
si mette all’opera, solo quando e nella misura in cui questo oggetto viene, in qualsiasi modo, riutilizzato e,
quindi, in un certo qual modo consumato e ri-prodotto e quindi dissolto quale mero oggetto dato così e così.
Va sottolineato che, per Marx, il consumo, in quanto tale, proprio nella sua indiscutibile valenza produttiva,
tende sempre alla distruzione e alla dissoluzione della datità originaria dell’oggetto: per es. il consumo pieno
della mela coincide con la sua completa distruzione e dissoluzione….ma, per Marx, questa dissoluzione è una
forma di produzione, in quanto attraverso di essa io produco il mio corpo, esattamente come la natura si
riproduce distruggendo continuamente le sue stesse forme di vita, che ha prodotto.
E per Duchamp effettivamente l’oggetto è sempre tale nella misura in cui è destinato ad essere distrutto e
dissolto nella sua oggettività data, il che dà luogo, secondo Bourriaud, ai cicli sempre aperti della
postproduzione.
Il produrre, per l’uomo – sottolinea Bourriaud - viene da Marx sottratto ad ogni misticismo, ad ogni
mitizzazione e anche ad ogni retorica, in quanto non è nulla di eroico, nulla di salvifico, nulla di redimente, né
comporta alcun particolare sforzo o sacrificio, appunto perché l’uomo è tale solo nella misura in cui non può,
volente o nolente, che produrre, essendo il produrre la naturalità dell’uomo, stando nel produrre la natura non
solo dell’uomo in quanto umano, ma della stessa Natura in quanto tale. Quindi, sotto questo punto di vista, nel
definire la postproduction come ciò secondo cui il fare artistico, nel suo mettersi all’opera, non può che
relazionarsi in molteplici maniere con ciò che è già stato fatto, Bourriaud marxianamente viene a
sottolineare che la postproduction non è un certo comportamento o atteggiamento artistico peculiare di un certo

41
romanogasparotti@ababrera.it

gruppo o addirittura di un certo movimento di artisti contemporanei, ma è ciò che ogni essere umano – a suo
modo – fa e non può che fare.
Il capitolo, in cui Bourriaud mette in rapporto il ready made duchampiano con il materialismo marxiano, è il
capitolo tematicamente dedicato alla appropriazione quale “primo stadio della della postproduzione”(p.18),
che Bourriaud enuncia in questo modo:
“Non si tratta più di fabbricare un oggetto, ma di selezionarne uno tra quelli esistenti, di utilizzarlo e
modificarlo, secondo un’intenzione specifica”(ibidem)
E di nuovo, appena scritte queste parole, immediatamente B. chiama in causa ovviamente Duchamp, per
sottolineare il fatto che quando Duchamp decide di utilizzare per il suo gesto artistico un oggetto trovato e già
prodotto, egli, in questo modo, pone l’accento sul fatto che l’artista non è più tale principalmente in virtù della
sua téchne e della sua abilità tecnico-manuale, ma è tale in primo luogo nella sua capacità
CINEMATOGRAFICA di spostare lo sguardo da un oggetto all’altro. Al di là di qualsiasi abilità o virtuosismo
di carattere sia tecnico che fabbrile.
Il limite di questa interpretazione in chiave post,arxiana è quello di annullare ogni specificità dell’opera
d’arte.
II.7. Bourriaud e l’arte come manifestazione di un atteggiamento radicante
Nel terzo libro del suo trittico, “Il radicante”, Bourriaud concentra la sua attenzione sul modo di abitare il
mondo globalizzato messo all’opera dagli artisti del nuovo millennio.
La tesi su cui è imperniato il libro è che quella proposta dalle pratiche artistiche è una prospettiva
etopoietica(per usare un termine di Foucault), ossia la pratica collettivamente universalizzabile di un modo di
collocarsi nella globalizzazione, di prendere dimora nel mondo global, che appare molto più avanzato di quelli
discussi correntemente a livello politico e genericamente culturale.
Ed è anche una prospettiva concreta, che consente di superare le aporie del postmoderno. Bourriaud imposta
così in generale la questione.
Nel corso del XX secolo, la mondializzazione – è ancora prematuro parlare propriamente di globalizzazione –
è stata vissuta, a livello culturale e artistico, fondamentalmente in un duplice aspetto: 1)estensione a livello
mondiale di modelli e pratiche tipicamente occidentali, nel senso di una colonizzazione culturale e artistica, 2)
apertura del mondo occidentale ad influenze altre, provenienti da aree extraoccidentali, le quali hanno avuto
effetti, anche profondi, sulle pratiche occidentali, per es. l’influenza della scultura tradizionale africana sugli
sviluppi del cubismo o l’influenza dell’arte giapponese in Manet e Matisse…
Questa seconda modalità non è di tipo colonialistico, ma dimostra una indubitabile apertura verso l’Altro, anche
se testimonia che il centro e il collettore di tutte le influenze provenienti dall’Altro è pur sempre l’occidente.
Oggi, le esperienze artistiche degli ultimi vent’anni, mostrano, secondo Bourriaud, di aver superato questo
duplice modello, fondamentalmente eurocentrico o comunque centrato sull’occidente, sulla base del pieno
riconoscimento del fatto che – in primis a livello artistico - ogni alterità tra occidente ed extraoccidente è
venuta meno, con la conseguenza che gli artisti di ogni area del mondo globale sono potenzialmente
egualmente e paritariamente responsabili nell’indirizzare il futuro artistico del globo.
Insomma al vecchio paradigma asimmetrico, che vedeva da una parte il modello occidentale quale CENTRO e
dall’altra la pluralità – ad esso relativa - dei non occidenti, si è sostituito un modello paritariamente
policentrico diffuso, innanzitutto a livello artistico.
A livello socio-politico-culturale, invece, rileva Bourriaud, l’imponente volume delle migrazioni all’interno del
pianeta – solo nel 2002 175 milioni di persone si erano spostate fuori dal loro luogo d’origine(dati ONU), ma
oggi il numero è molto più alto – ha prodotto da un lato tentativi ed esperimenti di transculturalità e
interculturalità, ma dall’altra anche fenomeni di ripiegamento e chiusura all’interno di microculture
iperidentitarie, il che ha condotto a tutta una serie di problemi anche gravi legati essenzialmente alla questione
dell’identità e cioè al motivo delle radici.
E tuttavia, a proposito di radici, si continua a interpretare l’identità, ossia l’appello alle radici, solo in un certo
modo, secondo un modello unico, mentre la botanica stessa, rileva B., mostra come, in natura, il radicarsi
avviene almeno secondo due principali modalità. La scienza botanica, infatti, distingue gli organismi vegetali in
due categorie: radicali e radicanti. I primi sono quegli organismi che, per crescere e svilupparsi, hanno bisogno
di essere profondamente ancorati al suolo, dovendo essere, quindi, perfettamente e stabilmente centrati.
42
romanogasparotti@ababrera.it

I secondi, invece, sono quegli organismi, le cui radici non hanno bisogno di un centro stabile e di ancorarsi
definitivamente ad un determinato suolo d’origine, in quanto possono crescere e svilupparsi solo proiettando
sempre oltre le proprie radici, come per esempio fa l’edera:“il radicante si sviluppa in funzione del suolo che lo
accoglie, ne segue le circonvoluzioni, si adatta alla superficie e alle sue componenti geologiche: si traduce nei
termini dello spazio in cui si muove” scrive Bourriaud(pp.52-53 R).
Non è che il radicante non abbia radici, o non abbia bisogno di radici, le radici gli sono necessarie come ad ogni
altro organismo vivente, anzi esso ne ha anche di più, ma esse si moltiplicano e si ramificano, in maniera
rizomatica, sempre in proiezione, in modo che questi organismi radicanti possono vivere e svilupparsi solo
nella costante tensione tra l’ambiente di origine- nel quale, peraltro, non possono stare indefinitamente, per
sempre – e l’ambiente in cui si proiettano,il quale è sempre parzialmente nuovo e diverso, ma non del tutto, in
quanto una parte delle radici continua ad intrattenere una relazione profonda col terreno che il resto delle radici
ha già abbandonato. Il che sollecita continuamente l’organismo vivente a riadattarsi e a modificare le proprie
abitudini senza fine, in una sorta di nomadismo infinito, che non comporta, però, alcun radicale tagliare i ponti
con le proprie radici originarie o precedenti.
Secondo Bourriaud, il volume sempre più alto dei migranti nel mondo, a prescindere dai motivi di tale
migrazione, tende sempre di più a proporre questo secondo modello – radicante – come il modello destinato a
prevalere.
E l’arte contemporanea, secondo B. , contribuisce ad offrire a tale condizione un senso profondo ed un esempio
di globalizzazione riuscita e sostenibile da imitare. Infatti, l’arte degli ultimi anni mostra, secondo B., l’eclisse
del modello dell’artista radicale, che per lungo tempo è stato dominante. Quello della radicalità, oggi, non è
più l’esigenza fondamentale degli artisti, come lo era nel modernismo, com’era nel ‘900 all’epoca delle
avanguardie storiche e nella cosiddetta post-avanguardia.
Tale radicalismo modernista e novecentesco era dominato da quella che B. chiama “metafisica delle radici” e
consiste nel dar senso alla propria ricerca artistica solo nel tornare all’origine per rifondare ab origine un nuovo
linguaggio, un nuovo stile, un nuovo modo di esprimersi. Tale radicalismo artistico ha bisogno di fare il vuoto
per ricominciare daccapo e produrre qualcosa, appunto, di radicalmente nuovo.
In tale modello la metafisica dell’origine si lega all’enfatizzazione del nuovo ad ogni costo. Esempi
particolarmente evidenti di tale modello sono il Futurismo, il suprematismo di Malevic, ma anche la ricerca di
Yves Klein che riparte dal vuoto e la stessa arte povera. Secondo B. il postmoderno, considerato secondo le sue
principali teorizzazioni applicate all’arte, costituisce una semplice conseguenza del modernismo, rimanendo
legato alla concezione modernista stessa imperniata sulla metafisica dell’origine, secondo la quale, scrive B.
“la radice rappresenta nel contempo un’origine mitica e una destinazione ideale”(p.46)
Anche il Situazionismo, sostiene B. , rientra all’interno di tale atteggiamento e di tale metafisica e per
giustificare ciò, Bourriaud cita il fatto che fino al momento del suo scioglimento decretato da Debord nel 1972,
l’Internazionale situazionista procederà all’espulsione dai suoi ranghi di tutti gli artisti professionisti, in quanto
legati alla concezione alienata dell’arte basata sull’esercizio della tecnica e sulla produzione di oggetti, in nome
di una purezza del fare artistico, il quale doveva essere scevro da ogni tecnicismo, scevro da ogni
produttivismo, per identificarsi totalmente con la progettazione e realizzazione di “situazioni costruite”, volte a
realizzare lo scopo della rivoluzionaria liberazione dell’umanità dall’oppressione del neocapitalismo,
ricominciando tutto daccapo.Tra l’altro, B. osserva che i film realizzati artisticamente da Debord sono infarciti
da riferimenti e richiami al Medio Evo o al 1700, sempre, quindi, secondo il mito delle radici.
Rispetto a questo modello, Dada, come abbiamo considerato, non si inquadra affatto entro i suoi parametri e
costituisce un’eccezione rispetto alla radicalità o al radicalismo delle avanguardie artistiche stesse,
rappresentando un’avanguardia artistica del tutto anomala, eccezionale.
Un altro grande artista, che ha sicuramente anticipato, dopo la stagione delle avanguardie, il modo di abitare il
mondo global in un modo simile a quello indicato da Bourriaud(che, però, non lo cita mai), è Shozo
Shimamoto. Shimamoto non fu mai interessato artisticamente al nuovo, né quando militava nel gruppo Gutai,
né dopo e anzi riteneva che la vera arte d’avanguardia, in tutte le epoche, non fosse mai quella dedita al nuovo e
all’originale ad ogni costo. Egli disse:
“Nel mondo dell'arte compaiono numerose forme nuove che godono dell'attenzione pubblica, ma esse
dovrebbero essere chiamate ‘tentativi di arte originale’, mentre l'arte d'avanguardia è tutt'altra cosa.”i
43
romanogasparotti@ababrera.it

Per Shimamoto, infatti, fare arte è stupire, ma questo stupire non comporta né produrre “qualcosa di
esteticamente bello, frutto di un lavoro delicato,(…) quel che direi proprio del mondo dell'artigianato.”ii, né
proporre l’assoluta novità, ossia mostrare ciò che non si è mai visto o fare ciò che non si è mai fatto.
L’idolatria del novum ad ogni costo appartiene, per Shimamoto, alle mitologie tecnicistiche e
produttivistico/consumistiche legate al culto tipicamente occidentale del progresso, ma non hanno nulla a che
vedere con l’arte, la quale, per Shimamoto, né dipende tutta da una téchne, né si identifica totalmente ed
esclusivamente con gli oggetti che eventualmente produce.
In ogni caso, anche nel terzo libro, B. si sofferma piuttosto a lungo nuovamente su Duchamp. A p.51, B. cita
un’intervista rilasciata da Duchamp nel 1966 ad un critico, nella quale Duchamp dice:
Ero abbastanza contento di essere senza radici. Perché temevo l’influenza delle mie radici. Me ne volevo
sbarazzare. Quando mi sono trovato sull’altra sponda non c’erano più radici, perché ero nato in Europa, e
allora è stato facile. Mi sono fatto un bagno e ho nuotato tranquillamente. Quando hai troppe radici è
impossibile”
E a Marcel Duchamp, B. dedica il terz’ultimo capitolo del suo libro intitolato - Sotto la pioggia culturale
(Louis Althusser, Marcel Duchamp e l’uso delle forme artistiche),
dove B. parte dall’assunto che tra la filosofia neomarxista di Louis Althusser e l’opera di Karl Marx esiste un
rapporto analogo a quello che c’è tra l’arte contemporanea in quanto espressione del radicante e il gesto
artistico di marcel Duchamp stesso. Nell’articolare questo parallelismo, B. sviluppa la sua interpetazione
attraverso tre punti.
a)Come già aveva scritto nel secondo libro, quella di Duchamp è una pratica artistica dell’appropriazione, per
quanto Duchamp preferisca parlare sempre di “scelta” – e l’appropriazione è possibile, secondo B. all’interno di
un orizzonte caratterizzato da quello B. stesso in ER ha definito “comunismo delle forme”.
b)La nozione fondamentale di indifferenza che B. lega al modello buddista dell’impermanenza.
La concezione dell’impermanenza è quella condizione indicata dal buddismo, secondo la quale tanto il
cosiddetto Io, quanto ogni realtà, non sono che il punto di incontro sempre variabile e perennemente in fieri e in
corso d’opera di aggregati mobili e mutevoli, che, a loro volta, sono aggregati di aggregati, in modo che nulla,
nell’universo, ha un suo centro stabile, nulla ha la sua identità stabile e permanente.
Tutte le realtà – dice il buddismo- sono “prive di un sé”, a cominciare dallo stesso Io, il quale non è altro che un
mobile fascio di elastici aggregati, che si modificano continuamente a seconda di ciò con cui, di volta in volta,
nel loro moto perenne si trovano in relazione. Tutto ciò è possibile sulla base di una concezione della forma
intesa come VACUITà. A tale proposito, il Sutra del cuore del IV sec. d.C. recita:
“la forma è vacuità e proprio la vacuità è forma; la vacuità non differisce dalla forma, la forma non differisce
dalla vacuità; qualsivoglia sia la forma, quella è vacuità; qualsivoglia sia la vacuità, quella è forma, lo stesso
vale per sensazioni, percezioni, impulsi e coscienza.
La mancanza del sé, non si traduce, nel buddismo, in un esito nichilistico, ossia nella riduzione a puro nulla di
ogni cosa. Anche per il buddismo, come diceva in occidente Aristotele, le cose appaiono nella misura in cui
ognuna di esse ha trovato la propria forma, la quale la delimita e la fa essere determinatamente come quella
cosa che è. Solo che, per il buddismo, questa forma delimita e fa essere non chiudendo, centrando, riempiendo e
stabilizzando, bensì risvegliando il vuoto che abita ogni pieno, aprendo e facendo in modo che i limiti delle
cose siano infinitamente elastici, in modo che il rapporto con l’altro non sia uno scontro tra entità stabili, chiuse
in sé stesse ed autocentrate, ma sia sempre l’occasione nella quale ogni cosa si rimodula continuamente assieme
a tutte le altre, a seconda degli imprevedibili incontri ai quali è sempre esposta. Tutto ciò all’interno di quella
condizione universale che il buddismo chiama CO-PRODUZIONE CONDIZIONATA o NASCITA
CODIPENDENTE.
Riferita questa condizione universale all’ambito artistico, è interessante rilevare come per la tradizione
giapponese del teatro del No, la buona ed efficace prestazione dell’attore è detta “fiore”, ma ancora superiore ad
essa e più stupefacente è quella che viene chiamata “maniera evanescente” sulla base della persuasione che il
fiore, in natura, riesce ad esprimere il massimo della sua bellezza e del suo arcano fascino quando inizia, ma
solo inizia, ad appassire. Nel teatro del No, ogni attore attende l’evento dell’equivalente dell’evanescenza
propria del “fiore meraviglioso” e il segreto affinchè essa possa esprimersi sta nel cercare di non “irrigidirsi in

44
romanogasparotti@ababrera.it

nessuna maniera particolare”, come dice Zeami Motokiyo uno dei più grandi attori e teorici del teatro del No
del 1400.
Il tema dell’appassimento, dell’evanescenza proprio del “fiore meraviglioso” ci riporta di nuovo a M.
Duchamp, in particolare a quell’epanouissment, che Duchamp attribuisce al fiorire erotico della sposa sempre
vergine nel Grande Vetro
c)fondamentale nel ready made è la dislocazione.
E B. cita l’invenzione da parte di B. delle “sculture da viaggio”. La dislocazione e il fatto che, quindi, l’opera
sia sempre in viaggio sottolinea, per B., il senso nomade stesso del radicante, ossia di quell’organismo che
riesce a crescere e a sopravvivere solo dislocandosi continuamente di luogo in luogo.
A tale proposito, B. rileva che il ready made non ha mai un proprio luogo: né quello d’origine in cui si trova
l’oggetto scelto, né quello artistico in cui si viene a trovare il ready made, in quanto il gesto è sempre reversibile
e il ready made è sempre reciproco. Dunque, scrive B. il ready made non appartiene ad alcun luogo, si colloca
sempre tra due zone, due orizzonti, non essendo mai ancorato ad alcuno di essi.
Per questo B. ritiene assai sorprendente e del tutto ingiustificata la critica che Joseph Beuys muoverà a
Duchamp circa 50 anni dopo, nell’happening Il silenzio di marcel Duchamp è sopravvalutato(1964), attraverso
il quale Beuys considera il gesto di Duchamp una sorta di mera ripercussione sul piano artistico di quella
alienazione, che il capitalismo rinnova quotidianamente, nel suo sfruttamento del lavoro umano. Beuys con
quell’opera intende mostrare come Duchamp appropriandosi e apponendo la propria firma a degli oggetti non
suoi, ma prodotti da operai in carne e ossa all’interno delle condizioni di sfruttamento capitalistico della
manodopera, non fa che perpetuare l’operazione descritta da Marx nel Capitale, secondo la quale il capitalismo
prospera, incrementando i suoi profitti espropriando il lavoro collettivo degli operai, attraverso i meccanismi
profondamente alienanti del plusvalore e del pluslavoro. Insomma Beuys accusa Duchamp di aver replicato sul
piano artistico ciò che fanno le multinazionali come la Adidas, quando esse sfruttano il lavoro minorile nei
Paesi del terzo mondo. E tuttavia, B. ritiene di precisare che quando egli parla di “appropriazione” non intende
parlare di ciò su cui richiama l’attenzione Beuys, ossia sul ciò che Marx ha spiegato in termini di plusvalore e
pluslavoro.
B. col termine “appropriazione” non intende riferirsi alla alienazione capitalistica della produzione e al
correlato sfruttamento capitalistico del lavoratore, ma intende riferirsi a quella che in Marx stesso è la originaria
naturalità della produzione, ossia è il produrre non alienato, il produrre quale condizione naturale e originaria,
che il capitalismo aliena e nella quale il capitalismo introduce la contraddizione. L’appropriazione – che è uno
dei presupposti della postproduction - indica la condizione secondo la quale se l’uomo è per natura der Arbeiter,
di conseguenza l’uomo realizza se stesso producendo ciò che è già stato prodotto, ossia trasformando ciò che è
già stato a sua volta trasformato,in una condizione in cui tutto è trasformabile e continuamente
producibile/riproducibile, nella misura in cui è liberamente appropriabile, senza vincoli e senza proprietà.
In modo che questo non ha nulla a che vedere, in quanto tale, con l’alienazione capitalistica, nella misura in cui
il capitalismo aliena proprio questa condizione, cioè la rende altro da ciò che dovrebbe essere!
E in Duchamp, dunque, lalibera appropriabilità avviene nella più assoluta indifferenza rispetto a ciò che viene
ad essere esibito, proprio perché la riappropriazione non è mai una duplicazione dell’oggetto, né è mai
interessata all’oggetto in quanto tale, in quanto è interessata solo a ciò che si può fare di quell’oggetto, ossia
agli incontri che essa può suscitare, alle nuove relazioni che può costruire, nel senso quasi buddista della
co-produzione condizionata nell’universo dell’impermanenza.
A questo punto, B. si sofferma di nuovo sull’opera di Duchamp LHOOQ., per sottolineare il fatto che,
all’insegna dell’ironia dadaista, tale opera:
a)da un lato demistifica ogni idolatria dell’oggetto artistico, mostrando come non abbia alcun senso che
migliaia di persone continuino a mettersi in coda per AMMIRARE passivamente estasiati e a bocca aperta un
oggetto che, per la bellezza e il valore estetico che vi viene attribuito in quanto esso è tale, cioè oggetto dato,
non può più suscitare alcun guardare-attraverso, alcun tra-guardare, ma solo un ammirato CONTEMPLARE,
finendo per negare così l’arte.
b)è l’espressione di un gesto giustamente definito da molti iconoclastico, il quale mette in luce il fatto che, per
dada e Duchamp, gli incontri che l’opera suscita sono sempre INCONTRI CON LE IMMAGINI
simbolicamente evocate dall’opera e l’immagine – ogni immagine – è tale solo nella misura in cui ogni volta si
45
romanogasparotti@ababrera.it

distrugge e si dissolve nel dar luogo ad altre immagini, a loro volta destinate a distruggersi nel dar luogo ad
altre immagini. In maniera tale che l’azione artistica viene a rigenerarsi continuamente proprio nel movimento
del distruggersi-per-ricrearsi delle immagini stesse.
L’AZIONE ARTISTICA è QUESTO MOVIMENTO.
E questo è anche il modo più consono di UTILIZZARE LE FORME, nella misura in cui esse sono sempre
disponibili, perché non sono di nessuno e non appartengono a nessuno, ma sono patrimonio di tutti –
COMUNISMO DELLE FORME.
Detto questo, B. sottolinea che questo libero utilizzare le forme esprime un pensiero dell’incontro.
Per spiegare questo “pensiero dell’incontro” – che anima l’arte contemporanea – B risale addirittura alla teoria
del clinamen proposta dal filosofo greco dell’età ellenistica Epicuro(vissuto tra il IV e il III sec. a C.) e
riproposta in età romana dal poeta-filosofo Lucrezio nel De rerum natura.
Epicuro è un filosofo materialista, il quale sostiene che ogni realtà e ogni corpo non sono altro che aggregati
mobili di atomi e l’atomo è l’elemento base, indivisibile e mobile della materia in perpetuo
movimento/mutamento. Prima di Epicuro già Democrito(V-IV sec. a C.) fisico atomista, uno degli ultimi pre-
socratici, aveva fondato una filosofia materialistica incentrata sull’atomo, ma aveva sostenuto che tutti gli atomi
tendono a cadere perpendicolarmente in linea retta verso il basso rispondendo solo alla forza di gravità.
Questo, però, avrebbe impedito, secondo Epicuro, ogni possibilità di incontro tra atomi e quindi l’aggregarsi
degli atomi stessi, in quanto ognuno di essi, nel suo movimento di caduta avrebbe compiuto una traiettoria
verticale parallela a quella di tutti gli altri. E tuttavia, secondo Epicuro, ogni corpo e ogni oggetto non sono che
aggregati di atomi, è evidente che gli atomi devono potersi incontrare, perciò - prendendo le distanze da
Democrito - Epicuro sostiene che è possibile che, talvolta, nel loro moto, gli atomi, imprevedibilmente,
manifestino una leggera deviazione(il clinamen appunto) nella loro caduta verso il basso secondo la forza di
gravità, in maniera tale che questa deviazione comporti la casuale aggregazione di più atomi tra loro, in modo
da concostituire i corpi viventi.
Nell’uomo, per Epicuro, tale clinamen spiega anche la libertà, nella misura in cui il clinamen che caratterizza
l’aggregato di atomi in cui ogni uomo consiste, può derogare rispetto alle leggi del determinismo universale.
Louis Althusser – quel pensatore francese neomarxista del secondo ‘900, che Bourriaud tiene in grande
considerazione – partendo dal fatto che Marx scrisse la sua tesi di laurea proprio sul rapporto tra Democrito ed
Epicuro, ritorna alla filosofia di Epicuro, sostenendo che il clinamen costituisce la forza attiva e dinamica di
ogni realtà.
Di conseguenza, secondo Althusser, attivamente vitale è solo ciò che è capace di riorientarsi continuamente,
ossia di cambiare continuamente strada, di non percorrere mai una via unilateralmente rettilinea, ma di
procedere per continue deviazioni, svolte, mutamenti di rotta.
La Storia stessa, pertanto, secondo Althusser, non ha alcuno sviluppo lineare rettilineo – non è una linea
unidirezionalmente e progressivamente orientata, né all’infinito, come una retta, né a partire da un’origine sino
ad una meta, come se fosse il segmento di una retta.
Inoltre, un modo di pensare materialistico fondato sul clinamen, presuppone che non esistono nell’universo
Leggi assolute, inderogabili ed inflessibili.
E, nel campo dell’estetica, Althusser ne ricava che non esiste nulla di “mostruoso”, perché il mostro si definisce
solo in riferimento ad un concetto di normalità, che, per A. non esiste affatto.
Althusser sostiene, invece, che la storia è fatta dagli incontri, i quali non dipendono da alcun disegno pre-
ordinato, da alcuna universale legge prestabilita, ma sono sempre positivamente imprevedibili, fortuiti e
occasionali.
Su questa base, Althusser considera lo stesso capitalismo descritto da Marx, come l’esito dell’incontro tra chi
possiede il denaro e chi non possiede nulla se non la propria capacità di lavorare(ciò che Marx ha denominato
forza-lavoro), in maniera tale che tale incontro ha prodotto esiti e situazioni che si sono stabilizzati, per tutta
una serie di motivi contingenti. Per quanto questo non significhi affatto né che questo incontro fosse necessario
e inevitabile così com’è avvenuto, né che i suoi esiti così importanti e duratori non potessero che svilupparsi
così come si sono sviluppati, né che tale modalità di incontro sia destinata a durare in eterno.
Perché si tratta sempre dell’esito di incontri, che Althusser definisce “aleatori”, i quali non perdono mai tale
loro originaria natura, ma anzi la trasmettono a tutti i loro sviluppi e conseguenze.
46
romanogasparotti@ababrera.it

Questo comporta che, per Althusser, il mondo non è altro che la compresenza di un multiverso casuale di
orizzonti spazio-temporali prodotti da incontri che sono sempre eccezionali.
In che senso “casuale”? Nel senso del casus dei latini, che contemporaneamente significa sia letteralmente ciò
che cade, ciò che ci cade addosso al di là di ogni nostra volontà e di ogni prevedibilità. Sia un’occasione da
sfruttare.Tutto dipende dagli incontri e ogni incontro è imprevedibile e casuale, come imprevedibili e casuali
sono le conseguenze che scaturiscono da ogni incontro.
E tutto questo per Bourriaud fotografa perfettamente la condizione artistica nell’era della globalizzazione, nella
quale il motore e la ragion d’essere di ogni opera è offerta dal volume di incontri da cui essa è scaturita –
incontri che, nel mondo globalizzato, possono accadere a 360%, al di fuori di ogni limite, confine, gerarchia…
Scrive B. : “Le opere d’arte creano delle relazioni, e queste relazioni sono esterne ai loro oggetti”(p.170)
La stessa cultura è una “cassetta degli attrezzi”, dice B., tutto dipende da quali attrezzi vengono da essa estratti
e combinati tra loro e come vengono usati, non da ciò che essi consentono di produrre. E tutto questo, in fondo,
è molto duchampiano….
Il problema che, in sede critica, pone questo modo di concepire l’arte contemporanea proposto da Bourriaud sta
nel fatto che esso rischia di far cadere ogni specificità dell’arte, rispetto a qualsiasi altra attività umana nel
mondo. In modo tale da non riuscire più a capire dove sta l’arte stessa, il che finirebbe per vanificare questi
stessi discorsi, queste stesse interpretazioni del contemporaneo.Perché continuare a parlare di arte
contemporanea, come fa Bourriaud - se veramente tutto potrebbe essere arte, oppure no?
E perché continuare a chiamare ad esporre artisti, come fa Bourriaud smentendo i Situazionisti, e non chiamare
a proporre il loro lavoro personaggi qualsiasi: salumieri, odontotecnici, tennisti, avvocati, pastori, acrobati e
fisioterapisti?
Quanto Bourriaud riprende da Marx riguarda la definizione marxiana dell’essenza dell’uomo in quanto uomo e
la naturalità del produrre in quanto tale. Non riguarda solo la produzione artistica! Bensì ogni forma di umana
produzione in quanto è produzione.
A meno che – e questa potrebbe essere un’interpretazione plausibile- Bourriaud non consideri l’arte come la più
pura ed essenziale manifestazione del PRODURRE in quanto tale – ovviamente nel senso della postproduction.

II.8. Julius Evola e il dadaismo italiano


Julius Evola nacque a Roma nel maggio 1898 da una famiglia siciliana di nobili origini, tant’è vero che sarà
spesso chiamato con l’appellativo de “il barone”. Sin dalla sua prima adolescenza si interessò in egual modo
alla filosofia e alle arti. Frequentando gli ambienti artistici dell’avanguardia romana di quegli anni, appena
diciottenne inizia a frequentare lo studio di Giacomo Balla, diventando suo allievo tra il 1915 e il 1916, quando
conobbe personalmente anche il fondatore del movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti.
Nonostante tali frequentazioni, Marinetti non aderì mai al movimento futurista, perché, come dichiarò egli
stesso nella sua autobiografia intellettuale Il cammino del cinabro(pubblicata originariamente nel 1963 per le
edizioni Scheiwiller di Milano e poi riedito recentemente nel 2014), Evola era letteralmente infastidito da alcuni
aspetti e contraddizioni del Futurismo, che egli stesso indica in quest’ordine:
a)la mancanza di interiorità a favore di una estroversione superficialmente “chiassosa ed esibizionistica”
b)un vitalismo “grezzo”
c)la confusa miscela di macchinismo, americanismo e nazionalismo
Nel 1930, Evola scriverà sulle pagine di una rivista del tempo, un bilancio critico della stagione futurista,
dall’eloquante titolo “Simboli della degenerescenza moderna”, dove spiega i motivi, secondo i quali il
Futurismo rappresenta uno dei sintomi della decadenza spirituale nel mondo moderno.
Evola prende lo spunto da uno degli articoli del Manifesto tecnico della letteratura futurista redatto da
Marinetti, nel quale si dichiara di voler “distruggere l’Io nella letteratura, cioè la psicologia”.
Evola interpreta tale proposito con la volontà di distruggere l’Io con lo scopo di riportare l’uomo alle sue
componenti meramente animali e sottoumane, nell’abbandonarsi cieco a quello che Evola definisce
“misticismo convulso e frenetico della materia, della sensualità, del movimento”.
Anziché, dunque, andare verso l’oltreuomo, ossia l’Übermensch nietzschiano, il Futurismo, secondo Evola,
preferisce regredire verso un pre-uomo tutto istinto, materia, pulsioni immediate, spingendosi addirittura oltre
l’animalità, sino a negare la vita stessa sostituita dall’efficienza meccanica della macchina.
47
romanogasparotti@ababrera.it

Il risultato, scrive Evola, è un “uomo meccanizzato, animalizzato e americanizzato a un tempo”.


Con la conseguenza che, secondo Evola, il Futurismo non ha nulla a che vedere con altre avanguardie storiche
come cubismo, espressionismo, dadaismo, in quanto esso rappresenta, piuttosto, una sorta di degenerazione del
puro sensismo impressionista, in chiave regressiva.
La pittura futurista, poi, specifica Evola – che la conosceva bene essendosi formato con Balla – elimina ogni
“trasfigurazione simbolica dell’oggetto”, per mostrare gli oggetti nella loro nuda meccanica materialità fisica.
Nella sua componente politica, poi, rileva Evola, il Futurismo esalta il senso più grezzo e plebeo del
patriottismo e del nazionalismo, emulando la superficialità del “bluff all’americana”.
Pertanto, conclude l’articolo, se i futuristi si sono autopresentati come la punta dell’”orgoglio italiano”, della
“genialità latina” e come “l’anima delle nuove generazioni”, essi, in realtà, per Evola, non rappresentano altro
che una generazione decadente di “disfatti” e di “relitti”…
Evola – che nel 1914 era interventista sì, ma a favore dell’intervento “naturale” dell’Italia in guerra accanto ai
suoi partners della Triplice Alleanza, cioè Germania e impero d’Austria-Ungheria – critica anche la posizione
dei futuristi sulla guerra, favorevole ad intervenire, al fianco di Francia e Gran Bretagna contro gli imperi
centrali ritenuti - insensatamente secondo Evola – simbolo della più rozza barbarie.
Evola, invece, guarda al mondo germanico come al fulcro di un complesso di tradizioni nobili, le quali
incarnano l’anima più profonda dell’Europa, ma che sono state col tempo dimenticate e alterate, mentre vede
nella Gran Bretagna e nella Francia i modelli di una modernità vuota e priva di solide radici. Marinetti, dopo
aver letto un articolo sulla guerra scritto da Evola nel 1914, gli aveva detto: “Le tue idee sono lontane dalle mie
più di quelle di un esquimese”…
Con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, Evola vi partecipa in quanto tenente, operando sul fronte montano
di Asiago.
Tornato a Roma, alla conclusione della guerra, Evola confessa di aver attraversato un periodo di grave crisi
personale, dato dall’incapacità di adattarsi al corso consuetudinario della vita normale, che lo porta anche a
sperimentare l’uso di sostanze psicotrope, tra cui funghi allucinogeni, con lo scopo di spingersi verso stati di
coscienza ec-statica ultra-fisica e ultra-corporea.
Tali esperimenti, ammette Evola, rischiarono di condurlo alla follia, cosicché egli vi pose fine per sempre,
ritenendo, però, che esse gli furono comunque utili, se non altro per avergli rivelato le oscure possibilità, che si
celano nel profondo del nostro spirito e per averlo stimolato, in seguito, ad interessarsi sia di occultismo ed
esoterismo da un lato, sia delle pratiche indiane dello Yoga(Evola scriverà ben due libri sullo Yoga: L’uomo
come potenza 1926 e Lo Yoga della potenza 1949).
In ogni caso, giunto a 23 anni, nel 1821, l’età in cui due idoli del giovane Evola come Otto Weininger(l’autore
di “Sesso e carattere” nel 1903) e C. Michelstaedter(autore goriziano de “La persuasione e la rettorica”)
posero fine alla loro vita col suicidio, anche Evola medita di emularli, ma lo indussero a desistere due fatti
concomitanti, come egli stesso confessa nel Cammino del cinabro:
1)la lettura di alcuni testi buddisti sul tema del “risveglio”(che ispireranno poi una delle opere filosofiche di
Evola intitolata proprio “La dottrina del risveglio”), nei quali rimase colpito in particolare da queste parole:
“Chi prende l’estinzione come estinzione e, presa l’estinzione come estinzione, pensa l’estinzione(…), pensa
‘Mia è l’estinzione’ e se ne rallegra, costui, io dico, non conosce l’estinzione”
Grazie a queste sibilline parole, Evola capisce che se la sua crisi personale è dovuta al suo essere condannato ad
insistere sempre nella medesima condizione, mentre il fine principale dell’uomo sarebbe quello di ESISTERE
sino in fondo, nel senso dlel’existere, ovvero nell’essere capace di trascendere ad oltranza, di andare al di là di
ciò che attualmente è e possiede, allora questo fine non può essere realizzato con la morte volontaria, la quale,
anzi, lo incatena definitivamente a ciò che egli è, rendendo ciò che egli è ed ha addirittura perfectum, nel senso
di definitivamente compiuto - così com’è - nel suggello della morte.
Il fine di estinguersi potrà, invece, essere raggiunto, cercando di continuare a vivere costantemente proteso e
proiettato oltre ogni limite dato.
2) Il secondo elemento di salvezza fu l’adesione al dadaismo.
Come Evola scrive ancora nel “Cammmino”, ciò che lo affascina subito del dadaismo e di Tzara, è il fatto che
Dada non voleva rappresentare una nuova tendenza artistica, né produrre qualcosa di nuovo ad ogni costo, ma il
fatto che DADA voleva risvegliare e esprimere al massimo la generale tendenza propria di tutto ciò che è
48
romanogasparotti@ababrera.it

profondamente umano di protendersi verso la liberazione assoluta della vita umana da ogni vincolo e da ogni
limite, attraverso “lo sconvolgimento di tutte le categorie logiche, etiche ed estetiche”(p.69)
Anche quella dadaista, quindi, è, a suo modo, una dottrina del risveglio, la quale può realizzarsi solo portandosi
al di là del sì e del no, in tutti i sensi, sino al punto che da portare l’arte stessa a non essere più arte.
Evola diventa così, con la benedizione diretta di Tzara, il principale animatore e protagonista della stagione
dada romana del 1921, poco prima dello scioglimento del movimento stesso avvenuto nel 1922 a Parigi.
Il suo apporto artistico all’esperienza dada consiste, in particolare, nell’esibizione di quadri di “distruzione del
paesaggio”, la realizzazione di affreschi dadaisti, la lettura di poemi da lui stresso scritti, il commento pubblico
dei manifesti dada e varie celebrazioni dei funerali del Futurismo.
L’approdo successivo di Evola pittore è all’arte astratta, che Evola interpreta come naturale esito del dadaismo,
nella sua aspirazione all’incondizionato e all’assoluto.
Evola critica il passaggio di una consistente parte del dadaismo storico nel surrealismo, perché ritiene che il
surrealismo fosse una regressione rispetto all’autentico spirito dada, una regressione per certi aspetti vicina alla
degenerazione futurista, per quanto riguarda il suo totale rimettersi, sino ad abdicare, al più istintivo ed
elementare automatismo psichico inconscio.
Del surrealismo Evola condannava anche la contiguità con la psicoanalisi, che Evola non apprezza nella misura
in cui, anziché spingere l’uomo a trascendersi verso il più che uomo, lo portava a sprofondare nel caos di
pulsioni – umane troppo umane, avrebbe detto Nietzsche - dell’inconscio.
Tra il ’20 e il ’21, l’attività espositiva di Evola come pittore è piuttosto intensa, si registrano due personali alla
Galleria Bragaglia di Roma, una personale a Berlino, varie mostre collettive a Milano, Losanna e altre sedi
italiane ed europee.
Molti dei suoi quadri del periodo recano il titolo de “Paesaggio interiore” + data e ora del giorno.
Nel 1920, Evola aveva pubblicato anche per la Collection Dada in sole 99 copie numerate e firmate il poema
dadaista in francese La parole obscure du paysage intérieur.
Verso la fine del 1921, Evola capisce che la sua ESPERIENZA ESISTENZIALE, ovvero il suo insopprimibile
andare oltre ogni condizione data, gli impone anche di considerare ormai superata la fase pittorica stessa.
Si apre per lui, quella che lui stesso chiamerà fase filosofica, la quale lo porterà a scrivere alcuni capolavori
della filosofia italiana del primo ‘900.
Buona parte dei suoi quadri andò dispersa. Le opere reperibili saranno esposte nel 1963 in una personale
retrospettiva alla galleria romana “La medusa” curata e presentata da Enrico Crispolti.
Il ritiro di Evola dalla pittura è dettato anche dall’avvertimento del fatto che la stessa arte astratta europea ormai
andasse sempre più verso forme accademiche e di scuola, ormai prive di qualsiasi forma di intrinseca vitalità e
potenza.
Per tracciare un bilancio del dadaismo di Evola, è interessante leggere una Lettera aperta che Evola inviò alla
rivista fascista L’impero dell’aprile 1923, in polemica con un articolo sull’esperienza dada pubblicato su quella
rivista da un certo Gino Gori, studioso di questioni estetiche, il quale, a detta di Evola, aveva fornito una
versione del tutto distorta dell’esperienza dada.
In questa Lettera, che intende difendere l’autentico spirito dadaista, Evola mette in luce i seguenti elementi:
a)Il merito di Dada è di aver esasperato al massimo la potenza dell’Io umano, in una condizione storico-
culturale, nella quale, invece, si andava verso la negazione dell’Io a favore di una sorta di misticismo ora
animalista e naturista, ora materialistico-meccanicistico.
b)Di fronte al fatto che l’autore dell’articolo criticava Dada per l’incoerenza, la contraddittorietà e l’eccesso di
paradossalità, Evola replica che la logica basata sull’opposizione del sì e del no, rappresenta uno dei massimi e
mortificanti ostacoli all’autoemancipazione dell’Io.
Nel giustificare ciò, Evola riprende uno dei capisaldi della sua filosofia che stava elaborando proprio in quegli
anni del cosiddetto “periodo filosofico”, che culmineranno nella dottrina dell’Individuo assoluto.
Evola sostiene che Dada voleva risvegliare appieno la potenza vitale e creativa dell’Individuo assoluto quale
libero creatore e signore assoluto di sé stesso e del mondo – senza più alcuna distinzione tra sé stesso e mondo
– in maniera tale che tutte le forme che delimitano e regolano il divenire del mondo e, quindi, delimitano l’Io
stesso appaiano come destinate ad essere continuamente create e distrutte dall’Individuo, nella misura in cui
esso si riscopre assoluto. Create per essere distrutte e ricreate ad un superiore livello di perfezione.
49
romanogasparotti@ababrera.it

Ciò comporta che se l’Io si fa veramente assoluto, scrive Evola, allora ogni realtà e ogni aseità del reale – cioè
il fatto che il reale si presenti come irriducibilmente altro rispetto all’individuo umano stesso - sono finalmente
state del tutto consumate e dissolte, affinché l’Io stesso possa sperimentare livelli sempre più intensi di potenza
autorealizzante.
E dada – sottolinea Evola- sostiene l’assoluta e suprema Indifferenza del potenziare e dell’annullare, attraverso
un’Azione continua – insieme produttiva e distruttiva- la quale non può mai arrestarsi, in quanto o oogni suo
arresto ogni arresto comporterebbe il consolidarsi stabile ed opaco di una realtà data e immodificabile,
oggettiva e a se stante,
ogni suo arresto provocherebbe il riconsolidarsi di una realtà esterna all’Io stesso, la quale non potrebbe che
mortificare la potenza vitale dell’ Io stesso, ponendo fine irrimediabilmente al suo risveglio.
c)Evola contesta il fatto che dada sia considerato un movimento spontaneista e istintivo.
Al contrario, scrive Evola, dada è assoluta mediazione, nel senso che nulla, per dada viene immediatamente
affermato, posto, prodotto, ma tutto si invera passando attraverso la sua negazione, che è negazione della
negazione all’infinita potenza.
E’ semmai il Futurismo, dice Evola, la massima glorificazione dell’ istintivo, caratterizzato dal culto per
l’immediatezza, laddove invece – ribadisce Evola- “il dadaismo è precisamente l’antitesi del futurismo”
d)Evola nega anche ogni rapporto diretto, a parte l’innegabile concomitanza storico-temporale, tra dadaismo e
cubismo, nel senso che il cubismo, rileva Evola, è animato dal proposito di una ricostruzione e ricomposizione
architettonica della natura e del mondo, dal quale invece dada è del tutto esente.
e)Riguardo poi alla affinità di dada e filosofia dialettica hegeliana sostenuta dal Gori, Evola obietta che se
consideriamo Hegel come il filosofo che, in generale, sosteneva che non esiste mai nulla di puramente
immediato, perché ciò che appare immediato lo è solo astrattamente, ma, concretamente è l’esito di un processo
infinito di mediazioni di mediazioni, così come ciò che è mediato può sempre apparire nella sua immediatezza,
se considerato astrattamente, ossia dal punto di vista dell’Intelletto astraente e non dalla ragione– allora dada è
hegeliano. E tuttavia Evola mette altresì in luce che la dialettica hegeliana pone il concreto, ossia il terzo
momento in cui si compie ogni dialettica del reale, come quell’universale che ha tolto e superato ogni
individualità e che , per Hegel, è il solo reale, è il reale per eccellenza, mentre il pensiero di Dada, secondo
Evola, è l’espressione del farsi assoluto dell’Individuo in quanto tale. Da questo punto di vista, quindi, Dada
non è affatto hegeliano, nella misura in cui il pensiero hegeliano mira alla negazione e all’oltrepassamento di
tutto ciò che particolare e individuale a favore dell’universale, il quale universale, però, secondo Evola, non può
che essere vuoto e astratto, in quanto, per Evola, solo l’Individuo vivente e potente è concreto e reale .
f)Riguardo alla critica secondo la quale le realizzazioni artistiche di Dada sono trascurabili in quanto tali, ossia
in quanto realizzazioni, Evola obietta che si tratta di una critica completamente fuori bersaglio, dal momento
che, ricorda Evola, Dada non intendeva affatto produrre oggetti d’arte, ma anzi intendeva sospendere la
creazione artistica stessa, ossia ciò che è solo ed esclusivamente produzione di oggetti destinati a STARE come
tali.
Evola ribadisce che Dada intende mostrare nel modo più intenso che l’arte si esprime nella negazione di sé
stessa.

Evola ritornerà su tali questioni in maniera più articolata, in un saggio pubblicato nel 1925, in Appendice al suo
libro filosofico Saggi sull’idealismo magico, col titolo de Sul significato dell’arte modernissima, dove l’arte
modernissima, per Evola, è l’arte che si sviluppa oltre il moderno e cioè fondamentalmente l’arte che si
dischiude con le avanguardie storiche e ha i suoi vertici nel dadaismo e nell’astrattismo.
In questo testo, sin da subito, Evola mette in chiaro il fatto che continuare a ragionare sull’arte come
espressione dell’intenzione dell’artista attraverso l’impiego dell’abilità tecnica è qualcosa di totalmente
estraneo allo specifico dell’arte e ancora più estraneo rispetto all’arte modernissima.
Estraneo all’arte, ribadisce Evola, è anche ogni considerazione del significato delle sue opere, nonché del
senso dell’arte stessa, perché palare di senso dell’arte e del significato dell’opera non dice nulla dell’arte e
dell’opera, ma dice solo qualcosa a proposito di ciò che l’arte può rappresentare per un certo determinato
soggetto, in relazione con le contingenti aspettative o esigenze di tale soggetto, con la conclusione che si finisce

50
romanogasparotti@ababrera.it

per trattare del soggetto presunto responsabile della produzione artistica e non dell’arte in quanto tale, la quale,
per Evola, esula tanto dai soggetti quanto dagli oggetti.
Uscire dai limiti e dai condizionamenti di un tale modo di pensare, che ci allontana irrimediabilmente dall’arte,
proprio mentre ci vorrebbe dire che cosa è arte, comporta considerare e pensare l’atto dell’arte in quanto tale,
nella sua piena autonomia. L’opera d’arte, per Evola, è ATTO, nell’accezione più forte del termine e quindi, in
quanto tale, è qualcosa di più della sua mera apparenza fenomenica – ovvero dell’oggetto empirico a cui tale
atto può dar luogo – e anche qualcosa di più e di diverso rispetto ai significati che possono essere attribuiti agli
effetti dell’atto stesso.
Evola si pone la domanda: che cosa distingue l’arte da altre dimensioni e attività umane di carattere pratico-
produttivo? La risposta data è che solo l’opera d’arte nella sua illimitata plasticità e nella sovrana indifferenza
del suo atto autonomo non dipende né dall’empiricità dei suoi oggetti né dal significato degli stessi, né dalla
personalità o dalla psicologia dei suoi soggetti.
L’aver colto questo fondamentale carattere proprio di quella che Evola chiama “grande arte” è patrimonio di
tutta la grande filosofia che si è interessata all’arte, da Platone, a Kant a Schelling, i quali hanno sempre
sottolineato, pur in diverse maniere, il fatto che l’arte è qualcosa che proviene da una dimensione addirittura
extraumana, servendosi semmai dell’Io umano come di uno strumento più o meno inconsapevole.
E Evola cita opportunamente la concezione platonica dell’arte come espressione della “divina follia” theia
mania, la concezione kantiana dell’arte come opera del Genio e la concezione schellinghiana dell’arte, secondo
la quale perché vi siano arte ed esperienza estetica, bisogna che l’artifex sia anche poietés, nel senso che il suo
poiein sia espressione di una scienza e di una pratica inconscia, la quale sorprende, spiazza e si pone come
contraddizione del suo produrre libero, cosciente, riflessivo.
E tale forza inconscia, dice Schelling, è ciò che, nell’arte:
“non si può imparare, né ottenere o coll’esercizio o in altro modo, ma può essere solamente innato per il libero
dono della natura, ed è quello che, in una parola, possiamo chiamare nell’arte, la poesia”
Tali concezioni filosofiche dell’arte, ravvisa Evola, sono accomunate dal conferire all’uomo artista un carattere
puramente medianico in riferimento ad una creazione che avviene fuori e altrove rispetto allo specifico umano.
Con l’arte modernissima, però, è cambiato tutto e perciò deve cambiare radicalmente anche la filosofia nel suo
riflettere sull’opera d’arte. Le estetiche occidentali, che Evola ha citato, da un lato continuano ad attribuire una
attenzione comunque decisiva all’artista, per quanto considerato nella sua medianicità(ossia come puro medium
dell’apparire dell’opera, decisivo in quanto medium) e dall’altro concepiscono la genesi dell’opera come
qualcosa che sfugge all’uomo e non gli appartiene.
L’arte modernissima astratta, invece, per Evola, quale compimento delle avanguardie storiche, pone
definitivamente fine anche a tale modo di concepire l’arte, essendosi portata sul piano di ciò che Evola
definisce formalismo assoluto.
Nell’”arte modernissima”, la forma ha assorbito in sé qualsiasi contenuto, divenendo esposizione di un
formalismo puro e, perciò, assoluto.
Se la grande arte pre-astratta subordinava il mezzo espressivo al contenuto espresso, nel senso che i mezzi e gli
strumenti espressivi erano scelti e finalizzati in relazione ai contenuti da esprimere, con l’arte astratta, invece,
“l’accento viene invece fatto cadere sul mezzo espressivo e a questo si va a subordinare, come mezzo o
grezza materia, ogni contenuto”.
Se, nella grande arte, la stessa forma doveva essere adeguata al contenuto, nella misura in cui ogni determinato
contenuto doveva avere la sua forma più adatta, ora, con l’arte astratta, “si fa della forma il contenuto e del
contenuto invece la materia contingente per l’espressione della forma”.
Con la conseguenza che non c’è più una sorta di contenuto a priori o di fondo da esprimere secondo la forma
più adeguata(al contenuto stesso) attraverso i mezzi più idonei, ma domina su tutto un puro amore per la forma
in quanto tale. Una forma che, quindi, non è più ciò che viene a delimitare e definire l’apparire del contenuto,
ma costituisce l’origine e il fine assoluti di ogni espressione artistica. La quale non è nemmeno più espressione
di qualcosa(di un certo contenuto da esprimere), ma è diventata pura espressione di sé stessa: autoespressione.
Da qui, precisa Evola, la denominazione di arte astratta: “astratta in quanto non ha un oggetto propriamente
detto da comunicare”, né da esprimere, sia esso natura, sentimento, idea, concetto in quanto l’espressione

51
romanogasparotti@ababrera.it

ormai non esprime altro che la sua stessa espressività, che la pura forma dell’espressività stessa, senza
contenuto.
L’arte così, chiarisce Evola, è diventata pura musica, la quale non vuol più dire nulla, in maniera tale che lo
stesso spettatore è sollecitato a non cercarvi né la percezione di un oggetto, né l’espressione di un’idea o di un
significato, ma è impegnato solo a “lasciarsi imbevere” dai flussi ritmico-sonori evocati dall’opera.
Non c’è più nulla da capire, nulla da conoscere, nessun significato, ma solo qualcosa che si può FAR PROPRIO
in una totale ed empatica immedesimazione.
E allora, dal punto di vista filosofico, argomenta Evola, prima l’artista comunque era il medium espressivo di
qualcosa di universale che gli pre-esisteva e che veniva ad esprimersi e comunicarsi attraverso la sua téchne - in
modo tale che l’individuo non era altro che l’organo espressivo di Dio o della Natura, totalmente subordinato,
quindi, ad essi e pre-condizionato totalmente da essi. In ciò, la techne dell’artista aveva la sua importanza
decisiva, sia pure a livello puramente strumentale, mentre la coscienza e la volontà consapevole dell’artista
erano ridotti ad un minimum, tant’è vero che l’artista si stupiva egli stesso di quanto espresso dal proprio fare.
Ora, invece, con l’arte astratta, è l’espressione stessa dell’Individuo in quanto tale, che sta al centro dell’intero
processo del fare artistico. Attenzione però: non già l’Individuo in quanto persona, in quanto soggetto
depositario di sentimenti, idee, concetti, perché ciò che Evola chiama Individuo assoluto è l’espressione stessa
in quanto espressione che esprime se stessa, senza contenuti, ma a livello puramente e necessariamente
formale. Assolutamente non c’è più alcuna traccia di soggettivo e oggettivo, perché la realtà che appare è
l’individuo fattosi assoluto, ossia puro atto. da qui il FORMALISMO ASSOLUTO.
Nella seconda parte dello scritto Evola precisa che questo processo che condurrà verso il formalismo assoluto
dell’arte astratta, inizia con il SIMBOLISMO di poeti come Rimbaud, Verlaine e Mallarmé, i quali rendono
completamente il mondo esterno una “foresta di simboli”, come aveva detto Baudelaire, con i quali la coscienza
dell’Individuo manifesta una misteriosa simpatia ed empatia, le quali producono la distruzione e la dissoluzione
dell’Io determinato e cioè separato, in maniera tale che, dalle ceneri del vecchio Io possa rinascere l’Individuo
assoluto, in una sorta di risveglio che inizialmente si dà solo per “illuminazioni” per usare un termine tipico
della poesia di Rimbaud.
A partire da questo esito, Evola fa partire due possibili vie alternative:
una via involutiva, attraverso la quale l’Io liberato, sfrutta tale liberazione per costruire altri mondi o mondi
alternativi, i quali, quindi, finiscono per de-limitare e condizionare un’altra volta l’Io, impedendogli di essere
assoluto e incondizionato
[NOTA filosofica– Quando Evola parla di Individuo assoluto parla di un Io il quale non ha più nulla di esterno
o estraneo ad esso con cui relazionarsi e che lo limita e lo condiziona – e quindi non è più il tradizionale Io - in
quanto ha assorbito totalmente ogni eccedenza e ogni alterità entro se stesso, nella misura in cui ogni alterità
non è altro che voluta dall’Io stesso, non è che un voluto dall’Io o l’autoespressione dell’Io, nell’atto del suo
continuo e sempre in fieri autoaffermarsi. Un tale Io trasfigurato, per Evola, non ha nemmeno più nulla di
universale, perché non è un concetto, né è concettualizzabile – e l’universale abita la dimensione del concetto –
bensì è pura singolarità, pura singolarità assoluta, così come singolare è sempre l’evento in quanto tale, ciò che
concretamente accade in ogni accadere(solo il significato lo universalizza, benché, in realtà, ciò che accade
accade sempre singolarmente, per una volta sola…).
Evola vede nell’IDEALISMO la tendenza dominante della filosofia moderna. Idealismo significa riportare tutto
entro l’orizzonte pensante, togliendo ogni alterità ad esso contrapposta. Evola considera la vicenda
dell’idealismo moderno il processo della progressiva autoemancipazione e liberazione dell’Io pensante/agente
rispetto a tutto ciò che possa originariamente limitarlo e condizionarlo. Tutto comincia nel 1600 con il
razionalismo di Descartes(Cartesio), il quale riesce ad uscire dal dubbio radicale e dallo scetticismo universale
solo a partire dalla posizione dell’incontrovertibile originarietà della res cogitans(letteralmente sostanza
pensante a livello universale, Io pensante universale), per quanto, influenzato dal nascente pensiero scientifico-
sperimentale, egli finisca per opporre come co-originaria alla res cogitans un’altra sostanza, la res extensa,
contenente gli oggetti e i corpi fisici, dando luogo così al cosiddetto “dualismo cartesiano”. Gli sviluppi
successivi della filosofia razionalistica cercano di superare tale dualismo, che già nella speculazione cartesiana
era fonte di aporie(per risolvere le quali Descartes aveva, per esempio, dovuto far ricorso all’ipotesi della
ghiandola pineale, nel tentativo di spiegare come si possano raccordare nell’uomo che è anima pensante e corpo
52
romanogasparotti@ababrera.it

fisico e cioè tanto res cogitans quanto res extensa, le due sostanze del tutto eterogenee, opposte e separate).
Kant compie un grande passo avanti in questa direzione trasformando la res cogitans nell’Io penso(sede
universale e trascendentale di tutte le categorie e forme a priori attraverso le quali ogni pensante conosce il
conoscibile), ma lo stesso Kant, distinguendo tra la conoscibilità del fenomeno e l’inconoscibilità del noumeno,
ammette che c’è qualcosa che sfugge necessariamente ad ogni presa conoscitiva da parte del soggetto
conoscente, restandovi irriducibilmente Altro: appunto la Cosa in sé come noumeno. L’idealismo dialettico
culminante con Hegel sembrerebbe aver risolto definitivamente la questione riportando tutto entro l’orizzonte
unico e intrascendibile del pensiero pensante, con la conseguenza che non c’è più una Cosa in sé fuori del
pensiero pensante(e quindi neanche una res extensa opposta e separata alla res cogitans), in quanto la res
cogitans di Descartes e l’Io penso di Kant sono diventati unità originaria assoluta(ossia tale da non essere
originariamente limitata, né condizionati da niente altro, dal momento che ogni altro è un contenuto interno al
pensare assoluto stesso). Secondo Evola, però, nemmeno questa può dirsi la soluzione più compiuta e
definitiva, perché? Perché – come sosteneva parallelamente anche Marx nella sua critica a Hegel – tale
soluzione si colloca tutta all’interno dell’orizzonte del puro pensiero pensante, ovvero all’interno dell’astratta
universalità di un orizzonte solo concettuale, che, nella sua astrattezza e pura idealità, lascia di nuovo fuori
qualcosa: la realtà concreta ed effettuale, la quale, per Evola, coincide con l’esperienza vissuta di colui che
pensa, il quale pensa, vuole e agisce sempre come singolo Individuo e mai come astratta universalità(Io penso,
res cogitans, soggetto, persona ecc.). Il fine del pensiero moderno, allora, non è stato conquistato nemmeno
dall’idealismo hegeliano(per quanto un passo in avanti ulteriore sia stato compiuto). Secondo Evola tale fine lo
si può raggiungere solo riconducendo tutto l’esistente effettivo all’Individuo in quanto Individuo assoluto,
rispetto al quale ogni presunta alterità(ogni tu e ogni altro) non è che riflesso di sé e del quale ogni accadere è
volontaristica autoespressione: il mondo, comunque sia, è sempre solo ciò che l’Individuo ha liberamente
voluto nella sua incondizionata responsabilità.]
La strada involutiva è quella che accomuna l’estetismo del primo ‘900 alla D’Annunzio, il futurismo e, per altri
aspetti, anche il cubismo, nella misura in cui esso vuole ricomporre architettonicamente un nuovo mondo più
reale di quello percepito con i sensi.
L’altra via, invece, positiva e feconda è quella intrapresa dal dadaismo, nel quale – scrive Evola – l’Io, nel suo
iperattivismo, cerca di risolvere all’interno di sé ogni determinazione, distruggendo e annichilendo tutto ciò che
appare esterno all’Io o estraneo all’Io stesso. Senza cadere nella trappola della negazione, la quale
riprodurrebbe quell’alterità altra, che invece va del tutto consumata e dissolta.
Per questo i dadaisti, rileva Evola, sospendono la negazione per approdare alla pura indifferenza.

A questo punto, Evola ci dà anche una originalissima interpretazione del ready made duchampiano. Egli dice
che l’arte dada, in quanto manifestazione dell’Individuo assoluto non ha più alcun bisogno di riappropriarsi
dell’esperienza trasfigurandola in modo lirico e simbolico, perché? Perché, scrive Evola, tutto ciò che c’è, “nel
suo nudo esser là” è immediatamente l’Individuo assoluto stesso.
Da qui la conseguenza che l’arte non ha bisogno di cercare, dal momento che ha sempre già trovato, essendo
tutto ciò che c’è già l’espressione espressa dell’Individuo assoluto stesso.
In questo modo l’arte, dice Evola, è divenuta AUTORIVELAZIONE. Di modo che ogni oggetto è
indifferentemente arte in quanto autorivelarsi della realtà dell’Individuo assoluto, ma non nella determinatezza
di questo o quell’oggetto, non nei suoi contenuti, e nemmeno nei suoi particolari significati, bensì nella sua
pura forma senza contenuto, la quale coincide con la pura forma dell’ Individuo assoluto. Laddove questa pura
forma non fa che celebrare festivamente l’infinito superpotenziarsi dell’Individuo assoluto stesso.
Ecco perché, dice Evola, per Dada e Duchamp tanto la Gioconda con i baffi, tanto un biglietto del tram possono
essere arte dadaista.
E se questo è difficile da essere colto dallo spettatore, ammette Evola, ciò accade ed è giustificabile, nella
misura in cui lo spettatore non si pone dal punto di vista dell’Individuo assoluto, ma continua a porsi come un
Io determinato, il quale si trova a confrontarsi/scontrarsi con oggetti esterni ed estranei altrettanto determinati,
nel suo far esperienza. E così vi è sempre qualcosa che gli manca e che egli deve desiderare, inseguire e volere
impotentemente, esponendosi ad una frustrazione infinita, dal momento che se il suo esserci e il suo volere sono
limitati da altro, tale alterità l’Io potrà solo infinitamente inseguirla, senza mai poterla possedere.
53
romanogasparotti@ababrera.it

A questo punto Evola cita direttamente un passo tratto da uno dei manifesti dada di Tristan Tzara, quello che
fornisce le istruzioni per comporre un poema dadaista:
Prendete un giornale, una forbice e individuate nel giornale un articolo della lunghezza che volete dare al vostro
poema. Poi ritagliate con cura ognuna delle parole che lo compongono e mettetele in un sacchetto. Agitate
dolcemente, dopodiché lasciate uscire casualmente i pezzetti dal sacchetto e copiateli coscienziosamente. Il
poema vi rassomiglierà.
La frase chiave per Evola è proprio quest’ultima. Non solo perché sottolinea il fatto che l’arte non è il prodotto
o la creazione di un certo soggetto-artista. Non solo perché testimonia come tutti possiamo essere nel contempo
autori e spettatori, ossia sempre co-produttori.
Ma soprattutto perché rivela che tutto ciò che c’è così come di volta in volta appare è l’Individuo assoluto
stesso, nient’altro che l’atto dell’individuo assoluto stesso. Il poema vi rassomiglierà. Tutto non potrà che
rassomigliarmi. Perché tutto sono Io in quanto Individuo assoluto!!
Non c’è più bisogno, allora, continua Evola, di stabilire che le opere d’arte appartengono solo ad una certa
classe o insieme di oggetti, perché “tutto è specchio in cui l’individuo potrà ritrovare sé stesso”.
Tutto ciò che si può trovare è già in origine stato creato artisticamente dalla inesauribile potenza dell’individuo
assoluto. La creazione è sempre già avvenuta e l’ho già fatta io, GIA’ FATTA. Tutto, quindi, è già stato fatto e
attende solo semmai di essere ri-fatto. Tutto, quindi, è ready made, a prescindere dalla sua funzionalità, utilità o
inutilità. Indifferentemente!
Tutto è il MIO poema. E non esiste nemmeno più alcuna differenza tra artisti e non artisti, tra produttore e
fruitore o spettatore.
Il puro spettatore non esiste, per il semplice fatto che non c’è nulla da vedere, nulla da contemplare, nulla da
incontrare, perché tutto è già stato fatto, qualsiasi cosa verrà ad apparire l’ho già fatta io, anzi SONO IO
STESSO. Da qui il valore catartico dell’opera d’arte dadaista e modernissima, dovuto al fatto che è come se
l’opera dicesse a chiunque non ‘diventa autore!’, bensì ‘sperimenta te stesso nella tua nuda incondizionata
libertà’! Ma anche nell’immane responsabilità che ciò comporta.
In questa prospettiva, l’arte dada, dice Evola, segna un punto di non ritorno, in quanto nella concezione
dell’arte più in là è pensabile non si possa andare, per quanto le opere possano essere sempre diverse, proprio
perché la libera attività creatrice dell’individuo assoluto è inesauribile e incondizionata, secondo i ritmi di ciò
che Evola chiama “realizzazione magica”, il cui filo conduttore sta appunto nel ritmo e nella pura forma.
L’opera d’arte si è ormai rivelata essere il processo dell’infinito autocrearsi dell’individuo assoluto. E tutto è
diventato opera d’arte… per l’individuo in quanto Individuo assoluto…essendo ATTO dell’Individuo assoluto
stesso(atto che, in quanto tale, non è separabile dall’Individuo assoluto stesso che esso in quanto atto realizza)
Tale processo di realizzazione dell’Individuo assoluto annunciato dall’arte dadaista e modernissima, rileva
Evola, non si è ancora pienamente e totalmente compiuto in tutte le dimensioni della vita e nella
consapevolezza di tutti gli individui. L’arte lo ha anticipato ed Evola si sente come lo Zarathustra di Nietzsche,
ovvero colui che vede già ora, quanto gli altri uomini sperimenteranno chissà quando. L’opera d’arte lo mostra
ORA come già compiutamente realizzato.

54
romanogasparotti@ababrera.it

55
i S.Shimamoto, Avant-garde Art – Drawing Flowers in Wartime
ii S.Shimamoto, Art is Astonishment

Potrebbero piacerti anche