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Laozi

Daodejing 道德經
Il canone della Via e della Virtú

A cura di Attilio Andreini


Testo a fronte
Introduzione
Quale testo? Quale autore?

… the Laozi itself tells us nothing of the Daoist religion (…) Clearly, to understand
Daoism it is the commentaries we need to study rather than the Laozi itself.

STEPHEN R. BOKENKAMP , Early Daoist Scriptures, p. 30.

1. Laozi 老子, il «Vecchio Maestro».

Per i pensatori cinesi dell’epoca classica, biografia e agiografia si


sovrappongono in modo pressoché sistematico e Laozi 老 子 , il «Vecchio
Maestro», noto anche come Lao Dan 老 聃 (Vecchio Dan), non fa certo
eccezione. A ciò va aggiunto che la natura delle opere ascritte ai cosiddetti
«Maestri» (zhuzi 諸 子 ) che vissero tra il V e il III secolo a.C. è
sostanzialmente collegiale, frutto della stratificazione di materiale
gradualmente aggiunto e adattato da discepoli che tributavano il piú vivo
rispetto verso pensatori identificati come punti di riferimento morale e
dottrinale. Al di là della loro storicità, le figure di maggior spicco
all’interno dei diversi orientamenti di pensiero si trovarono, cosí, a essere
identificate come «autori» di opere che, in realtà, non avevano scritto di
proprio pugno. L’autorevolezza di un «autore», quindi, passava attraverso la
mancata responsabilità diretta nella stesura di quell’opera che avrebbe
consegnato ai posteri l’immagine esemplare di un saggio che non era, in sé,
«creatore» bensí «oggetto di creazione». Non stupisce, dunque, come le piú
recenti ricerche evidenzino la debolezza dell’interpretazione secondo cui
Laozi sia stato l’autore dell’omonima opera, celebre anche con il titolo
Daodejing 道德經 (Scrittura canonica del Dao e della [Sua] Possanza, piú
spesso tradotto Il Canone della Via della Virtú).
Fonti compilate tra il IV e il II secolo a.C. riconducibili a varie correnti di
pensiero narrano che Laozi ricevette la visita di Confucio (Kongzi 孔 子 ,
circa 551-479 a.C.), dal quale fu interpellato sul significato piú profondo
delle tradizionali norme rituali (li 禮 ). Come emergerà nel dettaglio in
seguito, questo episodio gioca un ruolo decisivo nella definizione del
profilo di Laozi e, da solo, basta a porre seriamente in dubbio la
convinzione che egli fu davvero il fondatore del daoismo (o meglio il
capofila degli «Esperti del Dao», Daojia 道 家 ), nonché l’autore della
scrittura canonica per eccellenza di questa tradizione filosofico-religiosa
che ancora sopravvive in Cina 1.
La prima «biografia» di Laozi a noi giunta fu compilata da Sima Qian 司
馬 遷 (circa 145-86 a.C.), che nello Shiji 史 記 (Memorie di uno storico)
tentò con evidente difficoltà di far luce sull’identità del personaggio di cui
ci stiamo occupando:

Laozi era originario del villaggio di Quren 曲仁, – scrisse Sima Qian, – che sorgeva
nella prefettura di Li 厲 presso il distretto di Ku 苦 2, nel regno di Chu 楚 . Il suo
cognome era Li 李 3, il suo nome proprio Er 耳, il suo appellativo Boyang 伯陽 e il suo
nome postumo Dan 聃. Egli era uno storiografo incaricato della custodia degli archivi
reali della dinastia Zhou 4.

Un avvio cosí minuzioso lascia presagire un resoconto circostanziato, ma


il resoconto che segue si rivela discontinuo, a tratti cauto, costellato da «…
si dice che…, alcuni riferiscono che…» e a tratti fin troppo audace.
L’impressione è che Sima Qian abbia cercato di colmare le lacune dei
riscontri a sua disposizione fabbricando un ritratto che ha il sapore di
«sintesi» tra vari personaggi: l’archivista della casa reale Zhou, al quale
Confucio chiese istruzioni sui riti; l’autore del Laozi, nonché fondatore
della tradizione «daoista»; un altro pensatore di Chu, Lao Laizi 老 萊 子 ,
contemporaneo di Confucio, al quale Sima Qian ascrive un’opera in
quindici capitoli che tratta delle applicazioni pratiche degli insegnamenti
degli Esperti del Dao; lo storiografo Dan 儋 (Taishi Dan 太史儋), che nel
374 a.C. predisse la supremazia del regno di Qin 秦 . «Alcuni dicono che
(Taishi) Dan fosse Laozi, altri lo escludono. Nessuno al mondo conosce la
risposta. Laozi era un insigne gentiluomo (junzi 君子) che decise di ritirarsi
dalla vita pubblica», sentenziò Sima Qian 5. Un particolare spicca: i caratteri
dan 聃 (in Lao Dan) e dan 儋 (in Taishi Dan) possono essere considerati, al
di là della loro difformità, varianti in grado di esprimere entrambe
l’omofona parola 耽 che significa «dalle grandi orecchie con i lobi
pendenti». Anche er 耳, carattere impiegato per indicare il nome proprio di
Laozi, significa «orecchio». Questa ripetuta allusione non è casuale, poiché
le grandi orecchie esprimono un tratto fisico peculiare degli immortali.
Guarda caso, prima di salutare il mondo e scomparire, Laozi avrebbe
raggiunto le estreme lande d’Occidente – luogo solitamente associato alla
terra degli immortali – e, infine, consegnato nelle mani di Yin Xi 尹 喜
(l’ultimo guardiano dislocato nell’avamposto di frontiera piú remoto) un
testo di sole cinquemila parole nel quale era custodita la sua somma
saggezza.
La sovrapposizione operata da Sima Qian tra differenti personaggi ha
certo concorso ad accrescere la fama di Laozi quale «emulo» di
Matusalemme: lo Shiji riporta che il vecchio saggio visse centosessanta,
forse addirittura duecento anni, in virtú della sua maestria nell’abbracciare
il Dao e nell’apprendere le tecniche per raggiungere la longevità 6.
Maurizio Scarpari ha evidenziato come fin dal II secolo a.C.
«l’iconografia funeraria prima, la statuaria religiosa in seguito, si
appropriarono delle diverse versioni della leggenda, alimentando cosí gli
aspetti fantastici di una storia destinata a diffondersi con grande successo
tra ampi strati della popolazione» 7. Laozi divenne ben presto il vero
Maestro per quanti erano dediti alla ricerca dell’immortalità e alla
contemplazione mistica del Dao. Assurto al rango di Immortale, Laozi
avrebbe subito ripetute reincarnazioni nei secoli, offrendo soccorso a sudditi
e imperatori perché fossero assistiti nel tentativo di restaurare l’armonia
interiore e la pace sociale. L’elaborazione di un mito attorno alla figura di
Laozi trasse vigore dall’apporto graduale di elementi nuovi, ma anche
dall’estensione e dall’adattamento di particolari già presenti nella leggenda
«primitiva». Per fare un esempio, il viaggio verso Occidente intrapreso da
Laozi venne motivato, nel tempo, dalla necessità di convertire le
popolazioni «barbare» dell’India e dell’Asia centrale, alle quali si sarebbe
manifestato come «Buddha» 8. Elementi autoctoni derivati dalla tradizione
cinese si sposarono ad altri riconducibili al buddhismo e a differenti culture
centro-asiatiche, agevolando il processo di divinizzazione del «Vecchio
Maestro» che, stando ad alcune interpretazioni, divenne il «Vecchio
Bambino» sulla base di una suggestiva doppiezza di significato propria del
termine zi 子 «maestro; bambino». Ciò contribuí ad alimentare la
convinzione che il Vecchio Saggio nacque, già canuto e in sé perspicace, da
un parto miracoloso di Madre Li, che lo partorí dall’ascella sinistra.
Scarpari si è soffermato con dovizia di particolari sui tre principali miti
relativi alla nascita di Laozi che si svilupparono tra il IV e il VII secolo: nel
primo mito, Laozi vide la luce in Cielo 9; stando al secondo, la nascita
avvenne in terra, ma i tratti sovrannaturali della narrazione permangono
poiché la Madre è, in verità, Laozi stesso che ha abbandonato la propria
condizione di Puro Vuoto per incarnarsi in un corpo fisico, che a sua volta
lascerà dopo 81 10 anni di gestazione; il terzo mito, infine, assimila la nascita
di Laozi a quella di Buddha 11.
Al di là dei riscontri di natura prettamente leggendaria e agiografica, il
dato sostanziale che può davvero risultare decisivo ai fini di una verifica
della storicità del personaggio resta l’incontro con Confucio, che lo Shiji
menziona in due distinte occasioni. Nella sezione biografica dedicata a
Laozi la narrazione riflette una prospettiva «daoista», mentre dalla versione
riportata nella sezione dedicata al lignaggio familiare di Confucio trapela
una chiave ovviamente piú vicina alla sensibilità dei Ru 儒 , ovvero quei
«letterati» o «classicisti» che, per praticità, possiamo definire «confuciani»:

Confucio si mise in viaggio per raggiungere [la capitale di] Zhou con l’intento di
consultare Laozi a proposito delle norme cerimoniali. Laozi gli si rivolse dicendo: «Ciò
cui ti riferisci deriva da uomini che sono ora carne e ossa per vermi: di loro non restan
che parole. In piú, quando un gentiluomo incontra i favori del proprio tempo si sposta in
sontuose carrozze, mentre è sballottato quale foglia al vento se il momento non gli è
propizio. Ecco quanto ho appreso: il mercante avveduto occulta cosí bene le proprie
scorte da sembrarne sprovvisto; il Vero Gentiluomo che trabocca di Possanza ha i modi
dello stolto. Líberati della tua arroganza, dell’avidità, delle tue pose affettate e dei
lincenziosi propositi: nulla di tutto questo ti sarà di alcuna utilità. Altro non ho da
aggiungere».
Confucio si congedò e piú tardi si rivolse ai suoi discepoli dicendo: «Questo so: gli
uccelli volano, i pesci nuotano e gli altri animali corrono veloci. Per catturare questi
ultimi si fanno reti; per quelli che nuotano, lenze; per quelli che volano, frecce. Se, però,
penso al drago, non riesco a comprendere come possa cavalcare le nubi e ascendere al
Cielo. Oggi ho incontrato Laozi: ebbene, non è forse un drago?» 12.

Nangong Jingshu di Lu chiese al proprio principe il permesso di recarsi presso [la


capitale di] Zhou accompagnato da Confucio. Il principe fece predisporre una carrozza
con due cavalli e mise a disposizione un attendente. Nangong Jingshu e Confucio
partirono dunque alla volta della capitale per chiedere lumi riguardo alle norme
cerimoniali e fu probabilmente in quell’occasione che incontrarono Laozi.
Terminata la visita, Laozi prese congedo dicendo: «Ho appreso che ricchi e nobili
d’alto rango elargiscono beni preziosi, mentre chi è mosso dall’amore per gli altri lascia
in dono le proprie parole. Mai fui capace di conseguire ricchezza e nobiltà; tuttavia,
godendo senza merito alcuno della fama di uomo che custodisce in sé un profondo
amore per il prossimo, siano queste le mie parole di commiato: chi, pur spiccando per
perspicacia e finezza d’intelletto, alla morte tanto si accosta, vuol dire che forse ama fin
troppo rimbeccare gli altri; quegli eruditi e quegli abili oratori che si espongono al
pericolo suscitano, in realtà, solo l’odio altrui. Oh figli, oh sudditi, non abbiate mai
l’ardire di sentirvi fino in fondo padroni della vostra persona!» 13.

Se è vero che il resconto di Sima Qian rappresenta il punto di partenza


per ogni investigazione sull’identità di Laozi, lascia pur sempre trapelare
l’opacità delle fonti da lui consultate, come scrisse con mal celato
disincanto Arthur Waley 14, al punto che, stando a William Boltz, dovremmo
arrenderci di fronte alla mancata fondatezza della figura di Laozi cosí come
traspare dalle fonti tradizionali 15.
Seguendo simili prospettive d’indagine, dalla ricostruzione di Sima Qian
affiora, dunque, l’intento di ricomporre un quadro organico a partire da
evidenze scarse e contraddittorie al punto da paventare il sospetto che
Confucio potrebbe aver riverito un personaggio che visse oltre cento anni e
che attraversò il tempo assumendo spoglie diverse, ovvero quelle
dell’autore del Laozi Daodejing, di Taishi Dan e forse anche di Lao Laizi.
Vi è un punto su cui il lettore dovrebbe soffermarsi con attenzione: il Laozi
è storicamente ritenuto un testo, almeno a tratti, fortemente
anticonfuciano… La questione, a questo punto, si fa intricata e le
contraddizioni crescono. Infatti, se «quel» Laozi identificato come autore
del Laozi fu davvero Lao Dan, com’è possibile che Confucio abbia con
tanto ardore voluto consultare un proprio oppositore su una questione cosí
scottante come quella dei riti, molto cara ai confuciani ma non certo ben
vista nel Laozi? E, cosa ancora piú curiosa, perché mai le fonti confuciane
si sarebbero soffermate su un incidente – ovvero l’incontro tra Confucio e il
«daoista» Lao Dan – che, in realtà, sarebbe stato piú conveniente
insabbiare? Ma non basta: quanto appena esposto è imputabile all’autore
dello Shiji o ad altri? E, infine, la domanda cruciale: a partire da quando
Lao Dan / Laozi cominciò a essere identificato con l’autore del Laozi?
Al fine di rispondere ai quesiti che sono stati or ora sollevati, occorre
spostare la nostra attenzione su altre opere e altri personaggi. Il Zhuangzi 莊
子 (Libro del Maestro Zhuang 莊 [Zhou 周 ], personaggio vissuto
probabilmente tra il 365 e il 290 a.C.) è forse la piú antica fonte di cui
disponiamo ad attestare che Confucio fece visita a Lao Dan, registrando
l’evento in ben otto occasioni 16. Non va dimenticato che l’aneddoto,
riproposto in termini smaccatamente tendenziosi, spesso burleschi, compare
soltanto nei waipian 外篇, che costituiscono una delle sezioni storicamente
ritenute piú tarde dell’opera 17.
Diversamente, i neipian 內篇 – la porzione forse piú antica del Zhuangzi
– chiamano in causa Lao Dan in tre episodi, di cui solo uno 18 allude allo
studio di Confucio sotto la guida di Lao Dan:

Lo storpio [che aveva fatto visita a Confucio] informò Lao Dan dell’accaduto,
dicendogli: «Per aspirare a diventare un Uomo Perfetto, Confucio ha ancora molta
strada da fare, non Vi pare? Perché mai è cosí impaziente di ricevere i Vostri
insegnamenti?» 19.

La presenza del suddetto passo nella sezione presumibilmente piú antica


del Zhuangzi suggerisce che forse già tra il IV e il III secolo a.C. circolavano
testimonianze che facevano menzione dell’incontro tra Lao Dan e
Confucio. Ma basta ciò a confermare che le piú antiche tracce
dell’avvenimento siano davvero da ricondurre al Zhuangzi? E quando si
affermò l’idea che Lao Dan istruí Confucio? Con ogni probabilità ciò
avvenne prima che Lao Dan fosse identificato come il progenitore del
daoismo, ossia quando ancora non circolava un testo a lui attribuito
percepito dai piú come anticonfuciano qual è il Laozi receptus.
Risulta arduo credere che i resoconti della visita di Confucio a Lao Dan
derivino da fonti proto/pseudo daoiste, o quantomeno non confuciane. Se
cosí fosse, come è già stato evidenziato, non si spiegherebbe il motivo per
cui i confuciani avrebbero incluso nei loro testi piú rappresentativi un
episodio tanto imbarazzante, posto che Lao Dan fosse davvero ritenuto
l’autore del Laozi… 20. L’unica ragione plausibile dietro a un simile
«scandalo» è che, almeno per un certo periodo, Lao Dan non fosse recepito
come un «daoista» oppositore dei valori confuciani. Se cosí è stato,
Confucio potrebbe davvero aver dato prova di somma umiltà e desiderio di
apprendere consultandosi con l’insigne Lao Dan, archivista presso la
biblioteca reale dei Zhou e, per certo, una solida autorità in materia di
norme cerimoniali.
Una prospettiva verosimile è che Zhuang Zhou, o altri pensatori che
hanno contribuito alla compilazione di brani inclusi in quello che è divenuto
poi il Zhuangzi, siano stati sedotti dall’idea di dipingere Lao Dan a loro
guisa e, forti del fatto che quel fatidico incontro fosse, senza ombra di
dubbio, ormai di dominio pubblico, abbiano dipinto il vecchio, savio
archivista come un iconoclasta e dissacratore capace di coprire di ridicolo
tanto Confucio quanto i suoi seguaci.
Maurizio Scarpari ha evidenziato come il processo d’identificazione di
Confucio con la figura paradigmatica di «Maestro» sia stato lungo e
articolato, tanto che la definizione di un corpus di opere canoniche che ne
riflettesse il pensiero comportò non poche alterazioni e interpretazioni
strumentali del messaggio originario 21. Come avviene per ogni grande
figura del passato, la destoricizzazione è spesso il primo passo verso la
canonizzazione, ossia il conferimento del sommo grado di autorevolezza.
Ciò è avvenuto per Confucio e in maniera ancora piú pronunciata per Laozi,
il «Maestro del Maestro», se è vero che Lao Dan istruí davvero Confucio.
L’autorità e il carisma di Laozi e del Laozi si fondano, pertanto, anche su
forme «derivative», quasi «parassitarie» di legittimazione. Forti indizi
sembrano confermare che sia l’opposizione stretta tra confuciani e daoisti
sia la convinzione che Lao Dan fosse l’autore di un’opera a tratti
anticonfuciana quale il Laozi receptus si affermarono relativamente tardi,
ossia intorno al III secolo a.C. 22. Entrambi i succitati elementi rientrano, con
ogni probabilità, in un progetto volto ad accrescere l’autorevolezza di
determinate teorie sommariamente identificabili come «proto-daoiste» 23, il
tutto a detrimento di Confucio e dei Ru. Opere come il Zhuangzi sono
ricche di testimonianze che c’inducono a ritenere che, gradualmente,
l’immagine di Lao Dan si sovrappose a quella del saggio daoista, pacato, sí,
ma anche caustico nel farsi beffe del moralismo confuciano.
Ciò detto, non stupisce piú allora che testi identificati come «daoisti»
riportino l’incontro tra Confucio e Lao Dan, esibendo un evidente debito o
una sudditanza della dottrina confuciana verso una figura che, a posteriori,
fu eletta a padre fondatore del daoismo. Né ci disorienta che queste opere
tratteggino un Confucio impacciato, messo alla berlina da un implacabile
Lao Dan che, dall’alto della propria autorità, demolisce uno a uno i
capisaldi dell’etica confuciana. E neppure deve piú sorprendere che fonti
confuciane attestino come Confucio abbia studiato sotto la guida di Lao
Dan. Risulta pertanto doveroso scindere Lao Dan, figura quasi certamente
«storica», da Lao Dan / Laozi presunto autore del Laozi Daodejing.
Giunti a questo punto, non resta che constatare quanto sfuggente sia il
profilo del «Vecchio Maestro», assimilato, come abbiamo visto, a un
imprendibile «drago». La speranza è che almeno il testo che porta il suo
nome parli, finalmente, in modo perentorio, spazzando via ogni dubbio.

2. Il textus receptus e le principali versioni del Laozi.

a) Il textus receptus e la tradizione a stampa.

Nel passare da Laozi al Laozi, ovvero dalla fluttuante instabilità del mito
su cui poggia la figura dell’autore alla granitica certezza – solo auspicata,
come vedremo – di un testo, ebbene, i dubbi e le incertezze non solo
permangono ma, forse, s’infittiscono.
«Laozi coltivava il Dao e la [Sua] Possanza (De 德 )», riferisce Sima
Qian,

… e la sua dottrina mirava al ritiro dalla vita pubblica per sottrarsi al peso della fama.
Egli visse a Zhou per lungo tempo, poi, testimone del declino della casa reale, decise di
partire. Raggiunto l’estremo passo di frontiera, l’ufficiale di guardia ivi dislocato, Yin
Xi, gli si rivolse dicendo: «Ora che siete sul punto di ritirarVi, insisto perché mi lasciate
uno scritto di Vostro pugno». Fu cosí che Laozi compose un testo di oltre cinquemila
parole, diviso in due sezioni, che trattava dei principî del Dao e della [Sua] Possanza
(De). Poi si congedò. Nessuno mai seppe dove finí i suoi giorni 24.

Possiamo affermare che il passo appena riportato rifletta davvero la


modalità in cui è stato compilato il Laozi? E fino a che punto il textus
receptus ricalca la struttura dell’originale? Siamo certi che l’assetto
dell’opera prevedesse da sempre 81 stanze distribuite in due sezioni
principali, intitolate Dao (stanze 1-37) e De (stanze 38-81)? 25.
Prima di tentare di rispondere a queste domande è necessario ribadire
che la paternità delle opere cinesi del periodo classico si risolve pressoché
sistematicamente nei termini di un’affiliazione per correnti di pensiero che
sarebbe alquanto improprio definire «scuole», trattandosi di comunità
intellettuali molto ampie e dai tratti non sempre distinti. Ogni testo
attribuito a uno zi 子 «Maestro» esprimeva, in realtà, le posizioni di un
circolo d’intellettuali stretto attorno a una figura di riferimento, la cui
statura morale ispirava la comunità di accoliti che concorreva a celebrarne il
prestigio trasmettendo i contenuti dottrinali che meglio caratterizzavano
quel determinato «Saggio» 26. Cosí concepiti, i testi sancivano, dunque,
l’autorevolezza di un Maestro che non era tanto l’autore degli scritti che a
lui erano ricondotti, quanto il garante della legittimità degli insegnamenti
piú autentici nei quali si riconosceva una comunità di adepti. In suo nome si
giustificava anche l’accrescimento di nuovi principî dottrinali, che a lui
venivano – in molti casi – indebitamente ascritti. Partendo da annotazioni di
«lezioni» o conversazioni con i vari Maestri, presero cosí forma opere che
gli anonimi discepoli redassero senza mai rivendicare alcuna paternità in
senso stretto, poiché si trattava, in origine, di scritti senza autore (adespoti)
e senza titolo (anepigrafi). In altri termini, quando Confucio incontrò Lao
Dan non esistevano molti dei testi che oggi studiamo – testi intesi come
unità strutturali coese in virtú di un’identificazione con un autore
storicamente «certo» – e quelli che circolavano tra il V e il III secolo a.C.
avevano contenuti e strutture molto diversi dalle loro controparti diffuse a
stampa in epoche piú tarde 27.
Non è da escludere che il contributo di Liu Xiang 劉向 (circa 79-8 a.C.)
al consolidamento della struttura del Laozi sia stato ragguardevole, se è
vero che, come narrano le fonti, egli mise mano a diverse versioni
dell’opera, suddividendola in due sezioni rispettivamente di 34 e 47 stanze
e selezionandone, dunque, solo 81 dalle 143 da cui pare egli fosse partito.
L’impatto dell’intervento di Liu Xiang, tuttavia, resta difficile da misurare.
Quel che è certo, come sarà piú avanti mostrato con maggior precisione, è
che solo a partire dal I secolo a.C. il Laozi acquisí sia lo status che la
struttura che oggi gli riconosciamo, grazie anche all’attribuzione di un titolo
e di un autore a un corpus testuale che, fino ad allora, presumiamo fosse
ancora ampiamente instabile. Infine, durante la dinastia Tang 唐 (618-907)
l’opera trovò la propria consacrazione, che certamente contribuí a conferirle
un piú stabile assetto, grazie anche all’intervento dell’imperatore Xuanzong
玄 宗 (r. 712-56), il quale nel 735 impose al Laozi lo status di «scrittura
canonica» (jing 經 ) 28, vergando egli stesso un commento esegetico e
patrocinando la compilazione di un’edizione ufficiale dell’opera, che venne
scolpita nel 738 su una stele di pietra a otto facce, dando cosí luogo alla
cosiddetta edizione Yixuan 易玄 29.
Le piú antiche versioni a stampa del Laozi a noi giunte sono quelle
trasmesse assieme ai commentari di Yan Zun 嚴遵 (83 a.C. - 10 d.C., YZ),
di Heshanggong 河 上 公 (II secolo a.C.? / III-IV secolo d.C.?, HSG) e di
Wang Bi 王 弼 (226-49, WB). Il testo che accompagna il commentario di
Yan Zun, intitolato Laozi zhigui 老 子 指 歸 (Il Significato Essenziale del
Laozi, custodito nel Daozang con il titolo di Daode zhenjing zhigui 道德真
經 指 歸 ), è incompleto, in quanto la prima porzione (Daojing 道 經 , La
Scrittura canonica del Dao) è andata perduta tra il 1200 e il 1445. Il nome
originario di Yan Zun era Zhuang Zun 莊遵 e la sostituzione di Zhuang 莊
con Yan 遵 si giustifica in virtú della coincidenza del cognome dell’esegeta
con il nome proprio dell’imperatore Ming 明 (r. 57-75) della dinastia Han.
Insigne figura di erudito finissimo, esperto di divinazione, personaggio che
le fonti storiche ritraggono come schivo e dedito a una vita appartata, Yan
Zun produsse il Laozi zhigui, che oggi sopravvive nell’editio princeps del
Daozang 道藏 (Canone Daoista, 693), dove è indicato che il testo in origine
comprendesse 13 juan 卷 («rotoli, sezioni»), i primi sei dei quali non sono
giunti a noi. Il contenuto del Laozi su cui si basa il commentario di Yan Zun
converge in molti punti con quello dei manoscritti di Mawangdui 馬王堆,
che a breve verranno descritti 30. Nel caso di Heshanggong, siamo di fronte
a una figura immersa nel piú profondo mistero. Il suo nome, puramente
fittizio, significa «Venerabile Saggio [che dimora] sulla sponda del fiume» e
si riferirebbe a un eremita vissuto lontano dal trambusto del mondo,
immerso nello studio del Laozi. Nel rifiutare l’offerta di ricoprire l’incarico
di consigliere dell’imperatore Wen 文 (r. 180-157 a.C.) degli Han, il
vecchio saggio si guadagnò la stima del «Figlio del Cielo», che si prostrò al
suo cospetto. Heshanggong, a quel punto, gli fece dono di un commento al
Laozi scritto di suo pugno. Sia il commentario di Heshanggong che il testo
del Laozi assieme al quale è stato trasmesso (HSG) sono datati dagli
studiosi tra il II secolo a.C. e il III-IV secolo della nostra era 31.
Buona parte delle traduzioni e degli studi che viene oggi condotta sul
Laozi deriva dalle cosiddette versioni di Wang Bi (WB) e HSG, delle quali,
è doveroso qui sottolineare, esistono edizioni multiple (oltre trenta, nel caso
di HSG) che, tuttavia, evidenziano la presenza diffusa di microvarianti il cui
impatto sul testo è assai contenuto. Sebbene la somiglianza tra le due
versioni sia tale da rendere ammissibile la loro collocazione in seno alla
medesima linea di trasmissione, ciò non toglie che tanto WB quanto HSG
siano, oggi, profondamente alterati rispetto alle loro rispettive forme
«originali». L’influenza esercitata dal commentario di Heshanggong e dal
testo del Laozi che a esso si affiancava ha, infatti, profondamente alterato il
contenuto di WB, al punto che siamo nella condizione di poter affermare
con un elevato grado di certezza come l’esegesi condotta da Wang Bi si sia
basata su una versione del Laozi diversa da quella che poi ha
accompagnato, nei secoli, il suo celebre commentario. Gli studi di William
Boltz 32 e Rudolf G. Wagner 33 hanno affrontato nel dettaglio la questione,
producendo argomentazioni ampiamente condivisibili circa la
contaminazione di HSG ai danni di WB.
Quella che potremmo definire «vulgata», o textus receptus, s’identifica
solitamente con le versioni del Laozi incluse nel Sibu beiyao 四 部 備 要
(Collectanea delle principali opere suddivisa secondo le Quattro Categorie)
e nel Sibu congkan 四部叢刊 (Collectanea delle opere [antiche] suddivisa
secondo le Quattro Categorie), collezioni pubblicate all’inizio del XX secolo
che riproducono autorevoli edizioni di testi antichi. Il Sibu beiyao
custodisce WB e il relativo commentario assieme a un colofone del letterato
Chao Yuezhi 晁 說 之 (1059-29), cui si aggiungono annotazioni
supplementari di Xiong Ke 熊克 (circa 1111-84) e l’opera di Lu Deming 陸
德明 (556-627) intitolata Laozi yinyi 老子 音義 (Glosse fonologiche e di
commento al Laozi). Nel suo complesso, l’edizione del Sibu beiyao
riproduce la versione del Laozi della «Sala Wuying (Wuyingdian 武英殿)»,
che, a sua volta, si basa su una redazione di epoca Ming (1368-1644) 34.
Per quanto riguarda HSG cosí come è preservato nel Sibu congkan,
siamo di fronte a un’edizione che si rifà al testo custodito dal celebre
bibliofilo Qu Yong 瞿鏞 (1794-1846), che compilò un catalogo dettagliato
della propria biblioteca dal quale si evince che la versione del Laozi di cui
disponeva ne ricalcasse un’altra probabilmente databile al regno
dell’imperatore Xiaozong 孝宗 (r. 1163-89).
Non può essere trascurata la versione basata sul cosiddetto «testo antico»
(guben 古 本 ) curata da Fu Yi 傅 奕 (558-639, FY), derivante da un
manoscritto su bambú vergato almeno nel 202 a.C. e rinvenuto nell’anno
574 nella tomba di una concubina di Xiang Yu 項 羽 (233-202 a.C.),
aristocratico originario dello stato di Chu 楚 che contribuí in modo
determinante a rovesciare la dinastia imperiale dei Qin 秦 (221-206 a.C.).
Un’altra versione del «testo antico» fu curata in epoca piú tarda da Fan
Yingyuan 范應元 (inizio del XIII secolo, FYY): nonostante le differenze tra
FY e FYY, emerge come dato macroscopico l’appartenenza di entrambe alla
medesima famiglia testuale.
La tradizione a stampa del Laozi tende, in modo sostanzialmente netto, a
riconoscere un’ossatura portante dell’opera, divisa in due sezioni per un
totale di 81 stanze (zhang 章 ), sebbene vi siano versioni che, pur
rispettando la frattura tra due macroporzioni – cosí come contemplato da
YZ, HSG e WB –, accorpano o separano il contenuto delle stanze cosí come
appaiono nelle tre edizioni appena menzionate e fanno confluire una
quantità diversa di stanze nell’una e nell’altra sezione, distanziandosi cosí
dall’usuale «struttura» del Laozi (che prevede, lo ripeto, 37+44 stanze) e
creando in tal modo versioni ben distinte sia per numero complessivo di
stanze (64 [30+34], 67 [32+35], 68 [32+36], 72 [40+32], 78 [37+41]) sia
per numero di stanze presenti in ognuna delle due sezioni (34+47 oppure
36+45) 35.
L’esame della tradizione manoscritta tende, invece, a sconfessare il
resoconto dello Shiji riportato all’inizio del presente paragrafo, lasciando
intendere che il Laozi ha assunto la struttura che lo contraddistingue solo
gradualmente, assestandosi piano piano nei secoli a livello sia micro che
macrotestuale e convergendo in epoca relativamente tarda su un assetto
sostanzialmente stabile.

b) La tradizione manoscritta del Laozi.

L’apporto dei codici manoscritti si sta rivelando decisivo nel tentativo di


ricostruire la genesi del Laozi, al punto che quest’opera si trova oggi al
centro di una fervida attività di ricerca essendo stati rinvenuti testimoni
molto antichi che gettano nuova luce sulle diverse fasi che hanno portato al
consolidamento del textus receptus. Se i numerosi manoscritti del Laozi
rinvenuti all’inizio del secolo scorso a Dunhuang 敦 煌 (DH) confermano
un’aderenza stretta rispetto alla struttura delle versioni a stampa, le
testimonianze rinvenute prima a Mawangdui 馬王堆 nel 1973 (MWD), poi
a Guodian 郭店 nel 1993 (GD) e, infine, il cosiddetto «manoscritto di Beida
北大» (BD) presentano, singolarmente, aspetti inediti e sorprendenti.
Le recenti evidenze archeologiche paiono infatti confermare che l’opera
canonizzata dalla tradizione non scaturí ex abrupto dal pennello di un
singolo autore. Il textus receptus è il risultato (casuale e voluto, al
contempo) di un lungo processo di elaborazione di materiale non sempre
omogeneo. D.C. Lau ha già rimarcato come leggere il Laozi presumendo di
rintracciare in esso un pronunciato grado di coerenza e linearità sia stilistica
che dottrinale finirebbe per violare la natura stessa dell’opera 36. In passato –
come anche oggi… – vi sono stati studiosi che, certi dell’esistenza di un
originale perduto, hanno voluto ricrearlo per congettura, spostando pericopi
piú o meno estese ed emendando corruttele – vere o presunte tali – che si
riteneva avessero pregiudicato la comprensione del senso autentico
dell’opera. Simile procedura, pur lecita nell’applicazione di alcuni principî
che governano la critica testuale, si apre a non pochi rischi, il primo fra i
quali è quello di imporre al Laozi un assetto che, in realtà, esso non ha mai
storicamente assunto 37.
Prima ancora di affrontare la struttura di MWD, GD e BD, soffermiamoci
brevemente su due manoscritti del Laozi su carta, rinvenuti all’inizio del XX
secolo a Dunhuang all’interno di una grotta murata nel 1035 38: il Laozi di
Suo Dan 索 紞 (SD, trascritto intorno al 270), e un testimone battezzato
Xiang Er 想爾 (XE, S. 6825) risalente al VI-VII secolo, accompagnato dal
Xiang Er zhu 想 爾 注 (Commentario Xiang Er [al Laozi]), attribuito a
Zhang Daoling 張道陵 (II secolo) o al nipote Zhang Lu 張魯 (circa 188-
220) 39. XE è privo di articolazione testuale interna – caratteristica che lo
accomuna alla versione scolpita sulla stele Yilong 易 龍 , nota anche come
edizione Jinglong 景龍 (JL) o Longxing guan 龍興觀, databile al 708 40 – e
risulta irrimediabilmente incompleto, poiché solo la prima parte è
sopravvissuta pressoché integralmente, ovvero quella corrispondente alle
stanze 3-37 del Laozi receptus. La frammentarietà contraddistingue anche
SD, oggi preservato allo University Art Museum di Princeton: solo la
porzione che copre le ultime 31 stanze del Laozi è oggi ancora visibile 41.
I manoscritti su seta di Mawangdui 馬王堆 sono stati rinvenuti nel 1973
in una tomba risalente al 168 a.C. e consistono nel cosiddetto Laozi A (jia
甲, MWD A), scritto nello stile del «piccolo sigillo» (xiaozhuan 小篆), e nel
Laozi B (yi 乙, MWD B), vergato nello stile definito «degli scribi» (lishu 隸
書). Insieme definiscono i cosiddetti boshu Laozi 帛書老子 (testimoni su
seta del Laozi). La differenza del registro calligrafico e l’osservanza di
determinati divieti nel riprodurre termini interdetti per non ledere la somma
dignità imperiale dimostrano inequivocabilmente come MWD A fu trascritto
tra il 221 e il 206 a.C., ovvero prima di MWD B, riprodotto probabilmente
tra il 206 e il 194 a.C.
MWD A è trascritto su una pezza di seta larga 23,8 cm e lunga 318,2 cm,
assieme ad altre opere, tutte anepigrafe e adespote; tenuto conto delle
lesioni del supporto, il testo corrispondente al contenuto del Laozi occupa,
in lunghezza, uno spazio suddiviso in 169 colonne: piú precisamente, alla
prima porzione del supporto scrittorio, procedendo da destra a sinistra, è
destinato proprio un contenuto testuale assimilabile al Laozi receptus, cui fa
immediatamente seguito un altro scritto che si è rivelato essere di cruciale
importanza nella ricostruzione del pensiero confuciano classico, ovvero il
testo battezzato Wuxing 五 行 (I cinque modelli di condotta virtuosa),
suddiviso in «scrittura canonica» (jing 經, cc. 170-214) e commento (shuo
說, cc. 215-351).
Tornando a MWD A, dalla colonna 1 alla 91 trova collocazione materiale
testuale rispondente, in pratica, alle stanze 38-81 del textus receptus, nel
seguente ordine: 38, 39, 41, 40, 42-66, 80-81, 67-79.
Dalla colonna 93 alla 169 si estende, invece, un contenuto testuale
riconducibile alle stanze 1-37 del Laozi, cosí disposto: 1-21, 24, 22, 23, 25-
37.
La prima porzione di MWD A presenta almeno diciotto contrassegni
circolari in inchiostro nero, aventi la funzione di marcare una separazione
tra le stanze: dodici di essi cadono all’inizio di quelle che, dalla prospettiva
della vulgata del Laozi, corrispondono a stanze ben definite, ovvero 46, 51,
53, 57, 63, 64, 80, 69, 73, 75, 76 e 1; i restanti sei contrassegni occorrono,
invece, non piú per contrappuntare spazi che corrispondono a incipit
secondo la tradizionale divisione in 81 stanze, bensí all’interno del
contenuto testuale assimilabile alle stanze 46, 51, 52, 81, 72 e 75. Simili
evidenze confermano come le due principali macrosezioni (stanze 1-37 e
38-81, anzi, il contrario…) fossero già percepite come entità distinte dagli
editori/scribi di MWD A e che sussistessero criteri per operare chiare
separazioni tra le stanze, seppur in modo non sempre convergente con le
cesure previste nel textus receptus.
Il dato davvero rilevante, però, è rappresentato dall’ordine inverso cui si
presentano le due macroporzioni dell’opera rispetto al proprio assetto
tradizionale, al punto che alcuni studiosi hanno parlato di Dedaojing 德道
經 e non piú di Daodejing. Vale comunque la pena ribadire come, tuttavia,
non vi siano indicazioni precise circa la volontà dei responsabili della
trascrizione di MWD A di segnalare come quei due testi posti uno accanto
all’altro – assieme ad altre opere, sulla stessa pezza di seta – fossero da
intendersi come sezioni di un «libro», ovvero di un’unità omogenea ben
identificabile. Men che meno sussistono elementi in grado di confermare
che quei due testi costituissero proprio le sezioni in cui si articolava ciò che
già all’epoca era «sentito» come Laozi o Daodejing – o Dedaojing – che dir
si voglia.
La struttura interna di MWD B riproduce la stessa sequenza di stanze e la
medesima macrodivisione di MWD A, evidenziando, però alcune distinzioni
nette: innanzitutto, la pezza di seta su cui è vergato il testo misura 48 × 166
cm e le due porzioni riconducibili al Laozi, dislocate all’estrema sinistra del
supporto serico, seguono quattro distinte opere – tutte diverse rispetto a
quelle riprodotte sulla pezza di MWD A – che, stavolta, sono contrassegnate
con titolo e numero complessivo di caratteri. Ciò si applica anche agli
ultimi due testi inclusi nel prezioso manoscritto, intitolati, nell’ordine, De
(3041 caratteri, cc. 175-217) e Dao (2426 caratteri, cc. 218-52). Pur
disponendo di conclamati contrassegni identificativi, il modo in cui sono
state riprodotte le due unità testuali non lascia intendere la loro comune
appartenenza allo stesso «testo madre» 42.
Lo stupore crebbe ulteriormente quando, nell’ottobre del 1993, gli
archeologi riportarono alla luce un numero consistente di testi su listarelle
di bambú trascritti intorno al 300 a.C. e sepolti come corredo funebre nella
tomba n. 1 di Guodian 郭 店 , in cui era sepolto un dignitario dell’antico
regno meridionale di Chu 楚 . Il ritrovamento di un cospicuo numero di
testimonianze riconducibili al Laozi (GD) rafforzò certe convinzioni legate
alla complessa fase formativa del Laozi già espresse dagli studiosi a seguito
del ritrovamento dei due codici su seta di Mawangdui.
Le listarelle che possono associarsi al Laozi costituiscono tre diverse
unità testuali – contraddistinte dagli studiosi come Laozi A (jia, d’ora in
avanti abbreviato GD A), Laozi B (yi, GD B) e Laozi C (bing 丙, GD C) –
rispondendo a distinte caratteristiche tipologiche fisiche (dimensione,
forma, distanza tra i solchi prodotti per agevolare la legatura con i cordini
che univano le listarelle) e calligrafiche. Le differenze sono tali da portarci
inequivocabilmente a ritenere che i tre «fasci» fossero ritenuti dagli scribi
che li vergarono come opere disgiunte, pressoché indipendenti. I testi sono
tutti adespoti e anepigrafi. Delle 730 listarelle rinvenute a Guodian – che
compongono sedici opere filosofiche straordinarie dal punto di vista della
rilevanza speculativa, buona parte delle quali risultava sconosciuta da oltre
due millenni – 85 listarelle contribuiscono a gettare nuova luce sulla genesi
del Laozi. Tra esse, 71 listarelle conservano circa 2050 grafie ampiamente
compatibili con i due quinti del textus receptus, pur presentando varianti
talora significative rispetto al testo tradizionale. Le restanti 14 listarelle
ammontano a circa trecento caratteri e costituiscono, a seconda delle
interpretazioni offerte dagli esperti, uno o forse due testi inediti,
sostanzialmente omogenei tra loro e vicini al contenuto del Laozi. Vi è chi
riconduce queste 14 listarelle a un testo separato dal Laozi e in sé unitario,
arbitrariamente battezzato Taiyi sheng shui 太 一 生 水 (Il Supremo Uno
generò l’acqua), cosí come vi sono studiosi che identificano in ciò un
corpus da integrare ai tre fasci che costituirebbero il cosiddetto «Laozi di
Guodian» (GD).

GD A ammonta a 39 listarelle, lunghe mediamente 32,3 cm, su cui sono


riprodotti cinque blocchi testuali:

I: stanze 19, 66, 46, 30, 15, 64 (seconda parte), 37, 63, 2, 32
II: stanze 25, 5
III: stanza 16
IV: stanze 64 (prima parte), 56, 57
V: stanze 55, 44, 40, 9 43.
GD B risulta composto da 18 listarelle, lunghe in media 30,6 cm, in cui
figurano tre blocchi testuali:

I: stanze 59, 48, 20, 13


II: stanza 41
III: stanze 52, 45, 54.

GD C comprende 28 listarelle, della lunghezza media di 26,5 cm, con


una distanza tra i solchi per la legatura di 10,8 cm. Le listarelle associabili
al contenuto del Laozi sono 14 (quattro blocchi in tutto), le restanti vengono
solitamente identificate con il cosiddetto Taiyi sheng shui (tre blocchi):

I: stanze 17, 18
II: stanza 35
III: stanza 31
IV: stanza 64 (seconda parte)
V: Taiyi sheng shui (prima parte)
VI: Taiyi sheng shui (seconda parte)
VII: Taiyi sheng shui (terza parte).

L’uniformità della foggia delle listarelle che compongono GD C nella


sua totalità e il fatto che le grafie ivi vergate siano riconducibili, almeno
ipoteticamente, alla medesima mano, costituiscono evidenze sostanziali che
depongono a favore dell’omogeneità complessiva dell’intera sezione e
sollevano alcuni dubbi circa l’autonomia del cosiddetto Taiyi sheng shui 44.
Desta perplessità l’assenza in GD di una parte consistente e
tematicamente uniforme del Laozi receptus che corrisponde alle stanze 67-
81 45: vi è chi imputa ciò a cause accidentali (un furto, ad esempio,
trattandosi di una tomba piú volte violata), sebbene resti maggiormente
lecito attendersi che, al momento della trascrizione dei manoscritti di
Guodian, quel nucleo testuale che poi sarebbe coinciso con la parte
conclusiva del Laozi non fosse stato ancora scritto, o quantomeno non
facesse parte di un ipotetico «bacino» testuale che avrebbe fornito agli
estensori del Laozi materiale da rimaneggiare costantemente, sottraendo o
ampliando sezioni piú o meno estese, a seconda delle necessità cui dover
rispondere.
Prende, dunque, corpo l’ipotesi già avanzata da D.C. Lau secondo cui il
Laozi sarebbe il risultato di una lenta convergenza di pericopi in origine
autonome, ridotte per quanto riguarda l’estensione, duttili, che sono state
accorpate e accostate l’una alle altre nel rispetto di affinità tematiche e
dottrinali o, magari, senza una precisa ratio 46. Forse il materiale di Guodian
fotografa una fase «embrionale» del Laozi, al punto che andrebbe meglio
definito «proto-Laozi», non contemplando ancora buona parte delle 81
stanze sul modello del testo tradizionale. È indicativo che contenuti,
disposizione e lunghezza delle singole stanze siano in molti casi totalmente
difformi rispetto alla vulgata. Non compare, inoltre, la consueta divisione
tra le sezioni Dao e De, il cui ordine risultava invertito nelle due versioni di
Mawangdui. I recenti studi alimentano il sospetto che intorno al 300 a.C.
circa il Laozi non esistesse ancora in una forma compiuta e univoca, simile
per intenderci a quella del testo ricevuto. È quindi altamente improbabile
che Confucio, morto intorno al 479 a.C., abbia davvero incontrato l’autore
di questa misteriosa opera 47.
Vi è un ulteriore testimone manoscritto su cui è opportuno soffermarsi.
Nel gennaio del 2009 la Peking University (Beida 北 大 ) ha acquisito,
attraverso una donazione, un ingente numero di testi su listarelle di bambú e
tra questi vi era una versione del Laozi pressoché integra (BD). Analisi
paleografiche tendono a confermare come la collezione di Beida sia
databile intorno alla seconda fase del regno dell’imperatore Wu 武 (r. 141-
87 a.C.) della dinastia Han.
Al pari di MWD, anche BD risulta diviso in due macrosezioni, intitolate
però Laozi shang jing 老子上經 (Laozi, Scrittura canonica, parte prima) e
Laozi xia jing 老 子 下 經 (Laozi, Scrittura canonica, parte seconda). La
prima sezione consta di 2942 caratteri, la seconda di 2303, come indicato in
chiusura di entrambe le porzioni dell’opera. Ciò conferma l’attendibilità
dell’ipotesi, piú volte riscontrata nelle fonti, secondo cui al Laozi fosse già
stato accordato lo status di «scrittura canonica» (jing 經) a partire dal regno
dell’imperatore Jing 景 (r. 156-141 a.C.) degli Han. Un simile riscontro non
esclude certo che il Laozi potesse circolare nel II secolo a.C. anche in
edizioni diverse e con titoli alternativi, primo fra tutti quello di Daodejing,
sebbene l’acquisizione di BD suggerisca che quest’ultimo titolo prese piede
in un secondo tempo.
Una convergenza con MWD si riscontra anche sul piano dei contenuti
delle due macrosezioni: la prima coincide con le stanze 38-81 del textus
receptus, la seconda con le stanze 1-37. La disposizione delle parti riflette
l’ordine secondo la vulgata, per quanto l’accorpamento delle stanze 17-19,
6-7, 32-33 e 78-79 – nonché la separazione del testo corrispondente a Laozi
64 receptus in due distinte unità – diano come esito finale un testo di 77
stanze, ognuna delle quali è debitamente marcata, in alto, da un
evidentissimo contrassegno circolare d’inchiostro nero 48.

3. I contenuti filosofici del Laozi.

Preso atto della travagliata genesi del Laozi e dell’impossibilità di


un’attribuzione certa del testo a un «autore», non resta che superare l’ultimo
scoglio di una lettura pigramente indirizzata verso un senso univoco, dal
quale far risaltare un’impronta mistica forte, espressione di una comunità di
adepti dedita a pratiche di meditazione e di auto-coltivazione tese al
conseguimento dell’unità con il Dao 道 , l’Assoluto, l’ineffabile principio
che governa il cosmo. Per quanto sia ancora prevalente, la chiave
interpretativa mistico-religiosa non è, però, l’unica plausibile, essendo il
Laozi un’opera venata, tra l’altro, anche d’acume politico e militare. Non
siamo, pertanto, di fronte a un testo uniforme, lineare, e questo spiega come
sia stato possibile che da un cosí breve scritto abbiano potuto trarre
ispirazione movimenti di varia estrazione, che hanno fornito letture
contrastanti e spesso incuranti dell’humus culturale dal quale l’opera è
gradualmente sorta oltre due millenni fa 49.
Anche volendo ignorare la consacrazione del Laozi al rango di «scrittura
canonica (jing)», la sua natura unica emergerebbe comunque in modo
cristallino a quanti vi si accostano. Al pari di poche altre gemme letterarie,
la sfida al limite e la sfacciata paradossalità rappresentano, a mio avviso, le
caratterizzazioni precipue dell’opera in questione. Il Laozi, in altre parole,
osa. Il paradosso sostiene un impianto retorico costellato di affermazioni
assurde e contrarie al buon senso che, a un esame attento, si dimostrano
però ben solide. La sua forma espressiva – un lirismo-filosofico asciutto,
definito da alcuni «poesia sapienziale daoista» 50 – evoca con forza
iperbolica radicale, tanto per eccesso che per difetto, i piú remoti misteri del
cosmo e della dimensione umana, senza tuttavia tradurne le logiche in
forma compiuta. Sebbene l’opera, a piú riprese, invochi una sospensione
della parola – talora un’abiura del linguaggio –, essa è animata da una
tensione vibrante e asintotica per indurre il lettore ad abbandonarsi
all’indicibile segreto che tutto pervade, impartendo, paradossalmente,
comandamenti impraticabili, estremi. Da qui, come dicevamo in
precedenza, deriva il senso di approssimazione al limite, di fronte al quale il
testo desiste. Desiste dal descrivere e dal prescrivere, ricorrendo a un
apofatismo che non è rinuncia, ma soltanto un tentativo estremo di evocare
il Dao. In questa mancanza, in questa sconfitta apparente del pensiero e
della parola risiede la grandezza dell’opera, un’opera, si badi, che invoca il
silenzio. Del resto, in quale altra maniera sarebbe possibile esprimere il
sommo, profondissimo mistero che soggiace al tutto? La via apofatica, o via
«negativa», esprime certo una strategia familiare per approcciare
l’Assoluto 51.
L’apofatismo laoziano non solo mette in risalto una dimensione
essenzialmente teologico-spirituale cui è concesso accedere unicamente per
via «negativa», ma diventa congeniale ad articolare una strategia retorico-
concettuale che permea un discorso indirizzato verso pratiche esperienziali
concrete, che uniscono cosmologia, cura di sé e azione di governo 52.
Sottolineare questa valenza tripartitica è fondamentale per consentire al
lettore di cogliere fin d’ora un elemento che caratterizza il Laozi, facendolo
dialogare con altri testi cinesi del periodo classico. In tal senso,
l’apofatismo non va liquidato come «scorciatoia» per assecondare una
spinta di natura mistico-religiosa che anima un testo che ambisce a lambire
l’Indicibile. La via apofatica contraddistingue, invece, la sola strategia
obbligata, che parte da una precisa riflessione sul linguaggio e propone
soluzioni per ognuno dei tre campi che qui ribadisco: cosmologia, cura di sé
e azione di governo. Di quale tipo di riflessione sul linguaggio si tratta?
Innanzitutto di una riflessione che conduce a una presa d’atto della natura
convenzionale e infida della parola (ming 名 ): infida perché, essendo
strumento di dominio sul mondo, nel confidare in essa si rischia di non
riuscire piú a sottrarsi al suo subdolo potere, finendo per esserne dominati.
Quel che è stato appena espresso si arricchisce dei suggerimenti che
provengono da interpreti come Werner Jaeger e Pierre Hadot 53, i quali
hanno mostrato come nella Grecia classica l’educazione (paideia) e la
filosofia mirassero all’edificazione di un soggetto proteso alla ricerca di vie
capaci di condurre alla felicità (eudaimonia) attraverso pratiche – o forse
sarebbe meglio dire «esercizi spirituali» – che permettevano l’accesso al
mondo per via non-concettuale, non-speculativa, concreta e operativa.
Cogliendo uno spunto di Josef Pieper 54, sottolineo come l’educazione, in
particolare, venisse intesa anticamente come un percorso di
perfezionamento in grado di coinvolgere l’essere umano nella sua interezza.
In quanto capax universi, il soggetto era pertanto in grado di comprendere
la somma totale delle cose esistenti al di là delle specifiche competenze
richieste per i diversi ambiti dello scibile, come sottolineato da Paul D.
Grosch 55 sulla scorta di Hadot. Prima dell’avvento della Scolastica
medievale, la convinzione che corpo e mente necessitassero di stringersi in
unità per abbracciare quei principî soggiacenti al molteplice faceva sí che
ogni approfondimento in metafisica, epistemologia e morale avesse luogo
in virtú della convergenza piena tra speculazione teoretico-filosofica e
pratiche di natura spirituale.
Dopo quanto appena osservato, non deve dunque stupire se ci
appelliamo alla sostanziale congruità riconosciuta dai pensatori cinesi tra
cosmologia, cura di sé e azione di governo: i tre ambiti, pur distinti,
poggiano su principî uniformi e, nelle diverse tradizioni dottrinali, essi sono
stati elaborati adottando strategie di linguaggio metaforico ampiamente
condivise. Si pensi all’espressione zhi shen zhi guo 治身治國 «governare se
stessi e governare lo Stato, il regno», principio che accomuna le principali
correnti di pensiero cinesi antiche. Esso si fonda sulla relazione strettissima
tra shen 身 «sé, la propria persona» e guo 國 «regno, Stato»: solo quel
Sovrano in grado di tenere in debita considerazione la propria persona potrà
dimostrarsi degno di amministrare il potere (Laozi 13). Tutto qui? No, forse.
La propria persona andrebbe meglio intesa come elemento costitutivo e
pienamente partecipe della comunità politico-sociale che si riconosce nello
Stato, ragion per cui solo evidenziando il livello di compenetrazione
reciproca tra le due entità sarà possibile comprendere come pubblico e
privato siano valori convergenti, cosí come ogni azione volta alla cura di sé
non può che risolversi in decisione politica, e viceversa. Del resto, tanto il
corpo che lo Stato sono retti da organi/funzionari (guan 官 ) che agiscono
per mandato di un potere centrale (zhong 中), dove xin 心 «cuore, mente»
incarna il ruolo del sovrano (wang 王 ). Attenzione, però: lo spiccato
simbolismo che caratterizza certe opere e la loro forza evocativa analogico-
metaforica non dovrebbero portarci a farne panacee universali e trans-
temporali. Tuttavia, in quanto «classico», anche il Laozi, come altri testi
antichi – su tutti, ad esempio, il Sunzi bingfa 孫子兵法 (L’arte della guerra
del Maestro Sun) – ha dato luogo, nel corso della sua lunghissima storia, a
interpretazioni contrastanti, talora inconciliabili, e ha ispirato applicazioni
pratiche plurime, discordanti. Del resto, però, non potrebbe essere
altrimenti, proprio perché, mutuando la caratterizzazione tratteggiata da
Michael Nylan 56 dei classici confuciani, mutatis mutandis anche il Laozi ha
dato prova di possedere alcuni caratteri distintivi che lo hanno reso, di fatto,
un’opera capace di suscitare l’interesse delle comunità piú disparate.
Occorre, pertanto, calare il Laozi nella storia e ciò comporta
un’accettazione piena dell’ampia ricettività di significati e prassi che in esso
si sono sedimentati. Il peso della rilevanza storica e dottrinale assunta da
questo testo nei secoli dipende dalla sua peculiarità, che risiede nel senso di
mistero e di precarietà che lo pervade, sia nella forma che nell’articolazione
teoretica. L’inadeguatezza della parola e del discorso, nonché l’infondatezza
ontologica delle norme sociali, vengono ribadite con forza, raggiungendo
esiti paradossali. Poiché il Dao è una non-cosa – ovvero l’infinito processo
che vede convergere le opposte e contraddittorie forze che dominano la
realtà – allora sarebbe preferibile tacere anziché tentare di descrivere e di
rappresentare questa sfuggente coincidentia oppositorum. In ciò risiede la
tensione poetica del Laozi: ricorrere comunque al linguaggio – strumento
imperfetto e incapace d’imbrigliare la realtà – per tentare di abbozzare,
tratteggiare, evocare «qualcosa» che non è una cosa, né un oggetto…
«Qualcosa» che non ha né inizio né fine, «qualcosa» che sfugge all’umana
comprensione.
Il linguaggio, nel suo utilizzo convenzionale, ostacola, piú che
agevolare, sia la comunicazione tra gli individui sia la rappresentazione del
Dao. In fondo, è proprio attraverso il linguaggio che si dà forma all’arbitrio
e alla parzialità dell’esperienza umana. Nel linguaggio si sostanzia e si
consacra la nostra finitudine. Ecco, dunque, ciò che il Laozi compie: esso
scardina le regole e le simmetrie logiche, optando per un discorso
impossibile, estremo, contraddittorio, che è inattuabile se preso come
ispirazione «letterale» per indirizzare la propria condotta. Il Laozi opera un
ribaltamento dei valori attraverso un ribaltamento del senso del linguaggio,
per lasciare cosí il lettore in preda a una sensazione di straniamento
funzionale allo smantellamento dell’assolutezza dei criteri di giudizio in cui
confida. Il linguaggio non mira al disvelamento della verità, bensí mette a
nudo l’ipocrisia di ogni pretesa di verità. Ogni cosa reca con sé il proprio
opposto: anzi, dal proprio opposto trova la vera ragion d’essere. Le
predilezioni si fondano su considerazioni parziali nei confronti degli
oggetti, dei fatti, dei fenomeni. Ogni realtà è duplice, triplice, plurima… In
questo gioco di opposizioni stridenti, le definizioni saltano, i contorni netti
si disfano e ogni cosa si traduce nel proprio contrario (Laozi 2, 22, 41). La
logica dell’inversione, del ribaltamento (fan 反: Laozi 25, 40, 65) esprime
in tutta evidenza come l’esperienza di unione con il Dao comporti una resa
incondizionata di fronte all’idea che le proprie prerogative, le proprie
ragioni soggettive siano da smantellare, da dis-fare.
Un estremo tentativo di abbandono alla soverchiante complessità del
mondo nel suo incessante dispiegarsi, questo invoca il Laozi: l’accettazione
piena della realtà «cosí-come-è» (ziran 自然, Laozi 25), libera e necessaria,
autodeterminata. Dato che la legge di natura manifesta incuranza verso le
preferenze umane, ogni forma di rappresentazione del mondo e ogni
ambizione di correggerlo, «umanizzandolo» sono vane. La logica
antropomorfizzata è rigettata, ridicolizzata: gli uomini, di fronte
all’indifferenza del Cielo e della Terra, sono solo «cani di paglia» (Laozi 5),
ovvero simulacri rituali che, cessata la loro funzione simbolica durante le
cerimonie, vengono distrutti, bruciati, cancellati. Cielo e Terra sono
incuranti, non manifestano premura (bu ren 不 仁 ), e non perché
ostinatamente antagonisti bensí perché rispettosi di logiche che rispondono
solo al Dao.
Nel Laozi, dunque, si tende a dar forma a una prospettiva di
realizzazione di sé e di ricerca dell’armonia sia sociale che cosmica
attraverso la costruzione di un profilo del Saggio che è de-umanizzato: un
uomo che non ambisce alla piena crescita e alla maturità, ma che regredisce
allo stadio di un infante (Laozi 10, 20, 28, 40), che non desidera né parla e,
soprattutto, che non si adopera (wu wèi 無為) 57 per evitare cosí di affermare
se stesso in opposizione al Dao (Laozi 43). La sua azione (wéi 為, se cosí
può definirsi…) non prevede fine ulteriore, non è dettata da interesse
egoistico (Laozi 37, 38, 43, 48, 57, 63, 64): tende alla sottrazione, non
all’accumulo (Laozi 48), perché l’abbandono autentico al prorompente
divenire che caratterizza la realtà impone la rinuncia a quello che si ha e a
ciò che si è, per condividere davvero il processo di trasformazione che al
Dao s’accompagna. Tale approccio parte dal presupposto che, in fondo, se
l’azione invasiva e premeditata è, tutt’al piú, un ostacolo ininfluente nel
dispiegamento del Dao, è proprio nel cessare d’adoperarsi che ogni cosa
troverà piena realizzazione (Laozi 48) al di là di noi stessi, perché è lí che
ogni vero conseguimento e ogni piena soddisfazione risiedono: al di là di
noi stessi. La «mossa» (wéi 為) autentica, restituita alla piena gratuità dis-
interessata, è quella che non ha movente (wèi 為). Piú che «fare», si rende
preferibile «dis-fare».
Distanziandoci progressivamente da una vita secondo natura, assumiamo
come dettami etici dei principî che sono parziali e arbitrari, poiché non
legittimati né dal Cielo né dalla Terra, le due entità cosmiche che ci
sovrastano. Stolti e prepotenti, ci illudiamo di edificare il nostro impianto
morale, sociale e la nostra conoscenza in opposizione a essi, ingaggiando
una lotta impari dalla quale non potremo che uscire sconfitti. Il beneficio
miope dato dall’affermazione di sé è ben poca cosa rispetto alla
condivisione della forza e della Possanza arcana (de 德: in particolare Laozi
38) che deriva dall’agire in piena conformità con il Dao e dal riappropriarsi
di ciò da cui tutto scaturisce e verso cui ogni cosa inesorabilmente tende.
Piú che una virtú propriamente morale, de 德 definisce un carisma peculiare
che deriva da qualità intrinseche che sono doni dall’inestimabile valore,
poiché caratterizzano ogni essere in quanto custode del Dao: conseguire (de
得 ) tale Possanza significa esercitarLa inconsapevolmente, non farne
oggetto della propria brama e dare prova di modestia, umiltà e
mansuetudine 58.
Nell’impossibilità di assumere una vera forma, il Dao, in quanto realtà
incondizionata, è assimilato a pu 樸 «il ciocco grezzo e ruvido, il ceppo non
intagliato», che esprime l’immacolata purezza naturale del legno che non è
ancora stato intaccato né violato dal lavoro dell’uomo, capace solo di
imporre un’azione che è lesiva della Possanza originaria (Laozi 19, 28, 32,
37, 57). Il ciocco è detto «senza-nome» (Laozi 37) proprio perché se avesse
un nome sarebbe «cosa, oggetto», dunque realtà finita, condizionata,
limitata.
Al di là dell’efficacia della metafora del ruvido ceppo, il Dao è
ineffabilità pura. Il termine dao, in sé, significa «strada, percorso, via»,
ovvero «via che conduce al conseguimento di qualcosa», tracciando un
solco che segna un percorso, un metodo, un modo per far sí che determinate
condizioni si manifestino. Un’altra accezione del termine dao ampiamente
attestata nelle fonti è quella di «parlare, articolare sotto forma di discorso o
di dottrina», cosí come sussiste un legame stretto tra dao 道 e dăo 導
«guidare, porsi alla testa, condurre». Siamo di fronte a una parola dalle
valenze plurime, estremamente complessa da rendere soprattutto perché nel
Laozi è chiamata a rappresentare ciò che è «senza-nome» (wu ming 無名).
Robert G. Henricks 59 ha tracciato un’analogia efficacissima tra il Dao e un
campo: un campo incolto, abbandonato a se stesso, lasciato «cosí-come-è»
(ziran) nella condizione di generare erba, piante, fiori in accordo con le
cadenze e le modalità dettate dalle stagioni, le quali impongono però anche
stasi, distruzione, morte e, ancora, rigenerazione. Incessantemente. Un
campo il cui terreno sprigiona quella forza capace di donare la vita senza
pretendere alcunché in cambio, in modo dis-interessato (wu wèi). Tale forza
è inafferrabile, impalpabile, evanescente, minuta eppure infinita… Questo è
il Dao, anzi, solo questo, forse, si può dire del Dao, senza tuttavia riuscire a
coglierNe la natura, trattandosi dell’ineffabile Assoluto che il linguaggio
non carpisce e che solo un’esperienza di totale abbandono consente di
gustarNe il sapore al di là dei sapori (Laozi 35, 63) e di contemplarLo al di
là della Sua mancata manifestazione (Laozi 6, 14). Ciò spiega il motivo per
cui la presente traduzione evita il consueto ricorso all’espressione «Via» per
tradurre «Dao»: Dao, in fondo, è soltanto un emblema inadeguato e
improprio per rappresentare un significato che non può darsi nel linguaggio
(Laozi 25).

Si pensi, ad esempio, alla soluzione traduttiva piú diffusa di Daodejing


con «Canone della Via e della Virtú»: essa dà l’illusione che Dao sia
davvero una parola dotata di significato, al punto da poter essere
felicemente resa con «Via». La presente traduzione del Laozi invoca, al
contrario, l’alterità piú netta di quel preciso segno, che è preferibile a mio
avviso lasciare intatto proprio perché ne risalti il vuoto denotativo e
connotativo.
Il Laozi, in conclusione, non è un trattato sistematico al quale si
richiedono aderenza piena alle convenzioni linguistiche e rispetto della
linearità argomentativa. Nelle varie epoche esso è stato affrontato da
prospettive di analisi diverse e ogni esegeta ha tentato di trovare nuove
chiavi di lettura che ne agevolassero la comprensione.
Il mio interesse verso questo testo è nato per caso, molti anni fa, e la
passione che ancora nutro per il Laozi deriva dal fatto che, nel leggerlo,
raccolgo ogni volta la sfida impossibile di accostarmi a ciò che si sottrae al
giogo delle parole, per misurarmi con il tentativo estremo di sospingere il
linguaggio alla deriva, oltre il limite di un paradossale discorso su ciò di cui
nulla può esser detto. Là, forse, oltre quel limite, c’è spazio per un
incondizionato e muto assenso al mondo.

1. Vi sono elementi che tendono a confermare come i resoconti dell’incontro tra Confucio e il
«daoista» Lao Dan – e del viaggio intrapreso da quest’ultimo verso Occidente, contrassegnato
dalla consegna del Laozi Daodejing a Yin Xi 尹 喜 (solitamente identificato con l’altrettanto
oscuro pensatore Guan Yin 關尹, «Yin il Guardiano del Passo») – si siano affermati non prima del
280-240 a.C. A sostegno di questa ipotesi, cfr. LAU 1981, pp. 128-29. Cfr. inoltre GUO MORUO

1996, p. 151.
2. Si noti la peculiarità dei luoghi che avrebbero dato i natali a Laozi: quren 曲仁 significa «ritorta
benevolenza», li 厲 «crudele, violento, brutale», ku 苦 «penoso, arduo, amaro» (se letto gu
«grossolano, di scarsa qualità»).
3. La parola li 李 significa «susino» e alcuni studiosi hanno evidenziato come nessun clan «Li» sia
riscontrabile nella Cina preimperiale. Essendo capostipite dei Li, Laozi non ebbe padre e ciò
spiega perché la mitologia tarda vuole che egli assunse il cognome dalla madre, «Madre Susino
(Li)», la quale morí non appena dette alla luce il figlio. Ma, in realtà, come sottolinea SCHIPPER

1983 (p. 150): «è lui stesso che trasformò il suo corpo di vacuità nella forma della Madre Li, per
cosí ritornare nella propria matrice; non vi fu mai un’altra Madre Li. Le persone di oggi ignorano
questo fatto e dicono che il Vecchio Signore [Laozi] è venuto a porsi [dall’esterno] nel ventre della
Madre Li. Ma in realtà non è cosí!»
4. Cfr. Shiji 63: 2139-43. Sima Qian si spinge a ricostruire con accuratezza la linea di discendenza di
Laozi: suo figlio si sarebbe chiamato Zong 宗 , un generale del regno di Wei 魏 , infeudato del
territorio di Duangan 段干; il figlio di Zong rispondeva al nome di Zhu 注, che a sua volta ebbe
un figlio chiamato Gong 宮. Il pronipote di Gong si chiamava Jia 假, letterato che offrí i propri
servigi alla corte dell’imperatore Wen 文 (179-157 a.C.) della dinastia Han; il figlio di Jia, Jie 解,
divenne precettore del principe Ang 卬 di Jiaoxi 膠西.
5. Cfr. Shiji 63: 2142.
6. Sul ruolo della figura di Lao Dan tra storia e leggenda, rimando innanzitutto a GRAHAM 1986, la
cui analisi si fonda sulla convinzione che la biografia di Laozi nello Shiji rifletta una «fusione» tra
differenti personaggi. Il piú antico «canovaccio» della leggenda risalirebbe almeno al IV secolo
a.C. e si basa sull’incontro tra Confucio e Lao Dan; in seguito, durante la prima metà del III secolo
a.C., Lao Dan cominciò a essere riconosciuto quale autorevole pensatore indipendente, capostipite
di un lignaggio propriamente «laoziano». Memorabile è stato lo scambio di battute tra due celebri
sinologi, Homer H. Dubs e Derk Bodde, che negli anni quaranta dello scorso secolo hanno dato
vita a un vivace botta e risposta circa l’identificazione e la storicità di Laozi: vedi DUBS 1941;
DUBS 1942; BODDE 1942; BODDE 1944. Stando all’opinione di Fung Yu-lan, Sima Qian avrebbe
equivocato tra il leggendario Lao Dan e Li Er, che visse durante il periodo dei Regni Combattenti
(453-221 a.C.) e da taluni indicato quale caposcuola del daoismo: cfr. FUNG YU-LAN 1983, vol. I,
p. 171. La biografia di Lao Dan s’intreccia anche a quella di un altro pensatore, l’oscuro Yang Zhu
楊朱 (IV secolo a.C.), per il quale rimando a ANDREINI 2000a, pp. 29-34. Per quanto riguarda Lao
Laizi, cfr. Zhuangzi 74.26.18-19, 74.26.21, e Hanshu 30: 1730, dove si menziona il testo a lui
ricondotto in sedici capitoli. A partire dal II secolo d.C., Laozi assunse un ruolo centrale nel
daoismo religioso, in quanto il «Vecchio Maestro» si rivelò quale impersonificazione del Dao
cosmico a Zhang Daoling 張 道 陵 (II secolo), il Primo Maestro Celeste: rinvio a SEIDEL 1969;
KOHN 1996. Segnalo inoltre tre volumi che hanno diffusamente trattato questioni attinenti a Laozi
e al Laozi: KOHN e LAFARGUE 1998; CSIKSZENTMIHALYI e IVANHOE 1999; ANDREINI 2004a.
7. SCARPARI 2004, p. XIII .
8. Intorno al VII secolo si affermò, tra l’altro, una tradizione di derivazione manicheista secondo cui
Mani sarebbe stato una reincarnazione di Laozi, come attestato nel Laozi huahujing 老子化胡經
(Scrittura canonica di Laozi che converte i barbari): cfr. PALUMBO 2003.
9. «… Prima di lui, dal coagularsi di tre soffi primordiali e misteriosi, sarebbe nata la Ragazza di
Giada del Mistero Meraviglioso, la Madre Divina dal cui fianco sinistro sarebbe poi stato partorito
Laozi, concepito quando le energie cosmiche che avevano dato vita alla Ragazza di Giada si
furono nuovamente fuse tra loro. Egli nacque all’alba della creazione come personificazione stessa
del Dao. Alcuni testi lo descrivono come sorto prima del Cielo e della Terra, creatore e motore
inarrestabile dell’universo, ineffabile e inalterabile come il Dao, originato ancor prima del soffio
primordiale e delle diecimila creature»: SCARPARI 2004, p. XV .
10. Il numero 81 assume una valenza simbolica pregnante, poiché indica il grado massimo di energia
yang 陽 (cui si contrappone il principio della polarità opposta ma complementare yin 陰 ) e
coincide con il numero delle stanze (zhang 章) del Laozi receptus (vedi oltre, par. 2), sebbene non
tutte le edizioni registrino lo stesso numero di stanze, come evidenziato in SCARPARI 2005a e in
HENRICKS 1982.
11. «Durante un breve sonno che la madre, regina di quel lontano paese, si era concessa, egli si
staccò dal sole e, sotto forma di raggio luminoso, entrò furtivamente nella sua bocca. All’ottavo
giorno del quarto mese dell’anno successivo, emerse dal fianco sinistro della madre, fece
immediatamente i primi passi, percorse un breve tragitto che comprendeva sette scalini e cominciò
a predicare: fu allora che l’insegnamento buddhista ebbe inizio»: cfr. SCARPARI 2004, p. XV .

Diversamente da Laozi, Buddha nacque dal fianco destro della madre.


12. Cfr. Shiji 63: 2140.
13. Shiji 47: 1909. La frase conclusiva esprime un richiamo al rispetto della propria persona, che va
difesa e preservata poiché è custode del piú prezioso dei beni, la vita. In quanto dono sacro, essa
non ci appartiene interamente.
14. WALEY 1958, p. 108.
15. BOLTZ 1993, p. 270.
16. Zhuangzi 30.12.41, 35.13.45, 38.14.44, 39.14.56, 39.14.60, 39.14.74, 55.21.24, 58.22.28. Sulla
datazione del Zhuangzi, cfr. GRAHAM 1979; ROTH 1991; LIU XIAOGAN 1994; KLEIN 2010.
17. LAU 1982, pp. 127-28, ha sottolineato l’importanza del fatto che nessuno dei brani in cui Zhuang
Zhou è protagonista alluda a Lao Dan o al Laozi.
18. Zhuangzi 8.3.14, 13.5.29-30, 20.7.11-14.
19. Zhuangzi 13.5.29.
20. Un capitolo del Liji 禮 記 (Memorie sui riti) intitolato Zengzi wen 曾 子 問 (Le domande di
Zengzi) riporta come un umile Confucio abbia consultato Lao Dan sulla legittima interpretazione
dei riti funebri: rimando a Liji 7.16.53.3-6, 7.33.55.18-23. Altri testi confuciani nei quali è
attestato che Lao Dan istruí Confucio sono lo Hanshi waizhuan 韓 詩 外 傳 (Le Odi illustrate
secondo la tradizione essoterica di Han Ying), 5.28.40.13 e il Xinxu 新 序 (Aneddoti rivisitati)
5.1.24.20.
21. Cfr. SCARPARI 2005c.
22. L’identificazione di Laozi con il fondatore del daoismo e con l’autore del Daodejing subí una
decisiva accelerazione in epoca Han (206 a.C. - 220 d.C.). I fangshi 方 士 , esperti di pratiche
occulte e delle tecniche per conseguire l’immortalità, elevarono Laozi a loro patriarca, facendone
il Maestro che ha raggiunto la piena padronanza di pratiche volte a sconfiggere la morte. A ciò si
aggiunga che, a livello di élite politica, prese corpo un intenso culto di Laozi in quanto Laojun 老
君 (Venerabile Signore), riflesso del Dao cosmico; ciò portò all’istituzionalizzazione di sacrifici
patrocinati dall’autorità imperiale. Vi è poi un terzo livello, quello della religione popolare e dei
culti millenaristici, che favorí la sovrapposizione di Laozi con il «Messia» incarnatosi per
riportare sulla terra l’era della Grande Pace. Ovviamente, ognuna di queste tre letture della figura
di Laozi necessitava di una «scrittura sacra» – il Laozi Daodejing – e di un’ideologia – il
«daoismo» – perché elementi dottrinali disomogenei si coagulassero e, infine, potessero affermarsi
con maggiore facilità.
23. Sull’assenza di una «scuola daoista» o di una corrente propriamente daoista in epoca
preimperiale, vedi SCARPARI 2004, p. VIII , nota 3; ANDREINI 2005b. Negli ultimi anni è emersa
prepotentemente la necessità di dare una definizione piú appropriata di «daoismo», categoria
ignota nella Cina preimperiale. Harold Roth ha ribadito come, piú ancora del Laozi, vi sia
un’opera del IV secolo a.C., intitolata Neiye 內業 (Addestramento interiore) che in realtà merita di
essere identificata quale testo seminale del «daoismo primitivo», pur essendo stata trasmessa per
inspiegabili ragioni all’interno dell’eclettico Guanzi 管子 (Il Libro del Maestro Guan). Ma cosa
significa «daoismo»? Al di là di un misticismo d’impronta naturalistica e di un quietismo
anarcoide, il daoismo, categoria filosofica costruita ad hoc dagli eruditi imperiali al fine di
classificare un insieme ampio di opere e di pensatori «non classificabili», denota fenomeni
disparati e assai complessi. Ad esempio non si può negare una forte componente «politica», in
pieno accordo con l’antico principio del nei sheng wai wang 內 聖 外 王 «Saggezza interiore e
Regalità nel contegno». La partecipazione all’attività di governo è in certe opere vista come
requisito necessario per dar prova di virtú e il Saggio è sovente ritratto nei panni di un «sovrano
esemplare». Roth isola tre tratti fondamentali del daoismo che si sono evoluti in senso
cronologico-dottrinale: individualismo, primitivismo e sincretismo. Il primitivismo laoziano e il
sincretismo della cosiddetta corrente «Huang Lao» 黃老 (che s’ispirava alle figure di Huangdi 黃
帝, l’Imperatore Giallo, e di Laozi; secondo alcuni studiosi tale corrente identificava una sorta di
variante «autoritaria» dei principî espressi nel Laozi) rappresenterebbero due differenti
applicazioni in campo politico delle pratiche di coltivazione interiore e della cosmologia fondata
sul Dao tipiche del piú antico indirizzo individualista, identificato con i valori espressi nel Neiye.
In quest’opera la coltivazione interiore non è vista quale prerequisito imprescindibile per
l’esercizio del governo: in altre parole, trattandosi di un testo che descrive tecniche meditative
volte al benessere psicofisico e alla trasformazione degli stati di coscienza, non vi comparirebbe
ancora la connotazione politica tipica della dottrina Huang Lao. Cfr. ROTH 1994, in particolare pp.
6-11, 34-37; ROTH 1999a. Vedi inoltre CSIKSZENTMIHALYI e NYLAN 2003. Per una trattazione
esaustiva dell’insieme delle problematiche inerenti al daoismo, rinvio a KOHN 1999 e PREGADIO

2008. In lingua italiana, segnalo ANDREINI e SCARPARI 2007, BIANCHI 2009 e PAOLILLO 2014.
24. Shiji 63: 2141.
25. Il numero di stanze del textus receptus oscilla, a seconda delle edizioni, tra 64, 68, 72 o 81, con o
senza divisione al loro interno. Possiamo affermare che almeno dal 200 a.C. circa il testo contasse
intorno a cinquemila caratteri distribuiti su due sezioni principali, secondo una divisione
puramente funzionale, non certo tematica. È altamente probabile che, come è già stato rimarcato
qui (nota 10), la suddivisione in 81 zhang 章 «stanze, paragrafi» si affermò con l’emergere di
teorie cosmologiche e numerologiche di stampo «correlativo» basate sul dualismo yin-yang. La
scelta del numero 81 (9 × 9) poggerebbe sul ricchissimo valore simbolico del 9, che, tra l’altro,
indica il livello piú elevato di energia yang 陽. Per dettagliati resoconti delle diverse edizioni, dei
commentari e dei principali studi relativi al Laozi, rinvio a BOLTZ 1993; CHAN 1999; LIU

XIAOGAN 2003; SCARPARI 2004, pp. VII-XXXIX .


26. Sul ruolo dei «Maestri», vedi KERN 2015.
27. Sulla natura delle opere manoscritte nella Cina preimperiale, rinvio a ANDREINI 2004b;
ANDREINI 2005b; ANDREINI 2013b; GENTZ e MEYER 2015; MEYER 2011; LEWIS 1999; RICHTER

2013; SCARPARI 2006a; SHAUGHNESSY 2006.


28. Secondo la tradizione il termine jing «classico, scrittura» venne attribuito formalmente al Laozi
dall’imperatrice Dou 竇 (m. 135 a.C.), madre dell’imperatore Jing (r. 156-141 a.C.) degli Han.
Secondo alcune fonti, però, già Liu Xin 劉歆 (46 a.C. - 23 d.C.) indicò con jing le due sezioni del
Laozi: cfr. HENRICKS 1982, p. 502, n. 6.
29. A essa ci si riferisce anche impiegando il nome Kaiyuan 開 元 , prendendo spunto dal titolo
identificativo della fase saliente in cui regnò l’imperatore Xuanzong (ovvero l’era Kaiyuan, 713-
41).
30. Per approfondimenti sull’opera di Yan Zun e sulla versione del Laozi da lui commentata, cfr.
CHAN 1998b.
31. Rinvio a CHAN 1991a; CHAN 1991b; CHAN 1998a per quanto concerne ogni aspetto legato alla
figura di Heshanggong e all’opera che a lui si associa.
32. BOLTZ 1985.
33. WAGNER 1989; WAGNER 2000; WAGNER 2003.
34. Rinvio a HATANO 1979.
35. Sulla struttura interna del Laozi, cfr. SCARPARI 2005a; HENRICKS 1982.
36. Cfr. LAU 1989, p. 166. D.C. Lau si è espresso a sostegno della convinzione circa la natura
antologica del Laozi, il cui textus receptus sarebbe frutto dell’accorpamento di pericopi in rima,
seguite o precedute da brevi passi esplicativi, sia in rima che in prosa. Partendo da simili
presupposti egli ha isolato 196 unità testuali di base e 58 di commento esplicativo (81+24 nella
sezione Daojing e 115+34 nella sezione Dejing).
37. Il richiamo a quanto proposto da DUYVENDAK 1973, p. 15, è lampante.
38. I manoscritti del Laozi rinvenuti a Dunhuang ammontano a oltre cinquanta testimoni; si tratta di
versioni prevalentemente frammentarie, rappresentative di linee di trasmissione testuale distinte.
Per uno studio ampio sui testimoni del Laozi rinvenuti a Dunhuang, rinvio a ZHU DAXING 2007.
39. Per la traduzione e lo studio dettagliato del commentario Xiang Er, vedi BOKENKAMP 1997, pp.
29-147; per ulteriori approfondimenti, RAO ZONGYI 1991.
40. KUNIO 1973 si è espresso a sostegno dell’idea che JL apparterrebbe alla tradizione XE, mentre
HENRICKS 1982, p. 505, ha rilevato una maggiore aderenza tra JL e MWD.
41. Le opinioni degli studiosi divergono tra chi, come RAO ZONGYI 1955, riconduce SD alla linea di
trasmissione di HSG, e chi, come BOLTZ 1996, ne sottolinea le affinità con FY.
42. Al di là della loro prossimità macrostrutturale, e pur discendendo dalla medesima linea di
trasmissione, MWD A e MWD B presentano numerose varianti grafiche e lessicali. Per un
approfondito studio dei manoscritti di Mawangdui riconducibili al Laozi, cfr. ANDREINI 2000b;
ANDREINI 2002; ANDREINI 2004a; BOLTZ 1984; GAO MING 1996; HENRICKS 1989; KIM

HONGKYUNG 2012; LAU 1982; RICHTER 2005; SCARPARI 2006a; XU KANGSHENG 1992.
43. La sequenza qui riproposta dei blocchi testuali e delle singole listarelle segue quella stabilita da
HUBEISHENG JINGMENSHI BOWUGUAN 1998. Mancano in GD indicazioni precise circa la
sequenza originaria delle listarelle e delle pericopi, ragion per cui l’ordine dei vari blocchi testuali
che compongono i diversi fasci potrebbe anche essere ampiamente rivisto.
44. Una simile posizione è sostenuta da BOLTZ 1999 e ANDREINI 2002. Di opinione diversa sono
invece i curatori di Guodian Chumu zhujian (HUBEISHENG JINGMENSHI BOWUGUAN 1998) e altri
studiosi, tra cui HARPER 2001, favorevoli al riconoscimento della natura autonoma del Taiyi sheng
shui sulla base del contenuto. Vi sono, infine, studi critici, tra cui quelli condotti da CUI RENYI

1997 e XING WEN 1999, che hanno proposto una sequenza diversa di GD C, spostando il Taiyi
sheng shui all’inizio e facendolo seguire dalle quattro restanti stanze simili al Laozi receptus.
45. Rinvio a PERKINS 2014, che affronta la questione con dovizia di particolari.
46. LAU 1982, pp. 165-66.
47. Per ulteriori approfondimenti sui testi di Guodian e sulle implicazioni legate alla genesi del Laozi,
vedi ALLAN 2003; ALLAN e WILLIAMS 2000; ANDREINI 2000b; ANDREINI 2002; BOLTZ 1999; S.

COOK 2013; DING YUANZHI 1998; HENRICKS 2000; HUBEISHENG JINGMENSHI BOWUGUAN 1998;
LIAO MINGCHUN 2003; LIU XINFANG 1999; PENG HAO 2000; RICHTER 2006; SHAUGHNESSY

2005; SCARPARI 2006a.


48. Cfr. HAN WEI e BEIJING DAXUE CHUTU WENXIAN YANJIUSUO 2013 per approfondimenti sul
manoscritto di Beida del Laozi.
49. Per un quadro generale ma circostanziato delle diverse interpretazioni che al Laozi sono state
attribuite nei secoli, rinvio a ROBINET 1998; ROBINET 1999; SCARPARI 2004.
50. Per approfondimenti su questa definizione, vedi SCARPARI 2004; ROTH 1999a; ROTH 1999b.
51. Sull’apofatismo, rimando in primis a FRANKE 2007; FRANKE 2014; suggerisco, inoltre, B. COOK

2013; BRADLEY 2004; CAPUTO e VATTIMO 2007; KEARNEY 2011; NANCY 2008; STEINER 1991;
TAYLOR 2009.
52. Cfr. CSIKSZENTMIHALYI 1999.
53. JAEGER 1967; HADOT 1988; HADOT 1998.
54. PIEPER 1998, p. 43.
55. GROSCH 1999, p. 182; GROSCH 2000.
56. NYLAN 2001, p. 12. Secondo l’autrice, un classico coincide con un’opera: 1) che fornisce un
quadro cosí esaustivo da rispondere a qualsiasi domanda di tipo etico; 2) univoca e non
contraddittoria, dunque accessibile, fruibile e, soprattutto, facile da mettere in pratica; 3)
eternamente e costantemente valida, al di là dei mutamenti sociopolitici e culturali; 4) capace di
fornire un riflesso identificativo del suo autore e, quindi, di offrire una via d’accesso privilegiata
per comprendere la statura morale di chi lo ha composto; 5) che delinea un modello chiaro per
indirizzare il proprio comportamento. La fruizione di un classico genera, inoltre, un crescente
desiderio di apprendimento e appagamento nel mettere in pratica quanto vi è scritto.
57. Rimando a SLINGERLAND 2007 e SLINGERLAND 2014 per uno studio della valenza etica e
religiosa di wu wèi, ovvero di un’attitudine che, oltre al Laozi, permea l’intera tradizione cinese e
che si fonda sul paradosso secondo cui occorre sforzarsi di adottare un comportamento che non
comporta sforzo alcuno («trying not to try», come afferma l’autore), proprio di un agire che non
prevede intervento «diretto», invasivo, ma si basa su una risposta dis-interessata e non dettata da
secondi – né primi, in realtà… – fini.
58. Per un esame delle complesse implicazioni legate al significato di de 德 , rinvio a ANDREINI

2005d; CHAN 2011; IVANHOE 1999; NIVISON 1996b; NIVISON 1996c; NIVISON 1996d.
59. HENRICKS 1999.
Ringrazio la Casa editrice Einaudi: Mario Spina, con pazienza, professionalità e passione, ha
risolto i complessi nodi redazionali che la cura di questo volume ha imposto.
Negli anni – troppi per essere contati – ho tratto beneficio da un fecondo confronto con numerosi
studiosi, tra cui Ester Bianchi, Bill Baxter, Wolfgang Behr, Bill Boltz, Scott Cook, Carine Defoort,
Donald Harper, Han Wei, Christoph Harbsmeier, Marc Kalinowski, Martin Kern, Dirk Meyer,
Michael Nylan, Oliver Weingarten, Ed Shaughnessy, Ted Slingerland, Matthias Richter, Stefano
Zacchetti. Verso ognuno di loro nutro profonda gratitudine per avermi ispirato e spinto a esplorare
nuovi sentieri di ricerca.

Lisa mi ha aiutato a esprimermi con semplicità e chiarezza.

Senza il sostegno di Maurizio Scarpari questa nuova traduzione del Laozi non avrebbe visto la
luce. A lui e ai miei studenti, dai quali ricevo ben piú di quanto riesca a dare, il libro è dedicato.

Nota. La presente traduzione è stata condotta sulla base del testo del Laozi che accompagna il Daode
zhenjing zhu 道 德 真 經 註 (Commento [di Wang Bi] all’Autentica Scrittura del Dao e della [Sua]
Possanza) nell’edizione Zhengtong 正統 del Daozang 道藏 (Canone Daoista 12, 272-91), risalente al
1445.

La trascrizione dei termini cinesi segue il sistema pinyin 拼音, senza prevedere l’inserimento dei
toni, ad accezione dei seguenti casi:
dào 道 «Dao, via, metodo; dire»
dăo 導 «condurre, guidare, indirizzare»
wéi 為 «agire, fare»
wèi 為 «mirare a, agire nell’interesse di, agire in vista di».
Elenco delle abbreviazioni.

BD Manoscritto del Laozi acquisito dall’Università di Pechino (Beida 北大).


L’insieme dei codici del Laozi (oltre 50) rinvenuti a Dunhuang 敦煌, tra cui
DH quello trascritto da Suo Dan 索紞 (SD) nel 270 a.C. e quello che accompagna
il commentario di Xiang Er (Xiang Er zhu 想爾注, XE), risalente al 250 circa.
Edizione del «testo antico» (guben 古本) del Laozi edita da Fu Yi 傅奕 (558-
FY
639 d.C.).
Edizione del «testo antico» (guben 古本) del Laozi edita da Fan Yingyuan 范
FYY
應元 (XIII secolo).
L’insieme dei manoscritti rinvenuti a Guodian 郭店 che ricalcano il contenuto
GD
del Laozi (GD A, GD B, GD C).
GD A Manoscritto A (jia 甲) del Laozi di Guodian.
GD B Manoscritto B (yi 乙) del Laozi di Guodian.
GD C Manoscritto C (bing 丙) del Laozi di Guodian.
Edizione del Laozi che accompagna il commentario di Heshang Gong 河上公
HSG
(II secolo a.C.? / III-IV secolo d.C.?)
JL Edizione del Laozi incisa sulla cosiddetta «stele di Jinglong 景龍» nel 708.
MWD Manoscritti del Laozi rinvenuti a Mawangdui 馬王堆.
MWD A Codice A (jia 甲) del Laozi di Mawangdui.
MWD B Codice B (yi 乙) del Laozi di Mawangdui.
SZ Edizione del Laozi incisa sulla cosiddetta «stele di Suizhou 遂州».
WB Edizione del Laozi che accompagna il commentario di Wang Bi 王 (226-49).
Edizione del Laozi che accompagna il trattato esegetico Daode zhenjing zhigui
YZ
道德真經指歸 di Yan Zun 嚴遵 (circa 8o-1o a.C.).
LAOZI DAODEJING

La vera via passa per una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra del
suolo. Sembra destinata a far inciampare piú che a essere percorsa.

FRANZ KAFKA , Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano 2004, p. 17.

Per questo [l’uno] è anche in verità indicibile; infatti qualunque cosa tu dica, la dirai
come qualcosa di determinato. Ma fra tutte le espressioni questa sola è vera: «Al di là di
tutte le cose e al di là dell’intelletto piú venerabile», benché non sia un nome, ma
esprima il fatto che egli non è alcuna fra tutte le cose e non c’è nome di lui, poiché nulla
[si può predicare] di lui; ma, com’è possibile, cerchiamo di significare [qualcosa] a noi
stessi attorno a lui.

PLOTINO , Il pensiero come diverso dall’uno. Quinta Enneade III.13, Rizzoli, Milano
2000, p. 361.
1 (MWD 45; BD 45)

1. 道可道非常道
2. 名可名非常名
3. 無名天地之始
4. 有名萬物之母
5. 故常無欲以觀其妙
6. 常有欲以觀其徼
7. 此兩者同出而異名
8. 同謂之
9. 玄之又玄
10. 眾妙之門
1. Dao che come Dao può essere preso, Eterno Dao non è,
2. [poiché] nome che può essere nominato, Nome Eterno non è.
3. ‘Senza-nome’ è, di Cielo e Terra, avvio,
4. ‘ha-nome’ quel che dei Diecimila Esseri è Madre.
5. Sicché, nella costante cessazione di desio, se Ne contempla il prodigio,
6. e nel costante desio se Ne contempla il tratto manifesto.
7. Queste due realtà, comune hanno la fonte, ma distinti nomi,
8. e insieme le si designano:
9. ‘Dell’Arcano ancor piú Arcano’,
10. ‘Accesso di ogni Prodigio’.
La stanza 1 coincide con uno dei passi piú dibattuti e controversi del
pensiero cinese antico. La prima occorrenza del termine dào 道 è sostantivo
e può riferirsi:

a) al Principio cosmico ineffabile che regge l’universo (Dao);


b) a ogni forma di teoria o discorso prescrittivo che diventa modello di comportamento
da seguire (dao);
c) il modus operandi del mondo stesso, la via, il «decorso» che i fenomeni – nel loro
insieme o separatamente – tracciano per rivelare ciò che sono, ovvero, la realtà nella
sua convergenza di essere e dover-essere.

La seconda occorrenza di dào 道, preceduta dall’ausiliare passivizzante


ke 可 , ha invece funzione verbale e può essere intesa come «essere Dao-
izzato (o dao-izzato)», «Dao-izzabile (o dao-izzabile)», ma anche «essere
considerato in quanto Dao/dao», cosí come «essere espresso a parole, detto,
pronunciato», poiché dào 道 significa anche «parlare, dire». Va incluso
anche il senso di «essere tracciato come un solco» o un «percorso», una
«via» che si esprime in una linea di condotta che, a sua volta, definisce un
modello cui ispirarsi attraverso una traccia che orienta e «guida» (come
suggerito dal termine quasi-omofono dăo 導, sovente intercambiabile nelle
fonti antiche con 道). La distinzione tra «dire» e «guidare» è, in verità, solo
apparente, poiché dào 道 allude a un «discorso» che si fa «metodo» e
«guida» per la propria condotta. Il Dao – qualunque dao, in realtà – viene
«preso» in quanto «intrapreso», «percorso», ma anche «considerato» o
«inteso» e pertanto «espresso», per quanto indicibile sia.
Il senso della terza occorrenza di dào 道 è determinato dall’attributo
chang 常. Gli esegeti tendono a rendere l’espressione chang Dao 常道 con
«il Dao costante, eterno». L’impiego dell’articolo determinativo singolare
anziché dell’indeterminativo «un» oppure della forma plurale «i (Dao
eterni, costanti)» è decisivo. Nel primo caso si ammette che dào 道 non
possa che esprimere il Dao, l’unico principio che determina questo decorso
dell’universo. Tuttavia, nel passare da chang Dao «un Dao costante,
eterno» a «i dao costanti, eterni» viene lasciata aperta la possibilità che
sussistano vie, metodi alternativi, ugualmente legittimi. Sul piano etico ed
epistemologico, volendo seguire la tesi di HANSEN 1992, ciò significa
riconoscere che esistono molteplici discorsi prescrittivi, infiniti dao,
«metodi» parimenti ammissibili che guidano il comportamento e che
nessuno di essi è un dao costante o il dao eterno, cioè un insegnamento
capace di fornire linee guida universalmente valide. La traduzione qui
proposta, senza l’uso dell’articolo, tenta di conciliare le varie implicazioni,
cosmologiche, etiche ed epistemologiche di cui il testo si fa portatore.
L’ampiezza delle soluzioni ermeneutiche è estesissima, ma il baricentro
interpretativo si localizza nella constatazione secondo cui fintantoché
pretenderemo di articolare un discorso che descriva il Principio Supremo,
ecco che produrremo solo rappresentazioni parziali, soggettive, limitate,
poiché non coglieremo cosí la natura del Dao in quanto realtà
incondizionata. Confidando nell’efficacia del linguaggio, dei «nomi» (ming
名 ), che richiamano ed evocano solo realtà finite, falliremo anche nel
formulare una dottrina morale prescrittiva (dao in quanto «metodo, modello
di comportamento») conforme alle leggi del cosmo. Se è vero che il Dao,
infatti, non essendo una cosa, un oggetto, è «senza-nome» (wuming 無名:
rinvio a Laozi 1.3, 25.6, 32.1, 41.18), è altrettanto vero che ogni dottrina,
essendo fondata sul linguaggio, non potrà che essere parziale e fallace.
Il passaggio dai vv. 3-4 ai vv. 5-6 chiarisce la relazione tra ming e yu 欲
«desiderio, volizione», che è strettissima: «desiderare, volere», infatti, è
frutto della riduzione del mondo a un complesso di enti separati, distinti,
che sussistono e sono oggetto del desiderio proprio perché «nominabili».
L’universo costellato di nomi si frantuma in elementi – i fenomeni, «gli
esseri, le cose» (wu 物 ) – ai quali viene imposto un ordine sulla base di
desideri e predilezioni soggettive. Questo perché «nominare» non si risolve
mai in un puro atto verbale: il linguaggio risponde a precisi criteri culturali
ed è causa ed effetto di scelte comunque arbitrarie, poiché condizionate
dalla trasmissione di credenze che si risolvono in atti, in interventi invasivi
sul mondo.
In quella condizione definita dalle principali teorie cosmologiche e
cosmogoniche cinesi wu 無 «assenza, non esistenza», «realtà non
manifesta», nominare è vano, poiché niente è distinguibile e neppure
desiderabile. La relazione tra wu 無, wu ming 無 名 «senza-nome» e Dao
risulta chiara dal passo 30.12.37 del Zhuangzi e dalla stanza 25 del Laozi,
dove si evidenzia come l’universo sia, in principio (shi 始 , v. 3), il regno
dell’indistinzione, della con-fusione, dell’occultamento, piú che del Non-
essere assoluto. Wu 無 evoca in primo luogo l’assenza di determinazioni
che precede la presenza (you 有 ) degli esseri in quanto elementi
caratterizzati da precise qualità e differenziati tra loro e rispetto al Dao. La
separazione dall’unità ideale con la Madre genitrice (mu 母, v. 4) è sancita
dal ricorso ai nomi (ming 名 ), attraverso cui è possibile «distinguere,
scindere», ovvero percepire la realtà molteplice e condizionata, che per lo
stolto è l’unica realtà autentica, al punto da oscurare la natura stessa del
Dao, che non è piú riconosciuto quale radice comune (ben 本) degli esseri.
Il v. 5 suggerisce che non nutrire desideri porta a contemplare il Dao nel
Suo stato miao 妙 «elusivo, sottile, indefinibile e misterioso». In realtà, il
riferimento dell’espressione qi miao 其 妙 («il Suo aspetto sottile,
prodigioso, profondo e misterioso») è molteplice. Si parla davvero del Dao?
Oppure di wu 無? O forse di wu ming 無名? O di wu yu 無欲, come lascia
forse intendere il commentario di Heshanggong? Una possibilità è che
quelle condizioni definite wu 無, wu ming 無 名 , wu yu 無 欲 coincidano
tutte con l’aspetto sottile, elusivo del Dao. Fondamentale risulta, inoltre,
l’evidenziazione del contrasto tra miao (v. 5) e jiao 徼 «confine, limite
tracciabile», ovvero segno che marca il passaggio da una condizione con-
fusa a una dimensione manifesta, palese (v. 6).
Ancor piú decisiva risulta la determinazione del senso dell’espressione
liangzhe 兩 者 le «due [cose]» nel v. 7. Secondo Wang Bi (226-49), il
riferimento è all’«inizio, all’origine» (shi 始, v. 3) e alla «Madre» (mu 母, v.
4). Per un approfondimento sulla distinzione tra «inizio» e «Madre» in
Wang Bi, rinvio a WAGNER 2000 (pp. 288-90) e LIN 1977 (pp. 3-4). Da uno
sguardo complessivo al Laozi emerge come tale distinzione non sia sempre
chiara (vedi Laozi 25.5-7 e 52.1), sebbene le indicazioni nel commentario di
Wang Bi alla stanza 1 suggeriscano che shi 始 debba legarsi a sheng 生
«generare, dare alla luce», «nascere», «vivere», mentre a mu 母 «Madre» si
associ cheng 成 «completare, portare a compimento, a pieno successo»
oppure yang 養 «nutrire» (vedi Laozi 60). Diversamente da Wang Bi,
Heshanggong nel suo commentario ritiene che «due» simboleggi «avere
desideri» (you yu 有欲) e «non avere desideri» (wu yu 無欲), mentre Fan
Yingyuan (inizio del XIII secolo) associa «due» a chang wu 常 無 «la
condizione di costante-non-presenza» e chang you 常有 «la condizione di
costante-presenza»; in tempi piú recenti, XU KANGSHENG 1992 (p. 78) ha
tenuto conto della punteggiatura in MWD, esprimendosi a favore di wu
ming e you ming. Un’ipotesi percorribile è che «due» si riferisca alle
macrocategorie dominate da wu 無 – ovvero «Assenza / Senza-nome /
Senza-desideri» – e da you 有 – «Presenza / Avere-nome / Avere-desideri»
– le quali, insieme, partecipano alla tensione che rende imprescindibile la
convergenza degli opposti (vedi Laozi 2.3) che contraddistingue la natura
autentica e, dunque, ineffabile e doppiamente arcana (xuan 玄 , v. 9) del
Dao. In ciò, probabilmente, risiede il vero prodigio: è nell’unità in cui si
riconciliano opposti cosí stridenti (wu e you) che si consuma il mistero piú
grande, un mistero che non pertiene solo al Dao, poiché, di riflesso, esso
pervade anche il mondo fenomenico.
Xuan 玄, termine chiave nella parte conclusiva della stanza, secondo il
piú antico dizionario etimologico a noi giunto – lo Shuowen jiezi, circa I
secolo – allude a qualcosa di nascosto, recondito, occultato alla vista: evoca
una tonalità cupa, nera con riflessi e venature rosse. Il termine significa
«scuro», da cui deriva il senso di «oscuro, misterioso, segreto», anche se
l’accezione forse piú appropriata rispetto al contesto della stanza 1 è «verità
arcana, profonda, sublime», poiché incarna il mistero dell’origine (yuan
元).
2 (MWD 46; BD 46; GD A 9)

1. 天下皆知美之為美斯惡已
2. 皆知善之為善斯不善已
3. 故有無相生難易相成
4. 長短相較高下之相傾
5. 音聲相和前後相隨
6. 是以聖人處無為之事行不言之教
7. 萬物作焉而不辭
8. 生而不有
9. 為而不恃
10. 功成而弗居
11. 夫唯弗居是以不去
1. Chiunque al mondo riconosce del bello la bellezza, ed ecco, dunque, la
bruttezza;
2. chiunque riconosce la maestria di chi maestro è, ed ecco, allora,
l’inettitudine.
3. È cosí che ‘presenza’ e ‘assenza’ l’un l’altra genera, ‘difficile’ e
‘facile’ l’un l’altro completa,
4. ‘lungo’ e ‘breve’ l’un l’altro misura, ‘alto’ e ‘basso’ l’uno l’altro
compensa,
5. ‘timbri’ e ‘note’ l’uno l’altro armonizza, ‘avanti’ e ‘dietro’ l’uno
l’altro segue.
6. Per ciò, il Saggio bada ad assolvere le Proprie mansioni senza
adoperarsi e un insegnamento senza parole adotta.
7. I Diecimila Esseri alla luce s’affacciano senza che Egli ne sia
l’iniziale artefice,
8. dà loro la vita, ma pretese di possesso non avanza,
9. agisce [per il bene degli esseri] senza che [questi] avvertano il Suo
sostegno,
10. i propositi realizza, ma meriti non Si arroga.
11. Ed è giusto perché non insiste sui Propri meriti che essi non Lo
abbandonano.
Partiamo dal contenuto della stanza 1: l’attitudine a distinguere, espressa
in modo fulgido dal linguaggio e dalla volontà (o «desiderio»), determina
l’emergere delle cose, degli esseri (wu 物 ), in quanto monadi distinte tra
loro e distinte rispetto al Dao, sui quali si abbattono giudizi che rispondono
a una polarizzazione sospinta verso categorie estreme e opposte. Tali
giudizi, veicolati dal linguaggio e condizionati dalle proprie predilezioni,
tendono a estremizzare la visione del mondo, semplificandone la natura,
che è invece fondata sulla compresenza e sulla simultaneità di
determinazioni opposte in tutti gli aspetti del reale. Diversamente da quanto
può sembrare, la stanza 2 non è, dunque, un’apologia del relativismo
estremo. Il testo ribadisce solo come ogni caratterizzazione derivi da un
bilanciamento flessibile di contrasti. La tensione che si consuma nello
spazio che separa i punti estremi entro cui gli esseri, nel corso della loro
esistenza, maturano e, infine, muoiono, esprime la cifra della loro natura:
una natura «meticcia», che la parzialità della nostra facoltà di giudizio
stenta a riconoscere come tale. Soffocata la complessità dei fenomeni in
nome della coerenza, di essi, in buona sostanza, non potremo che dare
letture univoche, mutile. La realtà, però, rivela assetti costantemente precari
tra caratterizzazioni apparentemente inconciliabili ma comunque necessarie.
Non solo: il Laozi sottolinea con efficacia straordinaria come ogni
caratterizzazione non sarebbe tale senza il proprio irrinunciabile contrario.
Nel dare pari dignità ai singoli elementi che definiscono le coppie di
opposti che convivono in ogni cosa, il Laozi si spinge verso un tentativo di
correggere il pigro apprezzamento dello stolto per determinati valori
(bellezza, maestria, presenza, possesso, sapienza), ribadendo che essi non
sarebbero tali senza i loro contrari (bruttezza, inettitudine, assenza, perdita,
ignoranza) e che, addirittura, l’accentuazione di quei tratti solitamente
ritenuti sconvenienti o «inferiori» è decisiva perché si realizzi l’adesione
piena al Dao. Ciò avviene soltanto in virtú dell’accettazione della logica del
«ribaltamento» (fan 反), tema che permea l’intera opera, e che caratterizza
il modo in cui il Dao si manifesta (vedi Laozi 25 e 40), ovvero sovvertendo
e invertendo la prospettiva della convenienza personale.
Nel v. 7 si registra un cospicuo numero di varianti nelle diverse edizioni
disponibili: in particolare, GD A, BD e MWD confermano la doppia
sostituzione di yan 焉 con la congiunzione er 而 – in conformità con una
citazione inclusa nel passo 76.6a, 4 del Taiping yulan – e di shi 始 «iniziare,
principiare» al posto di ci 辭 «rifiutare, rigettare».
Segnaliamo come i vv. 8-9 compaiano, lievemente riformulati, anche in
altre stanze (10, 51 e 77).
3 (MWD 47; BD 47)

1. 不上賢使民不爭
2. 不貴難得之貨使民不為盜
3. 不見可欲使民心不亂
4. 是以聖人之治
5. 虛其心實其腹
6. 弱其志強其骨
7. 常使民無知無欲
8. 使夫知者不敢為也
9. 為無為則無不治
1. Non esaltare i virtuosi, e cosí spingerai il popolo a rifiutare contese;
2. non stimare troppo i beni difficili da ottenere, e cosí spingerai il
popolo a non cedere al crimine;
3. non esibire tanto ciò che piú viene agognato, e cosí il cuore del popolo
eviterà turbamenti.
4. Sicché, ecco [in cosa consiste] il buon governo del Saggio:
5. egli vuota i loro cuori e la loro pancia riempie;
6. la loro volontà fiacca, e le loro ossa rafforza;
7. sempre [Egli] spinge il popolo a non sapere e a non desiderare,
8. si’ che i sapienti non osino adoperarsi,
9. perché solo agendo senza adoperarsi non vi è cosa che non sia ben
governata.
Il destinatario di questa stanza è, ancor piú marcatamente delle
precedenti, il Saggio Sovrano. Egli viene persuaso a non esaltare i virtuosi
al fine di non alimentare l’ambizione e, dunque, la conflittualità tra gli
aspiranti funzionari cui assegnare i diversi incarichi amministrativi. Il
disegno politico fondato sul rifiuto dell’esaltazione della virtú e del talento
(xian 賢) va collocato all’interno del contesto storico culturale del periodo
tardo-Zhou (V-III secolo a.C.): la promozione della meritocrazia e del
talento è, dapprima, una misura apertamente anti-confuciana sostenuta dalla
dottrina moista (vedi i capp. VIII-X del Mozi), che intende anteporre le
qualità etico-tecniche al privilegio aristocratico-culturale fondato sui valori
confuciano-classicisti, accusati di non riconoscere il giusto peso alle
capacità amministrative. Nel tempo, tuttavia, altri pensatori e altri testi si
sono espressi su questi temi: in particolare, Shen Dao (circa 395-315 a.C.),
figura oscura cui è stato ricondotto lo Shenzi, testo d’incerta datazione.
Deciso sostenitore dell’efficacia di un solido impianto giuridico-normativo
(fa 法) per governare lo Stato, Shen Dao diffidava delle capacità soggettive,
convinto che non bastassero né l’eccellenza morale né l’iniziativa del
singolo per arginare il caos. Stando al Zhuangzi (33.4.2-8), Shen Dao
condivideva con il Laozi numerosi presupposti (cfr. al riguardo TAKEUCHI
YOSHIO 1927, pp. 114-20, e THOMPSON 1979, p. 527): ad esempio,
«respingeva il sapere» (qi zhi 棄知) e «sapeva di non sapere» (zhi bu zhi 知
不 知 , oppure «riteneva che la vera conoscenza consistesse nel non-
sapere»), deridendo quanti, al mondo, riponevano la massima stima nelle
persone di talento (shang xian 尚 賢 ) e dimostrava tanta irriverenza da
arrivare a contraddire e negare (fei 非) l’autorevolezza dei grandi Saggi. La
strategia di limitare la diffusione del sapere tra i sudditi e di controllare il
popolo attraverso la manipolazione dei desideri e della volontà esprime un
tratto comune al Laozi, al pensiero di Shen Dao e, ovviamente, allo Han
Feizi.
I vv. 5-8 sono stati letti, soprattutto dai critici moderni, a sostegno della
convinzione che il Laozi appoggi un bieco dispotismo, posizione smentita
dalla tradizione esegetica antica che è incline a riconoscere il valore
metaforico dei passi in questione. Ad esempio, Wu Cheng ha ritenuto che
«vuotare i loro cuori» significhi non esporre il popolo alla seduzione del
profitto, mentre «riempire la loro pancia» è un richiamo per il Sovrano
affinché badi al sostentamento materiale dei sudditi; «fiaccare la volontà» e
«rafforzare le ossa», invece, si riferirebbero, nell’ordine, alla necessità di
contenere la vis competitiva e alla volontà di consolidare la fermezza e la
solidità morale del popolo.
Gli ultimi due versi mettono in luce il paradossale effetto di wéi wu wèi
為 無 為 , ossia di attuare un intervento non invasivo, non coercitivo, non
dettato da secondi fini (vedi Laozi 63.1). Ciò significa diventare attore di
un’azione (wéi 為) che non è mossa da alcun movente (wèi 為).
L’atto, cosí restituito alla dimensione piú pura dell’abbandono
incondizionato e dis-interessato, solo a questa condizione potrà conformarsi
al Dao.
4 (MWD 48; BD 48)

1. 道沖而用之或不盈
2. 淵兮似萬物之宗
3. 挫其銳解其紛和其光同其塵
4. 湛兮似或存
5. 吾不知誰之子象帝之先
1. Poiché vuoto, il Dao, quando opera [o s’adotta], mai saturazione
raggiunge.
2. Come un abisso! Pare, dei Diecimila Esseri, l’Antenato!
3. Le asperità ottunde, i nodi dipana, attenua il bagliore, le disperse
polveri raduna.
4. Scompare! Eppure sopravvive!
5. Ignoro di chi sia Figlio, ma sembra che preceda la Divinità
Ancestrale.
Il riferimento a chong 沖 nel v. 1 (rinvio a Laozi 42.6 e 45.3) evoca il
«vuoto mediano», ovvero la condizione che deriva dall’incontro dei flussi
di energia vitale (qi 氣 ) che rispondono alle polarità yin 陰 e yang 陽 .
Chong si contrappone a ying 盈 «riempire, essere colmo, saturo». Yong 用
definisce tanto i termini di funzionalità, di operatività, del Dao quanto la
possibilità di adozione, d’impiego degli stessi principî e delle stesse realtà
fisiche (ti 體 ), materiali e sostanziali, che il Dao emana. Huo 或 «alcuni;
talvolta» è glossato da Heshanggong con chang 常 «costantemente,
eternamente, sempre». Nel tentativo di venire a capo delle implicazioni
dottrinali del verso d’apertura, constatiamo come la pienezza o saturazione
espresse da ying 盈 producano, come rileva Wu Cheng, un livello di
costipazione che impedisce il regolare flusso delle energie vitali, dando
luogo alla cessazione della possibilità di accogliere in sé il Dao. «Riempire»
significa, dunque, «chiudere, concludere, morire» (Laozi 9.1-2), poiché il
residuo vuoto – nel v. 2 definito, addirittura, yuan 淵 «profondo come
l’abisso», quindi senza fondo – è condizione perché trovi spazio quella
potenza capace di portare a compimento la natura dei singoli esseri.
Il v. 3 compare, pressoché identico, anche in Laozi 56.5-8; stando a
LAFARGUE 1992 (pp. 66-67) sussistono forti indizi a conferma della
mutuazione di un lessico tecnico che riflette precise pratiche meditative. Da
questi presupposti, ecco che le «asperità» (rui 銳 ), i «nodi» (fen 分 , da
leggersi forse fen 棼 «confusione, sovversione», meglio ancora fen 紛
«groviglio, caos», come suggeriscono vari esegeti e l’edizione del Laozi
accompagnata al commentario di Heshanggong), i «bagliori» (guan 光
«essere brillante, luminoso», da intendersi forse come manifestazione di
quell’acume che va contro l’accettazione della realtà spontanea, ziran 自然
«cosí-come-è»)», le «polveri» (chen 塵 , anche «macchie, imperfezioni,
lordura»), delineano condizioni alterate sia del mondo che della mente
prima che le succitate anomalie siano livellate e si dissolvano (tong 同
«essere uguale», qui anche nell’accezione di «raccogliere, riunire, fondere»,
v. 8) nel conseguimento dell’identità con il Dao.
5 (MWD 49; BD 49; GD A 12)

1. 天地不仁以萬物為芻狗
2. 聖人不仁以百姓為芻狗
3. 天地之間其猶橐籥乎
4. 虛而不屈動而愈出
5. 多言數窮
6. 不如守中
1. Cielo e Terra non manifestano umana premura, e i Diecimila Esseri
trattano come cani di paglia;
2. il Saggio[, pure,] non manifesta umana premura, e le genti tratta come
cani di paglia.
3. Lo spazio tra Cielo e Terra, simile non è, forse, al mantice?
4. Vuoto, senza mai esaurirsi… Piú lo azioni e piú espelle…
5. [Poiché] eccessivo disquisire è sfinimento vano,
6. meglio, allora, custodire ciò che dentro dimora.
Il piglio anti-confuciano dei primi due versi è stato piú volte sottolineato
dai critici, tuttavia ciò che emerge perentoriamente dal testo è che la
negazione di ren 仁 – valore che esprime il grado distintivo di eccellenza
morale propria dell’uomo (ren 人 ) e che s’identifica con l’amore per il
prossimo, la sollecitudine, lo spirito umanitario – non sia necessariamente
diretta contro i confuciani. La presente stanza, in altri termini, intende
demolire la legittimità di ogni prospettiva antropocentrica. Poiché il Cielo
(Tian 天), la Terra (Di 地) e il Saggio (Shengren 聖人) sono imparziali, Essi
non assumono prospettive di giudizio umane e, proprio per questo, non
mostrano favoritismi: cosí come Cielo e Terra non hanno pietà per gli
uomini, cosí fa il Saggio nei confronti del popolo. Il testo suggerisce come,
al di là della nobiltà degli intenti che muovono ren 仁, il fondamento etico
che contraddistingue questo valore resti pur sempre ancorato a una forma
residuale di parzialità «umana».
Ren 仁 è inteso da Confucio (Kongzi, 551-479 a.C.) e dalla letteratura di
matrice confuciana sulla falsariga della definizione data dallo Shuowen
jiezi, ossia «prossimità e cura (qin 親 ) nei confronti dei propri cari»:
partendo dall’ambito familiare, colui che è ispirato da ren 仁 arriva poi a
estendere, gradualmente e con le debite distinzioni, il proprio amore verso
gli altri. Alla domanda rivolta da Fan Chi circa la natura di ren 仁, non a
caso Confucio rispose che esso consiste «nell’amare il prossimo» (ai ren 愛
人: Lunyu 12.22).
Nel Zhuangzi, invece, leggiamo che «la somma manifestazione di amore
per il prossimo non contempla alcuna premura» (zhi ren wu qin 至仁無親,
vedi Zhuangzi 36.14.7, 64.23.67) e che «la massima dimostrazione di amore
verso il prossimo non è (o meglio, ‘non pare’) tale» (da ren bu ren 大仁不
仁, vedi Zhuangzi 5.2.59). Sebbene Cielo, Terra e il Saggio sembrino ostili
verso gli esseri, in realtà non va dimenticato che la Grande Madre, il Dao,
bada comunque al loro sostentamento. Il riferimento ai cani di paglia (chu
gou 芻狗) va colto alla luce di quanto riportato in Zhuangzi 37.14.31, dove
si fa menzione dell’antica pratica di modellare con la paglia simulacri a
foggia di cane che, una volta esaurita la loro funzione cerimoniale,
venivano distrutti.
Wang Bi scinde i termini chu 芻 e gou 狗 , rispettivamente «paglia» e
«cane» (v. 1), giungendo a una diversa conclusione: «Cielo e Terra non
producono l’erba e la paglia solo per il bestiame, che però se ne nutre; non
concedono la vita ai cani perché siano di giovamento agli uomini, che però
se ne cibano. ‘Non adoperarsi’ in relazione ai Diecimila Esseri significa ‘far
sí che essi agiscano secondo il loro impulso spontaneo’…»
Al di là delle diverse chiavi di lettura proposte nei secoli, la presente
stanza rivela una natura disomogenea, come evidenziato da ANDREINI
2004a (p. 204). I vv. 3-6 alludono probabilmente a certe pratiche di natura
fisiologica, respiratoria e macrobiotica che ritroviamo in alcuni manoscritti
del III-II secolo a.C., tra cui lo Yinshu, dove compare la metafora del
mantice (v. 3). Tuo 橐 e yue 籥 indicano il «mantice o soffietto da forgia
fatto di pelle d’animale» e la «canna di bambú» da cui l’aria entra ed esce:
l’atto di «custodire ciò che dentro dimora» (probabilmente «l’essenza
vitale», v. 6) si risolve nella realizzazione di un vuoto interiore seguendo
pratiche respiratorie e macrobiotiche specifiche. Rinvio, per
approfondimenti, a HARPER 1995 e ANDREINI 2004b.
L’espressione conclusiva shou zhong 守 中 suggerisce un «sorvegliare,
custodire con premura», «difendere, proteggere» (shou 守) ciò che dimora
dentro (zhong 中 ) di noi, cosí come quel che risiede al «centro» (ancora
zhong 中) del proprio petto, ovvero il cuore (xin 心).
6 (MWD 50; BD 50 A)

1. 谷神不死是謂玄牝
2. 玄牝之門是謂天地根
3. 綿綿若存
4. 用之不勤
1. Lo Spirito del gorgo nella valle non muore: ‘Arcano Femminino’,
viene detto.
2. L’accesso da cui l’Arcano Femminino emerge è detto ‘Radice di Cielo
e Terra’.
3. [Impercettibile, ] al pari d’impalpabile filo che si svolge, di Sé dà
prova,
4. tanto da poterseNe avvalere senza che mai Si consumi.
Il senso del verso d’apertura è oggetto di varie ipotesi. La traduzione piú
spesso data a gu shen 谷 神 è «Spirito della valle». Il commentario di
Heshanggong riporta che gu 谷 (scritto in realtà yu 浴 ) va inteso quale
sinonimo di yang 養 «nutrire» e che shen 神 «spirito, numen, numinoso»
indica lo spirito che dimora nei Cinque Visceri. L’incipit, dunque, rinvia
all’idea secondo cui «nutrendo lo spirito – ovvero l’essenza vitale – non si
muoia». La prossimità grafica e semantica tra yu 浴 «bagnare, detergere,
lavare, purificare» e gu 谷 «burrone, gola, precipizio, valle, gorgo» è
evidente. Lo Erya definisce gu 谷 come un flusso d’acqua che confluisce in
un ruscello, anche se il senso piú appropriato è forse «gorgo, letto di un
torrente», o anche «fiume stretto tra due montagne, gola in fondo alla quale
scorre un corso d’acqua».
Un’interpretazione simile a quella di Heshanggong è stata offerta da Sun
Yan (III secolo), il quale glossa gu 谷 con l’omofono 穀 , inteso nella sua
accezione derivativa di «allevare, far crescere». Di opinione diversa Wang
Bi, il quale impiega la valle come metafora del Dao, invisibile in quanto
privo di conformazione fisica, immobile, quieto, che abita i luoghi oscuri e
profondi. Shen potrebbe effettivamente riferirsi allo spirito che produce e
anima gli esseri, ossia, ancora, al Dao, che opera in virtú della potenza che
deriva dalla conformazione stessa della valle, il cui «vuoto» (xu 虛 )
richiama alla mente un utero predisposto alla gestazione degli esseri, come
conferma l’occorrenza di pin 牝 «femmina, elemento femminino; organo
riproduttivo femminile» in chiusura del v. 1. La valle è arcana (xuan 玄 )
poiché ci è dato conoscerne solo i figli (zi 子), ossia gli esseri, dato che la
sua intima natura è destinata a restare oscura. I termini gu 谷, shen 神 e pin
牝 evocano quindi il Dao nella Sua dimensione recondita e misteriosa. Gu
谷 ne svela la dimora, il vuoto abissale che, diversamente dalle cose, non
conosce la morte (bu si 不死): la potenza oscura e numinosa (shen 神) abita
quel luogo da cui gli esseri gradualmente si allontanano congedandosi dalla
Madre genitrice (pin, o mu 母) per accedere (men 門) nel mondo. Gen 根 è
la radice, sia nel senso di «origine» sia in quanto fondamento, base su cui
poggiare.
Giunti al v. 3, è necessario chiarire il significato del termine mian 綿. Il
suo ambito semantico si consolida attorno all’accezione di «continuo,
durevole, ininterrotto», come il filo secreto dal baco da seta. Cheng
Xuanying (circa 600-60) non a caso arricchisce il suddetto significato con
una sfumatura di elusiva impalpabilità, propria di una fibra tenue che si
assottiglia progressivamente fino quasi a dileguarsi. La forza metaforica di
mianmian 綿 綿 rinvia al Dao, Madre degli Esseri, che scompare
progressivamente dalla vista, perduto nelle tenebre insondabili da cui tutto
ha origine e che, tuttavia, non cessa d’inviare un flebile segnale della
Propria presenza attraverso gli esseri. Come in 4.1 e 40.2, yong 用 implica
«usare, servirsi di», ma può indicare anche il modus operandi del Dao, il
Suo dispiegarsi nel mondo.
7 (MWD 51; BD 50 B)

1. 天長地久
2. 天地所以能長且久者
3. 以其不自生
4. 故能長生
5. 是以聖人後其身
6. 而身先
7. 外其身
8. 而身存
9. 非以其無私耶故能成其私
1. Vasto è il Cielo, vetusta la Terra.
2. Quel che rende vasto l’uno e vetusta l’altra,
3. è che entrambi non vivono per Loro stessi,
4. per ciò a lungo riescono a vivere.
5. Il Saggio, pertanto, alle spalle Si pone,
6. e comunque precede;
7. si esclude,
8. eppure è presente.
9. Che sia davvero il trascurare l’interesse proprio a far sí che, in fondo,
Egli lo realizzi…?!
La grafia 長 nel verso d’apertura denota la parola oggi pronunciata
chang, che contempla numerose accezioni tra cui «lungo, lunghezza» sia
nell’estensione fisica che nella durata. Esegeti e critici si sono divisi circa
l’appropriatezza dell’una piuttosto che dell’altra caratterizzazione nel
contesto della stanza 7. La soluzione proposta da Lü Huiqing appare
condivisibile per aver associato la dimensione spaziale al Cielo e quella
temporale alla Terra, sebbene sia altrettanto plausibile ammettere che 長
denoti la «longevità». Come ulteriore soluzione, non escludiamo che 長
possa leggersi zhang «crescere, espandersi, maturare»: il Cielo, dunque,
tenderebbe, cosí, a espandersi, occupando sempre piú spazio.
Il testo chiama in causa le due massime realtà cosmiche, Cielo e Terra,
per sottolineare come entrambe conseguano le qualità che meglio le
contraddistinguono senza attendersi dalle creature che supportano e nutrono
alcuna forma di gratitudine: diversamente dal genere umano, Essi non
vivono per Loro stessi (zisheng 自 生 , v. 3), ovvero in funzione della
soddisfazione dei Propri interessi. Sulla natura paradossale di si 私
«interesse personale» (v. 9) si gioca l’equilibrio dell’intera stanza: al pari di
Cielo e Terra, il Saggio, che non è mosso dalla volontà di soddisfare i propri
meschini interessi personali, realizza un fine ulteriore che è inclusivo degli
interessi altrui, proprio perché si fa portatore di istanze dis-interessate.
8 (MWD 52; BD 51)

1. 上善若水
2. 水善利萬物而不爭
3. 處眾人之所惡
4. 故幾於道
5. 居善地
6. 心善淵
7. 與善仁
8. 言善信
9. 政善治
10. 事善能
11. 動善時
12. 夫唯不爭
13. 故無尤
1. Bontà che eccelle è simile all’acqua.
2. La bontà dell’acqua sta nel giovare ai Diecimila Esseri e nel rifiutare
contese.
3. Essa occupa il luogo che ognuno disdegna,
4. e, per questo, prossima è al Dao.
5. Di una dimora, vale la posizione,
6. del cuore, la profondità [del sentire e del pensare],
7. nel dare, vale la generosità,
8. nel parlare, dar prova della propria credibilità,
9. nel governare, [vale riuscire ad] amministrare con perizia [il regno],
10. nell’adempiere alle proprie mansioni, valgono le capacità,
11. nell’assumere l’iniziativa, vale il tempismo.
12. È proprio il rifiutare contese,
13. che al biasimo, dunque, ci sottrae.
Il termine chiave è shan 善 che, attraversando per intero il testo della
stanza 8, risulta decisivo ai fini della sua comprensione. Nella letteratura
cinese classica shan definisce una «bontà» morale che può essere,
diversamente dagli autori, o un dono di natura oppure il frutto
dell’acquisizione di valori a seguito di un oneroso sforzo di
autocoltivazione. Al significato di «bontà» si associa il senso di «essere
buono a…», ovvero essere esperto, dar prova di maestria e perizia
nell’esercizio di una determinata funzione. Nell’incipit, l’uso di «bontà» in
riferimento all’acqua (shui 水 ) soddisfa entrambe le specifiche – essere
«buono» ed essere «capace di…» – nel senso che il testo esalta le qualità di
un elemento specifico, l’acqua, che è sovente ricondotta al Dao (v. 4):
caratterizzazioni legate alla sfera femminina – freddezza, oscurità, tendenza
ad abitare i luoghi reconditi e «bassi» – accomunano i due concetti,
sebbene, come però osserva Wang Bi, l’accostamento è, in sé, improprio,
poiché di semplice approssimazione (ji 幾) si tratta, dato che il Dao rientra
nel dominio di wu 無 «non-presenza», mentre l’acqua appartiene a you 有,
alla dimensione manifesta. L’acqua non solo dispensa la vita, ma rifiuta
ogni contesa (v. 2) e si caratterizza per una spiccata adattabilità. Pur essendo
emblema di docilità e debolezza, essa è capace di esercitare un dominio
effettivo su ciò che è statico, rigido e forte (rinvio alle stanze 8, 78 e,
implicitamente, anche 43).
L’occorrenza di ren 仁 nel v. 7 ci ha indotto a evidenziare la «gratuità»
che dovrebbe caratterizzare l’amore nel dare agli altri: «generosità», in
questo senso, evidenzia una forma dis-interessata di altruismo, poiché priva
di secondi fini, immotivata, libera, spontanea.
Per concludere, nella stanza 8 l’acqua, in quanto emblema delle
caratterizzazioni che evocano il Dao, assume in sé quei tratti distintivi che
le consentono, inconsapevolmente, di avvalersi di qualità non volute, non
cercate. L’acqua, in questo senso, offre un modello ineguagliabile cui
ispirarsi per condurre a buon fine ogni attività, senza imporsi: essa è incline
a dimorare nei luoghi bassi, nascosti, quelli che chiunque, scioccamente,
disprezza (v. 5); è profonda (v. 6); è generosa, poiché dispensa la vita senza
favoritismi (v. 7); è affidabile, poiché, in uno stato di quiete, diventa uno
specchio capace di riflettere le cose cosí come sono (v. 8); in virtú della
propria docilità, crea le condizioni perché si affermi l’armonia (v. 9);
esprime un elevato grado di efficacia, al punto che solo il Dao le tiene testa
(v. 10); agisce secondo i tempi appropriati e rispondendo alle necessità
contestuali, diffondendosi capillarmente o, se doveroso, prorompendo con
forza inaudita (v. 11).
9 (MWD 53; BD 52; GD A 20)

1. 持而盈之
2. 不如其已
3. 揣而梲之
4. 不可長保
5. 金玉滿堂
6. 莫之能守
7. 貴富而驕
8. 自遺其咎
9. 功成身退
10. 天之道也
1. Anziché sforzarsi di tenere dritto [il vaso del duca Huan] colmandolo
d’acqua fino all’orlo,
2. meglio fermarsi in tempo.
3. A forza di battere e d’affilare,
4. [la lama] non potrà reggere a lungo.
5. Quando d’oro e di giada trabocca la Sala Maggiore,
6. nessuna protezione varrà.
7. Chi dalla nobiltà di rango e dalla ricchezza è reso tracotante,
8. cagion della propria sventura diventa.
9. Completata l’opera, ritraiti:
10. questo è il dao del Cielo.
Il verso d’apertura trae probabilmente spunto dalla massima chi man 持
滿 o chi ying 持盈 «tenere in mano saldamente ciò che è stato riempito fino
all’orlo», la cui valenza è stata esaminata nel dettaglio da JIANG XICHANG
1937 (p. 50) e da KIM HONGKYUNG 2012 (pp. 185-86). CADONNA 2001 (p.
22) traduce l’incipit della stanza 9 «tenere in pugno qualcosa e voler
riempire il pugno con qualcos’altro».
Un chiarimento del senso del v. 1 può venire, presumiamo, dal passo
28.1.1 del Xunzi e dal passo 9.4.1-2 del Kongzi jiayu, che registrano
l’episodio in cui Confucio, in visita presso il tempio ancestrale del duca
Huan (Huan gong, r. 712-694 a.C.) del regno di Lu 魯 , scorse un vaso
sacrificale inclinato, che attirò la sua curiosità: esso, gli fu detto, pendeva da
una parte se vuoto, ma stava perfettamente dritto se riempito d’acqua per
metà, mentre si capovolgeva quando era colmo fino all’orlo. Da ciò il
Maestro trasse il seguente insegnamento: cosí come la stabilità del vaso è
raggiunta solo versando una moderata quantità d’acqua, allo stesso modo
ogni conseguimento raggiunto e ogni espressione del proprio essere vanno
bloccati prima che, giunti al limite, trabocchino, ragion per cui è doveroso
controbilanciarli con la giusta dose dell’elemento contrario.
Il superamento della giusta misura è foriero di sventura, afferma il testo:
l’accumulo di ricchezze, l’esasperato appagamento dei propri desideri e la
tracotanza, infatti, espongono gli stolti al sommo rischio di smarrire se
stessi.
Ci limitiamo a segnalare come, nel v. 5, tang 堂 esprima la Sala
Maggiore, la Sala Principale a corte, sebbene il termine indichi il luogo
adibito tanto alle cerimonie religiose che agli incontri di natura politica nei
palazzi nobiliari.
10 (MWD 54; BD 53)

1. 載營魄抱一
2. 能無離乎
3. 專氣致柔
4. 能嬰兒乎
5. 滌除玄覽
6. 能無疵乎
7. 愛國治民
8. 能無知乎
9. 天門開闔
10. 能為雌乎
11. 明白四達
12. 能無為乎
13. 生之畜之
14. 生而不有
15. 為而不恃
16. 長而不宰
17. 是謂玄德
1. Riuscirai a sostenere le tue energie spirituali affinché si stringano in
Unità [con il tuo corpo fisico e con il Dao],
2. evitando che si separino?
3. Nel concentrare il soffio vitale fino a renderlo lievissimo [vapore],
4. saprai fare come l’infante?
5. Nel tergere il tuo Profondo e Oscuro Specchio,
6. saprai le tracce rimuovere?
7. Nel prenderti a cuore il regno e nel governare il popolo,
8. saprai rinunciare alla conoscenza?
9. Nell’aprire e nel serrare le Porte del Cielo,
10. saprai fare come la Femmina?
11. Nel far luce e nel chiarire il senso delle cose in ogni dove,
12. saprai evitare di adoperarti?
13. Dà loro la vita, e li assiste,
14. dà loro la vita, ma pretese di possesso non avanza,
15. agisce [per il bene degli esseri] senza che [questi] avvertano il Suo
sostegno,
16. li cresce, ma di loro non dispone:
17. è quel che si dice ‘Arcana Possanza’.
Il verso d’apertura solleva non pochi dubbi, aprendo una serie di
profonde riflessioni. Numerosi commentatori hanno ipotizzato che la
cristallizzazione della lezione zai 載 «tenere, portare», ma anche
«supportare, sostenere» nel senso di «agevolare, aiutare», derivasse dal
mancato riconoscimento che il carattere in questione stava, in realtà, per la
parola zai 哉 , impiegata come particella finale retorico-interrogativa in
chiusura dell’ultimo verso della stanza precedente. La necessità di
ripristinare la correttezza del testo secondo quanto sopra espresso si
concretizzò in una disposizione perentoria dell’imperatore Xuanzong (685-
762) della dinastia Tang 唐 (618-907), di cui fa menzione Guo Zhongshu (X
secolo) nel Peixi. La soluzione proposta da Xuanzong ha goduto di un
diffuso credito, anche perché si è spesso dubitato della reale attinenza del
termine zai 載 con il contenuto dei vv. 1 e 2; inoltre, nell’espungere il
carattere iniziale della stanza 10, l’intero verso si uniformerebbe alla
struttura a quattro caratteri dei vv. 2-7. HENRICKS 1989 (p. 206), ad
esempio, è stato tra quanti hanno optato per la ricollocazione di zai 載 (dai
戴 in MWD B) nella stanza precedente, leggendo, come già anticipato, zai
哉.
Il fraintendimento alla base dello scambio tra zai 哉 e zai 載 e lo
spostamento del carattere incriminato dalla coda della stanza 9 alla testa
della stanza 10 avrebbe, dunque, compromesso la linearità della
trasmissione di questo segmento testuale del Laozi.
Tuttavia, se guardiamo alla tradizione manoscritta, le pericopi
corrispondenti alla stanza 9 in MWD B (e, per congettura, probabilmente
anche A), in BD e in GD A si chiudono con un verso a quattro caratteri
(Tian zhi Dao ye 天 之 道 也 , cosí come riportato anche in Huainanzi
12.108.27 e nel Qunshu zhiyao), rispettando cosí la struttura di tutti i versi
precedenti e rendendo superflua ogni possibile integrazione. Vi sono, poi,
ulteriori elementi a sostegno della congruità di zai 載 con il contesto della
stanza 10 e con i vv. 1 e 2 in particolare: ad esempio, in una lirica
dell’antologia poetica Chuci, risalente al IV secolo a.C. circa, si legge zai
ying po er deng xia xi 載營魄而登霞兮 (5.1.15: «I restrained my restless
spirit and mounted the empyrean», nella traduzione di HAWKES 1985, p.
196).
Sul significato da attribuire al termine ying 營 «accamparsi, vigilare,
anelare, cercare; nutrire», che secondo alcuni interpreti formerebbe con il
carattere che segue il composto ying po 營 魄 , sono stati versati fiumi
d’inchiostro. Wang Bi si è espresso in favore dell’associazione del
composto succitato con l’eterna dimora dello spirito, ovvero il corpo, dal
quale le componenti psichiche mai dovrebbero separarsi, cosí come è
auspicabile che non si scindano dall’Uno (yi 一).
Di tutt’altro avviso Wang Yi (II secolo), che nel commentario al Chuci
definisce ying po 營魄 nei termini di ling po 靈魄 «numen e componente
psichica ctonia, materica»; il commentario di Heshanggong assimila ying
營 a hun 魂, la componente psichica «volatile», sottile, associata allo yang
陽 , che, stando ad alcune fonti, fa ritorno al Cielo dopo la morte. ERKES
1950 (pp. 141-42) appoggia quanto si evince dal commentario di
Heshanggong fino a sostenere che ying 營 sia una variante di ling 靈 in uso
nel dialetto del regno di Chu. HENRICKS 1989 (p. 272) non esclude che il
carattere ying 營 sia da legarsi al processo che alcuni testi medici
definiscono ying qi 營氣, ossia di trasformazione dell’essenza vitale (qi 氣)
in sangue. Ying 營 è effettivamente un termine tecnico in medicina che
indica, come puntualizza UNSCHULD 1985 (pp. 67, 76-77), «le armate
accampate» che, assieme alle «guardie» (wei 衛 ), difendono il corpo da
intrusioni esterne. Quelle che lo studioso tedesco definisce «constructive
influences» (ying qi 營氣) rappresentano sostanze che circolano nei vasi e
sono prodotte da stomaco e milza; a seconda delle fonti, o s’identificano
con gli elementi che concorrono alla produzione del sangue o coincidono
con il sangue stesso.
Vi sono tuttavia alcune evidenze che portano all’identificazione di ying
營 con la modalità yin 陰 del soffio vitale, come si evince dal commentario
della sezione Suwen dello Huangdi neijing. Cfr., a sostegno di questa
posizione, ZHU QIANZHI 1996 (p. 39). ROBINET 1998 (pp. 129, 132) ha
definito ying una forma di energia vitale o comunque «spirituale» e fa
menzione dell’interpretazione di Chen Jingyuan (morto intorno al 1100)
che, partendo da premesse simili a quelle del commentario di Heshanggong,
ha associato il termine al senso di «andare e venire, entrare e uscire»,
associabile alla naturale tendenza della componente sottile dello spirito di
essere volatile ed eterea. ROTH 1999a (pp. 150-51, 231-32), nell’investigare
le affinità tra il Laozi e il capitolo Neiye del Guanzi, si è a lungo soffermato
sul senso della stanza 10, arrivando a tradurre i primi tre caratteri del verso
d’apertura «amid the daily activities of the psyche», intendendo con psyche
l’attività congiunta di hun e po. A riprova dello stretto nesso tra il Laozi e il
Neiye, Roth sottolinea la convergenza su tre punti specifici:

1. la nozione di bao yi 抱一 «abbracciare l’Uno, l’Unità» o «stringersi in


unità», cui fa eco zhi yi 執一 «tenersi saldo all’Unità» nel Neiye
(16.1.116.7);
2. il riferimento, nel v. 3, a zhuan qi 專氣 «riunire, agglomerare,
concentrare l’essenza vitale», concetto che ritroviamo anche nel Neiye
(16.1.117.6);
3. infine, nel v. 5, si legge di chu xuan jian 滌除玄鑒 «tergere il
Profondo e Oscuro Specchio», espressione che include il termine chu
除 «pulire, tergere» condiviso dal Neiye (16.1.116.14), dove vengono
menzionate le pratiche di svuotamento di xin 心 «cuore, mente» e di
purificazione del luogo che ospita la facoltà numinosa dell’uomo. La
vulgata presenta lan 覽 «guardare, esaminare», probabile prestito
fonetico per jian 鑒 «riflettersi, specchiarsi, specchio».

La nozione di bao yi 抱一 esprime la necessità d’integrare e coordinare


le attività dell’adepto perché questo esperisca un’adesione al Dao intesa
come totale Unità rispetto alla legge di natura, Unità che, stando a Wang Bi,
si realizza solo attraverso l’espressione della genuinità, dell’autenticità
dell’uomo (ren zhi zhen 人 之 真 ). L’Uno è, per Heshanggong, la
«quintessenza dell’energia vitale che sprigiona dalla Suprema Armonia»
(Taihe zhi jingqi 太和之精氣), ma gli esegeti offrono letture diverse, che
vanno dall’essenza della forza yang 陽 (Wang Zhen, IX secolo), a «energia,
soffio vitale» (qi 氣) e hun 魂 «componente spirituale eterea», secondo Zhu
Qianzhi, sulla cui lettura merita soffermarsi. Zhu Qianzhi sottolinea, infatti,
in modo ancor piú netto di Wang Bi, come il testo invochi la convergenza
delle dimensioni fisica e psichica affinché il corpo accolga lo spirito – dal
quale trae energia, movimento – e si realizzi l’Unità inscindibile tra po 魄 e
hun 魂, tra xing 形 «corpo, fisico» e ling 靈 «numen».
Nel v. 4, il riferimento all’infante si somma a 55.2, 20.11, 28.7, dove tale
metafora allude alla purezza incontaminata della Possanza o Potenza (de
德) primigenia.
Si è già fatta menzione della congruità tra alcuni passi del Neiye con il v.
5 di chu xuan lan 滌除玄覽 «tergere il Profondo e Oscuro Specchio», che
presenta evidenti somiglianze con un altro capitolo del Guanzi, ovvero
Xinshu-shang. Lo specchio è sovente impiegato per simboleggiare la
trasparenza, la limpidezza della mente del Saggio che «riflette» la natura
del mondo per ciò che è. Come il Dao, lo specchio-mente è «Arcano,
profondo» (xuan 玄 ), ossia può riflettere la natura intima del Dao ma
soltanto dopo che sono state rimosse quelle polverose tracce (tra cui la
conoscenza stessa) che ne intralciano l’attività. Le «Porte del Cielo» (v. 9)
sono state identificate in modi diversi (i principî naturali; la dimensione cui
lo spirito accede a seguito di un viaggio estatico), ma riteniamo che
prevalga il riferimento alle facoltà dei sensi coordinate dal xin 心 «cuore,
mente», come probabilmente inteso anche da 52.6 e 56.4.
Un’eco dei vv. 13-16 è riscontrabile anche nelle stanze 2, 51, 77 del
Laozi. Il soggetto, sottinteso, pare essere il Dao (come suggerisce
Heshanggong), che si cela dietro l’emanazione di un’infinita e Arcana
Possanza capace di sostenere gli esseri (nel testo «loro», v. 16).
11 (MWD 55; BD 54)

1. 卅輻共一轂
2. 當其無有車之用
3. 埏埴以為器
4. 當其無有器之用
5. 鑿戶牖以為室
6. 當其無有室之用
7. 故有之以為利
8. 無之以為用
1. Convergono nel mozzo trenta raggi,
2. e proprio da quell’assenza [di qualità fisiche] l’utilizzo del carro
dipende.
3. Argilla si plasma per farne vasi,
4. il cui utilizzo proprio da quell’assenza [di qualità fisiche] dipende.
5. Porte e finestre s’aprono perché una dimora tale sia,
6. e proprio da quell’assenza [di qualità fisiche] il suo utilizzo dipende.
7. Ammesso, dunque, che dalla presenza [di qualità fisiche] l’utilità delle
cose derivi,
8. è dall’assenza [di qualità fisiche] che il loro utilizzo dipende.
La predilezione scontata per il palesamento, la presenza, la
rappresentazione manifesta di connotazioni e qualità (you 有 ) è tale in
ragione dello spregio e l’incuranza mostrati dagli stolti verso la dimensione
dell’assente, del non-manifesto, del non-palese (wu 無 ). Tuttavia, il testo
mette in rilievo come l’uso – o utilizzo o, anche, «funzionamento» (yong
用 ) – delle cose dipenda, in realtà, forse piú dalla disponibilità di spazio
vuoto latente, funzionale alla fruizione piena degli oggetti, che non dalla
loro fisicità sostanziale, che ne definisce, piú che l’utilizzo, l’utilità (li 利, v.
7): al proposito, li sembra definire il grado di profitto materiale, mentre
yong sancisce il criterio e le modalità di utilizzo e di «funzionamento» di
qualunque cosa.
Le proporzioni d’incidenza delle caratterizzazioni wu 無 e you 有 nel
determinare la natura di un ente equivalgono, sebbene il Laozi accentui
spesso wu, nel tentativo di ripristinare un equilibrio che la miopia e la
parzialità umana hanno da tempo compromesso.
I due versi conclusivi sono interpretati da Wang Bi, Heshanggong, Fan
Yingyuan e Lin Xiyi in modo tale da evidenziare come le cose risultino utili
solo quando il loro uso risponde a wu: a tale lettura si è ispirata la
traduzione di KIM HONGKYUNG 2012 (p. 191).
12 (MWD 56; BD 55)

1. 五色令人目盲
2. 五音令人之耳聾
3. 五味令人之口爽
4. 馳騁畋獵令人心發狂
5. 難得之貨令人行妨
6. 是以聖人為腹不為目
7. 故去彼取此
1. I Cinque colori alla cecità portano gli uomini,
2. le Cinque tonalità musicali gli assordano le orecchie,
3. i Cinque sapori il palato guastano,
4. corse a cavallo e battute di caccia di senno li fanno uscire,
5. beni difficili da ottenere ne ostacolano i comportamenti [virtuosi].
6. Pertanto, il Saggio alla pancia bada, non all’occhio:
7. il secondo principio, dunque, rifiuta, e il primo adotta.
I cinque colori (nero, bianco, giallo, rosso e verde) si uniscono ad altre
caratterizzazioni a «base cinque» (vv. 1-3) per definire l’insieme delle fonti
di sollecitazione dei sensi che, se fruite in modo sregolato, turbano la natura
dell’uomo anziché gratificarla.
Nel v. 5 abbiamo accolto il suggerimento di Wang Bi che specifica come
il miraggio – che molti illude – di entrare in possesso di beni rari e preziosi,
sia d’intralcio nell’adozione di comportamenti retti (zheng 正).
La comprensione del v. 6 necessita dell’esame delle considerazioni di
almeno due interpreti: Li Yue sostiene che i desideri della pancia sono
saziabili, mentre lo stesso non vale per quelli dell’occhio; Wang Bi ritiene,
invece, che quanti prediligono l’appagamento della pancia si nutrono di
cose, mentre chi mira alla gratificazione dell’occhio dalle cose è reso
schiavo.
13 (MWD 57; BD 56; GD B 4)

1. 寵辱若驚
2. 貴大患若身
3. 何謂寵辱若驚
4. 寵為下
5. 得之若驚
6. 失之若驚
7. 是謂寵辱若驚
8. 何謂貴大患若身
9. 吾所以有大患者
10. 為吾有身
11. 及吾無身
12. 吾有何患
13. 故貴以身為天下若可寄天下
14. 愛以身為天下若可託天下
1. ‘Il favore, al pari dell’onta, desti allarme’,
2. ‘Onori e somme pene al pari ci affliggono’.
3. Cosa significa ‘Il favore, al pari dell’onta, desti allarme’?
4. Il favore, in basso getta:
5. nel riceverlo, state in allarme!
6. nel perderlo, state in allarme!
7. Ciò s’intende col dire ‘Il favore, al pari dell’onta, desti allarme’.
8. E cosa s’intende, allora, con ‘Onori e somme pene al pari ci
affliggono’?
9. Se io da tante pene sono afflitto,
10. è perché questa mia persona di possedere m’illudo.
11. Se cosí non fosse,
12. quale pena mai, io, subirei?
13. Colui al quale tutto ciò che sta sotto il Cielo merita d’essere affidato,
pari pregio riconosce a esso e alla propria persona,
14. e colui al quale tutto ciò che sta sotto il Cielo merita d’essere
assegnato, a esso e alla propria persona pari premura dispensa.
Il verbo jing 驚, in apertura della stanza, indica sia «temere, impaurirsi»
che «stupirsi, meravigliarsi, sorprendersi»: il Saggio mai abbassa la guardia,
poiché è consapevole che la vera gratificazione non è legata
all’apprezzamento altrui, cosí come sa che l’impopolarità non intacca la
fiducia che ha in Sé. Egli, dunque, è circospetto e incline a non esaltar-Si di
fronte al successo, cosí come non Si abbatte davanti al mancato
riconoscimento dei Propri meriti. L’insegnamento che dovremmo trarre è
che il riconoscimento pubblico e il favore di cui godiamo non possono che
indurci a riflettere sul senso delle nostre azioni e a dubitare costantemente
dell’autenticità di ciò che esperiamo: la gratificazione derivante
dall’affermazione pubblica di sé è sempre meritata? Sarà durevole? Quale
vantaggio reca, in fin dei conti? E se il favore dovesse venir meno?
L’equilibrio della propria persona (shen 身 ) non deve risentire
dell’oscillazione tra una gratificazione effimera costruita sul consenso e
l’apprezzamento di cui si gode e la frustrazione dell’ignominia, proprio
perché favore e onta non sono altro che condizioni transitorie e alterne, in
perpetuo flusso. Le dinamiche della vita fanno sí che una volta caduti i
presupposti che consentono di godere di certi privilegi, l’ignominia farà
breccia e all’appagamento seguiranno delusione e amarezza. L’importante,
pare suggerire il testo, è evitare di vivere nell’ossessione che il benessere
della nostra persona dipenda o dalla conservazione di determinate
condizioni ritenute favorevoli o dalla capacità di schivare il disonore,
l’oltraggio, la sofferenza. La suddetta ossessione, in fondo, si riconduce a
una convinzione precisa: l’idea che siamo padroni di noi stessi, che ci
«apparteniamo» (v. 10). Come ogni altra forma di possesso, anche quella
nei confronti di sé non può che culminare nel dramma della perdita, dello
smarrimento irreparabile. Un soggetto che crede di possedere se stesso
respinge, scioccamente, di vivere il fecondo contrapporsi di condizioni
antitetiche, contraddittorie, perché sente l’agio solo nella unilateralità, nella
comodità, nella pigrizia, nella somiglianza a sé. La radice del dolore, cosí
come della gratificazione, è una sola: la convinzione che tutto dalla propria
persona (shen 身) parta e tutto a essa debba ricondursi. A cosa porterebbe,
invece, un ridimensionamento dell’impatto di noi stessi nel mondo? E,
soprattutto, un ridimensionamento dell’idea che tutto a noi stessi debba
ricondursi nell’esperienza che viviamo, del mondo? Il sospetto è che ogni
sofferenza si allevi nel momento in cui rinunciamo alla centralità dell’io. Da
ciò trae forza il contenuto della stanza 13: partendo dal superamento del
condizionamento dettato da ciò che scioccamente temiamo e da ciò che
altrettanto scioccamente apprezziamo, il testo individua la causa prima del
disagio nella convinzione della radicale assolutezza dell’io in quanto
elemento che esercita una funzione di controllo su di sé e sul mondo. Solo
abbandonandosi il soggetto abbatte i vincoli del condizionamento e si apre
al Dao.
Nei versi di chiusura, è al Saggio Sovrano che il testo si rivolge. Egli,
incarnando a tutti gli effetti lo Stato, è chiamato a destinare all’attività di
governo lo stesso tipo di attenzioni che rivolge a se stesso. Avendo, però,
de-centrato la Propria persona (shen 身), il Suo giudizio non sarà piú viziato
dalla parzialità.
Il dibattito sulla priorità da attribuire alla propria persona o al mondo
dette vita a una complessa articolazione speculativa. Le implicazioni etico-
politiche riflesse nel Laozi si concretizzano nel richiamo a non rischiare di
mettere a repentaglio se stessi per ottenere qualunque oggetto materiale –
fosse tutto ciò che sta sotto il Cielo – e nell’invito a non sacrificarsi
incondizionatamente per il bene altrui, neppure se fosse il mondo intero a
goderne.
Le differenti stesure dei vv. 13-14 nelle varie edizioni hanno portato gli
esegeti del Laozi a interpretazioni discordanti. WB, FY, HSG e BD leggono
gui yi shen wei Tianxia 貴以身為天下 in corrispondenza del v. 13, ossia
«apprezzare, stimare (gui 貴 ) il fatto di considerare la propria persona (yi
shen 以身) come se fosse pari a tutto ciò che sta sotto il Cielo (wei Tianxia
為 天 下 )», mentre GD B e MWD presentano «dar valore, stimare,
apprezzare (gui 貴 ) l’agire in favore di sé (wèi shen 為 身 ) piú (yu 於 )
dell’agire per il bene di tutto ciò che sta sotto il Cielo (wèi Tianxia 為 天
下 )». A prima vista, GD B e MWD appaiono piú terse dal punto di vista
sintattico, come suggerito da LAU 1989 (p. 169) e confermato da S. COOK
2013 (vol. I, pp. 291-94).
Probabilmente gli editori o gli scribi responsabili delle stesure piú tarde
hanno voluto creare una simmetria con il verso successivo, la cui struttura si
è mantenuta stabile nel tempo: la sostituzione di wèi 為 «agire in favore di,
avere come obiettivo» con yi 以 nel v. 13 e la cancellazione, in numerose
versioni, della preposizione yu 於 che introduce il secondo termine di
paragone, sono state decisive nel determinare nuovi equilibri della pericope.
Non possiamo certamente escludere che la configurazione del v. 13 sia stata
arbitrariamente assimilata a quella del verso successivo, per quanto BD
dimostri che già intorno al II secolo a.C. la struttura della pericope oggetto
d’esame fosse conforme a quella della vulgata.
14 (MWD 58; BD 57)

1. 視之不見
2. 名曰夷
3. 聽之不聞
4. 名曰希
5. 搏之不得
6. 名曰微
7. 此三者不可致詰
8. 故混而為一
9. 其上不皦
10. 其下不昧
11. 繩繩不可名
12. 復歸於無物
13. 是謂無狀之狀
14. 無物之象
15. 是謂惚恍
16. fl之不見其首
17. 隨之不見其後
18. 執古之道
19. 以御今之有
20. 能知古始
21. 是謂道紀
1. Lo guardi senza scorgerLo:
2. si chiama ‘Impercettibile’.
3. Stai in ascolto, ma non Lo senti:
4. si chiama ‘Silente’.
5. Mano Vi poni, ma non Lo prendi:
6. si chiama ‘Minuto’.
7. Sono queste tre qualità che non ci è dato investigare oltre,
8. per ciò, le consideriamo indistintamente fuse in Unità.
9. La Sua sommità non risplende,
10. il Suo fondo oscuro non è.
11. Incessante e Immenso, Indicibile,
12. a quando nessuna cosa esisteva fa ritorno.
13. Lo si definisce ‘Forma di forma priva’,
14. del ni-ente è Immagine,
15. è quel che si dice ‘Vaga, Indiscernibile Sembianza’.
16. A Esso vai incontro, e non Ne vedrai il volto,
17. seguiLo, e non ne vedrai il tergo.
18. Saldo tieniti all’Antico Dao,
19. per amministrare a dovere quel che oggi è presente,
20. e per conoscere l’Antico Primordio:
21. ciò si dice ‘il Bandolo del Dao’.
Si sottrae, il Dao, alla percezione dei sensi: non essendo una cosa, la Sua
rappresentazione è negata.
In MWD si registra un’inversione nella disposizione di wei 微 «minuto,
piccolo» (v. 6) e yi 夷 (v. 2); quest’ultimo termine figura in Laozi 41.8 e
53.4 nell’accezione di «appianato, livellato, liscio». In questa stanza, la
traduzione di yi 夷 con «impercettibile» tiene conto della glossa nel
Guangya che assimila il carattere in questione a mie 滅 «ciò che svanisce, si
dissolve nel nulla» e che, in quanto impalpabile, non risulta visibile; proprio
sulla mancanza di connotazioni fisiche e di «colori» (caise 彩色) insiste il
commentario di Heshanggong, sempre in relazione a yi 夷 . Stando al
subcommentario al capitolo Tan Gong del Liji (4.27.25.2), l’impercettibilità
propria di wei 微 è legata alla vista, non al tatto, elemento che depone a
favore della redazione di MWD. In FYY il v. 2 si chiude, non a caso, con ji
幾, che nello Shuowen jiezi è glossato con wei 微.
Le tre caratterizzazioni espresse nei vv. 2, 4, 6 costituiscono, assieme e
indistintamente, aspetti della stessa entità che, evocata dal pronome zhi 之
nei vv. 1, 3, 5, potrebbe anche identificarsi con l’Uno (yi 一 ), come
leggiamo in MWD, data la presenza di yi zhe 一 者 «per quanto riguarda
l’Uno» tra i vv. 8 e 9.
Il riferimento all’antichità (gu 古) nei vv. 18 e 20 è, stando a Wang Bi,
un richiamo non necessariamente legato a un passato storico, ma all’eternità
del Dao che, in quanto antenato supremo (zong 宗 ) degli esseri, definisce
parametri costanti che vanno al di là dei mutamenti contingenti dei costumi
e delle convenzioni culturali, ragion per cui il Saggio Sovrano è in
condizione di superare le fratture tra passato e presente e di cogliere la
continuità di norme immutabili: in tal senso Egli viene a capo del bandolo
di questo filo (ji 紀) che, ininterrottamente, dal lontano primordio tutto tiene
unito.
15 (MWD 59; BD 58; GD A 5)

1. 古之善為士者
2. 微妙玄通
3. 深不可識
4. 夫唯不可識
5. 故強為之容
6. 豫兮其若冬涉川
7. 猶兮其若畏四鄰
8. 儼兮其若客
9. 渙兮其若冰之將釋
10. 敦兮其若樸
11. 曠兮其若谷
12. 渾兮其若濁
13. 孰能濁以靜之徐清
14. 孰能安以久動之徐生
15. 保此道者不欲盈
16. 夫唯不欲盈
17. 故能蔽不新成
1. Chi nell’antichità davvero eccelleva,
2. sottile, segreto, arcano e perspicace si dimostrava,
3. tanto profondo da non poter essere inteso.
4. Proprio perché non poteva essere inteso,
5. sforziamoci, allora, d’abbozzarne i tratti:
6. esitante, era, come colui che d’inverno guada un torrente,
7. cauto, come chi avverte il pericolo incombere da ogni dove,
8. ossequioso, al pari del visitatore,
9. dileguarsi, soleva, come ghiaccio che sta per sciogliersi,
10. schietto, era, come il ceppo grezzo non tagliato,
11. vasto, come la valle,
12. confuso, come le torbide acque.
13. Eppure chi[, se non lui], placando l’acque torbide, pian piano le ha
rese limpide?
14. E chi[, se non lui], sollecitando a lungo quel che riposava, la vitalità
pian piano ha restituito?
15. Chi si fa custode di tale dao, non desidera essere colmo,
16. e proprio perché non desidera essere colmo,
17. è dunque capace di mantenersi logoro senza giungere alla piena
completezza.
MWD, come FY, leggono wèi / wéi Dao 為道 «porsi come obiettivo il
raggiungimento del Dao, perseguire il Dao / mettere in pratica il Dao»,
discostandosi dalla lezione piú diffusa wéi shi 為士 «essere un discepolo,
un adepto», ma anche «ricoprire cariche amministrative» o mansioni legate
alla gestione della cosa pubblica, come attestato sia nella vulgata che in BD
e GD A. Heshanggong è inequivocabile nell’associare la figura evocata
nell’incipit ai sovrani esemplari dell’antichità. Va rilevato come il contenuto
dei vv. 13-14 ammetta che limpidezza e vitalità esprimono condizioni che
gli uomini virtuosi dell’antichità hanno saputo assicurare tanto a se stessi
quanto agli altri. Ci limitiamo a registrare come le due pericopi siano
redatte in forma dichiarativa in MWD, assumendo il tono «L’acqua torbida,
se placata, pian piano si farà limpida / E quel che è inerte, una volta smosso,
la vitalità pian piano riprenderà».
L’occorrenza di bi 蔽 «coprire, occultare, nascondere» nel verso
conclusivo della vulgata evidenzia, probabilmente, una corruzione a partire
dalla lezione legittima bi 敝, attestata in BD e MWD: bi 敝 indica l’essere
«logoro, deteriorato», e dà il senso dell’usura derivante dal prolungato
utilizzo di qualcosa che ormai non ha piú valore. Proprio perché non
intende raggiungere la pienezza, la saturazione, la completezza (cheng 成,
v. 17), il Saggio predilige mostrarsi in una condizione di perenne precarietà,
che però gli consente di evitare l’eccesso e, dunque, di soccombere.
Accogliamo l’indicazione di GAO MING 1996 (p. 298) di espungere xin 新
«nuovo, rinnovare», come registrato in MWD B e in BD, fermo restando che
il contrasto tra «logoro» e «nuovo» si affaccia anche in Laozi 22.4 e 45.2.
16 (MWD 60; BD 59; GD A 13)

1. 致虛極
2. 守靜篤
3. 萬物並作
4. 吾以觀復
5. 夫物芸芸
6. 各復歸其根
7. 歸根曰靜
8. 是曰復命
9. 復命曰常
10. 知常曰明
11. 不知常妄作凶
12. 知常容
13. 容乃公
14. 公乃王
15. 王乃天
16. 天乃道
17. 道乃久
18. 沒身不殆
1. Il vuoto assoluto sia il limite cui spingersi,
2. massima sia la premura nel mantenersi quieti.
3. Una volta venuti tutti alla luce, uno dopo l’altro, i Diecimila Esseri,
4. io assisto al Loro ritorno [verso il Dao].
5. Proliferano, innumerevoli, gli esseri,
6. e ognuno alla propria radice farà ritorno:
7. fare ritorno alla propria radice vuol dire ‘[Darsi] Quiete’,
8. e ciò si dice ‘Tornare a ciò che fu sancito’;
9. ‘Tornare a ciò che fu sancito’ vuol dire ‘[Comprendere] Eternità e
Costanza’,
10. ‘Comprendere Eternità e Costanza’ vuol dire ‘Essere Illuminati’,
11. [mentre] ignorare Eternità e Costanza è cosa stolta e foriera di
sventure.
12. Comprendere Eternità e Costanza porta all’indulgenza,
13. l’indulgenza, all’imparzialità,
14. l’imparzialità, alla regalità,
15. la regalità, al Cielo,
16. il Cielo, al Dao,
17. il Dao, alla lunga vita,
18. [e, in tal modo,] giunti alla fine dei nostri giorni, pene non avremo
patito.
Xu 虛 «vuoto, vacuità» (v. 1) e jing 靜 «quiete, tranquillità» (vv. 2 e 7)
esprimono le condizioni che l’adepto esperisce nel vivere in prima persona
l’adesione al Dao. Entrambi i termini rappresentano lo stato di un xin 心
«cuore, mente» non turbato dal desiderio e dalla parzialità, pronto ad
accogliere la realtà cosí-come-è. I due termini esercitano nel lessico
laoziano un forte impatto evocativo, tanto da alludere – solo alludere… –
sia alla natura del Dao, che è somma vacuità, che alla Sua operatività,
dettata dalla pacatezza e dal sereno distacco di chi non persegue alcun
secondo fine.
Abitare il Dao comporta un ritorno (fu 復) alla radice (gen 根) da cui gli
esseri si sono affacciati, per partecipare al disegno di quella forza indicibile
che genera tutte le cose, incessantemente, nel rispetto di principî eterni e
costanti (chang 常 , vv. 9, 11). Gen 根 , altro termine centrale in questa
stanza, è radice in quanto «fondamento originario» e indica la radice di
quelle piante che cresce «orizzontalmente», in prossimità della superficie
del suolo. Si distingue da ben 本 – altra categoria che indica la radice, il
punto di avvio, la causa imprescindibile – per il fatto che quest’ultimo
termine contempla l’inabissarsi, l’affondare nella terra, lo spingersi in
profondità.
17 (MWD 61; BD 60A; GD C 1)

1. 太上
2. 下知有之
3. 其次親而譽之
4. 其次畏之
5. 其次侮之
6. 信不足焉有不信焉
7. 悠兮其貴言
8. 功成事遂
9. 百姓皆謂我自然
1. Del Sommo [Sovrano],
2. i sudditi appena avvertono l’esistenza,
3. poi viene quello che amano e apprezzano,
4. poi quello che temono,
5. e, infine, quello che scherniscono:
6. e quando la fiducia [dei sudditi nel Sovrano] non basta, allora [anche
dal Sovrano] fiducia non sarà ricambiata.
7. Quant’è accorto[, tale Sommo Sovrano]! E come pesa le parole!
8. [Si cela, Egli, al punto che] quando ogni opera a buon fine è giunta e
le mansioni sono state assolte,
9. le genti hanno l’ardire di credere ‘A noi si deve!’
Le stanze 17-19 costituiscono un corpo testuale sostanzialmente
organico, come dimostrato da BD, che riunisce in una sola sezione quelle
che, nella vulgata, sono tre unità separate.
Il Saggio Sovrano si candida a essere il destinatario di un messaggio
esplicito e inequivocabile: il buon governo si fonda sull’oscuramento,
sull’occultamento degli strumenti e della fonte da cui il potere scaturisce.
Chi esercita in modo sostanziale il controllo, pertanto, si cela, cosí come si
cela il Dao, che interviene senza ingerenza, né coercizione. Questo
Dominus – tanto il Sovrano, quando il Dao – è incontrastabile poiché
impercettibile, pressoché assente: nel rendersi visibile, mostrerebbe solo i
segni della propria vulnerabilità, fino a diventare oggetto dello scherno dei
sudditi (v. 5). Sulla fiducia reciproca (xin 信, vv. 6-7) tra Sovrano e sudditi
si gioca la stabilità dello Stato, poiché se uno dei termini dovesse mai
perdere la propria credibilità, l’armonia collasserebbe e la diffidenza
avrebbe il sopravvento.
Il verso iniziale della stanza 17 potrebbe alludere sia alla condizione
sopra descritta, ovvero al governo del Sommo Sovrano Esemplare (come
ipotizzato da buona parte degli esegeti), sia a quell’epoca gloriosa del
passato in cui regnava la Somma Virtú e vigeva l’armonia (secondo quanto
suggerito da Lu Xisheng e Lin Xiyi).
Nel verso conclusivo l’espressione wo ziran 我 自 然 significa «io/noi
sono/siamo cosí» o «cosí sono/siamo secondo la mia/nostra natura». La
traduzione «a noi si deve» è giustificata sulla base del fatto che il Sovrano
Illuminato, non adoperandosi (wu wèi 無為), ossia non interferendo con il
corso degli eventi, lascia che l’equilibrio s’imponga da solo, facendo però
credere ai sudditi che il benessere di cui godono sia emerso naturalmente,
oppure, meglio ancora, che sia frutto dell’agire del popolo stesso.
18 (MWD 62; BD 60B; GD C 2)

1. 大道廢
2. 有仁義
3. 智慧出
4. 有大偽
5. 六親不和
6. 有孝慈
7. 國家昏亂
8. 有忠臣
1. Disertato il Grande Dao,
2. ecco ‘umana premura’ e ‘giustizia’;
3. affacciatesi sapienza e acume,
4. ecco la ‘grande falsità’;
5. rotta l’armonia tra i sei gradi di parentela,
6. ecco ‘amore filiale’ e ‘parentali cure’;
7. calati sul paese scompiglio e disordine,
8. ecco i ‘coscienziosi ministri’.
Come nella stanza che segue, il testo denuncia quanto drammatica sia la
dipartita dal Dao, che segna il passaggio a una condizione di profondo
smarrimento che porta alla creazione di forme surrettizie, artificiose (wei
偽 , v. 4) di virtú: da una parte, esse danno prova delle conseguenze che
derivano dall’oblio del Dao e dal processo di «umanizzazione» dei valori
normativi e, dall’altra, non fanno che inasprire il dissidio tra il soggetto e il
Dao nel momento in cui vengono adottate come soluzioni per ripristinare
un’armonia ormai compromessa dalla loro stessa comparsa.
I «sei gradi di parentela» (liu qin 六 親 , v. 5) definiscono i ruoli
paradigmatici alla base dell’articolazione degli obblighi tra padre e figlio,
tra fratello maggiore e fratello minore, tra marito e moglie.
19 (MWD 63; BD 60C; GD A 1)

1. 絕聖
2. 棄智
3. 民利百倍
4. 絕仁
5. 棄義
6. 民復孝慈
7. 絕巧
8. 棄利
9. 盜賊無有
10. 此三者
11. 以為文不足
12. 故令有所屬
13. 見素抱樸
14. 少私寡欲
1. Elimina la saggezza,
2. la conoscenza, rinnega,
3. e il popolo cento volte tanto ne trarrà giovamento.
4. Elimina l’umana premura,
5. la giustizia, rinnega,
6. e il popolo tornerà all’amore filiale e alle parentali cure.
7. Elimina la destrezza,
8. il profitto, rinnega,
9. e banditi e ladri spariranno.
10. [Poiché] sono tre norme, queste,
11. che qual modello ancora sono fallaci,
12. fai, dunque, che a esse s’accompagni quanto segue:
13. esibisci la stessa purezza della seta grezza, abbraccia la semplicità del
ceppo [non intaccato dalla scure],
14. la parzialità riduci, e il desio contieni.
La stanza 19 offre alcuni esempi eclatanti di diffrazione, emersi in
particolare dopo l’acquisizione di GD A, che registra soluzioni alternative
rispetto alla vulgata dal punto di vista micro e macrotestuale. Le varianti
sono di tale rilevanza da richiedere un esame attento e molto accurato che,
per ovvie ragioni di spazio, preferiamo non affrontare direttamente,
suggerendo la consultazione di ALLAN e WILLIAMS 2000 (pp. 195, 236-37,
249); ANDREINI 2000; ANDREINI 2002; ANDREINI 2004a (pp. 215-17);
BOLTZ 1999; CHEN GUYING 1999; HENRICKS 2000 (pp. 28-30); S. COOK
2013 (vol. I, pp. 225-29).
Il presente testo è uno dei classici loci laoziani il cui tono sprezzante e
aspro ha condotto esegeti e critici a scorgervi una polemica anti-confuciana,
che sarebbe forse piú opportuno definire anti-moralista. Per quanto
iperbolica, l’articolazione del discorso si fonda su una critica mirata a
screditare i valori etici fondativi del vivere sociale: ren 仁 «amore per il
prossimo, sollecitudine, senso di umanità» – ovvero il sentimento di
vicinanza altruistica, l’empatia (v. 4) –, yi 義 «giustizia, appropriatezza
morale, confacenza» (v. 5), xiao 孝 «amore e devozione filiale» e ci 慈
«amore genitoriale, parentale» (v. 6). Valutiamo, adesso, l’entità
dell’oltraggio: ammesso che di oltraggio si tratti, perché mai un simile
attacco? A che pro? Questi valori sono davvero criticati a priori,
incondizionatamente? A nostro avviso, va considerata l’ipotesi che il testo
incoraggi – come lasciano intendere i vv. 4-6 – ad abbandonare
un’obbedienza cieca, pigra e formale a tali dettami, poiché solo cosí si
riuscirà a recuperare la genuinità delle relazioni interpersonali senza
bisogno che esse vengano legittimate in nome di virtú sclerotizzate e
svuotate di significato. Accogliendo questa prospettiva, l’attacco al
patrimonio culturale confuciano-tradizionale verrebbe vistosamente
ridimensionato, poiché cosí sposteremmo l’accento sul contrasto tra un
piano morale inautentico e una dimensione etica finalmente autentica,
caratterizzata da un recupero pieno della spontaneità del gesto morale.
Non vanno però tralasciati altri valori che cadono sotto l’accetta laoziana
(vv. 1-2, 7-8): valori, se vogliamo, «neutri», dato che non rispondono a
criteri stringenti capaci di orientarci su inequivocabili affiliazioni dottrinali.
L’ostentata avversione nei confronti dell’intelletto, dell’acume e del
perseguire interessi personali sembra rispondere a quel principio, già
precedentemente emerso nel Laozi (vedi stanza 3), che tende a sottostimare
il merito, la maestria, la perizia, ovvero qualità che non portano giovamento
al popolo e al regno poiché innescano processi degenerativi mossi dalla
competizione sociale e dalla conflittualità, spingendo i sudditi a emergere, a
distinguersi, a eccellere e ad appagare i propri bisogni a spese della
gratificazione altrui. Ricchezze, onori, fama da ciò derivano e, nel
concretizzarsi, generano disparità, dissidi, invidia, avidità. Scenari simili,
pare scontato, non sono certo graditi al Sovrano, il quale, come è stato già
puntualizzato, per assicurarsi il controllo del potere deve elaborare strategie
di controllo dei desideri e delle aspirazioni del Proprio popolo (vedi Laozi
3, 44.6, 57.18, 80).
A un esame attento, tuttavia, risulterà evidente come l’invito nel verso di
chiusura a ridurre le spinte egoistiche e a contenere il desiderio suoni come
un appello alla moderazione che travalica la dimensione politica. Pratiche di
buon governo e misure volte all’autocoltivazione si conciliano, infatti, nel
momento in cui il Sovrano, puntando a un giusto equilibrio nella
soddisfazione dei Propri bisogni, si sottrae alla lascivia e alla licenziosità e
si dimostra capace di destinare la stessa premura che ha per Sé allo Stato
che, con tanto giudizio, amministra (vedi Laozi 13.13-14).
20 (MWD 64; BD 61; GD B 3)

1. [絕學無憂]
2. 唯之與阿
3. 相去幾何
4. 善之與惡
5. 相去若何
6. 人之所畏
7. 不可不畏
8. 荒兮其未央哉
9. 眾人熙熙
10. 若享大牢如春登臺
11. 我獨怕兮其未兆
12. 如嬰兒之未孩
13. 儽儽兮若無所歸
14. 眾人皆有餘
15. 而我獨若遺
16. 我愚人之心也哉
17. 沌沌兮俗人昭昭
18. 我獨若昏
19. 俗人察察
20. 我獨悶悶
21. 澹兮其若海
22. 飂兮若無止
23. 眾人皆有以
24. 而我獨頑似鄙
25. 我獨異於人
26. 而貴食母
1. [Eliminato lo studio, ogni tribolazione cesserà.]
2. Tra ‘Sissignore!’ e ‘Sí…’,
3. che differenza passa?
4. Tra ‘buono’ e ‘cattivo’,
5. la differenza a cosa è simile?
6. [L’adagio] ‘Ciò che gli altri rispettano e temono,
7. a mia volta non potrò che rispettare e temere’,
8. getta solo nello scompiglio, al punto da non lasciare intravedere
soluzione alcuna!
9. Trabocca di gioia, la folla,
10. come quando partecipa al sacrificio Tailao o durante le primaverili
salite al Belvedere.
11. Io, pacato e sereno, non accenno alcun segno,
12. come l’infante che ancora non conosce il sorriso!
13. Afflitto, al pari di chi non ha luogo dove fare ritorno!
14. Ognuno, della folla, di beni in eccesso dispone,
15. mentre io, solo, ne difetto.
16. Non è, forse, quella di un folle, la mia mente?
17. Tanto confuso[, sono], mentre il comune mortale è cosí limpido e
perspicace,
18. mentre io, solo, dal buio [della mia mente] sono offuscato!
19. Il comune mortale esamina con chiarezza e attenzione,
20. mentre io, solo, sono cosí confuso,
21. agitato, al mare simile!
22. Tumultuoso turbinio [mi assale], come non avessi, io, luogo dove
sostare!
23. Tra la folla, ognuno propositi nutre,
24. io, solo, sono stolto come un villico.
25. Se io, solo, dagli altri cosí tanto mi distinguo,
26. è per la devozione che ripongo nel pascere dalla Nutrice.
Da lungo tempo gli studiosi hanno disquisito sulla corretta collocazione
della pericope in apertura, da alcuni identificata quale verso di chiusura
della stanza 19. MWD B non registra alcun elemento di separazione tra
19.11 e 20.1 (MWD A è, purtroppo, mutilo). Sebbene in FY, WB e BD il
segmento testuale in questione apra la stanza 20, nel caso di MWD B è
plausibile dar credito all’opinione di XU KANGSHENG 1992 (p. 98) e di
HENRICKS 1989 (p. 224), secondo cui la suddetta pericope chiude quella che
poi è divenuta la stanza 19. In GD B il v. 1 è preceduto dal testo
corrispondente alla stanza 48 del textus receptus, mentre la porzione
assimilabile alla stanza 19 si chiude con un evidente segno d’interpunzione
in corrispondenza di 19.14, cui fa seguito un paragrafo riconducibile alla
stanza 66. Stando a GD B, la pericope jue xue wu you 絕 學 無 憂 può
dunque intendersi come coda della stanza 48, o, meglio ancora, quale verso
d’apertura della stanza 20. Rinvio a Wang Dao in ALLAN e WILLIAMS 2000
(pp. 241-42). La questione relativa all’originaria collocazione
dell’espressione jue xue wu you è lungi dall’essere risolta, tant’è che in
Wenzi 1.2.26 essa viene menzionata prima di Laozi 19.1.
Nel v. 2 wei 唯 esprime un consenso senza riserve, senza esitazione,
mentre e 阿 si riferisce a un timido assenso, titubante, incerto. Il tono del v.
4 c’induce però a pensare che anche nel v. 2 sussista un contrasto stridente,
del tipo «Signorsí!» vs «No!», tant’è che vari commentatori, tra cui ad
esempio Liu Shipei, ritengono che e 阿 esprima un brusco diniego e che la
lezione corretta coincida con quella di MWD B, ovvero he 訶 «rifiutare,
dinegare; parlare con tono collerico, inveire, rimproverare».
L’interpretazione dei vv. 6-7 tiene conto del commentario di Wang Bi, dove
compare il pronome personale wu 吾 «io»; come ipotizza LAFARGUE 1992
(pp. 29-30), riteniamo che l’autore abbia voluto chiamare in causa un
adagio del quale mette in dubbio la validità, poiché esso invita a temere e
rispettare quelle convenzioni sociali su cui si fondano i criteri messi in
discussione nei vv. 2 e 4. In quest’ottica, non è da escludere che il Laozi
voglia evidenziare l’assurdità di un’obbedienza passiva a regole formali che
andrebbero respinte poiché contrarie al Dao, come ad esempio quella
adottata da Confucio che, in presenza di un commensale in lutto, si rifiutava
di consumare il proprio usuale pasto (Lunyu 7.9) per non infrangere le
norme tradizionali di condotta. KIM HONGKYUNG 2012 (pp. 209-20) segue
un altro approccio interpretativo: poiché la distanza tra i termini opposti
chiamati in causa nei vv. 2 e 4 è fittizia, l’apprezzamento e il biasimo nei
nostri confronti sono sempre soggetti al giudizio di chi ci sta di fronte e, in
particolare, di chi detiene il potere, ragion per cui è doveroso fare
attenzione a ciò che gli altri temono e rispettano.
A partire dal v. 9 il testo mette in rilievo la distanza che separa il comune
mortale da colui che abbraccia il Dao: questi, nell’essere incerto, titubante,
confuso, inconsapevole di sé al pari di un infante (la stessa immagine
appare anche in Laozi 28.6 e 55.2), vive nell’ombra, tenendosi alla larga
tanto dall’apprezzamento che dal biasimo, incurante di ogni riconoscimento
che il mondo può tributargli.
Il Tailao 大牢 (v. 10) era un cerimoniale durante il quale si offrivano in
sacrificio animali (bovini, suini, ovini) per gli spiriti o per gli antenati. Il
rito, uno dei principali per grado d’importanza e di complessità, pare
richiedesse l’impiego di almeno nove ding 鼎, ovvero calderoni in bronzo a
uso sacrificale, dove venivano preparate e servite le libagioni (GAO MING
1996, p. 319).
Nel verso di chiusura, simu 食母 indica – seguendo la glossa di Zheng
Xuan (127-200) al passo 12.50.79.14 del Liji – la balia, la nutrice che allatta
i neonati; nell’interpretazione di Wang Bi, simu s’identifica con la radice
stessa della vita (sheng zhi ben 生之本), mentre Heshanggong associa si 食
«nutrire, allevare, allattare» a yong 用 «usare, impiegare, servirsi di…,
adottare» e mu 母 «madre» si accosta al Dao.
21 (MWD 65; BD 62)

1. 孔德之容惟道是從
2. 道之為物惟恍惟惚
3. 惚兮恍兮其中有象
4. 恍兮惚兮其中有物
5. 窈兮冥兮其中有精
6. 其精甚真其中有信
7. 自今及古
8. 其名不去
9. 以閱眾甫
10. 吾何以知眾甫之狀哉
11. 以此
1. L’operato della Possanza Immensa, al Dao soltanto risponde.
2. Incerta cosa, e vaga, è il Dao!
3. Vaga, incerta, sí, ma al Suo interno traspaiono immagini!
4. Incerta, vaga, sí, ma al Suo interno v’è pur qualcosa!
5. Recondita, misteriosa, sí, ma al Suo interno rivela una peculiare
realtà,
6. e tanto genuina e vera è la Sua realtà che di Sé dà prova.
7. Dal dí presente fino all’antichità,
8. il Suo nome, mai desueto,
9. segna il punto d’avvio [del manifestarsi] della Moltitudine degli
Esseri.
10. Come so, io, che l’avvio della Moltitudine degli Esseri tale sembianza
ebbe?
11. Da ciò [che sopra è stato appena espresso]!
Il composto kong de 孔德 evoca la Possanza del Dao nella sua immensa
e insondabile realtà; Wang Bi associa però kong 孔 a kong 空 «vuoto», forte
del fatto che il primo termine detiene l’accezione di «apertura, poro, foro».
Rong 容 esprime l’atto del «ricevere, accettare» e in questo caso evoca la
capacità di seguire il Dao e di accoglierLo in sé; piú precisamente, rong
significa «contegno, apparenza, attitudine, aspetto», ma essendo
strettamente legato al movimento, all’attività palese (dong 動 , o xing 行 ,
come espresso in Zhuangzi 92.33.36), rong chiama direttamente in causa
l’operatività, l’azione, tant’è che taluni lo assimilano a yong 搈 , glossato
nello Shuowen jiezi con dong 動.
L’interpretazione dei vv. 3-4 è legata alla comprensione dei due aggettivi
huang 恍 e hu 惚, che sovente occorrono insieme per qualificare ciò che è
«incerto, indistinto, confuso, fievole», dunque imprecisato, imprecisabile,
sfuggente, poiché privo di forma (secondo Wang Bi). Lu Xisheng e Li Yue
distinguono i due termini sulla base del fatto che a huang si associa il grado
d’indeterminatezza proprio di una condizione in cui qualcosa che, in realtà,
non esiste pare, tuttavia, presente, mentre hu coglie la vaghezza di qualcosa
di cui si arriva a mettere in dubbio l’esistenza.
Nel v. 5 sorge il dubbio che né la lezione qing 請 in MWD e BD né jing
精 «quintessenza, essenza psicofisica sottile, essenza spermatica» secondo
la vulgata siano legittime: come osserva GAO MING 1996 (pp. 330-31), qing
情 «realtà di fatto, elemento peculiare e caratteristico» risulta ben piú
genuina, grazie anche al sostegno che deriva dal passo 16.6.29 del Zhuangzi
(Dao fu you qing you xin 道夫有情有信 «il Dao ha una sua realtà peculiare
e di Sé dà prova», poiché xin 信 è sigillo, garanzia, riscontro effettivo e
affidabile).
I vv. 8-10 illustrano, seguendo Wang Bi, come il nome attraverso cui si
evoca l’Assoluto, ovvero «Dao», sia un non-nome che, pur inadeguato, ci
consente comunque di yue 閱 «discernere, esaminare, ispezionare,
verificare» ciò che è fu 甫, ovvero il punto d’inizio, l’avvio da cui ha avuto
luogo il processo di manifestazione degli esseri. Secondo Wang Bi, «ciò,
questo» (ci 此) nel verso finale chiama in causa quanto è stato fino a quel
punto espresso nel testo: l’autore della stanza 21, in sostanza, si appella alla
fondatezza delle proprie precedenti considerazioni per rispondere alla
domanda – retorica – nel v. 10.
22 (MWD 67; BD 63)

1. 曲則全
2. 枉則直
3. 窪則盈
4. 弊則新
5. 少則得
6. 多則惑
7. 是以聖人抱一
8. 為天下式
9. 不自見故明
10. 不自是故彰
11. 不自伐故有功
12. 不自矜故長
13. 夫唯不爭
14. 故天下莫能與之爭
15. 古之所謂曲則全者
16. 豈虛言哉
17. 誠全歸之
1. È ritorto, e dunque integro e completo,
2. è curvo, e dunque dritto,
3. è cavo, e dunque colmo,
4. quel che è logoro, nuovo si farà,
5. nella penuria il vero acquisto risiede,
6. l’eccedenza perplessità e incertezza reca.
7. Per questo il Saggio l’Uno abbraccia,
8. e di tutto ciò che sta sotto il Cielo Si fa modello.
9. Di sé non fa mostra e cosí riluce,
10. non Si ritiene nel giusto e cosí si distingue,
11. non Si vanta e cosí meriti acquisisce,
12. non Si esalta per ciò che fa e cosí può eccellere.
13. Proprio perché rifiuta ogni contesa,
14. pertanto, nessuno sotto il Cielo può contenderGli alcunché.
15. Gli antichi che s’affidavano all’adagio ‘È ritorto, e dunque integro e
completo’,
16. davano forse credito a parole vuote?
17. Vera completezza a ciò fa capo.
Una possibile interpretazione dei vv. 1-6 rende ammissibile che il testo
assuma un senso simile a «soltanto flettendoti darai prova di essere integro,
soltanto curvandoti darai prova di essere dritto, soltanto incavandoti potrai
essere colmato…»
Il tema legato al contrasto tra qu 曲 «ritorto» e quan 全 «integro e
completo» è sviluppato in Zhuangzi 93.33.60, dove le due categorie
vengono messe in relazione alla dottrina di Lao Dan, presunto autore del
Laozi. Difficile stabilire se l’elaborazione del rapporto tra qu e quan prese
davvero avvio da quest’opera: probabilmente si trattava di idee ampiamente
diffuse nel periodo dei Regni Combattenti, tant’è che trovano riscontro in
numerose fonti, tra cui alcuni trattati di strategia militare, come il Liu tao
(2.1.12-20, 2.2.13-18) e il Wei Liaozi (5.20.20, 22.32.14-17).
Il Zhuangzi assimila qu 曲 a una tortuosa deformità che è motivo di
disprezzo da parte degli stolti, ma che assicura una piena realizzazione delle
proprie inclinazioni naturali e il conseguimento della longevità, come nel
caso di quegli alberi dai tronchi tanto ricurvi e annodati che, per la loro
inutilità, sono ignorati dai boscaioli e dunque risparmiati (vedi Zhuangzi
3.1.43, 11.4.76 e 12.4.89). Il commentario di Heshanggong legge qu 曲 nei
termini di adattabilità che il singolo deve mostrare nel «piegarsi» alle
necessità storico-contestuali, in modo tale da riuscire a mantenere la propria
incolumità. Il riferimento all’esitazione, all’incertezza, alla perplessità (huo
惑 ) derivante dall’eccedenza (v. 6) è sciolto da Wang Bi nei termini di
prossimità e lontananza dalla radice (ben 本): un albero, piú basso è e piú il
suo tronco beneficerà della vicinanza rispetto alla radice; crescendo,
aumenterà la distanza da essa, pagandone le conseguenze. Heshanggong,
invece, adotta una linea interpretativa diversa, legando l’abbondanza allo
studio, per dimostrare come l’eccessivo apprendimento generi il dubbio.
I vv. 9-12, lievemente riformulati, compaiono nella stanza 24.
23 (MWD 68; BD 64)

1. 希言自然
2. 故飄風不終朝
3. 驟雨不終日
4. 孰為此者
5. 天地
6. 天地尚不能久而況於人乎
7. 故從事於道者同於道
8. 德者同於德
9. 失者同於失
10. 同於道者道亦樂得之
11. 同於德者德亦樂得之
12. 同於失者失亦樂得之
13. 信不足焉有不信焉
1. ‘Parlare di rado s’accorda con la spontanea natura delle cose’.
2. È per questo che un burrascoso vento non dura tutto il mattino,
3. né un piovasco un intero giorno.
4. chi ne è la cagione?
5. Cielo e Terra[, ovvio].
6. Ma se Cielo e Terra incapaci sono di prolungare tali portenti, a
maggior ragione come potremo mai, noi uomini, far diversamente?
7. Pertanto, chi assolve le proprie mansioni seguendo il Dao, con Esso è
tutt’uno,
8. chi la Possanza detiene, con Essa è tutt’uno,
9. e i perdenti, con la loro perdita tutt’uno sono.
10. Chi è tutt’uno con il Dao, il Dao, da par Suo, di buon grado
l’accoglie,
11. chi è tutt’uno con la Possanza, la Possanza, da par Suo, di buon grado
l’accoglie,
12. chi è tutt’uno con la perdita, la perdita, da par suo, di buon grado
l’accoglie.
13. Quando la fiducia [negli altri] non basta, allora [dagli altri] fiducia
non sarà ricambiata.
«Parlare» (yan 言 ), attività che piú di ogni altra contraddistingue gli
uomini, è assimilabile al portentoso risveglio della natura (ovvero «Cielo e
Terra»), che alza la propria fragorosa voce nello scatenare burrasche, venti e
piovaschi. Per quanto poderosa, tale «voce» è però destinata prima o poi a
placarsi e ciò vale ancora di piú per l’uomo, il cui tono, cosí debole rispetto
a quello di Cielo e Terra, non potrà che assottigliarsi e lasciare spazio al
silenzio. Nella seconda metà della stanza emerge l’imparzialità del Dao.
Esso non interviene, non impone (wu wèi 無為): cosí come non favorisce
arbitrariamente gli esseri, neppure, però, li penalizza. Casomai, sono gli
esseri a penalizzarsi da soli, poiché, distanziandosi dal Dao, non potranno
che smarrirsi ed esser tutt’uno con l’inesorabile perdita (shi 失) del favore
che da Esso deriva.
Le redazioni di MWD B e BD sono forse preferibili nella porzione
conclusiva della stanza, in quanto esprimono un grado di coerenza
maggiore rispetto alla vulgata, soprattutto in corrispondenza dei vv. 10-12,
dove de 德 «Possanza, Potenza emanata dal Dao» è rimpiazzato da de 得
«ottenere, conseguire», termine che meglio s’inserisce nel contesto poiché è
controbilanciato da shi 失 «perdere, fallire, smarrire» (vedi Laozi 38, dove
il rapporto tra de 德/得 e shi 失 è sviluppato nel dettaglio). La presenza del
v. 13 – che compare anche in Laozi 17.6 – è stata spesso imputata a un
guasto nella trasmissione del testo avvenuto in tempi molto antichi, se
pensiamo che anche BD contempla tale pericope.
24 (MWD 66; BD 65)

1. 企者不立
2. 跨者不行
3. 自見者不明
4. 自是不彰
5. 自伐者無功
6. 自矜者不長
7. 其在道也曰餘食贅行
8. 物或惡之
9. 故有道者不處
1. Chi ritto sta in punta di piedi, stabile non è,
2. chi vuol farsi strada, non avanza,
3. chi di sé fa mostra, non riluce,
4. chi nel giusto si crede, non si distingue,
5. chi si vanta, nulla stringe,
6. chi se stesso esalta, non eccelle,
7. tant’è che a porsi nel Dao con simile contegno, si producono, a quel
che si dice, ‘rimasugli di cibo’, ‘eccedenze’,
8. che meglio faremmo ad aborrire.
9. Chi, dunque, il Dao custodisce, non v’indugia.
Il Sovrano, presumibile (seppur non esclusivo) destinatario del
messaggio di questa stanza, è esortato a dar prova di senso della misura,
modestia e umiltà. Custodire (non certo «possedere in senso esclusivo»,
come l’occorrenza del termine you 有 potrebbe indurre a credere) il Dao
significa disdegnare quegli atteggiamenti fasulli e l’eventuale
riconoscimento mondano che ne segue per abbracciare, invece, il mondo
cosí-come-è, senza orpelli, senza falsità. I primi sei versi, che trovano eco
nella stanza 22 (vv. 9-12), invitano a frenare l’ambizione, poiché la spinta
impressa dalla volontà di affermazione di sé porta, in realtà, a un
allontanamento degli obiettivi che erano stati fissati, se non all’amaro
riconoscimento finale che i propri sforzi sono stati destinati per conseguire
risultati irrisori, da cui il richiamo ai «rimasugli di cibo» (yu shi 餘食) e alle
azioni superflue, in eccedenza (zhui xing 贅行) che ritroviamo anche nella
stanza 77 (vv. 11-12), pur con debite differenze. Qui, infatti, si sottolinea la
natura superflua, vana di quanto rappresenta, al cospetto del Dao, solo una
scoria, un elemento deteriore perché non-autentico. La paradossale logica
dell’inversione e del ribaltamento (fan 反, stanza 40) è bilaterale: cosí come
l’ambizione sfrenata porta a una mancata realizzazione dei propri intenti, la
mansuetudine e il dis-interesse consentono, invece, di conseguire ben piú
alti fini.
25 (MWD 69; BD 66; GD A 11)

1. 有物混成
2. 先天地生
3. 寂兮寥兮
4. 獨立而不改
5. 周行而不殆
6. 可以為天下母
7. 吾不知其名
8. 字之曰道
9. 強為之名曰大
10. 大曰逝
11. 逝曰遠
12. 遠曰反
13. 故道大
14. 天大
15. 地大
16. 王亦大
17. 域中有四大而王居一焉
18. 人法地
19. 地法天
20. 天法道
21. 道法自然
1. Indistintamente qualcosa prese forma,
2. qualcosa nato di Cielo e Terra pria.
3. Silente! Vago!
4. Romito e inalterabile,
5. ovunque circola, senza posa.
6. Definire Lo potremmo ‘Madre di tutto ciò che sta sotto il Cielo’.
7. Il Suo nome io ignoro,
8. ma ‘Dao’ Lo si designa.
9. Se costretto fossi a nominarLo, ‘Grande’ Lo direi.
10. ‘Grande’ vuol dire ‘congedarsi’,
11. ‘congedarsi’ vuol dire ‘allontanarsi’,
12. ‘allontanarsi’, ‘ritornare’.
13. Pertanto, Grande è il Dao,
14. Grande è il Cielo,
15. Grande è la Terra,
16. e il Sovrano, pure, grande è.
17. Quattro, nell’Universo Mondo, sono le cose che Grandi possono dirsi,
e il Sovrano tra esse risiede.
18. L’uomo fa della Terra il proprio modello,
19. la Terra lo fa del Cielo,
20. il Cielo, del Dao,
21. e il Dao ha per modello ciò che cosí-è, da sé.
Questa stanza, assieme alle stanze 1, 40 e 42, si concentra sul processo
cosmogonico che porta al disvelarsi degli esseri a partire da una condizione
di caotica indistinzione primordiale. Vale la pena sottolineare il ricorso a
due termini specifici per evocare il Dao. Il primo è ming 名 (v. 7) – il nome
decretato (ming 命 ), sancito al momento della nascita, precisamente a tre
mesi – e l’altro è zi 字 (v. 8) – ossia il nome onorifico che si acquisisce una
volta entrati nella maturità (grossomodo in coincidenza del ventesimo anno
d’età, per l’uomo, e in occasione del fidanzamento per le donne), una sorta
di nome pubblico, di pseudonimo. Nell’ammettere che il Dao è
approcciabile – pur impropriamente – solo attraverso uno zi viene sancito
un punto decisivo: ming, infatti, presuppone un nominare a partire da una
nascita, da un’origine, cosa che non si confà certo al Dao, innominabile
poiché eterno, indefinibile poiché non è un ente limitato, condizionato. Esso
abbraccia il tutto, esprimendo l’Unità Suprema come coincidentia
oppositorum. Nominare il Dao comporta necessariamente una forzatura,
come si evince dal v. 8: anche definirLo «Grande» (da 大 ) è un atto
indebito, poiché significa negarne la natura incondizionata e reificarLo,
ridurLo a presenza fisica palese (you 有 ). Proprio su questo punto si
sofferma Wang Bi, che puntualizza come il ricorso a ming sia improprio,
poiché ming consente di cogliere solo la forma fisica (xing 形) delle cose, e
il Dao non è una cosa. Attraverso zi, invece, commenta sempre Wang Bi, si
accede all’ambito di ciò che è esprimibile e, nel caso del Dao, ciò significa
spingersi fino alla soglia estrema di rappresentabilità verbale
dell’inesprimibile: ecco, dunque, Dao, la ragion d’essere di un termine
privo di riferimento.
La vastità del Dao presuppone una dilatazione ampia, un’espansione tesa
a coprire ogni spazio disponibile. Nulla al Dao si sottrae, poiché Esso non
abbandona a se stessa nessuna creatura, come commenta Heshanggong.
«Congedarsi» (shi 逝 , v. 10), secondo Wang Bi, significa «partire,
muoversi, viaggiare» (xing 行) senza posa, al punto da lasciarsi andare alla
deriva e allontanarsi (yuan 遠, v. 11) fino a raggiungere il punto estremo (ji
極, secondo Wang Bi) oltre il quale non è concesso altro se non d’invertire
la rotta e «fare ritorno» (fan 反, v. 12) alla propria radice (ben 本).
Sulla motivazione alla base dell’adozione dell’aggettivo da 大 «grande»
nei vv. 14-17 in riferimento al Dao, al Cielo, alla Terra e al Sovrano, Wang
Bi chiama in causa il passo 9.5 del Xiaojing, secondo cui le qualità naturali
dispensate da Cielo e Terra rendono l’uomo la creatura piú elevata
spiritualmente e da ciò ne consegue che al Sovrano non può che essere
riconosciuto uno status d’eccellenza, dato il ruolo che riveste.
Fondamentali risultano, in chiusura della stanza, i concetti di fa 法
«standard, modello, legge» (nei vv. 18-21 con l’accezione verbale di
«prendere a modello, assumere come norma, regolarsi sulla base di…») e
ziran 自 然 , che esprime la condizione dell’essere «cosí-come-è», auto-
determinato, spontaneo, naturale (v. 21).
L’uomo, suggerisce il testo, non può prescindere dalla Terra, da cui
acquisisce stabilità; la Terra, a sua volta, ha nel Cielo il suo «tetto» e il
Cielo trova nel Dao il sommo principio su cui regolarsi. Senza favoritismi,
la Terra sostiene, il Cielo copre e protegge, il Dao genera e nutre gli esseri.
La dipendenza di ogni elemento è cumulativa e non limitata al termine che
segue. Ad esempio, l’uomo (meglio il Sovrano) non dovrà armonizzare il
proprio comportamento soltanto sulla Terra, ma anche sul Cielo, sul Dao e
sulla spontaneità incondizionata che ziran delinea. Esegeti e studiosi, fin dai
tempi antichi, hanno identificato ziran con la Quinta Somma Entità,
superiore al Sovrano, alla Terra, al Cielo e al Dao stesso. In realtà, ziran non
è disgiunta dal Dao, poiché Ne delinea la logica interna, il principio auto-
diretto cui risponde.
26 (MWD 70; BD 67)

1. 重為輕根
2. 靜為躁君
3. 是以聖人終日行
4. 不離其輜重
5. 雖有榮觀
6. 燕處超然
7. 奈何萬乘之主而以身輕天下
8. 輕則失本
9. 躁則失君
1. Peso è, di leggerezza, fondamento,
2. tranquillità è, di agitazione, sovrana.
3. Questo fa sí che il Saggio, quando per l’intero dí è in movimento,
4. mai si separi dalle Proprie salmerie,
5. [neppure se] trovasse sicuro alloggio in un sontuoso palazzo,
6. e la comodità del soggiorno fosse tale da sollevare [chiunque] da ogni
ansia.
7. [Ciò detto,] un Sovrano che vanta diecimila carri da combattimento
potrebbe mai permettersi di reputare la propria persona meno
importante di tutto ciò che sta sotto il Cielo?
8. A forza di trascurare [se stessi] si finisce per smarrire [il senso del]la
radice,
9. ad agitarsi si perde il comando.
Nel verso d’apertura il contrasto tra zhong 重 e qing 輕 può essere inteso
sia nei termini di «pesante, grave» versus «leggero» che «rilevante,
importante» versus «irrilevante, trascurabile».
Il contenuto si riallaccia a quanto espresso nella stanza 13 (vv. 13-14):
cosí come il Saggio si prende cura degli averi di cui dispone e, soprattutto,
della propria persona, il Sovrano di un potente regno è chiamato a dar prova
di fermezza nel privilegiare le attenzioni verso se stesso, senza mai smarrire
il Dao (vv. 7-8).
27 (MWD 71; BD 68)

1. 善行者無轍迹
2. 善言無瑕謫
3. 善數不用籌策
4. 善閉無關楗而不可開
5. 善結無繩約而不可解
6. 是以聖人常善救人故無棄人
7. 常善救物故無棄物
8. 是謂襲明
9. 故善人者不善人之師
10. 不善人者善人之資
11. 不貴其師
12. 不愛其資
13. 雖智大迷
14. 是謂妙要
1. Viaggiatore che eccelle, tracce non lascia,
2. oratore che eccelle, non conosce pecche né alcunché da biasimare,
3. computista che eccelle, non si avvale di bastoncini o tavolette,
4. chi nel serrare eccelle, evita spranghe e catenacci, eppur non c’è
porta che s’apra,
5. chi nel legare eccelle, lega evitando funi e legacci, e non v’è nodo che
si sciolga.
6. Pertanto, il Saggio sempre eccelle nel soccorrere gli altri e, dunque,
mai nessuno disdegna,
7. sempre eccelle nel soccorrere gli esseri e, dunque, mai alcunché
disdegna:
8. tale vien detta ‘Occulta Perspicacia’.
9. Per questo colui che eccelle è, di chi non eccelle, Maestro,
10. e chi non eccelle è, per colui che eccelle, risorsa preziosa.
11. Chi non onora il proprio Maestro,
12. e amore non ha per le risorse preziose di cui dispone,
13. pur sagace che sia, affatto smarrito sarà.
14. Sono queste definite ‘Misteriose Essenziali Verità’.
Il termine shan 善 , già incontrato in precedenza, denota eccellenza,
maestria, capacità, efficacia e va al di là dell’identificazione con una
«bontà» propria della dimensione etico-morale. Volendo seguire
Heshanggong, i vv. 1-5 chiamano in causa abilità che rifuggono l’utilizzo di
strumenti artificiali, poiché essi inducono, spesso, all’esercizio della
furbizia, del raggiro. Il Saggio, e il Saggio Sovrano in modo specifico, nutre
sospetto verso ciò che è frutto dell’ingegno e non è emanazione diretta delle
qualità naturali degli esseri. In ciò risiede la vera maestria, di fatto: nel
rifiuto dell’artificio e nel conseguire determinati obiettivi in modo non-
coercitivo, sottraendo il proprio impatto nel mondo, come fa il viaggiatore
che cammina senza però lasciare tracce (v. 1).
Xi 襲 «iterare, perpetuare, ripetere, trasmettere» (ma anche
«conformarsi, adattarsi», secondo una glossa di Xi Tong) nel v. 8 si lega a
ming 明 «illuminazione, perspicacia», dando luogo a un’espressione che è
stata diversamente interpretata dagli esegeti: Cheng Xuanying, Wang Zhen
e Deqing optano per «raggiungere l’illuminazione»; Xue Hui (rinvia a
Hunyuan shengji: Daozang 770.17.814) depone a favore di una «duplicata,
doppia illuminazione»; infine, Lin Xiyi e Wu Cheng prediligono
«ammantata illuminazione», ovvero una forma di perspicacia occultata,
celata. In particolare, è Wu Cheng a sottolineare come xi 襲 indichi
l’utilizzo di un indumento sopra un altro, che viene cosí nascosto. Lo stesso
commentatore riesce a legare l’idea di occultamento al soccorso (vv. 6-7)
che il Saggio presta: in realtà, Egli non offre un reale aiuto, poiché, nel
soccorrere qualcuno, si finisce sempre per abbandonare al proprio destino
altri, e ciò non può essere degno di lode. La maestria del Saggio nel
soccorrere il prossimo risiede, pertanto, nell’evitare di spendersi e di
prodigarsi in maniera conclamata per alcuni a detrimento di altri.
28 (MWD 72; BD 69)

1. 知其雄
2. 守其雌
3. 為天下谿
4. 為天下谿
5. 常德不離
6. 復歸於嬰兒
7. 知其白
8. 守其黑
9. 為天下式
10. 為天下式
11. 常德不忒
12. 復歸於無極
13. 知其榮
14. 守其辱
15. 為天下谷
16. 為天下谷
17. 常德乃足
18. 復歸於樸
19. 樸散則為器
20. 聖人用之則為官長
21. 故大制不割
1. Chi, pur consapevole della propria mascolinità,
2. la femminilità custodisce con cura,
3. diventa, di tutto quel che sta sotto il Cielo, la forra.
4. Divenuto la forra di tutto quel che sta sotto il Cielo,
5. l’Eterna Possanza non lo abbandonerà,
6. e a quando era infante farà ritorno.
7. Chi, pur consapevole della propria bianchezza,
8. il nero custodisce con cura,
9. diventa, di tutto quel che sta sotto il Cielo, il modello.
10. Divenuto il modello di tutto quel che sta sotto il Cielo,
11. l’Eterna Possanza non vacillerà,
12. e a ciò che non ha limiti farà ritorno.
13. Chi, pur consapevole della propria purezza,
14. dell’onta custode si fa,
15. diventa, di tutto quel che sta sotto il Cielo, la valle.
16. Divenuto la valle di tutto quel che sta sotto il Cielo,
17. l’Eterna Possanza sempre sarà sufficiente,
18. e alla semplicità del ceppo grezzo farà ritorno.
19. Scalfito e rotto, dal ceppo grezzo utensili verranno,
20. di cui il Saggio s’avvale per farne Alti Funzionari.
21. Eppure, Sommo Intaglio nulla intacca.
Nel v. 19 il termine qi 器 «vaso, recipiente, utensile» richiama alla mente
il passo 2.12 del Lunyu dove si afferma che la persona esemplare non è
assimilabile a un utensile, ossia non riveste una funzione puramente
strumentale in quanto incarna appieno le Virtú morali: egli è agente, non
oggetto. Eppure, come l’interpretazione di Wang Bi lascia intendere, qi 器
può anche essere colto nell’accezione di «talento», in riferimento a quei
funzionari che ricoprono specifici incarichi amministrativi in virtú di qualità
conformi al disegno di governo del Saggio Sovrano. Per ulteriori riferimenti
a qi 器, rinvio a Laozi 29.3-6.
Zhi 制 (v. 21) significa «fare, realizzare un manufatto, fabbricare;
tagliare, tranciare», ma anche «creare, controllare, governare» e in questa
accezione coincide con zhi 治 «governare, amministrare, regolare, destinare
le proprie cure e attenzioni verso qualcuno o qualcosa»; san 散 «disperdere,
dissipare, disgregare» (v. 19) allude al passaggio dalla potenza all’atto e, in
particolare, alla compromissione della perfezione naturale incarnata dal
ciocco di legno grezzo, dal ceppo (pu 樸 ), immagine del Dao. Il testo
sembra suggerire che il Saggio, nell’attuare la Propria linea di governo,
mantiene viva l’aderenza al Dao, ispirandosi alla forza che Esso emana per
indirizzare e guidare i Propri sottoposti verso la piena realizzazione
dell’armonia.
Ge 割 «intaccare, tagliare, ledere» nel v. 21 esprime la dimensione della
parzialità che frantuma arbitrariamente il senso di Unità che tutto pervade: a
partire da questo atto impositivo, il mondo diventa «nominabile» (ming 名,
come si legge in Laozi 32.8-9), ovvero «governabile».
Il Saggio, si è visto, non è un semplice utensile, né tratta gli esseri in
modo strumentale: tuttavia, pur contenendo ai minimi termini l’impatto
invasivo della Propria azione al fine di realizzare il «Sommo Intaglio» (da
zhi 大制, v. 21) – ossia un governo esemplare (zhi 制 in quanto equivalente
a zhi 治 ) –, Egli, di fatto, agisce (wéi 為 ), senza tuttavia perseguire un
intento egoistico (wèi 為).
29 (MWD 73; BD 70)

1. 將欲取天下而為之
2. 吾見其不得已
3. 天下神器
4. 不可為也
5. 為者敗之
6. 執者失之
7. 故物或行或隨
8. 或歔或吹
9. 或強或羸
10. 或挫或隳
11. 是以聖人去甚
12. 去奢
13. 去泰
1. Per chi intenda prendere possesso di tutto quel che sta sotto il Cielo e
farne oggetto delle proprie mire
2. prevedo, io, sicuro fallimento.
3. Vaso sacro, è tutto quel che sta sotto il Cielo,
4. non cosa su cui consentito è intervenire:
5. chi interviene, lo guasta,
6. chi lo afferra, lo perde.
7. Tra gli esseri, dunque, alcuni procedono, altri seguono,
8. alcuni sbuffano calore, altri soffiano freddo,
9. alcuni sono duri e forti, altri fiacchi,
10. alcuni distruggono, altri sono annientati.
11. Sicché il Saggio rifiuta l’eccesso,
12. la stravaganza,
13. l’estremo.
Nel v. 3 compare l’espressione shenqi 神 器 «vaso, recipiente sacro,
oggetto con poteri numinosi». Il mondo (Tianxia 天 下 «tutto ciò che sta
sotto il Cielo») è connotato con valenze sacre e assimilato a uno strumento
che emana poteri numinosi e, dunque, è inviolabile. Volendo chiamare in
causa Heshanggong, ciò che appartiene alla dimensione numinosa predilige
la pace e la quiete (an jing 安 靜 ) e non può essere sottoposto a misure
impositive. 為 (vv. 1, 4, 5) è, insieme, «agire secondo un disegno, un
obiettivo» – dunque esercitare un’azione coercitiva in vista di un fine (wèi)
– e «fare, agire, adottare un determinato comportamento» (wéi): in entrambi
i casi, 為 produce effetti che danno luogo a polarizzazioni estreme, nette,
unilaterali e, nel momento in cui si consolida, ognuna di queste
caratterizzazioni si tramuta drammaticamente nel proprio contrario. Wang
Anshi puntualizza come la capacità del Saggio di sentirsi a proprio agio in
qualunque circostanza Gli consenta di evitare di attestarsi su posizioni
estreme: abbracciando la semplicità naturale, Egli respinge la stravaganza;
apprezzando le cose secondo una misura conforme al giusto godimento,
Egli elimina il rischio di essere turbato dagli eccessi.
30 (MWD 74; BD 71; GD A 4)

1. 以道佐人主者
2. 不以兵強天下
3. 其事好還
4. 師之所處荊棘生焉
5. 大軍之後必有凶年
6. 善者果而已
7. 不以取強
8. 果而勿矜
9. 果而勿伐
10. 果而毋驕
11. 果而不得已
12. 果而勿強
13. 物壯則老
14. 是謂不道
15. 不道早已
1. Colui che del Dao si avvale per assistere chi governa,
2. evita che con l’armi la violenza s’imponga sotto il Cielo,
3. perché [sa che] assolvere cosí le proprie mansioni a proprio scapito
torna.
4. Là, dove le truppe si accampano, crescono solo rovi spinosi,
5. e il passaggio di grandi armate non può che lasciare dietro di sé anni
di sciagure e carestie.
6. All’abile [comandante] basta che i frutti siano colti,
7. e mai profitta delle proprie conquiste per imporsi sugli altri.
8. I frutti, raccoglie, senza esaltazione di sé,
9. né vanto,
10. né arroganza.
11. I frutti, raccoglie, ma solo quando non ha scelta,
12. e senza usare la forza.
13. Giunte all’apice del vigore, le cose declinano:
14. ‘contrario al Dao’ ciò si dice,
15. e ciò che contrario è al Dao, presto perisce.
Le stanze 30 e 31 affrontano il tema cruciale della guerra con una
lucidità tale da trattare lo scontro armato come decisione estrema alla quale
dare avvio solo quando tutti i tentativi di risoluzione pacifica e diplomatica
sono stati esplorati senza successo. Termine chiave della stanza è guo 果
(vv. 6, 8-12), il cui significato va da «frutto», nel senso di «conseguenza,
risultato», ma anche «agire con risolutezza» (secondo l’interpretazione di
Cheng Xuanying, Su Zhe e Wu Cheng) e «arrogante e presuntuoso»
(Heshanggong).
Il senso dei vv. 11-15 va ricondotto, stando a Wang Bi, a 23.2-3: la
manifestazione della Possanza della natura non può durare a lungo e dovrà
prima o poi placarsi, dato che tutte le cose, giunte all’apice della loro
intensità, declinano e muoiono (Laozi 30.13-15). A questa regola non si
sottraggono gli eserciti, i quali, una volta espressa la massima potenza, non
potranno che avviarsi verso un inesorabile affaticamento, che culminerà con
la sconfitta. Questo per dire che «all’abile [comandante] basta che i frutti
siano colti» (v. 6), ovvero basta vincere, possibilmente senza incrociare le
armi e senza fare scempio degli avversari.
31 (MWD 75; BD 72; GD C 4)

1. 夫佳兵者不祥之器
2. 物或惡之
3. 故有道者不處
4. 君子居則貴左
5. 用兵則貴右
6. 兵者不祥之器
7. 非君子之器
8. 不得已而用之
9. 恬淡為上
10. 勝而不美
11. 而美之者是樂殺人
12. 夫樂殺人者則不可以得志於天下矣
13. 吉事尚左
14. 凶事尚右
15. 偏將軍居左
16. 上將軍居右
17. 言以喪禮處之
18. 殺人之眾以哀悲泣之
19. 戰勝以喪禮處之
1. Sono, l’armi valenti, nefasti arnesi,
2. che meglio faremmo ad aborrire.
3. Chi, dunque, il Dao custodisce, non v’indugia.
4. Nella propria magione il gentiluomo la sinistra onora,
5. in battaglia, la destra.
6. Nefasti arnesi sono l’armi,
7. indegne d’un gentiluomo,
8. [ma] se costretti fossimo a servircene,
9. meglio farlo con quieto distacco,
10. per vincere, sí, ma senza apprezzarle,
11. ché se belle ci paressero, godremmo allora dell’uccisione altrui,
12. e, nel godere di ciò, in nessun luogo sotto il Cielo ci sentiremmo mai
paghi.
13. Se fausto è l’evento, si onori la sinistra,
14. se infausto, la destra.
15. Il Comandante in seconda, [difatti,] la sinistra occupa,
16. la destra, il Supremo Generale,
17. il che vuol dire che secondo il rito funebre essi si dispongono.
18. Allo sterminio delle genti segua il piú mesto pianto,
19. e il vincitore della battaglia alle disposizioni del rito funebre sottostia.
La stanza 31, assieme alla 66, è priva del commento di Wang Bi. In
passato vi sono stati numerosi studiosi, tra cui MA XULUN 1974, che hanno
ritenuto plausibile credere che il testo di Laozi 31 fosse il risultato di una
«fusione» con il commentario di Wang Bi. Alcune edizioni, come quella del
Daode zhenjing jizhu (Daozang 707.13.106), riportano il giudizio del
suddetto esegeta che nutre il «sospetto che questa non sia opera di Laozi»
(yi ci fei Laozi zhi zuò ye 疑 此 非 老 子 之 作 也 ). La versione attuale del
commentario di Wang Bi pare, tuttavia, richiamarsi al contenuto della
presente stanza in almeno due occasioni, ovvero commentando Laozi 30.7-9
(riprendendo 31.8) e sull’incipit di Laozi 63 (con un richiamo a 31.9).
Al di là dei dubbi espressi in passato da vari esegeti (per una disamina
inerente alla non autenticità della stanza 31, rinvio a CHAN WING-TSIT 1963,
pp. 155-56, note 6 e 7; WALEY 1958, pp. 181-82; WAGNER 2003, pp. 222-
23), resta il fatto che la presenza di questo brano nei testimoni manoscritti
recentemente acquisiti (MWD, GD C e BD) ne conferma l’appartenenza al
corpus laoziano fin da tempi molto antichi (circa III secolo a.C.).
L’accettazione della guerra come estrema ratio è un tema ricorrente nella
letteratura cinese classica. Ogni scontro, al di là della disamina delle forze
schierate e della validità dei piani strategici elaborati, può portare alla
rovina, poiché la guerra impone l’accettazione dell’imprevedibilità
dell’impatto dei fattori in gioco, tant’è che l’esito non è mai scontato. Per
quanto «chi conosce bene l’avversario e se stesso affronta cento battaglie
senza correre alcun rischio» (Sunzi bingfa 3.3.11, in ANDREINI e BIONDI
2011, p. 21), è un dato di fatto che, perfino nei testi di strategia militare, la
vera vittoria risieda nell’evitare lo scontro e nell’indurre il nemico alla resa
prima ancora d’incrociare le armi. Il Sovrano Illuminato (o anche il
«gentiluomo», junzi 君子), cui si presume questa stanza sia rivolta, abiura,
ancor piú della guerra, la sete di conquista e la passione per le armi,
«arnesi» di morte da impiegare il meno possibile, poiché dall’apprezzarle al
godere dello sterminio dei propri nemici il passo è breve. Neppure la
vittoria dissolve l’orrore: anzi, il vincitore è chiamato a conformarsi alle
prassi rituali convenute nel lutto e a mostrare pietà per i caduti e, forse,
anche per se stesso. Sul senso del binomio zuo you 左右 «sinistra e destra»
rinvio al passo 32.14.3 dell’Yi Zhoushu:
Il dao del Cielo predilige la sinistra: sole e stelle si spostano infatti verso ponente. Il
dao della Terra predilige la destra: i corsi d’acqua fluiscono verso oriente (…) Il dao del
Cielo è detto ‘Propizio’; Il dao della Terra è detto ‘Giustizia’; Il dao dell’uomo è detto
‘Riti cerimoniali’ (…) Quando riti e giustizia seguono un corso propizio, si dicono
‘fausti, benaugurali’; durante i riti propiziatori [che prevedono sacrifici offerti agli spiriti
protettori del regno] si procede verso sinistra: si segue il moto del Cielo affinché i
partecipanti traggano beneficio; durante le cerimonie militari si procede verso destra: si
segue il Cielo affinché le truppe ne traggano beneficio.

Il contenuto dei vv. 11-12 riecheggia nel passo 1A.6 del Mengzi: «Colui
che non trae piacere dall’uccisione dei propri simili potrà unificare tutto ciò
che sta sotto il Cielo».
32 (MWD 76; BD 73A; GD A 10)

1. 道常無名
2. 樸雖小
3. 天下莫能臣也
4. 侯王若能守之
5. 萬物將自賓
6. 天地相合
7. 以降甘露
8. 民莫之令而自均
9. 始制有名
10. 名亦既有
11. 夫亦將知止
12. 知止所以不殆
13. 譬道之在天下
14. 猶川谷之與江海
1. Eternamente senza-nome è il Dao:
2. seppur minuto appaia nella Sua semplice ruvidezza, pari al ceppo
grezzo,
3. nessuno sotto il Cielo è capace di assoggettarLo.
4. Se Nobili e Sovrani riuscissero a serbarLo con cura,
5. di loro sponte i Diecimila Esseri a Loro si sottometterebbero,
6. e da Cielo e Terra, uniti in consonanza,
7. discenderebbe dolce rugiada,
8. che, da sé ed equamente, su tutti cadrebbe, senza che il popolo lo
avesse comandato.
9. Nel principiare a ‘dividere e controllare’, s’hanno i nomi:
10. assegnati i nomi,
11. dovremmo pur sapere che il tempo di fermarsi è giunto,
12. [poiché] a sapere quando fermarsi, i pericoli si scansano.
13. Il Dao, diremmo, è per l’intero mondo,
14. quel che fiume e mare sono per il torrente, nel gorgo.
La relazione tra pu 樸 «il ceppo grezzo, non intagliato» (vedi Laozi
57.17) e zhi 制 «lavorare, intagliare, tranciare» ma soprattutto «fabbricare,
regolare, controllare» e dunque «interdire, proibire» va intesa come nella
stanza 28 quale metafora dell’attività di governo che impone regole che
violano la naturale perfezione originaria. L’espressione ganlu 甘露 nel v. 7
si riferisce a quella dolce rugiada che scende dal Cielo solo quando in Terra
regnano pace e ordine (vedi WALEY 1958, p. 183, dove sono citati altri
riferimenti testuali relativi al concetto in questione). Il v. 8 potrebbe essere
inteso almeno in due modi: «senza che nessuno ordini ciò – ossia che la
benefica rugiada irrori gli uomini – per natura essa viene dispensata con
equanimità tra il popolo», oppure «sebbene nessuno lo abbia decretato, da
solo il popolo si dimostra equanime».
33 (MWD 77; BD 73B)

1. 知人者智
2. 自知者明
3. 勝人者有力
4. 自勝者強
5. 知足者富
6. 強行者有志
7. 不失其所者久
8. 死而不亡者壽
1. Chi gli altri comprende è sapiente,
2. chi comprende se stesso è illuminato;
3. chi domina gli altri ha nerbo,
4. chi domina sé è poderoso;
5. chi sa contentarsi ricco è,
6. chi agisce con ostinazione, volitivo;
7. chi non smarrisce la propria posizione, a lungo permane.
8. È longevo chi muore, ma [nell’altrui memoria] non s’estingue.
Vari esegeti (Heshanggong, Wang Bi, l’autore del manoscritto Xiang’er)
si sono soffermati sull’opportunità di considerare superiori le condizioni
espresse nei vv. 1 e 3 rispetto a quelle delineate nei vv. 2 e 4: ad esempio, le
stanze 55 e 19 tendono, in effetti, a confermare una predilezione per ming
明 «illuminazione, perspicacia» (v. 2) rispetto a zhi 智 «sapienza» (v. 1).
Sul contrasto tra li 力 «forza fisica, nerbo» (v. 3) e qiang 強 «forza;
essere forte, possente, vigoroso» (vv. 4 e 6) vale la pena riflettere, dato che
l’apprezzamento nei confronti di qiang desta stupore, proprio perché nelle
stanze 30, 36, 42, 55, 76 e 78 prevale una marcata diffidenza verso tale
nozione.
La maggiore differenza tra le varie edizioni si registra in corrispondenza
del verso di chiusura, dove (in MWD) wang 忘 «oblio, dimenticare»
sostituisce wang 亡 «perire, morire» (lezione, questa, attestata in BD). Il
testo a prima vista andrebbe letto «conseguire la longevità significa morire
senza essere dimenticati», versus «longevità è morire senza estinguersi»
nella vulgata. Ma dovremmo davvero intendere wang 忘 nel suo senso
letterale? Oppure è la lezione del textus receptus a dover essere
riconfermata? Questa seconda posizione è sposata, ad esempio, da GAO
MING 1996 (pp. 403-5). Alla luce di alcuni elementi che emergono dalla
tradizione indiretta del Laozi – come le citazioni dalla stanza 33 custodite
nello Yilin e nel Qunshu zhiyao – si evince che un’altra lezione attestata
fosse wang 妄 «disordinato, smodato, irrispettoso, sconsiderato», variante
che emerge anche dal commentario di Heshanggong. Simili considerazioni
dimostrano principalmente come i tre caratteri (wang 亡 , 忘 , 妄 ) fossero
usati come prestiti reciproci. L’interpretazione della pericope, pertanto, resta
aperta.
34 (MWD 78; BD 74)

1. 大道氾兮
2. 其可左右
3. 萬物恃之而生而不辭
4. 功成不名有
5. 衣養萬物而不為主
6. 常無欲
7. 可名於小
8. 萬物歸焉而不為主
9. 可名為大
10. 以其終不自為大
11. 故能成其大
1. Ovunque s’espande, inondando ogni cosa, il Grande Dao!
2. A destra! A manca!
3. I Diecimila Esseri da Lui dipendono e vivono senza mai
abbandonarLo,
4. successi consegue, senza rivendicarli Suoi,
5. veste e nutre i Diecimila Esseri, ma non fa da loro Padrone.
6. Eternamente è senza desio,
7. e tra le minute cose, quindi, Lo si può annoverare,
8. ma poiché i Diecimila Esseri a Lui fan ritorno senza che da Padrone
faccia,
9. tra le grandi cose, allora, Lo si annoveri.
10. In fondo, è perché grande non Si reputa,
11. se, dunque, tanta grandezza può conseguire.
La forza incontrastata e pervasiva del Dao è resa dal ricorso a fan 氾
«inondare, sommergere, fluttuare, estendersi senza limiti e in modo
impalpabile; vago, etereo» (v. 1): la Sua diffusione capillare è tale da
spingersi ovunque (secondo Wang Bi e Lu Xisheng), al punto da non
conoscere ostacoli (come registrano Lin Xiyi e Dong Sijing, metà del XIII
secolo), data la Sua sconfinata ampiezza (stando a Wu Cheng).
In questa stanza il Dao assume una doppia connotazione: «minuto,
piccolo» (xiao 小) e, al contempo, «grande» (da 大). L’essere minuto deriva
dalla Sua impercettibilità: non nutrendo desiderio, è un’entità elusiva,
privata di caratterizzazioni distintive, la prima delle quali è un nome che Lo
faccia risaltare. La Sua grandezza, ovvio, dipende dall’impatto che su tutto
sotto il Cielo esercita.
35 (MWD 79; BD 75; GD C 3)

1. 執大象天下往
2. 往而不害安平大
3. 樂與餌過客止
4. 道之出口淡乎其無味
5. 視之不足見
6. 聽之不足聞
7. 用之不足既
1. Saldo aggrappati alla Grande Immagine, e il mondo intero accorrerà:
2. accorrerà e non patirà sofferenza, e in gran copia godrà di stabilità e
pace.
3. [Sappiamo bene che] il richiamo di musica e cibo fa sostare il
viaggiatore che passa,
4. ma, se del Dao parlassimo, ammettere dovremmo che insipido è,
nevvero? Senza sapore!
5. Non basterà guardarLo attentamente per scorgerLo,
6. non basterà stare in orecchi per sentirLo.
7. Ad avvalerseNe, invece, nessuno riuscirà mai a esaurirLo.
Il Dao non seduce: diversamente dal richiamo esercitato da musiche
armoniose e cibi succulenti, Esso non cattura i sensi, poiché non lascia
emergere qualifiche precise e caratterizzazioni univoche (vv. 3-4). Tutto ciò
che Lo caratterizza è insipido, amorfo (v. 4). Del resto, non potrebbe essere
altrimenti, dato che il Dao è una non-cosa, realtà in-condizionata. Su Zhe
chiarisce come banchetti e melodie soavi non possano allietare in eterno: il
cibo termina, la musica, prima o poi, si placa e, a quel punto, tutti
abbandonano il convivio. Ben altra cosa, invece, è la pacata, infinita
gratificazione derivante dall’apprezzamento di qualcosa che è informe,
insapore, inudibile: come potrà mai, Ciò, esaurirsi (v. 7)? Per simmetria con
il Dao, altrettanto insipido e incolore dovrà dimostrarsi il Saggio Sovrano
nel [non-]esercizio delle Proprie misure di [non-]governo.
Nel verso d’apertura emerge Daxiang 大 象 «Grande Effige, Grande
Immagine», nozione che evoca il Dao in quanto emblema pervasivo che
raccoglie tutti i fenomeni e, al contempo, la totalità infinita delle loro
possibilità di concretizzarsi (vedi anche 41.17 per un ulteriore riferimento a
Daxiang). Stando al commentario di Wang Bi, Daxiang equivale alla
«Madre delle Immagini Celesti», che trascende le determinazioni
particolari, annullandole. Xiang 象 «immagine, emblema, simbolo»
definisce la configurazione, il modello cui le cose si rifanno, ponendosi
come categoria intermedia tra il dominio sottile e quello manifesto.
Cheng Xuanying rileva come «afferrare» (zhi 執 , v. 1) comporti, in
verità, un «afferrare senza afferrare», poiché si tratta di tenere stretto
qualcosa cui non è dato aggrapparsi, ovvero il Dao. Li Rong (VII secolo) ha
rilevato come la Grande Immagine, priva di forma, si richiami al Grande
Dao, in sé vuoto.
36 (MWD 80; BD 78)

1. 將欲歙之必固張之
2. 將欲弱之必固強之
3. 將欲廢之必固興之
4. 將欲奪之必固與之
5. 是謂微明
6. 柔弱勝剛強
7. 魚不可脫於淵
8. 國之利器不可以示人
1. Se vuoi contrarlo bisognerà certo tenderlo,
2. se vuoi fiaccarlo, rafforzalo,
3. se vuoi che declini, sostienilo,
4. se vuoi depredarlo, bisognerà pur concedergli qualcosa.
5. Ciò si dice ‘Sottile Perspicacia’.
6. [Del resto, poiché] fragilità e debolezza prevalgono sulla durezza e
sulla forza,
7. pesci non si traggano[, dunque,] all’abisso,
8. e le affilate armi di cui il regno dispone, mai si esibiscano al popolo.
L’interpretazione di Wang Bi contempla che i precetti di cui si
compongono i vv. 1-4 siano indirizzati al Sovrano, al quale viene
raccomandato quanto segue: anziché affrontare di petto le tensioni che
minacciano il regno e usare la mano pesante, meglio, piuttosto, far sí che
quei fattori destabilizzanti giungano alla saturazione, in modo che, da soli,
implodano. In ciò risiede la «Sottile Perspicacia» (wei ming 微 明 , v. 5),
ovvero la capacità di scorgere nei fenomeni quegli indicatori che possono
innescare processi di autodistruzione.
Il v. 7 esprime probabilmente l’adattamento di un proverbio di cui sfugge
il senso originario. L’immagine del pesce che nuota al sicuro nelle
profondità abissali funge, forse, da metafora per il Saggio, che governa con
discrezione, senza manifestarsi e, soprattutto, senza palesare i mezzi grazie
a cui Egli amministra il potere (secondo l’interpretazione di Wang Bi); o,
ancora, suggerisce l’opportunità di lasciare che il popolo «sguazzi», beato,
nel profondo pozzo dell’ignoranza. Il passo 21.8.1 dello Han Feizi lega il
pesce al Sovrano e l’abisso al potere: una volta tolto dall’acqua, il pesce
morirebbe e una sorte simile toccherebbe al Sovrano se mai fosse privato
degli strumenti grazie a cui esercita il Proprio dominio. Merita di essere
segnalata anche l’interpretazione di Lü Huiqing, che si appella alla maggior
efficacia della fragilità e della debolezza (rou ruo 柔弱) rispetto alla forza
(qiang 強) per ribadire come il Saggio sposi incondizionatamente le prime
due condizioni, facendo come quel pesce che mai si azzarda ad
abbandonare le acque profonde che tanto bene conosce per avvicinarsi alla
superficie e rischiare, cosí, di essere catturato.
Nel verso conclusivo il carattere li 利 «utile, proficuo» significa anche
«aguzzo, appuntito»: gli oggetti o strumenti (qi 器 ) utili allo Stato sono
proprio quelli aguzzi e appuntiti, ossia le armi, delle quali è preferibile non
far mostra. Le letture plausibili sono almeno due: questi pericolosi
strumenti vanno celati poiché il popolo deve restare ignorante, altrimenti
risulterebbe arduo governarlo; oppure le armi e gli strumenti attraverso cui
viene esercitato il potere devono essere occultati, dato che la reazione dei
sudditi porrebbe il Sovrano di fronte alla scelta tra minacciare l’uso della
forza come deterrente, oppure, nel caso peggiore, di esercitarla
concretamente. In tal caso, come recita 74.6.10, il Sovrano diverrebbe in
realtà un Carnefice e assumerebbe indebitamente il ruolo del «Mastro
carpentiere», finendo per ferirsi le mani.
37 (MWD 81; BD 77; GD A 7)

1. 道常無為而無不為
2. 侯王若能守之
3. 萬物將自化
4. 化而欲作
5. 吾將鎮之以無名之樸
6. [無名之樸]
7. 夫亦將無欲
8. 不欲以靜
9. 天下將自定
1. Il Dao mai s’adopera, eppure non v’è cosa che non trovi compimento.
2. Se Nobili e Sovrani riuscissero a serbarLo con cura,
3. i Diecimila Esseri da soli muterebbero.
4. Se, mutati, il desio in loro ancora scaturisse,
5. li sopirei, io, tanto da renderli pari al ceppo senza-nome,
6. [e, nella condizione del ceppo senza-nome,]
7. [anch]e il loro desio cosí s’annullerà.
8. Privi d’ogni desio, saranno, infine, quieti,
9. e Cielo e Terra da sé si stabilizzeranno.
La stanza 37 condensa con straordinaria efficacia alcuni dei principali
assunti laoziani, partendo dal richiamo imprescindibile a una costante e
puntuale assenza di secondi fini nell’esercizio del governo, secondo
un’attitudine volta alla non ingerenza che, tuttavia, determina in modo
sostanziale il corso degli eventi, poiché lascia ciò-che-è libero di diventare
ciò-che-sarà: come leggiamo anche in Laozi 48.5, il Dao – e, dunque, anche
il Saggio che a Esso s’ispira – non essendo mosso da disegno alcuno fa sí
che ogni adempimento venga assolto e che tutto trovi debito compimento.
Gli esseri, non piú sospinti da misure coercitive, da soli troverebbero cosí il
modo di rispondere opportunamente – ovvero secondo la propria vocazione
naturale – al variare delle condizioni contestuali (vv. 3-4), esercitando un
contenimento del desiderio che funge da presupposto determinante per
l’affermazione dell’armonia a livello sociale e individuale, trattandosi di
una misura capace di attenuare i rischi di conflittualità tra i sudditi e di
abbandono agli impulsi ferini dei propri sensi.
Il «ceppo senza-nome» (wu ming zhi pu 無名之樸, v. 6) è associato da
Heshanggong all’incontaminata purezza del Dao e funge da modello
concreto per sviluppare un grado di apprezzamento incondizionato e
inconsapevole della realtà cosí-come-è, ovvero della realtà non intaccata
dalla sua rappresentazione secondo preferenze e avversioni soggettive.
Accogliamo l’indicazione di GAO MING 1996 (p. 427) secondo cui il v. 6
dovrebbe essere espunto.
38 (MWD 1; BD 1)

1. 上德不德是以有德
2. 下德不失德是以無德
3. 上德無為而無以為
4. 下德為之而有以為
5. 上仁為之而無以為
6. 上義為之而有以為
7. 上禮為之而莫之應則攘臂而扔之
8. 故失道而後德
9. 失德而後仁
10. 失仁而後義
11. 失義而後禮
12. 夫禮者忠信之薄而亂之首
13. 前識者道之華而遇之始
14. 是以大丈夫處其厚而不居其薄
15. 處其實不居其華
16. 故去彼取此
1. Eccelsa è la Possanza che tale non sembra, sicché Possanza è già;
2. minore è la Possanza che [all’apparenza] mai difetta, sicché vera
Possanza non è.
3. Eccelsa Possanza, non adoperandosi, dà prova di non essere mossa da
secondi fini;
4. minore Possanza, adoperandosi, da secondi fini è mossa;
5. s’adopera chi in Bontà eccelle, seppur secondi fini non abbia,
6. e s’adopera chi in Giustizia eccelle, e altri fini egli si pone;
7. s’adopera pure chi nell’osservare i Riti eccelle, tant’è che se nessuno
s’accoda, le maniche rimbocca per ricorrere alla forza.
8. Pertanto, se smarrito è il Dao, confida nella Possanza,
9. smarrita la Possanza, confida nella Bontà,
10. smarrita la Bontà, confida nella Giustizia,
11. smarrita la Giustizia, non restano che i Riti:
12. vile minuzia dello zelo [sincero] e della [vera] fiducia sono, i Riti, e del
disordine l’avvio.
13. Chi «pre-sume», del Dao non coglie che l’orpello e alla stoltezza dà
abbrivio.
14. L’uomo di Grande Valore, dunque, alla sostanza bada, non alla vile
minuzia,
15. alla realtà s’attiene, non all’orpello.
16. I secondi principî, pertanto, rifiuta, e i primi adotta.
Siamo di fronte a uno dei piú complessi passi del Laozi, come dimostrato
dall’ampiezza e dall’articolazione del commentario di Wang Bi, per la
disamina accurata del quale rinvio a WAGNER 2003 (pp. 237-51). De 德
«Possanza, Potenza emanata dal Dao, Virtú», secondo le parole di Wang Bi,
è sinonimo e omofono di de 得 «acquisire, ottenere». La chiave
interpretativa della stanza 38 secondo Wang Bi consiste nell’applicabilità
paradossale – e, proprio per questo, tangibile e fruttuosa – di quei principî
che si radicano nella dimensione della non-presenza, non-manifestazione,
dell’assenza. Il Dao provvede al sostentamento degli esseri, elargendo una
Possanza (De 德 ) che essi possono custodire e coltivare, ma non
«possedere». AverNe cura significa vivere nell’incoscienza,
nell’inconsapevolezza, nel dis-interesse, nella carenza (wu 無 ) costante di
propositi e di ambizioni personali. Le interpretazioni piú accreditate del
primo verso sono essenzialmente due, come rileva XU KANGSHENG 1992 (p.
5). Colui che si fa custode della Possanza eccelsa, superiore (shang 上), si
abbandona alla propria natura, quindi non ha motivo di conseguire
alcunché. Ciò significa che la seconda occorrenza di de 德 equivarrebbe a
de 得. Questa lettura trova eco nel passo 43.17.27 del Zhuangzi che recita
zhi de bu de 至 德 不 得 «La Somma Possanza non prevede di acquisire
alcunché». L’altra possibilità è che la persona davvero virtuosa in realtà
sembri tutt’altro: del resto, non ha bisogno di ostentare le proprie qualità e,
nel far ciò, dà prova di custodire De 德. Anche il secondo verso si presta ad
almeno due interpretazioni, premesso che con xià De 下 德 «Possanza
minore, inferiore» s’intende, in realtà, un’assenza di Possanza autentica: nel
primo caso, il testo si riferisce forse al fatto che l’ostentazione cela, spesso,
una carenza; nel secondo, si potrebbe ammettere che dalla consapevolezza
di non custodire piú De ne derivi un vano tentativo di perseguirLa.
Accogliendo la possibilità che la seconda occorrenza di de 德 nel v. 1 debba
leggersi de 得 «acquisire, ottenere», si noti il contrasto con shi 失 «perdere,
smarrire, mancare, negligere, fallire»: mentre la Possanza Eccelsa non si
prefigge alcun conseguimento ulteriore, quella di minore pregio si riduce a
un formale e compiacente rispetto della norma (shi De 失 德 nel senso di
«mai si scorda della Possanza», ovvero di una Possanza fasulla che non è
mai dimentica di sé), quasi a un accanimento nel dover essere puntualmente
impeccabile. Il senso del v. 4 è chiarito nel passo 20.3.8 dello Han Feizi,
che afferma come ren 仁 «amore per il prossimo, sollecitudine, umana
premura» si risolva in un moto spontaneo e sincero teso alla condivisione
dell’altrui gioia come dell’altrui dolore. Il v. 6 allude probabilmente a chi è
mosso da un alto senso di appropriatezza morale (yi 義) e agisce nel rispetto
di un preciso modello di confacenza, rivelando quindi un movente, un
secondo fine rispetto all’azione morale in sé. In assenza di moventi che
ispirino mosse volte a perseguire determinati fini (wu yiwèi 無 以 為 ), il
Saggio si fa custode di una Potenza che lo pervade ma che non gli
appartiene, perché proviene dal Dao: non resta che abbandonarsi, non porsi
mire (wu wèi 無為), non rispondere a moventi soggettivi, non adoperarsi, e
vivere.
«Azione» e «premeditazione» fanno registrare un progressivo declino
(vv. 4-7). Infatti, diversamente dalle opere d’ispirazione confuciana, valori
quali ren 仁 «amore per il prossimo, sollecitudine, umana premura, bontà»,
yi 義 «appropriatezza morale, giustizia, rettitudine», li 禮 «osservanza dei
riti cerimoniali e delle convenzioni sociali» non assicurano un’ineccepibile
condotta etica, ma costituiscono alterazioni degenerative della Potenza
originaria, essendo espressioni di un ineluttabile oblio del Dao. Non ci
preme, in questa sede, sottolineare la natura anti-confuciana della stanza 38
del Laozi, come molti critici hanno in passato tenuto a rimarcare. Piú
semplicemente, vorremmo far emergere come il testo non intenda negare in
modo radicale né la fondatezza né la necessità storico-politica di norme
prescrittive create per tentare di armonizzare la vita sociale. Piuttosto,
l’opera tenta di svelare quanto invasiva e non disinteressata sia, in fin dei
conti, l’azione morale, il cui ingresso nel mondo non può che destabilizzare
la feconda [dis-]armonia naturale e portare a condizioni di luan 亂 «caos,
disordine», come si legge nel v. 12. La cosiddetta «Possanza Minore», cosí
come l’umana premura, la giustizia e il rispetto dei riti, conserva il vizio di
fondo legato alla motivazione soggettiva – per definizione arbitraria – che
spinge a «adoperarsi» (wèi 為 ), a «spendersi» in vista di un fine: poco
importa quanto nobile esso sia, poiché di movente pur sempre si tratta.
Tuttavia, mentre la «Possanza Minore» e la premura per il prossimo non si
prefiggono obiettivi ulteriori, l’affermarsi della giustizia e del rispetto delle
tradizionali norme di comportamento rituale – essendo valori maggiormente
legati alla dimensione sociale e, dunque, all’apprezzamento altrui – segna
un punto di non ritorno nel processo di acquisizione di strumenti culturali
che, una volta assorbiti, rischiano di acuire la discrasia in un soggetto che
ha ormai voltato le spalle al Dao. Nel v. 13, il riferimento alla «pre-
sunzione» (qianshi zhe 前 識 者 ) si riferisce, stando a Heshanggong, alla
pretesa di avere raggiunto una piena comprensione delle cose, dandone
prova a parole, ma non nei fatti; Wang Bi, invece, rimarca come il testo si
riferisca con qianshi 前識 a una forma di conoscenza di livello inferiore che
spinge il sovrano a voler comprendere i fatti prima degli altri, ignorando
che, cosí facendo, rischia di compromettere la pace e la stabilità.
In corrispondenza dei vv. 14-15 è palese l’assimilazione di Dao e De 德
agli aspetti riconducibili a hou 厚 «spessore, sostanza» e shi 實 «realtà,
concretezza», mentre ren 仁 «amore per il prossimo, sollecitudine, umana
premura, bontà», yi 義 «appropriatezza morale, giustizia, rettitudine», li 禮
«osservanza dei riti cerimoniali e delle convenzioni sociali», rientrano tra
quanto è bo 薄 «aspetto deteriore, infimo, minuzia trascurabile» e hua 華
«ostentazione, orpello, superficialità».
39 (MWD 2; BD 2)

1. 昔之得一者
2. 天得一以清
3. 地得一以寧
4. 神得一以靈
5. 谷得一以盈
6. 萬物得一以生
7. 侯王得一以為天下貞
8. 其致之
9. 天無以清將恐裂
10. 地無以寧將恐發
11. 神無以靈將恐歇
12. 谷無以盈將恐竭
13. 萬物無以生將恐滅
14. 侯王無以貴高將恐蹶
15. 故貴以賤為本
16. 高以下為基
17. 是以侯王自謂孤寡不轂
18. 此非以賤為本邪非乎
19. 故致數譽無譽
20. 不欲琭琭
21. 珞珞若石
1. Di ciò che nel remoto passato l’Unità [con il Dao] conseguí,
2. vi è il Cielo, che sí facendo divenne limpido,
3. e la Terra, che cosí fu resa stabile,
4. e gli Spiriti, che furono cosí numinosi,
5. e i gorghi delle valli, che colmi cosí divennero,
6. e i Diecimila Esseri, che la vita cosí trassero,
7. e Principi e Sovrani, che nell’Unità [con il Dao] divennero, per tutto
sotto il Cielo, esempio.
8. Da ciò, come esito si tragga quanto segue:
9. se mai al Cielo venisse meno quel che lo rende limpido, esso cadrebbe,
ahimè, in frantumi;
10. se mai alla Terra venisse meno quel che la rende stabile, essa
finirebbe, ahimè, per affossarsi;
11. se mai agli Spiriti venisse meno quel che li rende numinosi, essi
perderebbero, ahimè, le loro facoltà;
12. se mai dovesse ai gorghi venir meno quel che li rende colmi, essi
finirebbero, ahimè, per seccarsi;
13. se mai ai Diecimila Esseri dovesse venir meno quel che li mantiene in
vita, essi finirebbero, ahimè, per perire;
14. se a Principi e Sovrani venisse meno quel che assicura Loro nobiltà
del rango e alta dignità, rischierebbero, ahimè, di cadere in disgrazia.
15. In tal modo, per essere nobili di rango, si prenda l’abiezione come
radice,
16. e per godere davvero dell’alta dignità, si prenda ciò che sta in basso
come fondamento.
17. Questo è il motivo che porta Principi e Sovrani a dir di sé ‘Orfano’,
‘Meschino’ e ‘Sventurato’.
18. Non vi è forse esempio migliore del ‘prendere l’abiezione come
radice’, nevvero?
19. Poiché piú lodi si cercano e meno se ne ricevono,
20. [Principi e Sovrani, dunque,] non desiderano distinguersi per rarità e
pregio, come la giada,
21. bensí essere cosa comune e ordinaria, qual pietra.
Il concetto di «Uno, Unità» (yi 一) è centrale nel Laozi, nel Zhuangzi e in
altre opere come il Guanzi (rinvio a ROTH 1999a, pp. 148, 149) e il Lüshi
Chunqiu (in particolare 17.8.107.10 e sgg.). Nell’unità con il Dao culmina
l’esperienza del Saggio, il quale si attiene a un principio di conformità
rispetto alle norme naturali e coltiva le Proprie facoltà in modo da percepire
il mondo come realtà «unica», non distinta da sé e, soprattutto, pervasa da
una sola legge: quella del Dao, che, come evidenzia la stanza 25, è
spontaneità incondizionata.
Quel che consente agli esseri di partecipare in modo dis-interessato al
disegno del Dao non può essere qualcosa appartenente al mondo, in sé
finito e limitato. L’Uno, in tal senso (cosí come il Dao), è nec entem, una
non-cosa, non partecipe del tempo, principio in quanto semplicità
elementare irriducibile, distinto da ciò di cui è principio, poiché, altrimenti,
finirebbe per essere anch’Esso una cosa. Riappare la nozione centrale della
precedente stanza, ovvero de 得 «ottenere, conseguire» (omofono di de 德,
la Possanza - Potenza - Virtú del Dao), stavolta in relazione all’Uno. L’Uno
non si consegue accumulando meriti che sono frutto di azioni consapevoli.
Per effetto del paradossale principio di ribaltamento o inversione (fan 反 ,
rinvio a Laozi 40), è solo smarrendo se stessi che si «consegue» – per cosí
dire – l’Unità con il Dao. Trattasi, pertanto, di un «conseguire» che trova
compimento solo attraverso una perdita (shi 失) della centralità del soggetto
e delle sue prerogative. L’estraneità dell’Uno alla ratio umana è radicale, in
quanto abitare il Dao impone, di nuovo, un ribaltamento, un’opposizione
rispetto ai nessi logici che dominano le dinamiche mosse dalla volontà
individuale. Il conseguimento derivante dalla soddisfazione dei propri
desideri è ben poca cosa rispetto alla scoperta che l’elevazione autentica e il
vero riscatto si realizzano solo consacrando l’abiezione a radice (yi jian wéi
ben 以賤為本, v. 15) della propria esperienza. Tutto ciò che fa parte della
realtà molteplice e fenomenica è chiamato a vivere in consonanza piena con
l’Uno per poter esprimere al meglio se stesso e realizzare cosí la propria
natura. La «radice autentica» (ben 本: vedi il commento alla stanza 40) che
ci unisce al Dao e dalla quale ogni cosa trae vita funge, in realtà, da
contrappeso rispetto al vettore che sospinge, vanamente, ad affermare sé, a
intervenire, a co-stringere: tenersi saldo alla «radice» significa lasciarsi
trascinare verso la dimensione opposta e contraria a quella che avremmo
voluto prendere. Abbandonarsi. La pianta, per elevarsi e crescere rigogliosa,
deve inabissarsi sottoterra, scomparire, per derivare cosí dalla dimensione
occulta, invisibile, il sostentamento di cui necessita. Ciò che si palesa ed è
(you 有 , ovvero la pianta) risulta tale in virtú dell’occultarsi delle proprie
radici nel dominio della non-presenza (wu 無). Gli effetti tangibili di simili
dinamiche sono tali da rendere hou wang 侯王 «principi (nobili) e sovrani»
i piú indicati destinatari dei valori espressi da questa stanza, che, come altri
passi dell’opera, è fonte d’ispirazione per la pratica di governo. «Attenersi
all’Uno», dunque, diventa la priorità assoluta di chi intende adottare una
linea politica sul modello del Dao: il Sovrano in particolare è chiamato
(come leggiamo in Laozi 38.14-15) a badare alla sostanza, «non alla vile
minuzia | Alla realtà s’attiene, non all’orpello».
Vi sono testi in cui il Dao pare identificarsi con l’Uno in quanto
principio unificante da cui tutto sotto il Cielo deriva la vita, come ad
esempio nel trattato Taiyi sheng shui rinvenuto a Guodian. L’Uno,
similmente all’Uno primo di Plotino, si pone come «semplicità assoluta» (in
questo ricorda pu 樸 , il ciocco intonso metafora del Dao, pervaso da una
ruvida semplicità primigenia essendo non-ancora-cosa e, dunque, in-finito)
e indica sia l’inizio di tutto ciò che esiste sia la condizione di vuoto
supremo che genera gli esseri e che, senza identificarsi con essi, fa sí che
sussista un legame stretto tra Potenza genitrice, ovvero la «Madre» (mu 母),
ed esseri generati.
40 (MWD 4; BD 3; GD A 19)

1. 反者道之動
2. 弱者道之用
3. 天下萬物生於有
4. 有生於無
1. L’inversione segna, del Dao, il moto,
2. e la debolezza ne detta l’operare.
3. La Moltitudine degli Esseri, sotto il Cielo, vive nel dominio della
realtà manifesta,
4. e quel che ‘è manifesto’, da quel che ‘non è manifesto’ trae vita.
La direzionalità teleologica cui tende l’affermazione di sé è espressa da
un’azione (wéi 為) invasiva, protesa verso il mondo e mossa in «avanti» in
quanto dettata da finalità precise (wèi 為 ), da un movente; a essa si
contrappone un’attitudine improntata alla riappropriazione del senso di
appartenenza alla «radice autentica» (ben 本) da cui ogni cosa trae vita. Il
nesso tra fan 反 «ritornare; invertire, inversione; andare contro», valore
centrale della stanza 40, e ben è confermato dal commentario di
Heshanggong («fan equivale a ben», recita il misterioso esegeta), poiché il
testo invita a ribaltare la prospettiva che ci sospinge ad avanzare e a
imprimere un’inversione di rotta che tende a farci rientrare nella dimora da
cui tutte le cose scaturiscono, ovvero il Dao. Laozi 25.11 evidenzia, non a
caso, come il Dao si allontani per poi tornare (fan 反 , o la lezione
alternativa fan 返 «rientrare, tornare sui propri passi», secondo alcune
edizioni), tracciando un movimento che coincide con il processo che porta
l’adepto a riappropriarsi dell’identità originaria comune agli esseri, dopo
che la percezione della molteplicità della realtà come effetto della
frantumazione dell’Unità rischia di compromettere l’adesione al Dao.
Abitare il Dao significa, invece, rinnovare di continuo la piena adesione alla
legge di natura, incondizionatamente, rifiutando di riconoscere sé quale
entità scissa dalla necessità dei fenomeni che regge il mondo. Poiché ogni
finalità è mossa da intenti che esprimono comunque forme differenziate –
seppur equivalenti – di parzialità, sottrarsi a tale logica significa optare per
un ribaltamento dei valori e tendere a un regresso ab origine, anzi pre-
origine, per abbandonarsi ad accogliere il mondo cosí-come-è.
LAFARGUE 1992 (p. 249) distingue nel Laozi tre diversi termini che si
richiamano al senso di «ritorno» in relazione a pratiche meditative e di
autocoltivazione: fan 反, gui 歸 «restituire, fare ritorno alla propria dimora»
e fu 復 «ritornare al punto di partenza dopo essersene allontanati»; in tal
senso, l’inversione di direzione espressa a piú riprese nel Laozi alluderebbe
a uno stato mentale di purezza e quiete da cui l’uomo progressivamente si
distanzia nel corso della propria esperienza del mondo fenomenico e al
quale si auspica che faccia ritorno.
Fan indica anche una restituzione, una «resa» che si attua attraverso il
ripristino di condizioni originarie o, in modo ancora piú netto, un «voltare
le spalle e ritornare indietro» ponendo l’enfasi sul luogo verso cui si è
diretti. Fu e gui lasciano intendere, meglio ancora di fan, che tale ripristino
va visto come il riaffermarsi di una condizione di armonia iniziale e di
ritorno al luogo cui si appartiene. Vi sono esegeti come Lin Xiyi, autore del
Laozi kouyi (Daozang 701.12.696), che hanno affermato la piena identità
tra fan e fu. Emblematico il senso di gui in quanto «morire» (Zhuangzi
2.6.28, 21.57.25), ovvero fare ritorno alla condizione di non-
differenziazione e non-manifestazione che precede la nascita. Yang
Wangsun (II-I secolo a.C.) scrisse che «la morte (si 死 ) coincide con il
processo di trasformazione (hua 化) che ha luogo al termine dell’esistenza e
rappresenta il luogo verso cui gli esseri fanno ritorno (gui). Giungere a
destinazione durante il percorso di ritorno e mutare nel processo di
trasformazione significa, per ogni essere, tornare alla condizione di
Perfezione Originaria» (Hanshu 67: 2909). Dato che fan significa anche
«andare contro, opporsi, rivoltarsi contro», alcuni critici come Angus C.
Graham e Chad Hansen interpretano questa categoria alla luce di una
contrapposizione di valori che accompagna ogni giudizio, come riscontrato
nel Mojing (rinvio a GRAHAM 1978, pp. 184, 185, 317, 318, 329, 330, 352-
54; HANSEN 1992). Secondo i due studiosi, nel Laozi ogni valutazione
darebbe luogo a caratterizzazioni prospettiche, opposte e complementari,
sulla falsariga del dualismo tra yin 陰 e yang 陽.
Si noti nel v. 2 il ricorso al termine ruo 弱 «debole, fragile, delicato,
flebile», spesso usato in contrasto con qiang 強 «forte» e, per estensione
semantica, «rigido, duro, ostinato, tenace». Rou 柔 , altro termine tecnico
tipico del Laozi, esprime una valenza prossima a ruo e significa «morbido,
flessibile, tenero, malleabile, fiacco, remissivo». L’antonimo di rou è gang
剛 «inflessibile, duro, ostinato, fermo, severo, aspro, indomito», assai
prossimo a qiang, dal quale si distingue poiché definisce una resistenza a
mutare forma o attitudine. Ruo, rou, qiang e gang non vanno intesi in senso
letterale: nel Laozi, per effetto del ribaltamento di valori di cui fan si fa
portatore, i primi due termini assumono solo apparentemente valenze
deficitarie e condizioni di subordinazione rispetto a qiang e gang, dato che
ogni caratterizzazione si tramuta nel proprio opposto. Ruo 弱 «debolezza»,
infatti, è indicato quale Dao zhi yong 道 之 用 «il modo in cui il Dao si
dispiega»: il termine yong 用 , abbiamo già visto, rinvia a «funzione,
funzionamento, azione, utilizzo, messa in opera, applicazione» e indica sia
le forme di estrinsecazione del Dao che le modalità espresse dagli esseri per
vivere in conformità con Esso. Per una definizione piú precisa di wu 無
«assenza, non esistenza» e you 有 «presenza, esistenza» rinvio alla stanza 1.
WAGNER 2003 (p. 257) interpreta i vv. 3-4 partendo dal presupposto che
sheng yu 生於 significhi, in entrambi i casi, «vivere in…», piú che «nascere
da…; trarre vita da…»: la Moltitudine degli Esseri, dunque, vivrebbe nella
dimensione della presenza (you) e, questa, a sua volta, della non-presenza
(wu). Una simile lettura va maggiormente incontro al commentario di Wang
Bi, dove si constata come

… tutti gli esseri, sotto il Cielo, assumano la dimensione della manifestazione (you)
come fondamento della loro vita e ciò cui la realtà manifesta dà avvio (ovvero gli esseri
stessi) è tale in virtú del fatto che la non-manifestazione (wu) è alla radice (ben)
dell’intero processo: pertanto, assicurare l’integrità della dimensione palese e manifesta
del mondo (you) comporta necessariamente un’inversione (fan 反), un ritorno alla realtà
non-manifesta (wu).

Il grado di «inversione» o «opposizione» di cui fan si fa emblema


evidenzia come l’adesione al Dao comporti il rifiuto delle piú comuni
norme dell’umano raziocinio, per sposare logiche contrarie al calcolo, alla
pianificazione, alla volontà, alla gratificazione dei sensi. Chi si abbandona
totalmente al Dao è in balia e piú che agire «è agito»: non è soggetto in
quanto attore, bensí subiectum che soggiace e sottostà al prorompere lieve
dell’Assoluto.
41 (MWD 3; BD 4; GD B 5)

1. 上士聞道勤而行之
2. 中士聞道若存若亡
3. 下士聞道大笑之
4. 不笑不足以為道
5. 是建言有之
6. 明道若昧
7. 進道若退
8. 夷道若纇
9. 上德若谷
10. 大白若辱
11. 廣德若不足
12. 建德若偷
13. 質真若渝
14. 大方無隅
15. 大器晚成
16. 大音希聲
17. 大象無形
18. 道隱無名
19. 夫唯道善貸且成
1. Una volta appreso il Dao, fatica a metterLo in pratica colui che
spicca,
2. lo colgono e non Lo colgono i mediocri che l’hanno appreso,
3. e, uditoLo, gli inetti di gusto Ne ridono:
4. né il Dao sarebbe[, in fondo,] se non ne ridessero!
5. È per questo che tra i Detti convenuti ciò che segue s’attesta:
6. il Dao, nel risplendere, all’oscurità è pari,
7. nell’avanzare si ritrae,
8. nel livellare lascia che [tutto] accidentato sia.
9. Eccelsa Possanza [bassa] è, come il gorgo,
10. somma Purezza all’onta è pari,
11. Possanza immensa sembra carente.
12. Risoluta Possanza pare negligente,
13. e la Genuinità piú autentica, corrotta.
14. Il [piú] Grande Quadrato non ha angoli,
15. il [piú] Grande Recipiente tarda a essere pronto,
16. la [piú] Intensa Nota è flebile,
17. la [piú] Grande Immagine forma non ha.
18. Si cela, il Dao, e senza-nome è.
19. Se elargizione e compiutezza a buon fine giungono, al Dao soltanto si
deve.
Nel Dao si consuma, anzi, si esalta, la coincidenza degli opposti. Non
basta constatare come niente sia, in realtà, ciò che sembra: ogni
determinazione necessita del proprio contrario per essere tale, secondo un
gioco continuo di ribaltamenti che è essenziale ai fini dell’efficacia di questi
precetti «impossibili». Del resto, nell’identità assoluta con se stessa, ogni
cosa morirebbe (rinvio a Laozi 55.14-16); viceversa, è solo poggiando e
traendo forza dal proprio contrario che le caratterizzazioni che definiscono
le cose possono mantenere vibrante quella tensione che è fondamentale per
alimentare gli aspetti inconciliabili e, dunque, necessari per assicurare una
piena conformità con il Dao. I primi tre versi definiscono gradi diversi di
intendimento del Dao, ma non è da escludere, come suggerisce S. COOK
2013 (vol. I, p. 294, n. 64) e ribadisce con ulteriore convinzione GENTZ
2015 (pp. 122-26), che sia proprio lo stolto («la persona di qualità
inferiore», xiashi 下 士 ) menzionato nel v. 3 a dar prova di aver davvero
compreso il Dao, ancor piú di colui che per doti spicca (shangshi 上士 «la
persona di qualità superiore»): questi, infatti, affaccendato nel tentativo
goffo di adeguarsi al Dao ed essendo incapace di riconoscerNe la natura
paradossale, non riesce a riderNe. I vv. 6-8 potrebbero riferirsi, oltre che
alle diverse manifestazioni del Dao, anche al modo in cui il Saggio Lo
esperisce: la luce che risplende (ming 明, v. 6), in questo senso, esprime un
grado di percezione del mondo cosí limpida da lambire l’oscurità (mei 昧)
dell’ignoranza; come negare, poi, che la vera progressione e il vero
avanzamento (jin 進, v. 7) richiedano, sovente, un arretramento (tui 退). La
lettura qui offerta del v. 8 accoglie le indicazioni di Wang Bi, che si
richiama al verso conclusivo di Laozi 28, secondo cui l’azione di governo
del Saggio che s’ispira al Dao non può che accettare le peculiarità dei
singoli esseri, evitando d’intervenire in modo invasivo per «livellare» (yi
夷 ) ciò che per natura è invece lei 纇 «annodato, aggrovigliato, non
appianato». Wang Bi commenta i vv. 14-19 evidenziando come il
raggiungimento del massimo grado di sviluppo (da 大 ) delle cose sia
assicurato solo grazie al Dao, che non supplisce tanto alle carenze, cioè, non
emenda, non corregge, ma lascia che i limiti strutturali delle cose assurgano
a caratterizzazioni inviolabili, sacre quasi, poiché peculiari. L’elargizione
(dai 貸 ) da parte del Dao di quel sostegno che assicura ai singoli enti la
piena realizzazione (cheng 成) avviene in modo occulto, impercettibile.
42 (MWD 5; BD 5)

1. 道生一
2. 一生二
3. 二生三
4. 三生萬物
5. 萬物負陰而抱陽
6. 沖氣以為和
7. 人之所惡
8. 唯孤寡不轂
9. 而王公以為稱
10. 故物或損之而益
11. 或益之而損
12. 人之所教
13. 我亦教之
14. 強梁者不得其死
15. 我將以為教父
1. Il Dao generò l’Uno,
2. e dall’Uno furono Due,
3. e dal Due, Tre,
4. e, dal Tre, i Diecimila Esseri trassero vita.
5. Bifronti – ombra dietro e luce davanti – i Diecimila Esseri,
6. all’armonia giungono dal miscelarsi dei soffi vitali.
7. Ciò che gli uomini piú disdegnano,
8. è proprio l’essere ‘Orfano’, ‘Meschino’ e ‘Sventurato’,
9. eppure Sovrani e Duchi cosí sono designati.
10. [D’altronde,] le cose accrescono se ridotte,
11. e si riducono se accresciute.
12. Quel che alcuni hanno insegnato,
13. ad altri, a mia volta, insegnerò,
14. cosicché il detto ‘Ai prepotenti e ai violenti non è dato di spirare
tranquilli’,
15. sarà, del mio magistero, abbrivio.
Gli esegeti hanno fornito varie interpretazioni alle categorie «Uno» (yi
一), «Due» (er 二) e «Tre» (san 三). Nel commentario di Heshanggong esse
indicano, nell’ordine, ciò che in origine il Dao produce come elemento
unitario indifferenziato, cui fanno seguito le due polarità opposte ma
complementari dell’essere (yin 陰 e yang 陽 ), che danno vita alla Triade
«Cielo-Terra-Uomo» (Tian-Di-Ren 天地人) a seguito dell’incontro dei soffi
d’energia vitale (qi 氣 ). Wang Bi identifica invece l’Uno con wu 無 (la
condizione di assenza di determinazioni fisiche, il «non-esistente» in quanto
«non-palese», che si distingue dalla «presenza» e dalla manifestazione dei
fenomeni che rispondono, invece, alla dimensione you 有) da cui gli esseri
traggono vita; con «Due» il testo indicherebbe, invece, «l’Uno e la sua
descrizione» e con «Tre» la somma totale dei precedenti elementi. Altri
commentatori associano «Due» a yin e yang, oppure a wu e you o, ancora, a
Cielo e Terra, mentre, per quanto riguarda l’identificazione del «Tre»,
prevale l’idea che si tratti di una condizione propria dell’energia vitale che
permette l’interazione tra le forze cosmiche e consente cosí la generazione
della molteplicità degli esseri (wanwu 萬 物 «Diecimila Esseri»). In altre
parole, l’Uno primigenio si delinea come polarità duale che esprime la
tensione contrapposta di elementi dalla cui interazione ha luogo il processo
di mutamento e di trasformazione del reale. HALL e AMES 2003 (pp. 142-44)
identificano invece «Uno», «Due» e «Tre» con i concetti di «continuità»,
«differenza» e «pluralità». «Tre» è già sinonimo, nelle fonti antiche, del
compimento del passaggio dall’Unità alla molteplicità (Shiji 25: 1251: shu
shi yu yi zhong yu shi cheng yu san 數始於一 終於十成於 三 «i numeri
principiano dall’Uno, terminano con il Dieci e raggiungono la completezza
con il Tre», sostanzialmente ribadito in Hanshu 21a: 956). Nel v. 5, il
termine fu 負 (qui sinonimo di bei 背 «schiena, dorso, spalle») si
contrappone a bao 抱 «stringere al petto, tenere tra le braccia, abbracciare»
e, insieme, essi sottolineano come ogni cosa presenti un recto e un verso,
ovvero connotazioni antitetiche che, citando il commentario di
Heshanggong, grazie a una sintesi armoniosa compartecipano alla
compiutezza di ogni essere. La traduzione «ombra (yin) dietro e luce (yang)
davanti» evidenzia – con maggior efficacia rispetto alla consueta «portare
sulla schiena/spalle yin e abbracciare/stringere al petto yang» – come
ognuno dei Diecimila Esseri si contraddistingua per una natura duale,
bifronte: l’aver associato «ombra» a «dietro» e «luce» a «davanti» è frutto
dell’adozione di strategie sineddotiche grazie alle quali lo stesso contrasto
«ombra-luce», in una dinamica yin-yang, potrebbe indifferentemente essere
sostituito da «freddo-caldo», «debole-forte», «femminile-maschile». Il
riferimento a chong 沖 nel v. 6 (vedi anche Laozi 4.1 e 45.3) evoca il
cosiddetto «vuoto mediano», ossia la dimensione in cui, incontrandosi, i
flussi di energia vitale yin (yinqi 陰 氣 ) e yang (yangqi 陽 氣 ) si
armonizzano. Nel v. 8 vi è un richiamo a quanto già espresso in 39.15. Il v.
14 si lega ai due precedenti e necessita di alcuni chiarimenti aggiuntivi:
tanto nello Shuoyuan (10.25.83.8), compilato da Liu Xiang, che nel Kongzi
jiayu (11.3.20.20) il contenuto del v. 14 coincide con quello di un’iscrizione
su una statua (Jinrenming 金人銘) che Confucio ebbe modo di apprezzare
durante una visita presso la capitale Zhou. Il manoscritto Rujiazhe yan,
rinvenuto a Dingxian 定 縣 (Bajiaolang 八 角 廊 ) nel 1973, menziona
l’iscrizione di cui sopra, ma senza contemplare il contenuto del v. 14. La
chiave di lettura adottata da Wang Bi è la seguente: i precetti vanno
insegnati in modo tale che i discepoli siano spontaneamente (ziran 自 然 )
indotti a seguirli, senza obbligo alcuno. Al contrario, colui che non si
attiene a ciò, sarà causa della propria sventura, dato che viola un principio
secondo natura. Preso atto che istigare alla violenza e obbligare gli altri a
seguire i propri dettami porta a pagare sulla propria pelle le conseguenze di
tanta scelleratezza, ciò non toglie, tuttavia, che un simile comportamento
fornisca comunque un prezioso esempio «al negativo».
43 (MWD 6; BD 6)

1. 天下之至柔
2. 馳騁天下之至堅
3. 無有入無間
4. 吾是以知無為之有益
5. 不言之教無為之益
6. 天下希及之
1. La piú morbida cosa sotto il Cielo,
2. con impeto prorompe e travolge quel che v’è di piú duro.
3. [Proprio perché] quel che è privo di spessore penetra anche dove non
vi sono varchi,
4. da ciò io, dunque, del non adoperarsi comprendo il giovamento.
5. Insegnare senza parlare, trarre giovamento dal non adoperarsi:
6. pochi, sotto il Cielo, a tanto arrivano!
Nell’incipit, rou 柔 «morbido, flessibile, tenero, fiacco, remissivo» è un
termine tecnico che compare con una certa frequenza nel Laozi e in questa
stanza pare indirettamente associato all’acqua (shui 水), metafora del Dao,
le cui qualità sono esaltate nelle stanze 8 e 78. L’antonimo di rou è di norma
gang 剛 «inflessibile, duro, tenace, fermo, severo, aspro, indomito»,
seppure in questo caso il testo prediliga jian 堅 «duro, solido». Nel v. 3
l’espressione wu you 無有 allude a una condizione di non-presenza, meglio,
di assenza di connotazioni fisiche: da ciò deriva, per estensione, il richiamo
all’essere privo di «spessore» espresso nella traduzione. Prevale, ancora una
volta, la logica del ribaltamento delle posizioni nella dinamica che definisce
il rapporto tra intensità e forza dell’azione, da una parte, ed efficacia,
dall’altra: questa si misura solo su base «privativa», ovvero sull’assenza
(wu 無 ) della spinta motivazionale dettata dal desiderio di conseguire
precisi interessi. Solo in virtú di una mancata pianificazione (wu wèi 無為)
si può, in realtà, conseguire un giovamento (you yi 有益) vero, autentico,
perché dis-interessato.
44 (MWD 7; BD 7; GD A 18)

1. 名與身孰親
2. 身與貨孰多
3. 得與亡孰病
4. 是故甚愛必大費
5. 多藏必厚亡
6. 知足不辱
7. 知止不殆
8. 可以長久
1. Cosa piú dovrebbe premerti, il buon nome o la tua persona?
2. Cosa è degno di apprezzamento maggiore, la tua persona o i beni
preziosi?
3. Cosa reca piú intensa pena, ottenere o perdere?
4. Chi d’avarizia eccede, dovrà patire della grande dissipazione [di beni
e d’energie];
5. chi troppo accumula, subirà certo ingenti perdite,
6. chi sa contentarsi, [invece,] mai cadrà in disgrazia,
7. chi sa fermarsi al momento giusto, mai cadrà esausto,
8. e a lungo vivere potrà.
Attraverso la serie di contrapposizioni presenti nei vv. 1-3, il testo
sottolinea la necessità di attenersi agli aspetti sostanziali dell’esistenza,
come leggiamo in Laozi 38.14-15. Il riferimento a se stessi, alla propria
persona (shen 身 ) nei vv. 1-2 in rapporto alla fama, prima, e ai beni di
pregio, poi, è teso a disgiungere la realizzazione di un sé autentico, a
dispetto dei riconoscimenti mondani e materiali, da quelle forme di
appagamento consolatorio legate, invece, all’inconsistenza della saturazione
quantitativa che fa sí che vivere «senza…» e «perdere» (wang 亡 ) non
siano necessariamente piú sconvenienti di «ottenere» (de 得). Infatti, come
si legge nei vv. 4-5, se la gratificazione è meramente materiale, l’accumulo
che ne deriva non porterà vera gioia, poiché questa nasce, innanzitutto, dal
saper accontentarsi (zhi zu 知足), ovvero dal rispetto di soglie appropriate
di soddisfazione. Duo 多 , nel v. 2, indica ciò che è superfluo e, dunque,
inutile, ma il termine possiede anche l’accezione propria di «ammirare,
apprezzare», soprattutto in relazione a forme di accumulazione sterile di
beni materiali. Nel v. 4 il carattere ai 愛 «amare, prediligere» può anche
assumere il duplice significato di «avarizia» e «avidità»: in entrambi i casi,
grande è la sofferenza data dal vedere assottigliarsi i propri beni. Una
lettura alternativa del passo è «chi troppo risparmia non potrà che spendere
in eccesso» (CADONNA 2001, p. 72). La «grande dissipazione» è espressa da
da fei 大費, dove fei 費, oltre che «dispendio, consumo», significa «privarsi
di qualcosa, rinunciare».
45 (MWD 8; BD 8; GD B 7)

1. 大成若缺
2. 其用不敝
3. 大盈若沖
4. 其用不窮
5. 大直若屈
6. 大巧若拙
7. 大辯若訥
8. 躁勝寒
9. 靜勝熱
10. 清靜為天下正
1. Somma Compiutezza [è tale poiché] difetta,
2. e nell’uso non si logora.
3. Somma Eccedenza è [tale poiché] vuota,
4. e nell’uso non s’esaurisce.
5. Somma Dirittura è [tale poiché] ricurva,
6. Somma Destrezza [è tale poiché] all’inettitudine è pari,
7. Somma Eloquenza [è tale poiché] pare balbettio.
8. Un’azione senza posa, giunta al limite, al freddo cederà il passo,
9. e la quiete, del pari, al bollore,
10. [ma solo] la Vera Quiete sarà, per il mondo intero, Norma.
La struttura dei vv. 1, 3, 5-7 ripropone quanto già espresso nella stanza
41: attraverso un ribaltamento paradossale, la massima espressione di un
determinato attributo è definita tale proprio perché manifesta
caratterizzazioni opposte a quelle che in realtà possiede senza bisogno di
darne prova. In questo senso, la Somma Compiutezza (v. 1) necessita di un
grado ulteriore di realizzazione che è dato solo dal deficere, dal voler
rimanere inadeguata, poiché è solo in virtú di una «mancanza» se le cose
riescono a sottrarsi alla stagnazione di una piena completezza, che ne
decreterebbe la morte (come in Laozi 30.12). Tuttavia, vi è un ulteriore
elemento che vale la pena sottolineare: la Somma Compiutezza (cosí come
qualunque altra caratterizzazione chiamata in causa nei vv. 1, 3, 5-7 della
presente stanza) non sarebbe davvero tale se mai godesse del
riconoscimento altrui. In questo senso, il testo non esorta tanto a adottare
strategie che prevedono un occultamento consapevole di ciò che si è dietro
un fantomatico e strumentale «opposto»: indirettamente, quanto riportato
lascia intuire che colui che vive nel Dao è dimentico di sé e che l’esperienza
di «abbandono» che ne deriva è mossa, per cosí dire, dal dis-interesse verso
qualunque forma di perfezione e di riconoscimento sociale del proprio
valore.
I vv. 8-9 sono interpretati in vari modi: un’attività senza posa (v. 8, zao
躁 , che significa anche «agitarsi, affaccendarsi, impetuoso, scomposto,
turbolento» e, nel lessico medico, rinvia al senso di «nervosismo,
irritabilità, stato d’eccitazione, agitazione»), efficace per combattere il
freddo, giunta al culmine non potrà che cedergli il passo e la quiete, toccato
il suo livello massimo, lascerà che il caldo sopravanzi (stando alle letture di
Cheng Xuanying, Lin Xiyi, Fan Yingyuan, che traggono ispirazione dal
commentario di Heshanggong, che identifica sheng 勝 , vv. 8-9, con ji 極
«acme, vertice massimo»); agire senza posa serve a sopraffare il freddo,
restare calmi aiuta a sopraffare il caldo (sulla scorta di Yan Zun, 59 a.C. -
24 d.C.), Lu Xisheng e Wu Cheng; agire senza posa serve solo a sopraffare
il freddo, restare calmi aiuta solo a sopraffare il caldo, secondo Su Zhe e
Dong Sijing. Sun Changxing (XVIII secolo) chiarisce la propria posizione
leggendo il testo seguendo l’idea che d’inverno ci si muove per combattere
il freddo, ma, dovendoci prima o poi fermare, il freddo prevarrà e che, in
estate, ci si rinfreschi stando fermi, fin quando, una volta costretti a tornare
alle nostre attività, il caldo non ci assalirà di nuovo. Questa è anche la
soluzione che propone Wang Bi: l’attività, il movimento, che ci aiutano a
combattere il freddo, in realtà prima o poi a questo cederanno il passo e il
riposo, pensato come rimedio efficace contro il caldo, prima o poi si dovrà
interrompere e, a quel punto, il caldo prevarrà. Solo una quiete
incondizionata, assoluta, consentirà di agire in accordo con il Dao. Infine,
Xu Dachun associa, da una parte, il movimento (zao 躁, v. 8) alla capacità
di contrastare e non percepire cosí il freddo e, dall’altra, indica nella quiete
(jing 靜, v. 9) del xin 心 «cuore, mente» la condizione che rende possibile
vincere il caldo. Nel verso conclusivo, qing jing 清 靜 può indicare,
disgiuntamente, «purezza e quiete», oppure un composto in cui il primo
termine funge da determinante dell’altro («pura quiete», nel senso di
«quiete assoluta, autentica»).
46 (MWD 9; BD 9; GD A 3)

1. 天下有道
2. 卻走馬以糞
3. 天下無道
4. 戎馬生於郊
5. 禍莫大於不知足
6. 咎莫大於欲得
7. 故知足之足常足矣
1. Quando sotto il Cielo regna il Dao,
2. destinati sono, i palafreni, a concimare campi.
3. Quando invece sotto il Cielo il Dao non regna,
4. è sul sacro suolo del suburbio che i destrieri vengono allevati.
5. Non v’è sciagura maggiore del non saper contentarsi,
6. né biasimo maggiore della brama di possesso.
7. Eterna soddisfazione, altro non è, dunque, se non la soddisfazione che
viene dal saper contentarsi!
Nel v. 2 zouma 走 馬 indica i palafreni, ossia i cavalli da parata o da
viaggio: il loro utilizzo nei campi suggerisce un sano ritorno alla semplicità
della vita agreste durante i periodi di pace e armonia (segnaliamo Laozi 80,
dove si esalta l’ideale utopico primitivista attraverso un rifiuto della
tecnologia e della conoscenza). Jiao 郊 (v. 4) indica sia «frontiera, confine»
sia quelle zone periferiche – che circondano i principali centri abitati – dove
si sviluppano le attività agricole e hanno luogo le celebrazioni dei sacrifici
al Cielo e alla Terra in occasione del solstizio d’estate e di quello d’inverno.
Allevare cavalli da guerra in queste aree era da intendersi un atto sacrilego.
Tuttavia alcuni esegeti ritengono che, in quanto «frontiera» tra due stati,
jiao si riferisse proprio al terreno su cui si consuma la battaglia.
L’idea di soddisfazione e appagamento che emerge dal testo viene
espressa da zu 足 «essere sufficiente, bastevole». Se, come molti studiosi
ritengono plausibile, zu deriva davvero dal carattere zhi 止 «fermare,
bloccarsi», ecco che tale appagamento si realizza attraverso un
contenimento dei desideri e della sete di conoscenza (vedi anche Laozi
44.6).
La lettura di Wang Bi si orienta sul contrasto tra ricerca compensativa di
beni «esteriori, estranei» (wai 外) e «coltivazione della propria interiorità»
(xiu qi nei 修其內): nel momento in cui si è preda dei desideri ferini, i freni
saltano e la possibilità di raggiungere una congrua soddisfazione viene
meno. Nell’interpretazione di WAGNER 2003 (pp. 274-75), il soggetto della
stanza è il Saggio Sovrano, per il quale frugalità e moderazione sono
condizioni necessarie affinché Egli possa mantenere in equilibrio la propria
persona e conservare il potere.
47 (MWD 10; BD 10)

1. 不出於戶
2. 以知天下
3. 不窺於牖
4. 以知天道
5. 其出也彌遠
6. 其知彌少
7. 是以聖人不行而知
8. 不見而名
9. 不為而成
1. Non serve varcare la porta di casa
2. per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;
3. né dalla finestra scrutare
4. per comprendere il dao del Cielo.
5. Piú esci e piú t’allontani,
6. meno comprendi.
7. Il Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso loro],
8. [le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.
9. [Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle
proprie mire.
Anche questa stanza ha prodotto, nel corso dei secoli, contrastanti letture
esegetiche. Il capitolo Yu Lao dello Han Feizi (rinvio al passo 21.17.1-2)
offre una chiave interpretativa peculiare: gli orifizi del corpo (kong qiao zhe
空 竅 者 ) rappresentano porte e finestre, ovvero vie di fuga delle facoltà
percettive numinose (shenming 神明) che, qualora dovessero abbandonare
la persona, ne decreterebbero la morte. Cosí come i sensi sono storditi da un
eccesso di sollecitazioni, ecco che la costante attenzione rivolta al
conseguimento di obiettivi esterni – piuttosto, «estranei», in quanto non
inerenti un soggetto che intende vivere secondo il Dao – finisce per fiaccare
la quintessenza e lo spirito (jingshen 精神, oppure la componente psichica e
intellettiva piú sottile, piú raffinata). Assimilando la propria persona a una
«abitazione» dotata di porte e finestre, lo Han Feizi intende i primi quattro
versi come un’esortazione a evitare che l’intelletto – ovvero l’insieme delle
facoltà percettive numinose – esca, si allontani, distogliendosi dall’unico
vero obiettivo d’interesse (shenming zhi bu li qi shi ye 神明之不離其實也)
che dovremmo mantenere, cioè la focalizzazione delle risorse psicofisiche
verso il benessere della propria persona. Il rischio, stando allo Han Feizi, è
che la «casa» resti disabitata, o meglio, priva di un padrone (zhong wu zhu
中 無 主 ), di un proprietario capace di amministrarla con saggezza. Sotto
questa luce, la stanza in questione non si discosta da quanto leggiamo in
altri passi dell’opera (rinvio a Laozi 10, 27, 52), dove il richiamo ad
«aprire», «chiudere», «bloccare», lascia intendere come le facoltà
intellettive numinose e i sensi siano chiamati a presidiare la nostra persona
senza disperdersi all’esterno. Uno dei termini chiave di questo passo è zhi
知 , solitamente reso con «conoscere, conoscenza», ovvero «sapere» in
funzione di «agire» nel mondo, mettendo in atto processi d’intervento su di
esso che prevedono, tra l’altro, l’uso del linguaggio (si notino gli elementi
costitutivi della grafia 知 , shi 矢 «freccia» e kou 口 «bocca», che
evidenziano quanto la dimensione della conoscenza si risolva nel
dimostrare di saper cogliere nel segno mirando a una rappresentazione
verbale di ciò a cui ci si riferisce). Si riscontra, tuttavia, nel Laozi come in
altre opere, un’ampia attestazione di zhi nell’accezione di «esperire
integralmente» attraverso una dislocazione della vera conoscenza attorno al
soggetto e non piú dentro, poiché all’io non viene piú riconosciuto il
privilegio – si fa per dire – di detenere in senso esclusivo un sapere. Egli,
quindi, non si pone come obiettivo la comprensione di oggetti definiti, bensí
di con-pre(he)ndere l’insieme delle relazioni che rendono gli oggetti tali,
soggetto incluso. Per esperire in senso pieno il Dao (ovvero «il mondo»
nella sua totalità di destini che tra loro interagiscono), egli deve prima
smarrirsi, abbandonarsi, e confidare nell’evidenza del dato immediato e
concreto che deriva da una lettura delle cose attraverso l’esercizio di facoltà
percettive numinose (shenming, vedi sopra) che trascendono tanto
l’intelligenza quantitativa quanto il torbido impulso sensoriale e rendono gli
uomini pari agli spiriti (shen 神).
Quanto fin qui esposto non è in contraddizione con la lettura piú
comune, secondo cui il contenuto della stanza 47 evidenzia il passaggio
naturale da una conoscenza di sé a una conoscenza del mondo e da una
comprensione del dao degli uomini a quella del dao del Cielo. Su
quest’ultimo punto il commentario di Heshanggong sottolinea la conformità
delle due dimensioni – quella celeste e quella umana – proprio perché
entrambe rispondono a principî identici, tali da caratterizzare il Saggio
come colui che incarna il Dao. Numerosi sono i richiami ad altre fonti
classiche in cui si allude alla possibilità di acquisire forme di conoscenza
superiore o di virtú senza dover «concretamente» investigare le cose: si
pensi al passo 7.30 del Lunyu in cui ren 仁 , massimo traguardo dello
sviluppo morale, può essere conseguito purché lo si voglia, essendo già qui,
pronto a essere accolto; ancor piú calzante è il nesso tra Laozi 47 e Mengzi
4A.11, dove si ribadisce che il Dao risiede in noi, nonostante Lo si cerchi
sovente lontano (Dao zai er er qiu zhu yuan 道 在 爾 而 求 諸 遠 ).
L’acquisizione di dati empirici «esterni», derivanti dall’osservazione
analitica del mondo, risulta superflua, poiché non porta a un autentico
consolidamento della conoscenza del Saggio, il quale rivolge in primis la
propria attenzione alla comprensione di sé, per liberarsi dei residui
egoistici, abbattere le distinzioni tra predilezione e avversione e, infine,
rendersi disponibile ad aprirsi a tutto ciò che una condivisione con il Dao
comporta. Cheng Xuanying nota come «senza muoversi» (bu xing 不行, v.
7) esprima una forma di comprensione che non dipende né da esperienze
cognitive precedenti (pre-concetti) né dai soli dati empirici esterni.
Giunto a questo livello di perfezionamento interiore, il Saggio è
finalmente pronto a dedicarsi al governo del mondo, attuando,
paradossalmente, una linea politica di non-ingerenza che, però, assicura la
piena realizzazione delle predisposizioni delle cose. Una simile forma di
«immobilismo» capace, tuttavia, di produrre massima armonia non può non
ricordare quanto attribuito a Confucio nel Lunyu: nel passo 15.5 il Maestro
esalta le doti dell’imperatore Shun, il cui governo esemplare secondo il
principio del wu wèi si sarebbe concretizzato nell’assumere una postura
deferente e nel sedersi rivolto a sud; a ciò si aggiunga l’apprezzamento nel
passo 2.1 riguardo l’esercizio di un governo ispirato a De 德 , che rende
colui che se ne fa interprete pari alla stella polare che, immobile al centro,
fa sí che tutti gli astri attorno le rendano omaggio.
Il riferimento nel v. 8 al «nominare» (ming 名) conferma la plausibilità
di una lettura politica dell’intera stanza: nell’attribuire i nomi corretti alle
cose, il Saggio esercita su di esse una forma di controllo, cosí come la
definizione degli incarichi di governo (ming in quanto «titoli», oggi
diremmo «profili»…) sulla base di competenze specifiche assicura il pieno
funzionamento dello Stato.
48 (MWD 11; BD 11; GD B 2)

1. 為學日益
2. 為道日損
3. 損之又損
4. 以至於無為
5. 無為而無不為
6. 欲取天下常以無事
7. 及其有事
8. 不足以取天下
1. Chi allo studio si vota, di giorno in giorno accumula,
2. chi al Dao si vota, di giorno in giorno sottrae:
3. sottrae e ancora sottrae,
4. fino a cessare d’adoperarsi,
5. e, cessato d’adoperarsi, non vi sarà cosa che non sarà fatta.
6. Se mai tu intendessi mettere mano su tutto ciò che sta sotto il Cielo,
sempre evita di fartene carico,
7. [poiché] fin quando cura tua sarà,
8. la mano, invano, vi porrai.
La nozione centrale della stanza 48 è wèi/wéi 為 , resa in modo
differenziato a seconda dei versi, in modo da rendere giustizia della
complessità delle implicazioni di cui essa è portatrice. Siamo di fronte a un
orientamento mentale volto a non pianificare (wèi) e a predisporre il
soggetto a «lasciarsi agire» piú che ad agire (wéi) in senso invasivo. Questa
nozione evidenzia come il Saggio non sia portatore di un interesse proprio,
ma si fa garante della piena realizzazione di quelle predisposizioni che
determinano l’orientamento verso cui ogni contesto tende. In altri termini, il
Saggio non manifesta preferenze esclusivamente proprie, ovvero non è
mosso da un movente personale poiché non intende frapporsi al movimento
intrinseco e necessario delle circostanze in cui le cose si dispongono
secondo relazioni mutualmente definite. La natura controversa, paradossale
di questo automatismo non deliberato porta il Saggio a «non» (wu 無 )
affermare se stesso ma ad agire in conformità con l’andamento degli eventi,
lasciando che ogni elemento partecipi e sviluppi le proprie peculiarità. Non
esprime, dunque, un immobilismo assoluto, ma una forma d’intervento
misurata, assottigliata, tendente allo zero, che è frutto di un lento
apprendistato. Si è visto come questa capacità di miniaturizzare la presenza
umana nel mondo assuma il profilo stridente di una «spontaneità indotta»,
di una «libertà acquisita» a seguito di un costante esercizio di rimozione del
sapere e dei contenuti morali cui si è stati esposti, per lasciare spazio a un
vuoto – meglio, a una condizione asintotica tendente al vuoto – che è
disponibilità ricettiva da parte del soggetto di accogliere il Dao. Giunti a
questo punto, gli effetti che si producono sul mondo diventano incalcolabili
in termini di «efficacia», anche dal punto di vista politico, proprio perché
colui che incarna il Dao, dis-interessato, persegue un disegno che lo
sovrasta, partecipando pienamente a Esso. In tal senso, l’applicabilità e il
riscontro pratico del principio del wu wéi/wèi 無 為 nell’indirizzare le
misure di governo da parte del Saggio Sovrano è palese nei vv. 6-8. La
modalità attraverso cui il testo delinea una strategia di «presa», di conquista
(qu 取) del mondo prevede che tale obiettivo possa essere conseguito solo
evitando di [in]caricarsi della responsabilità di amministrare il potere (shi
事 «assumere un incarico amministrativo, farsi cura dell’adempimento di
un gravoso officio»): ciò significa che né lo zelo né la brama devono
guidare il Sovrano nell’orientare la propria politica di governo.
Tornando al senso di wèi/wéi 為 in relazione a wu wéi/wèi 無 為 , va
rilevato come, al di là della doppia possibile lettura wu 無 «non…» + wèi
«pianificare in vista di…» e wu + «non» wéi «fare, agire», sia Wang Bi che
il commentario di Heshanggong tendono a esplicitare la struttura wu bu
wéi/wèi 無不為 (v. 5) nella forma wu (suo) bu wéi/wèi 無(所)不為 – ovvero
evidenziando il sostituto di nominalizzazione suo 所 , sottinteso nella
formulazione originaria – dando cosí luogo, nell’ordine, alle seguenti
letture: «non c’è obiettivo che un soggetto X non raggiungerà» e «non c’è
cosa che un soggetto X non farà».
Uno dei piú eloquenti contributi esegetici in grado di illustrare il senso
del v. 5 si trova in Huainanzi (1.4.22-25):

Il Saggio coltiva in sé l’attaccamento alla radice [del Dao] e rifiuta ogni abbellimento
esteriore con appendici [inutili]; protegge con cura la Propria quintessenza e il Proprio
spirito e preferisce sbarazzarsi della conoscenza e di quanto in passato Egli ha acquisito.
Con distacco, «non nutre alcun proposito» (wu wèi) / «non agisce» (wu wéi) e, dunque,
«non vi sarà obiettivo che non verrà colto» (wu bu wèi) / «non vi sarà cosa che non sarà
fatta» (wu bu wéi). Pacato, non [adoperandosi per] governare [in modo coercitivo], non
vi sarà cosa che non sarà ben governata. Ciò che s’intende con wu wèi / wu wéi esprime
un’attitudine volta a non intervenire prima che gli esseri manifestino i propri obiettivi /
le proprie azioni. Ciò che s’intende con wu bu wèi/wéi esprime l’adattamento a ciò che
gli esseri perseguono come obiettivo / assumono come comportamento. Ciò che
s’intende con «non [adoperarsi per] governare [in modo coercitivo]» prevede che non si
alteri ciò che le cose sono secondo natura. Ciò che s’intende con «non vi sarà cosa che
non sarà ben governata» implica l’adattarsi al modo in cui i fenomeni interagiscono [per
diventare quello che sono].
49 (MWD 12; BD 12)

1. 聖人無常心
2. 以百姓心為心
3. 善者吾善之
4. 不善者吾亦善之
5. 德善
6. 信者吾信之
7. 不信者吾亦信之
8. 德信也
9. 聖人在天下歙歙
10. 為天下渾其心
11. 百姓皆注其耳目
12. 聖人皆孩之
1. Mai, il Saggio, un cuore stabile rivela,
2. [poiché] quello delle Cento Famiglie fa proprio,
3. [ragion per cui] a chi eccelle, io eccellenza riconosco,
4. ed eccellenza comunque riconosco anche a chi non eccelle,
5. affinché [da tutti] il meglio ottenga.
6. Fiducia do a chi la merita,
7. e fiducia do anche a chi non la merita,
8. affinché la fiducia altrui io riscuota.
9. Abita il mondo, il Saggio, in consonanza perfetta,
10. e del Suo cuore al mondo fa dono, perché in esso Si [con]fonda.
11. Le genti, tutte, a Lui prestano l’orecchie e lo sguardo.
12. A Lui, che ognuno tratta come figlio Suo.
Xin 心 (vv. 1, 2, 10) è l’organo «principe» del corpo umano: in quanto
«cuore, mente», esso presiede le facoltà emotive e intellettive. Il Xunzi è
inequivocabile nell’assimilare xin a quella struttura complessa che, nel
corpo, espleta la funzione di governo e di controllo delle facoltà intellettive
numinose (xin zhe xing zhi jun ye 心 者 形 之 君 也 而 神 明 之 主 也 , Xunzi
21.104.10). Sede del pensiero, della coscienza e della deliberazione, xin
rivela la predisposizione d’animo, l’indole, l’attitudine del soggetto. In tal
senso, il verso d’apertura mette in luce come, nel dar prova di wu chang xin
無 常 心 «non possedere un cuore stabile», il Saggio rifiuti un baricentro
operativo preventivamente fissato sulla base del quale orientare il Proprio
intervento. Egli, piuttosto, è chiamato a adattarsi alle condizioni e alle
aspirazioni del popolo, senza pre-sumere di governarlo rispondendo solo a
prerogative soggettive. Anziché dettare le direttive di comportamento, xin
diventa per il Saggio un «re che ha abdicato» e che si lascia docilmente
assoggettare per rispondere alle necessità degli altri: dirige senza dirigere,
offre una guida impercettibile che è funzionale a mantenere in equilibrio gli
assetti condivisi da tutte le parti in causa, nessuna esclusa.
Wang Bi osserva come non vi sia pericolo maggiore cui il Sovrano
rischia di esporsi del confidare solo sul Proprio intelletto e la Propria
perspicacia (ming 明) per amministrare lo Stato: cosí come la forza di cui
dispone sarebbe inadeguata per fronteggiare quella che, unito, il popolo è in
condizione di esercitare, cosí anche l’acutezza e la perspicacia del Sovrano
non basterebbero a garantirGli il controllo del potere. Chi governa, quindi,
non potrà che dispensare fiducia incondizionata per godere, infine, della
credibilità necessaria a diventare un punto di riferimento per il popolo (v.
11) e dovrà dimostrare di apprezzare le qualità dei propri sudditi, tanto di
chi è capace quanto di chi, pur limitato nel talento, se adeguatamente
supportato offrirà comunque un contributo sostanziale nell’assunzione di
responsabilità amministrative.
Accogliamo le indicazioni che vengono da YZ e FY (e, indirettamente,
anche da BD), che leggono de 得 «ottenere, acquisire» al posto di De 德
«Potenza, Possanza emanata dal Dao» (vv. 5 e 8).
50 (MWD 13; BD 13)

1. 出生入死
2. 生之徒十有三
3. 死之徒十有三
4. 人之生動之死地亦十有三夫何故
5. 以其生生之厚
6. 蓋聞善攝生者
7. 陸行不遇兕虎
8. 入軍不被甲兵
9. 兕無所投其角
10. 虎無所措其爪
11. 兵無所容其刃
12. 夫何故以其無死地
1. Alla vita ci affacciamo, nascendo, e ci congediamo da essa per morire.
2. Tre su dieci sono compagni della vita,
3. tre su dieci sono compagni della morte,
4. e perché mai vi sono altri, anch’essi tre su dieci, che, pur vivi, verso il
luogo fatale si muovono?
5. È l’eccesso di premura per la vita [a spingerli]!
6. Avrete certo udito di quanti sono sí abili ad aggrapparsi saldi alla
vita:
7. muovendosi nel verde, non evitano rinoceronti e tigri,
8. nel dar battaglia, non subiscono l’offesa dell’armi.
9. [Questo perché] il rinoceronte non troverebbe spazio per infilzarLi con
il suo corno,
10. né, la tigre, per piantare i suoi artigli,
11. e a nulla varrebbero armi dalle lame affilate.
12. Perché mai è cosí? Alla morte, Essi, varchi non aprono.
Nel verso d’apertura, chu 出 e ru 入 sono termini antonimici che
significano, rispettivamente, «uscire, emergere, manifestarsi, iniziare» e
«entrare, accedere, penetrare dall’esterno all’interno, occultare». Il
commento dello Han Feizi (20.30.1) mette in luce come all’inizio (shi 始)
ognuno si affacci alla vita nascendo (sheng 生, che significa anche «vivere;
produrre, generare») e concluda (zu 卒) la propria esperienza morendo (si
死), giocando sulla doppia associazione shi 始 -chu 出 e zu 卒 -ru 入. Nei
passi 18.49.17 e 23.66.19 del Zhuangzi si riscontra lo stesso uso di chu-ru
出入. Le opinioni degli esegeti si sono divise sul senso dei vv. 2-5, poiché
alcuni intendono shi you san 十 有 三 come «tredici», altri «tre su dieci»
(ossia un terzo). La stessa difficoltà si riscontra nell’identificazione dei
«compagni della morte» (si zhi tu 死 之 徒 ) e dei «compagni della vita»
(sheng zhi tu 生 之 徒 ). Nei vv. 76.5-6 del Laozi essi sono ricondotti,
nell’ordine, alle coppie jian 堅-qiang 強 («duro, solido» e «forte, vigoroso,
rigido») e rou 柔-ruo 弱 («flessibile, docile, molle» e «delicato, debole»).
Wang Bi intende l’espressione shi you san 十有三 come «tre su dieci»,
convinto che vi siano tre diverse categorie di persone: chi è destinato a
vivere a lungo indipendentemente da ciò che compie (quei «tre su dieci»
che sono compagni della vita); chi è destinato a morire in giovane età (quei
«tre su dieci» che sono compagni della morte) e chi, nel perseguire
ostinatamente la longevità, finisce per accorciare la propria vita (i restanti
«tre su dieci»). La presente traduzione segue la linea interpretativa di Wang
Bi solo per non acuire la discrepanza tra canone e commentario, nonostante
il credito maggiore da noi riconosciuto alla lezione «tredici» rispetto a «tre
su dieci».
I ripensamenti di HENRICKS 1989 evidenziano bene l’insidiosità del
testo: pur traducendo shi you san con «tredici» (pp. 122-23), Robert G.
Henricks non aveva escluso l’opzione «tre su dieci». Dopo un ulteriore
approfondimento (HENRICKS 1998), lo studioso statunitense si è
definitivamente espresso in favore di «tredici». Nel passo 20.30.9 dello Han
Feizi e nel Daode zhigui di Yan Zun, «tredici» si riferisce alle quattro
membra e ai nove orifizi (si zhi jiu qiao 四 肢 九 竅 ); nel commentario di
Heshanggong lo stesso numero è associato ai nove orifizi e ai quattro sensi
(cfr. ERKES 1958, p. 206); Gao Heng (vedi GAO MING 1996, p. 65) e ZHOU
CIJI 1984 (p. 188) ritengono, invece, che il numero tredici coincida con la
somma tra i «sette stati emotivi» (qi qing 七情) e i «sei desideri» (liu yu 六
欲).
Dal punto di vista del contenuto, la stanza 50 evidenzia come
un’eccessiva premura nei confronti della vita non basti a scongiurare i
pericoli: anzi, cosí facendo si esalta solo la drammaticità dell’eventuale
perdita della vita intesa come sommo bene. Dar prova di saper
salvaguardare e di aver pieno controllo della propria esistenza (she sheng 攝
生 , v. 6) porta, invece, alla constatazione che vita e morte dipendono dal
medesimo numero di fattori («tredici») e che entrambe obbediscono agli
stessi principî (vedi al riguardo Laozi 55.12-13). Non è un caso, infatti, che
nel passo 57.22.10 del Zhuangzi sia proprio la vita a essere definita si zhi tu
死之徒 «compagna della morte». Il timore verso la morte non è vinto dal
conseguimento dell’immortalità, bensí dalla serena accettazione della
propria finitezza.
51 (MWD 14; BD 14)

1. 道生之德畜之
2. 物形之勢成之
3. 是以萬物莫不尊道而貴德
4. 道之尊德之貴
5. 夫莫之命而常自然
6. 故道生之[德]畜之
7. 長之育之亭之
8. 毒之養之覆之
9. 生而不有
10. 為而不恃
11. 長而不宰
12. 是謂玄德
1. Il Dao dà loro la vita e la Possanza le pasce,
2. fattezze a loro sono accordate, perché «cose» siano, e a compimento
giungono secondo quanto dalle circostanze è disposto.
3. È per questo che tra i Diecimila Esseri non v’è nessuno che non veneri
il Dao e che la Possanza non onori.
4. Che il Dao venerato sia e la Possanza onorata,
5. nessuno l’ha comandato, poiché da sempre cosí è.
6. Il Dao, dunque, dà loro la vita, [la Possanza] le pasce,
7. le cresce, le alleva, le forgia,
8. le fa maturare, le nutre e le protegge.
9. Dà loro la vita senza avanzare pretese di possesso,
10. agisce [a loro pro] senza che avvertano il Suo sostegno,
11. le cresce, ma di loro non dispone.
12. Ecco quel che si dice ‘Arcana Possanza’.
Il contenuto di questa stanza riecheggia la chiusura di Laozi 10. Pur non
comparendo nel testo, il fulcro tematico sembra essere ancora una volta wu
wèi, ovvero l’attività dis-interessata del Dao in favore degli esseri, grazie a
cui sono assicurati loro sostegno, protezione e completa realizzazione nel
rispetto delle peculiarità che contraddistinguono ogni creatura. Wang Bi
osserva come il Dao coincida con ciò da cui gli esseri provengono (Dao zhe
wu zhi suo you ye 道者物之所由也), secondo una formulazione che ricorda
il passo 31.2.18 del Zhuangzi (qie Dao zhe wanwu zhi suo you ye 且道者萬
物 之 所 由 也 «Inoltre, il Dao coincide con ciò da cui i Diecimila Esseri
provengono»). Il «dono» che il Dao offre è De 德 , una «disponibilità» di
condivisione di una «potenzialità» che discende dal Dao per l’esercizio di
qualità distintive, che vanno coltivate perché l’adesione all’Assoluto si
compia nella piú totale inconsapevolezza da parte degli esseri.
L’inconsapevolezza riflette un’impossibilità percettiva dei motivi e del
motore, soprattutto, da cui tutto trae ragione, ovvero il Dao, che dispensa
senza mostrarsi e agevola senza compiacersi dei propri meriti. In ciò risiede
la ragione della somma gratitudine di cui Dao e De godono: nella gratuità,
nell’imparzialità di ogni attività di cui Entrambi sono ignari promotori.
Wang Bi, oltre a definire De 德 «ciò che gli esseri ottengono/conseguono
[dal Dao]» (wu zhi suo de ye 物之所得也), offre un dato ulteriore in grado
di chiarirne l’associazione con l’attributo xuan 玄 «oscuro, arcano,
misterioso» nel verso di chiusura: colui che «possiede» De 德 non può
comprendere l’autorità, il padrone (zhu 主) a cui Essa risponde, poiché Dao
e De 德 emergono da quella condizione definita you ming 幽 冥 «oscura,
recondita» che si sottrae tanto alla vista che alla comprensione.
Nell’interpretazione secondo Heshanggong, De 德 diventa emblema
dell’Uno (yi 一), principio di conformità e aderenza alla legge di natura che
fa sí che ogni essere non solo venga alla luce, ma trovi debito sostegno
nell’adempimento del proprio destino durante ogni fase di sviluppo. Si
affaccia anche un parallelo tra ciò che il Dao rappresenta per gli esseri e il
carisma e l’influenza benefica che il sovrano esercita sul popolo, che viene
assistito a prescindere dal tornaconto personale e dal miraggio di
ricompense.
Il pronome «le» che compare nei vv. 6-11 si riferisce alle «cose» (v. 2) e,
di conseguenza, agli «esseri» nella loro totalità.
52 (MWD 15; BD 15; GD B 6)

1. 天下有始以為天下母
2. 既得其母以知其子
3. 既知其子復守其母
4. 沒身不殆
5. 塞其兌
6. 閉其門
7. 終身不勤
8. 開其兌
9. 濟其事
10. 終身不救
11. 見小曰明
12. 守柔曰強
13. 用其光復歸其明
14. 無遺身殃
15. 是為習常
1. Un avvio, che Madre gli fu, ebbe il tutto quel che sta sotto il Cielo.
2. Trovata la Madre, conoscerai i figli,
3. e se, conosciuti i figli, alla Madre farai ritorno per tenerti a Lei saldo,
4. per il resto dei tuoi giorni nessun pericolo correrai.
5. Le [loro] entrate, bloccale,
6. le [loro] porte, serrale,
7. e finirai i tuoi giorni senza travaglio alcuno.
8. Le [loro] entrate, aprile,
9. le [loro] mansioni, assolvile,
10. e mai sarai salvo.
11. ‘Mostrare poco [di sé]’ si dice ‘Essere illuminato’,
12. ‘[At]tenersi saldo alla remissività’ si dice ‘Essere forte’.
13. Se, irraggiato [il mondo], farai di nuovo ritorno alla tua luce
[interiore e ti lascerai guidare da essa]
14. a qualunque calamità ti sottrarrai.
15. In ciò consiste il ‘Conformarsi agli Eterni principî’.
L’immagine della «Madre» (Mu 母 ) coglie con nettezza l’elemento
femminino del Dao, grazie al quale non Si limita a dare alla luce gli esseri (i
figli, zi 子): senza favoritismi né parzialità, continua ad assisterli e a nutrirli,
come si è visto nella stanza precedente. Il commentario di Heshanggong è
ancora piú esplicito in questo preciso punto del testo nell’identificare il Dao
con la Madre dei Diecimila Esseri che popolano il mondo, attribuendo al
«figlio» (zi 子 ) il significato di yi 一 «Uno, Unità». Wang Bi si discosta
sensibilmente da questa lettura e sottolinea l’identità della relazione tra
«Madre» e «radice, fondamento» (ben 本 ) con quella che lega «figlio» a
«ramo, stelo» (mo 末 ), richiamandosi cosí alla forza allusiva dei termini
ben-mo che al di là della letteralità del dualismo «radice-ramo» definiscono,
a seconda dei contesti, rapporti assimilabili a «premessa - dato terminale»,
«causa-effetto», «dato sostanziale - dato accessorio».
I vv. 5, 6 e 8 invocano una sospensione delle facoltà sensoriali e
intellettive: nel bloccare quelle «aperture» che sono deputate a un contatto
con il mondo esterno, l’adepto, tra cui è contemplato anche il Sovrano, si
raccoglie finalmente in meditazione. Questi stessi concetti sono ripresi in
Laozi 56.3-4. L’attenzione degli esegeti si è concentrata soprattutto
sull’identificazione del riferimento del termine dui 兌 «apertura, varco,
orifizio», associato da Yu Yue a xue 穴 «cavità, foro» nell’accezione di qiao
竅 «orifizio, organo di senso», che Zhu Qianzhi identifica con le facoltà o
gli organi dell’udito, della vista, dell’olfatto, del gusto (er mu bi kou 耳目鼻
口 ). Sussistono, tuttavia, ulteriori oscillazioni di senso: nello Yijing, tra le
annotazioni esplicative relative agli otto trigrammi (di cui dui 兌 fa parte), il
termine in questione è identificato con la bocca (kou 口 ), mentre il
commentario di Heshanggong riconduce dui agli occhi (mu 目 ). Stando a
Wang Bi, con dui il testo vuole indicare «i passaggi attraverso cui si
attivano gli impulsi a muovere azioni e che rispondono a precisi desideri
[oppure ‘i desideri di agire’]», sotto forma di sollecitazioni che,
dall’esterno, inducono i soggetti a re-agire; men 門 «gli accessi, le porte»
costituiscono, invece, quegli affacci sul mondo da cui desideri e re-azioni
fuoriescono (v. 6). Men 門 , secondo GAO MING 1996 (p. 76), indica le
«porte della quintessenza vitale e dello spirito (jingshen 精 神 )». WAGNER
2003 (pp. 295-300, 480) offre una lettura dell’intera stanza e del relativo
commentario di Wang Bi dalla prospettiva del Sovrano, che è chiamato a
esercitare il controllo delle «aperture» e delle «porte» del popolo, in modo
tale da scoraggiare che i sudditi – per usare le parole di Xi Tong – nutrano
conoscenza e desiderio. Un’interpretazione di questo tipo sembra suffragata
dall’uso che gli editori dello Huainanzi (rinvio a Laozi 12.41) hanno fatto
dei vv. 5 e 6, citati come monito per il Sovrano a non palesare all’esterno le
proprie intenzioni e i propri desideri, per evitare cosí che Egli sia
assoggettato al controllo dei sudditi. Il contenuto dei vv. 11 e 12, pure,
dovrebbe riflettere una simile attitudine volta all’azione di governo: anziché
attestarsi pigramente sulla consueta resa secondo cui «scorgere (jian 見 )
quanto è minuto (xiao 小 ) si dice ‘acutezza’ (ming 明 )» (cfr. Huainanzi
12.108.21; Han Feizi 21.12.4 e il commentario di Heshanggong), vale la
pena contemplare l’eventualità che il v. 11 esprima la necessità che il
Sovrano si mostri (見 da leggersi xian 現) «piccolo, infimo» (xiao 小) per
dar cosí prova della propria «grandezza» (da 大 , vedi Laozi 25) e del
proprio acume (ming 明 ). L’assimilazione di 見 con xian 現 «mostrare,
palesare, svelare» è già attestata, d’altro canto, in Laozi 22.10, 24.3, 72.6,
dove, non a caso, il termine è messo in relazione diretta con ming 明 per
dimostrare come chi desidera esibire sé, in realtà, finisca per non mettersi in
luce. Wang Bi e Heshanggong danno luogo a due distinte linee
interpretative del v. 13: nel primo caso, il commento assume la forma di un
invito rivolto al Sovrano affinché confidi nella Propria acutezza percettiva e
dia pieno risalto al Dao presso il popolo – che, in tal modo, non si smarrirà
– scoraggiando chi regna, al contempo, ad analizzare la realtà con puntiglio
seguendo solo l’intelletto; nel secondo caso, il soggetto – probabilmente
ancora il Sovrano – viene sollecitato a rivolgere il proprio sguardo lucido
verso il mondo per meglio cogliere rischi e benefici che ogni situazione
presenta e, insieme, a far luce sulla propria interiorità per evitare che la
quintessenza e lo spirito si smarriscano nel contatto con l’esterno.
L’interpretazione di Lin Xiyi è lievemente diversa: guang 光 «illuminare,
gettar luce, far rilucere» indica il modo in cui ming 明 opera (yong 用 ),
mentre ming «luce, intelletto, perspicacia, illuminazione», si riferisce,
invece, alla sostanza (ti 體 «corpo») di cui guang si compone. Lin Xiyi
coglie nel v. 13 un richiamo alla capacità del Saggio di illuminare,
rischiarare (guang) le cose senza però arrivare a dissipare la Propria facoltà
interiore di percezione lucida (ming) dei fenomeni e, soprattutto, di Sé. Il
nesso con Laozi 33.2 è, a tal riguardo, evidente: l’illuminazione (ming)
esprime la condizione cui perviene colui che ha raggiunto una piena
comprensione di se stesso (zi zhi 自知). Wu Cheng sposa in buona sostanza
questa chiave di lettura, ribadendo come deflettere verso sé la luce della
conoscenza, che solitamente irraggia il mondo esterno, porta l’adepto a
raggiungere la vera illuminazione. La scelta traduttiva di WALEY 1958 «He
who having used the outer-light can return to the inner-light» (p. 206) fa
risaltare precisamente questa dialettica esterno-interno nella dinamica tra
guang e ming.
Il verso di chiusura offre varie possibilità di lettura: xi 習 «pratica
abitudinaria, esercizio che presuppone una costanza, una familiarità:
accostumarsi», ma anche «moltiplicare, ripetere, iterare», è omofono di xi
襲 «iterare, perpetuare, ripetere, trasmettere; conformarsi, adattarsi»,
lezione che figura in alcuni rami della vulgata ed è riscontrata anche nella
tradizione manoscritta. Xi 襲 , che compare in Laozi 27.8, indica, inoltre,
un’ampia veste, una sorta di mantello impiegato durante specifici rituali che
poteva anche riparare e proteggere il corpo dalle intemperie. Impiegata
come verbo, la parola xi 襲 significa «coprire, ammantare, occultare» e da
ciò discende il credito di cui gode la lezione adottata nell’edizione del Laozi
curata da Ye Mengde, ovvero chang 裳 «sottana, gonnellino» (indumento
che copre la parte inferiore del corpo) al posto di chang 常 «principio
costante, eterno»: xi chang 襲 裳 (vedi Lunheng 16.53.13) «occultare,
ammantare, celare [se stesso sotto spesse coltri]» appare, pertanto, ben piú
fondata soluzione rispetto a quella espressa dalla vulgata, che, tra l’altro,
emenda wei 謂 «definire, chiamare» per wéi 為 «essere, diventare».
Rinvio a GAO MING 1996 (pp. 78-79) e KIM HONGKYUNG 2012 (pp. 65-
66) per una disamina puntuale delle opzioni interpretative disponibili.
53 (MWD 16; BD 16)

1. 使我介然有知
2. 行於大道
3. 唯施是畏
4. 大道甚夷
5. 而民好徑
6. 朝甚除
7. 田甚蕪
8. 倉甚虛
9. 服文綵
10. 帶利劍
11. 厭飲食
12. 財貨有餘
13. 是謂盜夸
14. 非道也哉
1. Se solo avessi un grano di sapere
2. e il Grande Dao stessi percorrendo,
3. mio timore sarebbe soltanto di deviare da Esso, e vagare.
4. Agevole e livellato è il Grande Dao,
5. eppure ama, il popolo, solcare i tragetti.
6. Tanto linda è la corte,
7. quanto trascurati e incolti sono i campi,
8. e cosí vuoti, i granai.
9. [A ben vedere,] indossare abiti eleganti e sgargianti,
10. cingersi alla vita spade affilate,
11. rimpinguarsi di cibo fino alla nausea,
12. abbondare in beni e ricchezze,
13. [tutto ciò] dovrebbe dirsi «saccheggiare a man bassa»:
14. ben altro, rispetto al Dao!
Sono state formulate diverse opzioni interpretative del verso d’apertura,
soprattutto riguardo all’intendimento del senso di jieran 介然, avverbio cui
Heshanggong attribuisce il significato di «ampiamente, grandemente»,
l’esatto contrario di quanto colto da Wang Bi e altri commentatori, che
associano jie 介 a wei 微 «piccolo, minuto». Anche il v. 3 ha dato adito a
speculazioni di vario tipo nel tentativo di giustificare la presenza di shi 施
«agire, mettere in pratica» che ritroviamo nella vulgata, mentre la tradizione
manoscritta presenta alcune varianti che convergono comunque sulla
lezione ben piú solida yi 迆 (oppure 迤 ) «procedere in modo tortuoso,
serpeggiare, vagare», glossata da buona parte degli esegeti con xie 邪
«eterodosso, pericoloso, deviante, depravato» (XU KANGSHENG 1992, p.
27). Il senso della stanza 53 si calibra sulla contrapposizione tra il Grande
Dao (Da Dao 大道, vv. 2 e 4) – inteso come percorso di trasformazione e di
perfezionamento che conduce, nella dimensione dell’abbandono e del «non
adoperarsi» (wu wèi 無為), all’accettazione piena del decorso (dao 道) che
gli eventi e gli esseri seguono – e jing 徑 «tragetto», ovvero il sentiero,
stretto, non frequentato, la via traversa, non quella maestra – che si percorre
perché convinti cosí di abbreviare il cammino. Abbandonare il Grande Dao
e optare per scorciatoie solo apparentemente comode significa, in realtà,
smarrire se stessi e il senso autentico delle cose. Il percorso che s’identifica
con Da Dao è di per sé yi 夷 «agevole, appianato, livellato», proprio perché
percorrerLo richiede solo «abbandonarVisi», come si legge nel v. 4, che
trova riscontro in Laozi 41.8. Un’attitudine diametralmente opposta è
riscontrabile nel passo 7B.22 del Mengzi, dove si legge che basta poco
(jieran 介然) per far sí che un piccolo sentiero montano (shan jing 山 徑)
diventi a tutti gli effetti una strada (lu 路): è sufficiente percorrerlo, e se mai
i viandanti lo dovessero abbandonare ecco che le erbacce bloccherebbero il
transito e non sarebbe piú una «via». Questa metafora evoca la capacità
dell’uomo di aprire varchi che conducono a soluzioni alternative rispetto a
ciò che ci è dato secondo natura. Nel Laozi, al contrario, la via maestra è
dettata dalla capacità di adattamento e valorizzazione di ciò che è
incondizionato, auto-generato, spontaneo (ziran 自然): divergendo dal Dao,
si finisce irrimediabilmente per compromettere se stessi e la propria [non]
azione di governo, qualora fossimo mai chiamati a espletare tale somma
incombenza.
Dal v. 6 fino alla conclusione il testo mette in luce come l’attenzione per
gli agi e l’accumulo di beni da parte della corte e degli alti dignitari non
possa che ripercuotersi drammaticamente sul popolo, prostrato dalla miseria
a causa del malgoverno e delle guerre, che svuotano i granai e distolgono i
sudditi dal lavoro nei campi. La corte e il popolo sono, inevitabilmente, vasi
comunicanti: l’eccedenza dell’una è causa della miseria dell’altro, come
traspare dai vv. 9-13, secondo cui l’opulenza non dovrebbe essere guardata
con invidia da parte dei sudditi, poiché la ricchezza, lungi dall’essere un
«tragetto» per la felicità, è il risultato di sottrazioni indebite.
54 (MWD 17; BD 17)

1. 善建者不拔
2. 善抱者不脫
3. 子孫以祭祀不輟
4. 脩之身其德乃真
5. 脩之家其德有餘
6. 脩之鄉其德乃長
7. 脩之邦其德乃豐
8. 脩之於天下其德乃普
9. 故以身觀身
10. 以家觀家
11. 以鄉觀鄉
12. 以邦觀邦
13. 以天下觀天下
14. 吾何以知天下然哉
15. 以此
1. [Poiché] quel che è ben piantato non può essere strappato,
2. e quel che è ben abbrancato non può scivolare via,
3. figli e nipoti non cesseranno di celebrare i sacrifici [se a tali principî
fedeli saranno].
4. Lo si coltivi in sé, e renderà autentica la Possanza,
5. lo si coltivi in seno alla famiglia, e ne renderà abbondante la
Possanza,
6. lo si coltivi nel villaggio, e ne renderà duratura la Possanza,
7. lo si coltivi nello Stato, e ne renderà florida la Possanza,
8. lo si coltivi nel mondo, e ne renderà immensa la Possanza.
9. Esamina, dunque, te stesso partendo da te stesso,
10. la famiglia partendo dalla famiglia,
11. il villaggio, dal villaggio,
12. lo Stato, dallo Stato,
13. il mondo, dal mondo.
14. Come riesco, io, a sapere in che condizione versi il mondo?!
15. Da ciò!
Il contrasto tra questa stanza e il contenuto del Daxue, uno Sishu
(Quattro libri) della tradizione confuciana, è stato spesso evidenziato dai
critici, soprattutto in relazione alla «progressione» riscontrabile prima nei
vv. 4-8 e poi nei vv. 9-13, dove si rimarca come dall’attenzione verso la
propria persona (shen 身 ) si debba passare poi alla famiglia (jia 家 ), al
villaggio (xiang 鄉 ), allo Stato (bang 邦 ) e, infine, a ciò che sta sotto il
Cielo, ovvero il mondo intero (Tianxia 天 下 ). Il Daxue sottolinea la
necessità di adeguare e correggere partendo sempre dall’unità piú ridotta (il
soggetto, nella fattispecie) in vista del raggiungimento dell’armonia e della
pace dello stato; lo stesso schema è presente sia nel Mengzi (4A.6) che
nell’ode 69 dello Shijing. Il Laozi assume, invece, una prospettiva ben
distinta, che, in questo caso, non tocca la consequenzialità tra premesse e
conclusioni (vedi Laozi 64) ma si limita a negare la necessità di una
rispondenza di una determinata categoria a criteri esterni, come ribadiscono
anche il capitolo Mu min del Guanzi (1.5.1 e sg.) e il manoscritto intitolato
Dafen rinvenuto a Mawangdui, che recita: «Per quanto riguarda il regno,
prendi come misura il sovrano; per quanto riguarda la famiglia, prendi
come misura il padre» (cfr. YATES 1997, p. 67). Appare ben giustificata,
sulla base di ciò, la posizione espressa dal commentario di Yan Zun, che
interpreta i vv. 9-13 come un incoraggiamento a far sí che la propria
persona, la propria famiglia, il proprio villaggio, il proprio Stato diventino
dei modelli per quelli altrui, fermo restando che tra il Sovrano (il «Signore
degli uomini», renzhu 人主) e «ciò che sta sotto il Cielo, il mondo intero»
(Tianxia 天下) sussiste una piena rispondenza: il Sovrano è assimilato, non
a caso, al cuore (fuxin 腹 心 , qui inteso come «centro di comando»,
«fulcro») del regno, mentre il territorio che sottostà al suo dominio è il
«corpo fisico» (shenxing 身形) del Sovrano.
Il riferimento del sostituto anaforico zhi 之 nei vv. 4-8 è stato identificato
diversamente a seconda degli esegeti: Heshanggong ne rende esplicito il
contenuto riconducendolo al Dao, per cui è solo coltivandoLo che De 德
darà luogo a quegli esiti espressi dal testo; Wang Bi si attesta su una
posizione meno esplicita, legando zhi 之 ai principî espressi nei primi due
versi, che comunque evocano il Dao in quanto fondamento, pilastro cui
restare saldamente abbracciati.
Il testo si chiude con yi ci 以此 «con questo, grazie a ciò», che compare
anche in Laozi 57.5 e 21.1. Molto è stato scritto sul significato di questa
espressione: probabilmente s’intende con «ciò» (ci 此 ) un dato palese, la
cui evidenza è tale da rendersi comprensibile intuitivamente. Basterebbe
rivolgere al mondo uno sguardo vigile (guan 觀 ) e non viziato da
valutazioni di convenienza per fare come il Saggio, che senza sforzo alcuno
è in grado di penetrare il senso della realtà che si riduce, nella sua limpida
chiarezza, a dati immediati nella loro pura semplicità. Un’altra possibilità,
suffragata da Wang Bi, è che «con ciò» sia un richiamo a quanto
precedentemente espresso nella stanza, in particolare nei due versi
d’apertura.
55 (MWD 18; BD 18; GD A 17)

1. 含德之厚
2. 比於赤子
3. 蜂蠆虺蛇不螫
4. 猛獸不據
5. 攫鳥不搏
6. 骨弱筋柔而握固
7. 未知牝牡之合而全作
8. 精之至也
9. 終日號而不嗄
10. 和之至也
11. 知和曰常
12. 知常曰明
13. 益生曰祥
14. 心使氣曰強
15. 物壯則老
16. 謂之不道
17. 不道早已
1. Chi custodisce la pienezza della Possanza,
2. all’infante è pari,
3. che vespe, scorpioni, serpenti e vipere non piccano,
4. fiere non attaccano,
5. né rapaci ghermiscono.
6. Fragili e delicate ha l’ossa, molli e deboli i muscoli, ma salda è la sua
presa.
7. Seppur ignaro dell’unione tra maschio e femmina, i suoi genitali sono
già pronti all’atto,
8. poiché all’apice del vigore è la sua quintessenza;
9. seppur gridi tutto il dí, fioco non resta,
10. poiché è all’apice dell’armonia.
11. Avere contezza dell’Armonia significa ‘[Osservare con] Costanza [il
Dao]’,
12. avere contezza della Costanza [del Dao] significa ‘Essere Illuminato’,
13. [al contrario, sforzarsi di] accrescere la durata della vita, in un
‘Infausto Presagio’ si risolve,
14. e quando il cuore vuole indirizzare il soffio vitale[, disperdendolo,]
vuol dire ‘Irrigidirsi’.
15. Raggiunto l’apice del vigore, le cose declinano.
16. Ciò si dice ‘Contrario al Dao’,
17. e quel che contrario è al Dao, presto perisce.
Chizi 赤 子 (v. 2) è il neonato, l’infante ancora incapace di percepire
l’alterità tra sé e il mondo; l’espressione chizi si associa anche al «popolo»
in quanto «bambino» che il sovrano-genitore protegge e governa. Nelle
stanze 10 e 20 ritroviamo una simile esaltazione della figura dell’infante
che, come sottolinea Heshanggong, poiché è incapace di recare danno agli
esseri, di conseguenza si sottrae anche all’offesa altrui.
In corrispondenza del v. 7, vari commentatori hanno rilevato come quan
全 «integro, completo» sia, piuttosto, un prestito fonetico per juan 脧
«organi genitali infantili» (maschili, come rimarca GAO MING 1996, p. 94,
seppur altri critici ne lascino imprecisato il genere), lezione ampiamente
confermata dalla tradizione manoscritta. Wang Bi glossa zuo 作 «produrre,
creare; attivare» (v. 7) con chang 長 «maturare, crescere; essere maturo».
La risposta allo stimolo sessuale è, dunque, inconsapevole, poiché il
fanciullo, immagine della pienezza del vigore emanato dal Dao, esprime
una potenza latente che è in grado di riversarsi sul mondo attraverso atti
capaci di produrre effetti poderosi. Il riferimento alla «costanza», o
all’«eternità» (chang 常) nei vv. 11-12 è letto da Wang Bi come richiamo a
quello stato di equilibrio e stabilità tra posizioni estreme, «né chiaro né
scuro, né caldo né freddo», tipico di ciò che è informe e impercettibile
(ovvero il Dao): la «costanza», in tal senso, denota una permanenza nel
tempo dovuta proprio al distanziarsi dalla nettezza di limiti che, una volta
raggiunti, non possono che determinare un trapasso, una «morte» (v. 15).
Non «muore», invece, ciò che si mantiene in un costante equilibrio basato
sull’incompiutezza, la flessibilità, l’indeterminazione.
Il v. 12 è ripreso nella stanza 16 del Laozi e consolida l’idea che il
raggiungimento dell’illuminazione (ming 明) s’identifichi con l’esperienza
di adesione ai principî costanti su cui il Dao si fonda.
Il senso dell’espressione yi sheng 益生 «aumentare, accrescere la vita»
(v. 13) può indicare sia il tentativo di potenziare l’estensione della propria
esistenza che quello di eccedere nel godimento dei piaceri. In entrambi i
casi si corre il rischio di andare incontro a una morte prematura (yao 夭).
Nel verso successivo, Heshanggong gioca sul contrasto tra un xin 心
«cuore, mente» capace di lasciare che i flussi di energia vitale (qi 氣 )
armoniosamente pervadano il corpo affinché questo si mantenga rou 柔
«morbido, flessibile», e la dispersione di energia vitale prodotta da
un’ostinazione cieca, costrittiva (qiang 強) che imbriglia il fisico al punto
da renderlo gang 剛 «duro, inflessibile». Non è un caso che in Laozi 76.5-6
la coppia jian-qiang 堅 強 («duro, solido» e «forte, vigoroso, rigido»)
definisca i «compagni della morte» mentre rou-ruo 柔 弱 («flessibile,
docile, molle» e «delicato, debole») identifichi i «compagni della vita».
Qiang 強 esprime sia il grado di forza, o meglio di «costrizione» imposta
nel compimento di un’azione, sia l’irrigidimento di un corpo che si dissecca
nell’esaurire la propria potenza vitale, le proprie risorse.
I due versi conclusivi trovano eco nella stanza 30.
56 (MWD 19; BD 19; GD A 15)

1. 知者不言
2. 言者不知
3. 塞其兌
4. 閉其門
5. 挫其銳
6. 解其分
7. 和其光
8. 同其塵
9. 是謂玄同
10. 故不可得而親
11. 不可得而疏
12. 不可得而利
13. 不可得而害
14. 不可得而貴
15. 不可得而賤
16. 故為天下貴
1. Colui che sa, non parla,
2. colui che parla, non sa.
3. Le loro entrate blocca,
4. le loro porte serra,
5. le loro asperità ottunde,
6. i grovigli dipana,
7. ne attenua il bagliore,
8. le disperse polveri raduna:
9. ciò si definisce ‘Arcana Comunanza’.
10. Sicché, seppur non vi sia modo d’entrare in intimità con Esso,
11. in fondo, neppure si riesce a scansarLo;
12. non v’è modo di favorirLo,
13. e, in fondo, neppure di danneggiarLo;
14. non v’è modo di onorarLo,
15. e, in fondo, neppure di denigrarLo.
16. Ecco perché tutti sotto il Cielo Lo onorano.
«Colui che davvero dimostra di sapere», recita il commentario di
Heshanggong, «dà valore alle azioni, non alle parole». Wang Bi interpreta
la stanza in questione dalla prospettiva del Sovrano Illuminato, oscuro
protagonista che, occultandosi e tacendo, riduce i motivi di conflitto tra il
popolo e governa in modo che ognuno conservi la propria natura piú pura.
Egli si sovrappone al Dao, immedesimandosi con Esso, incarnandoLo, al
punto che l’inavvicinabilità e l’inviolabilità chiamate in causa nei vv. 10-16
valgono per entrambi: tanto il Dao quanto il Sovrano sono onorati (v. 16) in
quanto imprecisati punti verso cui tutto converge. Nella stanza 52 già erano
comparsi i vv. 3-4, mentre i vv. 5-9 figurano nella stanza 4.
Uno dei piú circostanziati approcci ermeneutici relativi alla «Arcana
Comunanza», o «Arcana Identità» (xuan tong 玄 同 , v. 9) deriva dal
commento di Wu Cheng al Laozi, che riscontra nei vv. 3-9 l’indicazione a
rispondere opportunamente alle sollecitazioni esterne e a vivere nel mondo
assecondando, di volta in volta, le propensioni che le cose rivelano: solo
cosí sarà possibile conseguire la vera armonia.
57 (MWD 20; BD 20; GD A 16)

1. 以正治國
2. 以奇用兵
3. 以無事取天下
4. 吾何以知其然哉
5. 以此
6. 天下多忌諱
7. 而民彌貧
8. 民多利器
9. 國家滋昏
10. 人多伎巧
11. 奇物滋起
12. 法物滋彰
13. 盜賊多有
14. 故聖人云
15. 我無為而民自化
16. 我好靜而民自正
17. 我無事而民自富
18. 我無欲而民自樸
1. A governare il regno, correttezza e conformità son d’uopo,
2. misure straordinarie nell’utilizzare le armate,
3. distacco per conquistare tutto sotto il Cielo.
4. Come faccio, io, a sapere che cosí è?
5. Da ciò:
6. sotto il Cielo, piú si moltiplicano divieti e proibizioni,
7. e piú la miseria aumenta tra il popolo;
8. piú tra il popolo si diffondono armi ben affilate,
9. e piú il paese si smarrisce nel trambusto;
10. piú tra la gente aumentano talento e destrezza,
11. e sempre piú strumenti curiosi sorgeranno;
12. piú leggi saranno emanate,
13. piú cresceranno banditi e ladri.
14. Sicché, cosí riportano le parole del Saggio:
15. «Io non m’adopero, e il popolo da sé si trasforma;
16. La tranquillità e la quiete prediligo, e il popolo da sé si corregge;
17. Incurante degli obblighi sono, e da sé il popolo s’arricchisce.
18. Desideri non nutro, e il popolo da sé ritrova la semplicità, ruvida, del
ceppo».
La stanza prende avvio mettendo di fronte le categorie zheng 正
«corretto, ortodosso, ordinario» (v. 1) e qi 奇 «atipico, curioso, anomalo,
straordinario» (v. 2). Nei testi di strategia militare, e nel Sunzi bingfa in
particolare (5.4.13-16, 7.7.19, 11.12.13), l’espressione qi zheng 奇 正 si
riferisce a strategie «non convenzionali, eccezionali, non ortodosse» (qi) e a
pratiche convenzionali, «ortodosse» (zheng) nella conduzione delle
operazioni belliche. Ogni valutazione di carattere etico è esclusa, proprio
perché, almeno in ambito militare, qi accomuna aspetti «non
convenzionali», anomali, quali, ad esempio, incursioni improvvise,
imboscate e approcci strategici fondati sull’inganno e la sorpresa, mentre
zheng definisce prassi militari «dirette», quali attacchi frontali e le piú
consuete misure difensive. Il Laozi, alla luce di questa e, in modo forse
ancora piú pertinente, di altre stanze, è stato accostato fin dall’antichità alla
trattatistica di natura strategico-militare, come dimostra l’opera di Wang
Zhen che sotto i Tang scrisse il Daodejing lunbing yaoyishu (Daozang
713.13.631), un commentario al Laozi presentato all’imperatore Xianzong
(r. 806-20) nel quale l’opera era presentata come un manuale di arte della
guerra (ANDREINI 2013a; MUKAI 1994; RAND 1979-80; WANG MING 1984).
Si è visto nel saggio introduttivo quanto riduttivo possa rivelarsi ogni
tentativo di classificazione univoca del Laozi sotto un determinato
«genere»: per quanto sia vero che il testo in alcuni punti contempli l’uso
delle armi, è palese come alcune stanze manifestino un atteggiamento
diametralmente opposto, soprattutto, come si legge nella stanza 57, in
relazione alla necessità da parte del Sovrano di limitare non solo la
diffusione, ma anche la sola esibizione delle armi, in modo da scoraggiarne
l’uso presso il popolo.
In quanto «arte della dissimulazione» (bingzhe gui dao ye 兵者詭道也,
Sunzi bingfa 1.1.16) la guerra è forse lo scenario che meglio di ogni altro dà
luogo a un ribaltamento radicale delle dinamiche in gioco. Come nel caso di
altri binomi contrastivi che si fondano sull’opposizione tra termini
complementari (yin yang 陰 陽 ; shang xia 上 下 «sopra e sotto», ovvero
«superiori e inferiori»; ben mo 本 末 «radice e rami», ovvero «elemento
fondamentale ed elemento accessorio, marginale»; gui jian 貴賤 «nobile e
ignobile, vile», e molti altri ancora), anche tra zheng e qi sussiste un legame
dinamico di mutua definizione e, a seconda dei contesti in cui vengono
impiegati, essi si caratterizzano in modo differente: nell’uso tecnico dei
manuali di strategia militare, a zheng «regolare», «corretto», «usuale»,
«d[i]ritto», viene preferito il suo contrario qi «straordinario», «bizzarro»
(rinvio al v. 11, dove la produzione di oggetti curiosi, qiwu 奇物, diventa
fattore destabilizzante a seguito di un’impropria applicazione del talento
umano che genera artefatti fasulli), «anomalo», poiché è spesso l’adozione
di misure «non convenzionali» che consente di giungere alla vittoria, fermo
restando che «zheng traligna in qi» (Laozi 58.9).
L’incipit, sotto un’altra prospettiva, non può che ricordare il passo 12.17
del Lunyu in cui l’assonanza e la somiglianza grafica tra zheng 政
«governare, mettere in pratica una politica di buon governo» e zheng 正
«correggere, rettificare» si risolve nell’equazione secondo cui «mettere in
pratica una politica di buon governo significa rettificare, correggere»
(zhengzhe zheng ye 政者正也).
Il contenuto dei vv. 6-18 si riallaccia a temi affrontati altrove nell’opera,
come ad esempio nelle stanze 19 e 37: attraverso la diffidenza nei confronti
delle leggi, delle armi, dell’acume e del talento, il testo sembra incoraggiare
il Sovrano a sposare una linea di governo capace di portare il popolo a
correggere se stesso guardando non alle norme giuridiche emanate dagli
uomini ma al Cielo, al Dao: come recita il commentario di Heshanggong,
«nel coltivare il Dao, il saggio accetta la volontà del Cielo; Egli non si
ripropone di cambiare alcunché, e proprio per questo motivo il popolo da sé
si trasforma». Wang Bi non si discosta da quanto appena espresso,
ribadendo come «i divieti, pensati per porre fine alla miseria, finiscono per
farla crescere; l’utilizzo delle armi, inteso per rafforzare lo Stato, fa sí che,
invece, esso s’indebolisca e venga gettato nel caos: a ciò porta il voler
curare i rami (mo 末) a scapito delle radici (ben 本)». Nel verso conclusivo
il riferimento a pu 樸 «il ciocco grezzo e ruvido, il ceppo non intagliato»
esprime la naturale e immacolata purezza del Dao, perfetto in quanto non
intaccato dal lavoro dell’uomo, che tende invece a imporre un’azione
arbitraria che è lesiva delle qualità originarie di tutte le cose.
58 (MWD 21; BD A)
21-22

1. 其政悶悶
2. 其民淳淳
3. 其政察察
4. 其民缺缺
5. 禍兮福之所倚
6. 福兮禍之所伏
7. 孰知其極
8. 其無正
9. 正復為奇
10. 善復為妖
11. 人之迷
12. 其日固久
13. 是以聖人方而不割
14. 廉而不劌
15. 直而不肆
16. 光而不燿
1. Oscuro e torbido governo,
2. rende puro e sincero il popolo;
3. governo attento e vigile,
4. rende il popolo furbo e malizioso.
5. Ah, la disgrazia, da cui la buona sorte dipende!
6. Ah, la buona sorte, che la disgrazia cela!
7. Chi può intendere di ciò le conseguenze estreme?
8. Poiché non v’è correttezza certa,
9. correttezza traligna in ‘anomalia’,
10. e bontà in ‘maleficio’.
11. Quest’illusione che gli uomini stordisce,
12. di certo, da lungo tempo perdura.
13. Il Saggio, dunque, come il quadrato fa, [che ben delimita] senza
recidere [quel ch’è attorno],
14. come l’angolo, aguzzo, ma senza piccare,
15. dritto e sincero, ma con moderazione,
16. e lucente, senza abbagliare.
Il termine men 悶 – il cui raddoppiamento ne intensifica il valore – nel v.
1 significa «malinconico, triste» e rinvia a «coperto, cupo, tetro, fosco»,
ovvero, nel contesto specifico di questa stanza, a una politica di governo
(zheng 政 ) che si rende occulta e indecifrabile (ovvero fan 煩 «confuso,
mischiato, torbido», come viene glossato men 悶 nel Chuci). L’uso di que
que 缺缺 «rompere, rotto, disunito», ma anche «manchevole, incompleto»,
nel v. 4 ha dato adito a differenti letture. GAO MING 1996 (p. 109) accoglie
l’indicazione di Gao Heng nel ricondurre que 缺 a kuai 獪 «furbo, astuto»,
ovvero jiaozha 狡 詐 «astuto, furbo, scaltro, malizioso». Il Lüshi Chunqiu
(29.1) associa il contenuto dei vv. 5-6 a «verità» di cui solo il saggio è in
grado di comprendere il senso, che è precluso, invece, alla massa.
Nei vv. 13-16 si assiste a una traslazione metaforica da qualità fisiche a
valenze comportamentali – piú che morali – con le seguenti implicazioni:
13: fang 方 «quadrato, ben delimitato, ben circoscritto; regola fissa,
costante», significa anche «onesto, retto» e contrasta con ge 割 «tagliare,
tranciare, recidere», ossia «ledere gli esseri trattandoli con arbitrio e
violenza»; quindi «deciso e misurato-corretto, senza però tagliare-ledere
le creature»;
14: lian 廉 «angolo, spigoloso, dritto» e, in senso figurato, «probo, retto,
integro», anche «frugale, sobrio»; lian si oppone a gui 劌 «ferire,
offendere, tagliare» (HSG legge hai 害 «danneggiare, ledere»);
15: zhi 直 «diritto», ossia «sincero, franco, diretto», che contrasta con si 肆
«estendere, far mostra di…, violare, offendere»: quindi, «diretto e franco,
mantenendo però il giusto riguardo verso gli altri»;
16: guang 光 «brillante, luminoso», riferito anche all’intelletto o alla
«gloria», che eccede fino a yao 燿 «abbagliare».
59 (MWD 22; BD 22B; GD B 1)

1. 治人事天莫若嗇
2. 夫唯嗇是謂早服
3. 早服謂之重積德
4. 重積德則無不克
5. 無不克則莫知其極
6. 莫知其極可以有國
7. 有國之母可以長久
8. 是謂深根固柢
9. 長生久視之道
1. Per governare sugli uomini e servire il Cielo, nulla vale piú della
parsimonia.
2. È, dunque, solo in virtú della parsimonia che presto [al Dao] ci
accostumiamo.
3. ‘Accostumarsi presto’ si dice ‘Continuo accumulo di Possanza’,
4. e se continuo sarà l’accumulo di Possanza, nulla al nostro dominio si
sottrarrà.
5. Quand’è cosí, ignoto diventerà il limite cui potremo spingerci,
6. e, ignari del limite cui spingerci, potremo prendere possesso del regno:
7. detenere la ‘Madre’ per entrare in possesso del regno consentirà,
infine, di vivere a lungo.
8. Ciò è detto ‘piantare radici profonde e rinforzare il tronco’.
9. È questa l’arte per allungare la vita, fino a godere di veneranda età.
Nei vv. 2 e 3, fu 服 «sottomettersi, servire, adattarsi, accostumarsi»,
«abituarsi a elaborare risposte confacenti alle circostanze», è sostituito in
alcune edizioni da fu 復 «ritornare» (o fu 复 «ripercorrere lo stesso
cammino già fatto», mentre per Heshanggong fu 服 ha il significato di de
得 «conseguire, ottenere»), lezione che non riteniamo sia sufficientemente
fondata. La comprensione del termine se 嗇 nei vv. 1 e 2 è fondamentale per
chiarire il messaggio della stanza: se 嗇 indica «accumulare grano,
parsimonia, risparmio, essere austero, frugale», fino quasi a lambire
l’avarizia, «guardare e custodire gelosamente». Numerosi studiosi colgono
nel testo un’allusione alla priorità da assegnare alle attività agricole nella
politica di governo; altri commentatori sostengono, invece, che il senso sia
da rintracciare nella necessità di non dissipare ciò di cui si dispone, in
particolare la propria Virtú originaria e le energie psicofisiche. Wang Bi è
tra quelli che rimarcano l’assonanza e la vicinanza grafica tra se 嗇
«parsimonia, frugalità; risparmiare, fare economia» e se 穡 «coltivare la
terra», arrivando a tracciare un parallelo tra il Saggio Sovrano e
l’agricoltore, che, per ottimizzare le proprie energie e non disperdere
risorse, «risparmia» indirizzando la propria attenzione su una precisa specie
di pianta, tralasciando le altre. Il buon coltivatore, sempre stando a Wang
Bi, non si preoccupa tanto di estirpare le erbacce, ma di rimuovere
definitivamente le cause che potrebbero compromettere le messi, lasciando
intendere che il Sovrano Illuminato crea le condizioni perché il disordine e
la violenza non attecchiscano. Li Xizhai (XII secolo), autore del Daode
zhenjing yijie, scrisse che la parsimonia rappresenta il principio cardine sia
nell’attuare la politica di governo che nel rispettare le volontà del Cielo:
non v’è cosa che a essa non si rapporti, poiché funge da nota di riferimento
per accordare tutte le altre. Consente di essere prudenti e guardinghi, di
soddisfare in modo confacente le richieste del cuore e del corpo, affinché in
una condizione di quiete e di assenza di turbamenti il soggetto possa infine
accogliere ed esercitare appieno la Possanza, De 德. A quel punto, nulla gli
si opporrà mai.
Il riferimento alla Madre (mu 母) in rapporto al possesso del regno è da
leggersi come richiamo al dominio di abilità (shu 術 ) che derivano dalla
comprensione della causa prima – ovvero il Dao in quanto «Madre» – da
cui tutto discende e dall’agire in conformità con il principio originario, la
«radice» (ben 本, o gen 根, come leggiamo nel v. 8). GAO MING 1996 (p.
117) offre un’ampia panoramica delle chiavi ermeneutiche offerte dai vari
studiosi che corroborano questa soluzione. La «Madre», forza che nutre gli
esseri e colonna grazie a cui ogni cosa trae sostegno, può anche indicare «la
componente principale, la piú importante, la cosa piú grande» (in
contrapposizione a zi 子 «figlio»). WALEY 1954 (p. 213) è pressoché isolato
nell’intendere zhi 之 come verbo di moto «dirigersi verso la Madre» (zhi
mu 之母) anziché congiunzione di determinazione.
60 (MWD 23; BD 23)

1. 治大國若烹小鮮
2. 以道莅天下其鬼不神
3. 非其鬼不神
4. 其神不傷人
5. 非其神不傷人
6. 聖人亦不傷人
7. 夫兩不相傷
8. 故德交歸焉
1. Se ben governare un grande regno [non comporta intervento e] simile
è a cuocere pesciolini,
2. figurarsi amministrare tutto ciò che sta sotto il Cielo seguendo il Dao,
che porterebbe persino gli spiriti a non manifestare i propri poteri
numinosi.
3. In verità, non è che davvero rinuncerebbero ai propri poteri numinosi:
4. tali poteri, piuttosto, danno non recherebbero agli uomini.
5. Se mai i poteri numinosi [degli spiriti] agli uomini piú non dovessero
nuocere,
6. il Saggio, pure, ragioni non avrà di nuocere agli uomini.
7. Evitando di nuocersi a vicenda [tanto gli spiriti e gli uomini che questi
e il Saggio],
8. il Merito di ognuno, a quello altrui aggiunto, su tutti ricade.
Li Xizhai intende i primi due versi come una conferma del fatto che il
Saggio amministra il potere con estremo agio, garantendo sicurezza e pace
senza sforzo alcuno, al pari di chi, volendo cuocere dei pesciolini, evita di
rimuoverne le scaglie e si limita a metterli sul fuoco, senza rimescolarli, né
agitarli, perché altrimenti ne farebbe poltiglia. Wang Bi, Heshanggong e lo
Han Feizi (20.20.4-5) sono concordi nell’attestarsi su questa linea
ermeneutica, evidenziando come pacatezza, senso della misura e un’azione
di governo non invasiva siano fondamentali per migliorare le condizioni del
popolo, al quale vanno risparmiati incessanti revisioni dei dispositivi
giuridici e sanzioni penali severe.
Secondo Heshanggong, gli spiriti (gui 鬼, sia i genii loci che gli spiriti
dei defunti) e i loro poteri numinosi (shen 神 ) sono evocati nei vv. 2-5 in
quanto emblemi dell’universo yin 陰 , mentre i vivi dimorano nella
dimensione yang 陽 del mondo: i due ambiti, seppur contigui, vanno tenuti
ben distinti e, come rimarca Wang Bi, gli spiriti non avrebbero motivo
d’irrompere nel dominio umano se la condizione di spontaneità naturale
(ziran 自 然 «cosí-come-è») non fosse stata drammaticamente messa a
soqquadro. La manifestazione dei poteri numinosi degli spiriti deve restare
confinata all’interno del mondo sottile, perché altrimenti saranno il popolo,
il Sovrano e l’intero regno a pagarne le conseguenze.
Il v. 6 compare in almeno tre diverse stesure: quella qui presentata,
condivisa da buona parte delle edizioni trasmesse a stampa; quella della
versione di Heshanggong, che si limita a «il Saggio, pure, non nuoce»
(Shengren yi bu shang 聖人亦不傷), pressoché unanimemente intesa come
priva dell’oggetto ren 人 «gli uomini» dopo il verbo shang 傷, senza per
questo essere interpretata come frase passiva del tipo «Il Saggio, pure, non
viene leso, ferito», nel senso che non subisce danno; infine, quella
riconducibile alla tradizione manoscritta, nello specifico BD e MWD, che
riportano Shengren yi fu shang 聖 人 亦 弗 傷 «Il Saggio, pure, non nuoce
loro», lasciando imprecisato il contenuto dell’oggetto, che potrebbe
identificarsi tanto con gli spiriti che con il popolo. La presenza della
congiunzione di coordinazione yi 亦 nel v. 6 depone, stando a LIU XIAOGAN
2006 (vol. I, p. 578), a favore della seconda soluzione, ricalcando cosí la
vulgata. Tuttavia, rileva sempre Liu Xiaogan, l’avverbio di reciprocità
xiang 相 nel v. 7 lascia in dubbio se il testo neghi il reciproco danno tra il
Saggio e il popolo, oppure tra il Saggio e gli spiriti, sebbene quest’ultima
eventualità appaia piú solida (come è reso esplicito dal commentario di
Heshanggong).
Una chiave interpretativa conciliatoria tra le posizioni appena esposte
viene dallo Han Feizi (20.21.3-6), che contempla l’esistenza di una «doppia
coppia» (liang 兩 , v. 8) di relazioni: il compimento del buon governo
determina che i superiori (ovvero il Saggio) e il popolo non si rechino
reciproco danno e che lo stesso avvenga tra il popolo e gli spiriti.
Per quanto concerne jiao 交 (v. 8), che compare anche nella stanza
successiva (vedi Laozi 61), siamo di fronte a un termine che fornisce un
apporto decisivo nell’economia dell’intera stanza: esso significa
«mescolarsi, unirsi, congiungersi, entrare in contatto, in intimità» e
contribuisce a esaltare l’impatto straordinario dell’esibizione delle debite
forme di Possanza (De 德) da parte degli uomini, degli spiriti e del Saggio
nei rispettivi dominî di appartenenza. Piú che di «unione», in questo caso
meglio sarebbe parlare di «convergenza», «somma» di atti virtuosi che
amplificano il proprio impatto nel mondo. Nel caso specifico, si è ritenuto
piú consono tradurre de 德 con «Merito» (qui preferito a «Possanza» o
«Potenza»), dato che si tratta di una delle accezioni piú caratterizzanti del
termine. Dar prova di autentica Possanza significa vantare il merito di
godere «immeritatamente» di un dono che schiaccerebbe il suo detentore se
solo avesse piena contezza dell’entità del debito contratto: esserne
consapevoli porta a prediligere la misura, la compostezza, la mansuetudine,
la devozione verso il Dao; esserne ignari – meglio ancora – significa aderire
totalmente al Dao, vivere in balia di Esso. Uomini, spiriti e Saggi sono
chiamati a esercitare le proprie facoltà peculiari senza prevaricazione alcuna
e il loro merito consiste proprio nell’abbandonarsi a ciò che essi sono
secondo natura.
61 (MWD 24; BD 24)

1. 大國者下流
2. 天下之交
3. 天下之牝
4. 牝常以靜勝牡
5. 以靜為下
6. 故大國以下小國則取小國
7. 小國以下大國則取於大國
8. 故或下以取
9. 或下而取
10. 大國不過欲兼畜人
11. 小國不過欲入事人
12. 夫兩者各得其所欲
13. 大者宜為下
1. Basso come il letto del fiume è un grande regno:
2. è il luogo ove tutto confluisce,
3. [assume il ruolo del]la Femmina di tutto ciò che sta sotto il Cielo.
4. La Femmina sempre sopraffà il Maschio in virtú dell’inerzia.
5. Inerte, s’abbassa.
6. Sicché, solo abbassandosi di fronte a un piccolo regno quello grande
lo conquisterà,
7. e un piccolo regno, nell’abbassarsi di fronte a uno grande, sarà
conquistato.
8. Dunque, o ci si abbassa per conquistare,
9. o per essere conquistati.
10. Un grande regno vuol giusto annetterne altri, e prendersi cura dei loro
abitanti,
11. quello piccolo vuol giusto essere annesso, e altri servire.
12. Ma perché entrambi ottengano ciò che piú vogliono,
13. opportuno è che sia quello grande ad abbassarsi.
Il periodo in cui il Laozi fu composto si contraddistinse per
un’altalenante dinamica tra grandi e piccoli regni in lotta tra loro. Qui
l’autore mette in luce la necessaria complementarità tra realtà politico-
militari di diversa portata, da integrare in un orizzonte che prevede un
riconoscimento reciproco dei ruoli, esemplificato dal rapporto Femmina-
Maschio. Un grande regno accoglie in sé, come il letto di un fiume (xialiu
下流), le acque che docili vi si riversano (v. 1). La sua capacità «ricettiva» è
tipicamente femminina: come riporta Heshanggong, esso assorbe, accoglie
indiscriminatamente; è remissivo, umile, non esercita alcun comando, non
si pone alla testa.
L’espressione xialiu «letto del fiume» compare due volte nel Lunyu
(17.24 e 19.20) e a essa viene associato un luogo che, diversamente da
quanto affermato nel Laozi, la persona esemplare disdegna.
Nel commentario di Wu Cheng si legge che la femmina è attendista, non
fa il primo passo, che invece è il maschio a compiere e, in tal modo, si
espone al rischio (ovvero alla «perdita», alla sconfitta, shi 失). Attendere, al
contrario, significa «ottenere, guadagnare» (de 得 ), ovvero mostrarsi
deferenti, inerti, abbassarsi (xia 下, come leggiamo nella presente stanza del
Laozi). Evitando di ostentare la propria superiorità, un grande regno potrà
assicurarsi lo spontaneo sostegno dei piccoli stati, i quali, ben lieti di
palesare la propria «inferiorità», si predispongono a godere cosí della
generosità dei loro conquistatori.
La sintassi del v. 7 risulta compromessa nella vulgata a seguito
dell’assenza della preposizione 於 che introduce il complemento d’agente,
da guo 大 國 «grande regno». La tradizione manoscritta, cosí come
l’edizione del testo di Fu Yi, contempla, invece, la presenza della suddetta
preposizione, che riteniamo debba essere reintrodotta.
62 (MWD 25; BD 25)

1. 道者萬物之奧
2. 善人之寶
3. 不善人之所保
4. 美言可以市
5. 尊行可以加人
6. 人之不善何棄之有
7. 故立天子置三公
8. 雖有拱璧以先駟馬
9. 不如坐而進此道
10. 古之所以貴此道者何
11. 不曰以求得有罪以免耶
12. 故為天下貴
1. Il Dao è, dei Diecimila Esseri, sacrario:
2. tesoro dei buoni,
3. protezione dei malvagi.
4. Vero è che un eloquio forbito bene si vende,
5. e che azioni lodevoli sopra gli altri ci pongono,
6. ma, in fondo, perché respingere coloro in cui, almeno sembra, bontà
non alberga?
7. Pertanto, quando il Figlio del Cielo assume il potere e i Tre Duchi
entrano in carica,
8. anziché esibire ampi dischi di giada e predisporre cortei di quadriglie,
9. meglio sarebbe non scomodarsi e, stando seduti, offrirLo in dono, il
Dao.
10. Perché mai gli antichi tanto Lo apprezzavano, il Dao?
11. Non dicevano, forse che, bontà Sua, ‘Chi cerca, trova’, e ‘Ogni
macchia si cancella’?
12. Per questo da tutti sotto il Cielo è onorato.
Ao 奧, nell’incipit, denota l’area sud-occidentale di una dimora, ovvero
quella piú importante (da cui deriva l’adozione della variante zhu 注 (主)
«padrone, elemento fondamentale, Sovrano, Signore» in MWD), essendo
anche il luogo piú tranquillo dove il padrone risiede, in cui si celebrano i
sacrifici alle divinità e agli spiriti. Per estensione semantica, ao si riferisce
anche a quello spazio recondito, «interno», silenzioso, appartato, oscuro ai
piú, e pertanto «segreto e inaccessibile». Wu Cheng specifica come ao
identifichi lo spazio degno della piú alta considerazione. La struttura
dell’area sacrificale ancestrale si componeva di una sala esterna e di una
camera interna, il cui angolo sud-occidentale era appunto chiamato «ao»:
qui gli spiriti soggiornavano. Data la natura del suo complesso riferimento,
ao rinvia al «sacrario», o al «penetrale», ovvero alla dimensione piú interna
e recondita della dimora e del tempio, che accoglieva i simulacri dei penati
e delle divinità e che ispirava la piú sentita forma di devozione. Accogliamo
la lettura del v. 3 di Su Che, secondo cui solo il Saggio è in grado di
rintracciare e riconoscere lo spazio sacro che è ao, mentre lo stolto ne è
incapace: nonostante ciò, non v’è cosa che il Dao non protegga, poiché
Esso mai abbandona il popolo. È il popolo, piuttosto, che abbandona
sovente il Dao, come osservato da Wang Bi e da Wang Anshi, che rilevano
come il Dao sia la dimora dei buoni e che gli empi, se mai volessero
cercarlo, seguendoLo riuscirebbero, se non altro, a evitare severe punizioni.
Un numero ristretto di codici rinvenuti a Dunhuang contempla l’avverbio
bu 不 dopo il verbo bao 保 «proteggere», lezione che non riteniamo debba
essere accolta.
Il senso dei vv. 4-6 varia sensibilmente a seconda dei commentatori. Lu
Xisheng e l’imperatore Xuanzong si allineano con Heshanggong e Cheng
Xuanying nell’interpretare le «belle parole» (mei yan 美 言 ) e le «azioni
lodevoli» (zun xing 尊 行 ) come espressioni della vuotezza propria di una
mondanità che nulla ha a che vedere con il Dao, ragion per cui coloro che
vengono definiti privi di bontà e di talento non è detto che, in fondo, siano
davvero degni di biasimo. Wang Bi, Su Zhe e Fan Yingyuan sono invece
orientati verso l’individuazione di un oggetto implicito, il Dao, che viene
esaltato a parole e celebrato con atti meritori e che, in virtú di ciò, diventa
incontrastato oggetto di devozione. Tale lettura ci pare meno fondata della
precedente. Il v. 6 si presta a essere inteso anche «In fondo, perché mai
rifiutare ciò che gli altri disprezzano?»
I «Tre Duchi» (san gong 三 公 ) menzionati nel v. 7 s’identificavano,
durante l’epoca Zhou, con il «Grande Maestro», il «Grande Precettore» e il
«Grande Tutore del Principe Ereditario»; sotto la dinastia Han,
l’espressione si associa ai ministri della Guerra, dei Lavori pubblici e
dell’Istruzione.
Con gongpi 拱 璧 (v. 8) si vuole indicare un oggetto rituale altamente
pregiato, un ampio disco di giada che, per essere esibito, richiederebbe di
essere cinto con entrambe le braccia (gongbao 拱抱). Sempre nel v. 8, xian
先 «precedere» (talora anche «seguire»), andrebbe emendato con shen 駪,
ovvero un «corteo» di cavalli, come rimarca GAO MING 1996 (p. 130).
63 (MWD 26; BD 26; GD A 8)

1. 為無為
2. 事無事
3. 味無味
4. 大小
5. 多少
6. 報怨以德
7. 圖難於其易
8. 為大於其細
9. 天下難事必作於易
10. 天下大事必作於細
11. 是以聖人終不為大
12. 故能成其大
13. 夫輕諾必寡信
14. 多易必多難
15. 是以聖人猶難之
16. 故終無難矣
1. Agisci senza adoperarti,
2. con distacco le mansioni assolvi,
3. il palato delizia con ciò che è insapore,
4. guarda al piccolo come se fosse grande,
5. alla penuria come se abbondanza fosse,
6. ripaga il malanimo con magnanima Virtú,
7. sulle difficoltà pondera finché sono facili da sbrogliare,
8. intervieni su ciò che è grande a partire dalle minute inezie.
9. Le difficoltà, sotto il Cielo, da cose facili saranno pur sorte,
10. quel che è grande, sotto il Cielo, da minute inezie sarà pur sorto.
11. Il Saggio, dunque, mai interviene su ciò che già è grande,
12. riuscendo, cosí, a portarne a compimento la grandezza.
13. Promesse facili, da pochi saranno credute;
14. chi tutto fa semplice, solo difficoltà dovrà affrontare.
15. Poiché il Saggio ogni cosa affronta come se ardua fosse,
16. difficoltà, alla fine, non incontra.
L’invito a deliziare il palato con ciò che è insapore (wu wei 無味, v. 3) si
riallaccia a quanto già espresso in 35.4, dove si afferma che il Dao è,
appunto, «insipido» (dan 淡), «senza sapore» (wu wei 無味): non essendo
un «ente» ma identificandosi con il principio che determina la condizione
passata, presente e futura di ogni cosa, ecco che il Dao è privo di
connotazioni specifiche, poiché, se mai le possedesse, sarebbe una realtà
finita, limitata. I vv. 4-5 si prestano a diverse letture: Wang Bi lega grande,
piccolo, poco e molto (da xiao duo shao 大小多少) alle diverse forme di
risentimento e malanimo (v. 6), come fa anche Fan Yingyuan; Heshanggong
rileva come il testo, invece, risponda alla logica secondo cui quanti
desiderano la grandezza devono farsi «piccoli» e quanti ambiscono ad
accumulare devono iniziare da ciò che è ridotto in numero.
Il principio esposto nel v. 6 è contraddetto nel passo 14.36 del Lunyu per
bocca di Confucio, il quale, alla richiesta di esprimersi sull’adagio «Si
ricambi il rancore con la magnanimità», rispose che al rancore si risponde
con la rettitudine e alla magnanimità con la magnanimità.
Il contenuto dei vv. 7-12 è ulteriormente sviluppato nella stanza
successiva. La chiave di lettura qui proposta dei vv. 11-12 non s’identifica
tanto con l’idea che il Saggio eviti di affrontare grandi imprese, ma che
Egli, consapevole di come l’approccio iniziale condizioni l’esito, interviene
sulle cose fintantoché sono malleabili, modificabili, limitandosi a
indirizzarle verso la realizzazione piena di ciò che piú le contraddistingue.
64 (MWD 27; BD 27, 28; GD A 6, A 14, C 5)

1. 其安易持
2. 其未兆易謀
3. 其脆易泮
4. 其微易散
5. 為之於未有
6. 治之於未亂
7. 合抱之木生於毫末
8. 九層之臺起於累土
9. 千里之行始於足下
10. 為者敗之
11. 執者失之
12. 是以聖人無為
13. 故無敗
14. 無執
15. 故無失
16. 民之從事
17. 常於幾成而敗之
18. 慎終如始則無敗事
19. 是以聖人欲不欲
20. 不貴難得之貨
21. 學不學
22. 復眾人之所過
23. 以輔萬物之自然
24. 而不敢為
1. [Poiché] facile è trattare con ciò che è calmo e in pace,
2. ideare le cose prima che diano segno,
3. frangere quel che è fragile,
4. i frammenti minuti disperdere,
5. intervieni, dunque, su ciò che ancora non s’è [tutto] palesato,
6. e il buon governo assicura [al regno], prima che il disordine s’affacci.
7. [In fondo,] quell’albero il cui tronco stenti ad abbracciare, da un butto
finissimo è cresciuto,
8. quella Torre del Belvedere di nove piani, da un canestro di terra è
sorta,
9. e un viaggio di mille li, dal punto in cui il piede si posò ha avuto
inizio.
10. [Vero è che] intervieni, e qualcosa rovini,
11. saldamente tieni, e qualcosa perdi.
12. Poiché, però, il Saggio non interviene,
13. guasto non reca;
14. a nulla si tiene saldo,
15. sicché perdita non subisce.
16. Il popolo, dedito ad assolvere le proprie mansioni,
17. è solito guastare tutto all’approssimarsi della riuscita,
18. ma se accorto fosse alla fine come in principio, nulla di certo
guasterebbe.
19. II Saggio, pertanto, dà prova che la vera aspirazione è quella di non
nutrire aspirazioni,
20. tant’è che sprezza i beni difficili da ottenere;
21. [egli dà prova] che il vero apprendimento, studio non prevede,
22. perché gli eccessi delle genti tutte Lui comunque ripara,
23. e, nell’assistere i Diecimila Esseri a manifestarsi per quel che Essi
sono,
24. intervenire su di Loro non osa.
La modalità di trasmissione di questa stanza e la sua struttura interna
sono elementi forse ancora piú rilevanti del contenuto stesso, come si
evince da SCARPARI 2005a e SHAUGHNESSY 2005. Secondo GD il contenuto
della stanza 64 risulta divisa in due parti: la prima che copre i vv. 1-9, la
seconda i vv. 10-24; nel fascio A compaiono entrambe le sezioni, dislocate
in due segmenti testuali non contigui. La prima parte trova spazio dalla
listarella 25:1 alla 27:2 ed è seguita dai testi corrispondenti alle stanze 56 e
57, mentre la seconda parte figura dalla listarella 10:22 alla 13:2, tra il testo
corrispondente alla stanza 15 e quelli corrispondenti alle stanze 37 e 63. Ciò
che rende peculiare i testimoni su bambú di Guodian in relazione a questa
stanza del Laozi risiede nel fatto che il contenuto dei vv. 10-24 compare
anche nel fascio C (dalla listarella 11:1 alla 14:7) e che le porzioni del
fascio A e del fascio C assimilabili alla seconda parte della stanza 64
presentano non poche varianti. Questa cesura, percepibile già da una
semplice lettura del testo, è confermata dalla struttura di BD, in cui il corpo
corrispondente alla stanza 64 copre due distinte stanze, ognuna
contrassegnata da un macroscopico punto all’inizio della listarella 74 e
della listarella 76. Già Yao Nai nel suo Laozi zhangyi aveva rilevato come
la stanza 64 derivasse dall’accostamento di due parti originariamente
indipendenti (pur avendo egli legato la prima porzione di Laozi 64 alla coda
della stanza precedente), segnalando l’esistenza di quella stessa frattura poi
riscontrata in GD e BD. Vi è un ulteriore dato che conferma la fondatezza
dell’ipotesi secondo cui tra il v. 9 e il v. 10 cadrebbe, in realtà, una pausa: il
capitolo di esegesi al Laozi intitolato Jie Lao dello Han Feizi, dove per ben
due volte viene dato spazio alla stanza 64. Ebbene, la prima sezione (vv. 1-
9) è discussa separatamente dalla seconda (vv. 10-24), dopo un intervallo in
cui si collocano i testi associati alle stanze 52 e 71.
Nel v. 3, pan 泮 «fondere, liquefare» potrebbe anche essere letto pan 判
«tagliare in due, frangere, fracassare, dividere».
I vv. 19 e 21 danno luogo ad almeno due letture: da una parte, ha senso
intenderli come se il Saggio «desiderasse ciò che gli altri non desiderano
(yu bu yu 欲不欲) … e apprendesse ciò che gli altri non hanno interesse ad
apprendere (xue bu xue 學 不 學 )», come suggerisce il commentario di
Heshanggong, ma, al contempo, non va escluso che significhino «…
manifesta il proprio desiderio senza però esserne schiavo [o ‘senza
eccedere’] … e studia/apprende senza bisogno di seguire insegnamenti
prescrittivi». Accogliendo la seconda ipotesi, ovvero nel contemplare forme
assimilabili a «desidera senza davvero desiderare» e «studia senza davvero
studiare», si apre l’eventualità che il testo si richiami alla formulazione
paradossale wéi wu wèi 為無為 «agire senza davvero agire, senza ingerenza
né pianificazione», ovvero «agire senza adoperarsi» (Laozi 3.9 e 63.1), la
cui valenza va colta come indicazione «regolativa» che invita a un
intervento non invasivo e non dettato da secondi fini, anziché quale elogio
di una radicale astensione. Ben lungi dall’auspicare la soppressione del
desiderio e il rifiuto dello studio, le espressioni yu bu yu 欲不欲 e xue bu
xue 學不學 andrebbero forse interpretate come esortazioni a andare al di là
di ciò che comunemente e pigramente si associa al «volere» e allo
«studiare» per aprirsi a esperienze sentite, spontanee, vissute da parte di un
soggetto che vi si concede senza l’ossessione di perseguire mire personali.
Una volontà che non risponde solo alla vorace affermazione di sé è tale da
non inseguire «i beni difficili da ottenere» (v. 20), ovvero quegli oggetti per
il possesso dei quali gli stolti si accapigliano, combattono, si uccidono,
addirittura. Il Saggio, evitando contese per futili motivi, non può che essere
insensibile a tali richiami.
Data la decisa instabilità grafica con cui le parole venivano rappresentate
nella Cina antica, non è da escludere che xue bu xue 學不學 (v. 21) possa
anche leggersi «istruisce senza dover impartire insegnamenti», visto che
alla grafia 學 corrispondevano sia la parola oggi pronunciata xue «studiare,
apprendere» che jiao «insegnare, istruire, educare».
Fu 復 (v. 22) viene qui inteso come suggerisce ZHU QIANZHI 1996 (p.
262), ovvero quale sinonimo di bu 補 «emendare, correggere, riparare a un
errore». Sulla scorta del commentario di Wang Bi, accogliamo l’indicazione
secondo cui le capacità che dimostriamo di possedere e che non derivano
dallo studio sono frutto della spontanea adesione al Dao, sono cosí-come-
sono (ziran 自 然 ), mentre l’intensa esposizione all’educazione porta a
eccedere (guo 過), a valicare il limite di conformità con la legge di natura: il
Saggio, quindi, testimonia come non sia necessario apprendere contenuti
culturali per poter assicurare la stabilità del popolo, poiché questo non potrà
che correggersi da solo (rinvio a Laozi 37 e 57). Ciò significa che, in realtà,
non vi è insegnamento degno d’essere appreso se non quello che riconosce
in ogni forma di acquisizione prescrittiva una coercizione, un’infrazione, un
eccesso. Nel v. 9, li 里 indica un’unità di misura equivalente a circa 0,576
km.
65 (MWD 28; BD 29)

1. 古之善為道者非以明民
2. 將以愚之
3. 民之難治以其智多
4. 故以智治國
5. 國之賊
6. 不以智治國
7. 國之福
8. 知此兩者亦 式
9. 常知 式是謂玄德
10. 玄德深矣遠矣
11. 與物反矣
12. 然後乃至大順
1. Anticamente, chi eccelleva nell’adottare il Dao non mirava certo a
illuminare cosí il popolo,
2. ma a tenerlo ignorante,
3. [poiché] arduo diventa governare il popolo quando esso in perspicacia
abbonda.
4. Chi, dunque, alla perspicacia s’affida per governare il regno,
5. ne sarà il flagello,
6. mentre chi, per governare il regno, alla perspicacia non s’affida punto,
7. al regno stesso recherà fortuna.
8. Chi comprende entrambi i principî godrà, in piú, d’un modello cui
ispirarsi,
9. e dimostrare ogni volta d’avere compreso a quale modello ispirarsi
vuol dire [possedere l’]Arcana Possanza.
10. Profonda, vasta è l’Arcana Possanza,
11. che gli esseri accompagna quando [al Dao] fanno ritorno,
12. e approdano, infine, alla Suprema Concordia.
La stanza 65 è stata sovente chiamata in causa come esempio di bieco
oscurantismo e gli esegeti si sono divisi tra quanti hanno confermato la
fondatezza di una simile interpretazione e chi, invece, ha colto nel testo un
allegorico scenario in cui l’incontrollata diffusione della conoscenza e dei
saperi alimenta la capacità dei sudditi di sviluppare il sospetto e l’astuzia,
fornendo cosí gli strumenti per eludere le leggi e mettere a rischio la
stabilità dello Stato. Letto dalla prospettiva del Sovrano, il contenuto della
stanza 65 – soprattutto alla luce dell’interpretazione di Wang Bi – sembra in
realtà riproporre il tema centrale nel Laozi relativo al contrasto tra
educazione e sapere «positivo», da una parte, e aderenza alla legge di
natura, dall’altra. Wang Bi, ad esempio, adotta una strategia ermeneutica
volta a identificare il dato relativo all’accrescimento cognitivo con un
elemento spurio, estraneo al Dao, elogiando, per assurdo, l’ignoranza e
l’ottusità (yu 愚 , v. 2) in quanto espressioni che salvaguardano dalla
contaminazione nociva della conoscenza proprio perché assicurano
un’aderenza alle proprie qualità piú genuine e autentiche (shou zhen 守真),
dimostrando cosí che dovremmo solo abbandonarci e obbedire a ciò che è
«cosí-come-è» (shun ziran 順自然).
66 (MWD 29; BD 30; GD A 2)

1. 江海所以能為百谷王者
2. 以其善下之
3. 故能為百谷王
4. 是以聖人欲上民
5. 必以言下之
6. 欲先民
7. 必以身後之
8. 是以聖人處上而民不重
9. 處前而民不害
10. 是以天下樂推而不厭
11. 以其不爭
12. 故天下莫能與之爭
1. Fiumi e mari sono ‘Sovrani dei Cento gorghi’,
2. perché sanno abbassarsi all’altrui cospetto:
3. è cosí che sono potuti diventare ‘Sovrani dei Cento gorghi’.
4. Quando, allora, il Saggio sovrastare il popolo intende,
5. dovrà, già con le Proprie parole, al suo cospetto abbassarsi,
6. e se precedere il popolo intende,
7. alle sue spalle dovrà porsi.
8. Pertanto, il Saggio in alto risiede senza che il popolo Ne avverta il
peso,
9. e alla testa Si pone, senza che il popolo rischio alcuno senta.
10. Se tutti sotto il Cielo con gioia Lo sostengono senza sentirsi vessati,
11. dipende dal Suo disdegnare contese,
12. e, sicché, nessuno sotto il Cielo mai potrebbe contenderGli alcunché.
Siamo di fronte a una delle poche stanze del Laozi prive del commento
di Wang Bi; tale vuoto ha destato, nei secoli, piú di un sospetto circa la
considerazione riservata dal celebre esegeta alla stanza 66, ritenuta forse
spuria nonostante altre stanze – 28 e 32, ad esempio – si avvicinino
sensibilmente ai temi qui trattati. Lu Deming (556-630), senza citarlo nello
specifico, menziona l’esistenza di un commentario di Wang Bi al Laozi che
includeva annotazioni sulla presente stanza.
Lo Shuoyuan (10.25.83.9-12) conserva un frammento simile alla prima
parte della stanza 66 in cui è chiamato in causa il gentiluomo al quale si
consiglia, per essere apprezzato dal popolo, di mostrarsi umile, cosí come
fanno i fiumi e i mari affinché le acque dei gorghi e dei rivoli vi
confluiscano. Non a caso, i fiumi e i mari sono detti «Sovrani» (wang 王, v.
1, mentre il passo dello Shuoyuan legge zhang 長 «adulto, anziano, capo»,
nel senso di «comandante»), ai quali si deve rispetto non perché pretendono
obbedienza, ma proprio perché non esercitano alcun controllo.
67 (MWD 32; BD 31)

1. 天下皆謂我道大
2. 似不肖
3. 夫唯大故似不肖
4. 若肖久矣其細也夫
5. 我有三寶
6. 持而保之
7. 一曰慈
8. 二曰儉
9. 三曰不敢為天下先
10. 慈故能勇
11. 儉故能廣
12. 不敢為天下先
13. 故能成器長
14. 今舍慈且勇
15. 舍儉且廣
16. 舍後且先死矣
17. 夫慈以戰則勝
18. 以守則固
19. 天將救之,
20. 以慈衛之
1. La ‘Grandezza’ che tutti sotto il Cielo al mio dao assegnano,
2. nella sua anomalia – che inettitudine pare – risiede:
3. solo a tale ‘Grandezza’, dunque, l’anomalia si deve,
4. tant’è che se ad altro [il mio dao] somigliasse, da lungo tempo sarebbe
ormai cosa minuta e insignificante!
5. Tre tesori mi accompagnano,
6. che tengo stretti e proteggo con cura:
7. il primo è l’amorevole premura [per gli altri],
8. il secondo la frugalità,
9. il terzo è il non osare primeggiare su tutti sotto il Cielo.
10. In ragione dell’amorevole premura, riesco dunque a essere
coraggioso,
11. in ragione della frugalità, a essere magnanimo,
12. non osando primeggiare su tutti,
13. sono potuto, dunque, diventare Maestro dei valenti funzionari.
14. Ora, se mai avessi scelto il coraggio rinunciando all’amorevole
premura,
15. o la magnanimità rinunciando alla frugalità,
16. o di voler primeggiare piuttosto che essere disposto a seguire, di certo
sarei già morto!
17. [Questo perché] nel muovere battaglia, amorevole premura dà vittoria,
18. nel difendersi, dà solidità e sicurezza.
19. Quel che il Cielo s’appresta a soccorrere,
20. con amorevole premura sorveglia, vigile.
L’ipotesi di Lin Xiyi e Fan Yingyuan circa l’estraneità del termine dao
nell’incipit è confermata da MWD e BD, che leggono «tutti sotto il Cielo mi
definiscono Grande». L’interpretazione del significato di xiao 肖 (v. 2) è
stata sviluppata secondo due principali linee: «essere piccolo, ridotto»
(simile a xiao 小 ), da una parte, e «somigliare, essere assimilabile»,
dall’altra. In termini piú precisi, l’espressione bu xiao 不 肖 (non-xiao)
allude a quella discendenza che dirazza, che non eredita l’eccellenza dei
genitori e che, quindi, porta i segni dell’atipicità e dell’impoverimento; cosí
inteso, xiao è contrario rispetto a xian 賢 «talentuoso, abile». XU
KANGSHENG 1992 (pp. 53-54) ritiene che il testo alluda a una forma di
distinzione, di qualità che non sembra tale ma, proprio per questo motivo, lo
è. Tale lettura si sposa con la soluzione proposta dal commento di
Heshanggong, che associa xiao 肖 a shan 善 «bontà, capacità, perizia» nei
termini di un’abilità dialettico-oratoria, che va mascherata ostentando
stoltezza. Il misterioso esegeta rimarca come il Laozi non intenda qui
evidenziare il riconoscimento della grande (da 大) validità del metodo (dao
道) di governo associato al fantomatico «Io» (wo 我) del verso d’apertura
(al solito, vagamente identificabile con il Saggio Sovrano). Secondo
Heshanggong, già godere del pieno riconoscimento della propria virtú da
parte degli altri significa esporsi al rischio, ragion per cui è necessario
mostrarsi incompetenti, inetti: il Saggio, non dimentichiamolo, non insegue
la fama. L’ampiezza (da 大) di cui fa menzione il testo misurerebbe, quindi,
soprattutto le dimensioni dell’anomalia rispetto a quei metodi di governo
fondati sull’apprezzamento dell’intelletto, della forza, dell’esercizio
«diretto» del potere.
La comprensione del v. 13 è legata all’espressione chengqizhang 成 器
長 , che Liu Shipei associa a un’alta carica amministrativa, mentre altri
esegeti ritengono che chengqi 成 器 (sinonimo di daqi 大 器 «Grande,
Sommo utensile») alluda al mondo intero, pari a un oggetto sacro (shenqi
神 器 , come in Laozi 29.3). Su questa base Yu Yue lega il significato di
chengqizhang al principio secondo cui solo evitando di primeggiare sarà
possibile esercitare un controllo sul mondo, ponendosene cosí a capo
(zhang 長 , o anche «guida, maestro»). Questa interpretazione non si
discosta da quella di Wang Bi, mentre Heshanggong è esplicito
nell’identificare chengqizhang con coloro che hanno raggiunto la piena
comprensione del Dao (de Dao ren 得 道 人 ), dando credito
all’assimilazione di chengqi 成器 con la metafora del «diventare un utensile
di qualità», che si riferisce tanto agli oggetti inanimati quanto alle persone
virtuose, capaci di mettere al servizio della comunità i propri talenti. Questa
linea interpretativa è seguita anche da KARLGREN 1975 (p. 12).
Echi del «non osare primeggiare (xian 先 ) su tutti» risuonano in Laozi
7.6 e 66.6-7: ciò che merita di essere sottolineato è che tra xian «prima,
primeggiare, anticipare, anteporre, preferire» e hou 後 «dopo, seguire,
succedere a…, posporre, subordinare», sussiste un evidente rapporto di
complementarietà, come suggellato in 2.5, dove «prima e poi» equivale ad
«avanti e dietro», «anteporre e posporre», «anticipare e ritardare», poiché
una dinamica di ribaltamento continuo delle valenze che lega i due termini
fa sí che essi assumano caratterizzazioni diverse a seconda dei contesti. Chi
vuol primeggiare, si è visto, finisce spesso per cadere in disgrazia, mentre
attendere e ritardare l’azione porta spesso il proprio avversario a
sbilanciarsi e a scoprirsi. Er Liang, oscuro pensatore associato agli strateghi
militari, cui era stato ascritto un testo da millenni andato perduto (vedi
Hanshu 30: 1757), pare fosse un «attendista», sostenitore dell’efficacia
dello stare nelle retrovie (gui hou 貴 後 , vedi Lüshi Chunqiu 17.7.1.1) e
aspettare il momento migliore per colpire. Non ci è dato sapere se il Laozi
sia stato o meno influenzato dalle sue teorie.
68 (MWD 33; BD 32)

1. 善為士者不武
2. 善戰者不怒
3. 善勝敵者不與
4. 善用人者為之下
5. 是謂不爭之德
6. 是謂用人之力
7. 是謂配天
8. 古之極
1. Soldato che davvero eccelle non ha piglio marziale,
2. combattente che davvero eccelle non è rabbioso,
3. colui che davvero la spunta, non affronta [direttamente] i propri
nemici,
4. chi davvero eccelle nell’utilizzare al meglio gli altri, a essi sottostà.
5. Ciò si definisce ‘Possanza del non contendere’,
6. ‘saper utilizzare al meglio l’altrui forza’,
7. ‘essere compagno del Cielo’:
8. ecco la somma vetta cui gli antichi giunsero.
Questa stanza ripropone elementi legati alla precedente e che si
riaffacciano anche in quella successiva, al punto da aver indotto HENRICKS
1989 (p. 160) a supporre che le stanze 67, 68 e 69 costituissero in «origine»
un unico corpo testuale. Il rifiuto dello scontro e l’esaltazione della
«Possanza del non contendere» (v. 5) non possono non ricordare il Sunzi
bingfa (3.2.19-20; 3.2.24-25), il principale testo della tradizione strategico-
militare cinese, dove si legge (in ANDREINI e BIONDI 2011, pp. 19-20):

Non è detto che vincere cento battaglie su cento sia la cosa migliore; la cosa migliore
è, invece, costringere alla resa senza combattere (…) Pertanto, chi eccelle nel condurre
la guerra piega gli eserciti avversari senza dar battaglia, espugna le città nemiche senza
gettarsi all’assalto, distrugge gli altri regni senza protrarre oltremodo gli scontri.
69 (MWD 34; BD 33)

1. 用兵有言
2. 吾不敢為主而為客
3. 不敢進寸而退尺
4. 是謂
5. 行無行
6. 攘無臂
7. 扔無敵
8. 執無兵
9. 禍莫於大於輕敵
10. 輕敵幾喪吾寶
11. 故抗兵相加
12. 哀者勝矣
1. Tra quanti l’armi maneggiano, dir si suole:
2. ‘A far da padrone, non m’azzardo: l’ospite piuttosto fo’,
3. ‘D’un sol pollice non avanzo: d’un passo, piuttosto, arretro’.
4. Ciò vien detto:
5. ‘Schierarsi senza un assetto’,
6. ‘Rimboccarsi le maniche senza mostrare le braccia’,
7. ‘Attirare gli avversari che non si mostrano’,
8. ‘Brandire l’arma che non c’è’.
9. Non v’è calamità piú grande del prendere alla leggera un avversario,
10. e, se cosí facessi, prossimo sarei a perdere i miei tesori.
11. Sicché, se due eserciti di pari forza incrociano l’armi,
12. quello che maggiore pena l’affligge di certo la spunta.
L’avversario è sempre degno del massimo rispetto ed è necessario
assumere un atteggiamento guardingo al fine di lasciare che sia l’altro a
scoprirsi. Ne è prova il v. 7, in cui reng 扔 «tirare, attirare a sé, forzare»
richiama, probabilmente, l’efficacia strategica di attirare su di sé gli attacchi
di truppe nemiche, costringendole a prendere l’iniziativa e a sbilanciarsi.
Nel v. 10, sang 喪 «onorare il lutto, seppellire, perdere, causare la
morte» va inteso quale sinonimo di wang 亡 «distruggere, estinguere,
smarrire, perdere»; il riferimento ai «tesori» (bao 寶 ) evidenzia un chiaro
legame con 67.5.
Come leggiamo in altre stanze del Laozi (30 e 31, ad esempio), lo
scontro armato rappresenta la soluzione estrema, l’atto disperato cui un
esercito, suo malgrado, è costretto a ricorrere. Proprio perché consapevole
dell’atrocità di ciò che sta per compiersi, sarà l’armata maggiormente
scossa dal dolore a prevalere. La pena (ai 哀, v. 12) che il testo chiama in
causa esprime una forma di compassione, di partecipata afflizione per le
sorti dell’avversario e di rimorso per lo scempio che viene a consumarsi. XU
KANGSHENG 1992 (p. 57) paventa l’idea che ai 哀 stia per ai 愛 «amore,
affetto»: ricordiamo che «nel muovere battaglia, amorevole premura dà
vittoria» (Laozi 67.17). Non è da escludere che ai 哀 debba leggersi xiang
襄, prestito fonetico per rang 讓 «arrendevolezza, condiscendenza».
I temi trattati in questa stanza non possono non richiamare alla mente un
evento registrato nello Zuozhuan (7.12.2.15-17), avvenuto presumibilmente
nel 597 a.C., e che coinvolse il visconte di Chu (Chuzi), noto anche come il
re Zhuang di Chu (Chu Zhuangwang, r. 613-591 a.C.), al quale Pan Dang
suggerí di erigere un tumulo per celebrare la vittoria contro l’esercito di Jin
晉 sul campo di Bi 邲. Il visconte rispose con diniego, consapevole che non
è cosa degna fare oltraggio dei caduti. Non a caso, «il termine che esprime
il ‘valore militare’ (wu 武 )», ebbe a precisare il visconte, «si compone di
‘desistere, fermarsi’ (zhi 止 ) e ‘daga’ (ge 戈 )», ricordando cosí al suo
interlocutore come i Saggi Sovrani dell’antichità sapessero quando deporre
le armi e onorare i defunti. Tributate le debite offerte sacrificali, il visconte
di Chu rientrò infine in patria imponendo il lutto ai propri uomini.
70 (MWD 35; BD 34)

1. 吾言甚易知
2. 甚易行
3. 天下莫能知
4. 莫能行
5. 言有宗
6. 事有君
7. 夫唯無知
8. 是以不我知
9. 知我者希
10. 則我者貴
11. 是以聖人被褐
12. 懷玉
1. Sí facili sono le mie parole da intendere,
2. e altrettanto facili da mettere in pratica,
3. eppur nessuno, sotto il Cielo, riesce a intenderle,
4. né a metterle in pratica.
5. Le [mie] parole rispondono a un Principio ancestrale,
6. le [mie] azioni, a un’Autorità [Suprema].
7. Proprio perché s’ignora ciò,
8. incompreso resto,
9. e poiché raro è che mi s’intenda,
10. tanto stimato sono.
11. È ciò a far sí che il Saggio, pur indossando ruvidi cenci,
12. giada in petto serbi.
Wang Bi commenta i versi d’apertura della stanza 70 ricordando come il
messaggio del Laozi sia apparentemente facile da intendere e da applicare
perché basato sul principio del wu wèi 無 為 «non adoperarsi, non nutrire
secondi fini, non esercitare alcuna forma di coercizione», secondo cui la
comprensione dei fenomeni del mondo non dipende certo dal dover varcare
la soglia di casa né dal guardare fuori della finestra (stanza 47), poiché le
risposte che cerchiamo si svelano passo passo lungo il percorso di
abbandono al Dao. Gli ostacoli, tuttavia, sono tangibili, e derivano dal
giogo dei desideri e dalle tentazioni nel perseguire la fama e il tornaconto
personale.
Non sono pochi gli esegeti – tra cui ricordiamo Wu Cheng – che hanno
colto nei vv. 3-8 la delusione da parte dell’autore del Laozi per la scarsa
attenzione prestata dal mondo nei confronti delle teorie espresse nell’opera.
Riteniamo che un simile approccio interpretativo non colga la necessità,
peraltro piú volte ribadita, di un mancato riscontro pubblico dei valori
predicati dal Laozi, apprezzati solo sporadicamente (xi 希 , v. 9) poiché
alieni rispetto a una massa che si professa «illuminata» (Laozi 20.15-21) ma
che, a ben vedere, tale non è. Una probabile risposta circa l’incomprensione
e la difficoltà di applicazione pratica dei principî laoziani è suggerita dai vv.
5-6, dove spiccano i termini zong 宗 «antenato» e jun 君 «Signore,
Sovrano» (in FY e FYY compare la variante zhu 主 «padrone, elemento
principale, Signore, Sovrano» per jun). Zong andrebbe forse inteso come
«antenato degli esseri» – il Dao – o anche zongzhi 宗 旨 «principio
fondamentale, principio generale; obiettivo, finalità». Il ricorso a jun e zong
lascia intendere che l’estraneità del volgo rispetto al Dao – oggetto di una
decifrazione impossibile – derivi dalla Sua rispondenza a un dominio (jun e
zong, appunto…) extra-umano la cui sola percezione è capace di
polverizzare i pilastri su cui si ancorano le nostre tenui esistenze.
Gli ultimi due versi sono magistralmente commentati da Heshanggong:
indossare abiti grezzi e logori (vedi anche Laozi 4 e 56) significa disdegnare
ciò che, rispetto al sé piú autentico, risulta superfluo, estraneo – wai 外
«esterno», categoria che definisce sia all’aspetto esteriore che qualunque
cosa sia soggetta al giudizio degli altri – mentre stringere forte la «giada»
(yu 玉) vuol dire dar peso alla dimensione intima, interiore (nei 內), dove
dimora la propria Possanza che, al pari di un tesoro preziosissimo, non va
esibita agli altri. Non è un caso che di «autenticità, genuinità» (zhen 真 )
parli Wang Bi in relazione alla giada, emblema della natura piú intima del
Saggio.
L’espressione huai yu 懷 玉 «stringere al petto [o custodire nel proprio
cuore] della giada» compare anche nel passo 9.11.16.19 del Kongzi jiayu
come appendice esegetica all’aforisma 8.13 del Lunyu, secondo cui povertà
e ignominia non sono ammissibili nel regno in cui il Dao prevale, mentre
ricchezza e nobiltà sono oltraggiose quando il Dao tramonta. Diversamente
dal Laozi, Confucio riteneva che l’aspetto esteriore della persona esemplare
dovesse comunque rifletterne la virtú interiore e che le «vesti cenciose»,
emblema della dignità e della tenacia con cui il Saggio restava fedele al
Dao, potessero essere fieramente indossate solo come reazione a un
governo immorale.
71 (MWD 36; BD 35)

1. 知不知上
2. 不知知病
3. 夫唯病病
4. 是以不病
5. 聖人不病
6. 以其病病
7. 是以不病
1. Sapere di non sapere è certo cosa eccelsa;
2. non sapere e [pretendere di] sapere è, invece, grave pecca.
3. Solo nel riconoscere la pecca come tale,
4. di pecche non ci si macchia,
5. e se il Saggio di pecche non si macchia,
6. è perché riconosce la pecca esser pecca:
7. pecche, per ciò, non ha.
La chiarezza del verso d’apertura è cristallina: l’unico dubbio riguarda la
plausibilità dell’interpretazione di Wang Bi, secondo cui solo il Sovrano che
riconosce (zhi 知) di non dover confidare nell’intelletto e nella conoscenza
(bu zhi 不知) sarà esaltato dai sudditi (shang 上 «sopra, superiore, livello
massimo, elevare, essere elevato, stimato», sinonimo di shang 尚 ). Da
questi presupposti Wang Bi si spinge a leggere cosí il v. 2: la conoscenza
non basta ad assicurare un tangibile riscontro pratico e se mai un Sovrano
dovesse ignorare questa verità, ebbene, Egli Si macchierebbe di una grave
pecca. Bing 病, termine che si affaccia nel v. 2 e che chiude tutti gli altri a
seguire, identifica, appunto, la condizione di colui che soffre di
un’anomalia, di una disfunzione e che è affetto da qualcosa che ne
pregiudica le condizioni fisiche o morali. La trasmissione del v. 2 evidenzia
il consolidarsi nella tradizione del testo di varie stesure: oltre a quella della
vulgata, qui rappresentata, si registrano bu zhi bu zhi bing yi 不知不知病矣
«ignorare di non sapere è certo grave pecca» (MWD A), bu zhi er zhi bing
ye 不知而知病也 «non sapere e pretendere di sapere è invece grave pecca»
(Huainanzi 12.115.28) e bu zhi bing yi 不智(知)病矣 «non sapere [ciò] –
ovvero, ignorare il fatto che colui che davvero sa è consapevole della
propria ignoranza – è certo grave pecca», secondo BD. Heshanggong cosí
illustra il senso del testo: colui che davvero incarna il Dao afferma di non
averLo compreso, dando prova di possedere una virtú eccelsa, mentre
coloro che non Lo hanno inteso affermano spesso il contrario, dimostrando
in tal modo il loro grave limite.
Naturale, giunti a questo punto, è voler solo suggerire un parallelo tra
l’incipit (che compare, tra l’altro, anche in Lüshi Chunqiu 25.2.1.1) e il
principio ascritto a Shen Dao nel passo 33.4.3 del Zhuangzi: anch’egli, a
quanto pare, zhi bu zhi 知不知 «sapeva di non sapere», convinto che la vera
comprensione delle cose comporti l’accettazione della loro
incomprensibilità.
72 (MWD 37; BD 36)

1. 民之不畏威
2. 則大威至
3. 無狎其所居
4. 無厭其所生
5. 夫唯不厭是以不厭
6. 是以聖人自知不自見
7. 自愛不自貴
8. 故去彼取此
1. Quando il popolo la Sovrana Maestà ormai piú non teme,
2. vuol dire che la Somma Sovrana Maestà è in arrivo.
3. Non si releghi [il popolo] a vivere in spazi angusti,
4. non lo si vessi tagliandogli i mezzi di sostentamento.
5. Solo se non lo avrete vessato, dunque, non Vi detesterà.
6. Il Saggio, pertanto, riconosce il proprio valore, ma non ne fa
esibizione,
7. della propria persona ha premura, ma se stesso non esalta.
8. Sicché, le seconde norme respinge e le prime adotta.
Il timore reverenziale (wei 威) che questa stanza evoca pare, dapprima,
riferito al potere del Sovrano, da cui dipendono la prosperità e la miseria dei
sudditi. Nonostante questa sia la posizione assunta da buona parte degli
esegeti, privilegiamo tuttavia la voce di Wu Cheng, secondo il quale nel v. 2
è la morte a essere evocata con Dawei 大威 «Somma Sovrana Maestà».
Accogliamo la proposta di ZHU QIANZHI 1996 (pp. 265-66) secondo cui
la prima occorrenza di yan 厭 nel v. 5 è da intendersi come «vessare,
opprimere», mentre la seconda indica «detestare, odiare, provar disgusto
per…»
La formula di chiusura della stanza – qu bi qu ci 去彼取此 «respingere
quello e scegliere, prendere questo» – era già comparsa in Laozi 12 e 38; in
merito al riferimento dei due dimostrativi, le opinioni oscillano tra quella di
Cao Daochong 曹 道 沖 , che associa «quello» (bi 彼 ) alle realtà che
popolano il mondo esterno (wai 外 ) e «questo» (ci 此 ) alla dimensione
interiore (nei 內) del soggetto, e quella di Heshanggong, per il quale esibire
ed esaltare sé corrisponde a «quello», mentre riconoscere il proprio valore e
dimostrare premura verso se stesso s’identifica con «questo».
73 (MWD 38; BD 37)

1. 勇於敢則殺
2. 勇於不敢則活
3. 此兩者或利或害
4. 天之所惡孰知其故
5. 是以聖人猶難之
6. 天之道不戰而善勝
7. 不言而善應
8. 不召而自來
9. 繟然而善謀
10. 天網恢恢
11. 疏而不失
1. Chi è tanto coraggioso da osare, sarà ucciso,
2. chi è tanto coraggioso da non osare, sopravviverà:
3. poiché sono, queste, due forme di coraggio che a tanti giovamento
recano e ad altrettanti solo danno,
4. [vien da chiedersi] chi mai davvero comprenda i motivi
dell’avversione che il Cielo mostra [per alcuni].
5. [Di fronte a ciò,] persino il Saggio, dunque, [che la risposta possiede,]
ostacolo trova.
6. [In fondo, perché stupirsene, dato che] il dao del Cielo eccelle al punto
da riuscire a spuntarla senza combattere,
7. e a rispondere, senza bisogno di parlare.
8. Da sé accorre, senza che Lo si chiami.
9. Tesse bene le Sue trame, pacato.
10. Immensa è la rete del Cielo,
11. e dalle Sue maglie, pur lente, nulla passa.
Wang Bi lega il verso d’apertura a Laozi 42.14 («Ai prepotenti e ai
violenti non è dato di spirare tranquilli»). Il significato di huo 或 nel v. 3
oscilla tra «alcuni» (nel senso che vi sono persone che traggono vantaggio
da quanto espresso nei primi due versi, mentre altri ne subiscono un danno)
e «talora, a volte»: quest’ultima possibilità è esplorata da Su Zhe (e seguita,
in traduzione, da LAFARGUE 1992, p. 126) e si fonda sulla constatazione
che, pur ammettendo la veridicità di quanto emerge nei versi iniziali,
«talora» osare paga e «talora» non osare porta, invece, alla morte.
Il v. 5 è stato fin dall’antichità oggetto di forti perplessità: MWD, BD e
DH (nello specifico P. 2347, P. 2517 e S. 6453) non lo contemplano, cosí
come altre celebri edizioni, tra cui YZ e JL. In tempi relativamente recenti,
sia MA XULUN 1957 (p. 187) che LIU XIAOGAN 2006 (vol. I, p. 690) hanno
messo in dubbio non tanto l’appartenenza al Laozi, ma la collocazione della
pericope in questione, che, a loro avviso, dovrebbe essere parte della stanza
63. Riteniamo, tuttavia, che nella vulgata la presenza del v. 5 risponda a una
precisa logica: di fronte all’incapacità del volgo di leggere le intenzioni del
Cielo e di comprendere quanto e quando opportuno sia osare, il testo
identifica nel Saggio colui che, pur con difficoltà, riesce ad accogliere, a
«sostenere» il peso di dinamiche imperscrutabili, come quelle celesti.
Dai versi conclusivi emerge come alla legge di natura nulla si sottragga:
essa è una rete immensa, che tutto contiene e che esercita un impalpabile
dominio sugli esseri.
74 (MWD 39; BD 38)

1. 民不畏死
2. 奈何以死懼之
3. 若使民常畏死
4. 而為奇者吾得執而殺之
5. 孰敢
6. 常有司殺者殺
7. 夫代司殺者殺
8. 是大匠斲
9. 夫代大匠斲者
10. 希有不傷其手矣
1. Quando il popolo non teme ormai piú la morte,
2. s’atterisce, forse, se di morte è minacciato?
3. Ma ammettiamo, pure, che il popolo la morte sempre tema,
4. e che i malfattori, io, acciuffassi, per giustiziarli:
5. chi oserebbe mai sporcarsi le mani?
6. [In fondo,] da sempre v’è un Carnefice, pronto a giustiziare,
7. e giustiziare in vece Sua,
8. sarebbe come fingersi Mastro Carpentiere,
9. e a Lui sostituirsi.
10. Nel far ciò, raro è non ferirsi la mano.
Quando le condizioni di vita sono precarie, il popolo non teme piú la
morte, poiché la ritiene quasi preferibile alla miseria e al degrado. Non
avendo alcunché da perdere, i sudditi si abbandonano dunque alla
licenziosità e al crimine: giunti a tal punto, atterrirli ricorrendo alle
esecuzioni capitali non porta a nulla. Quand’anche il Sovrano volesse
giustiziare i criminali, in realtà, chi mai potrebbe sostituirsi al «Grande
Carnefice» (Sisha 司殺, ovvero la legge naturale, il Dao stesso) che dispone
della vita come della morte di ognuno?
Questo indirizzo interpretativo viene perseguito dallo Yinwenzi (2.8) e, in
particolare, da Heshanggong, che associa la costanza (chang 常) con cui il
Carnefice assolve la propria mansione alla sistematicità secondo cui le
stagioni si alternano e impongono precise attività tanto al popolo quanto al
Sovrano. Sull’inopportunità di giustiziare i criminali espressa da Confucio,
rinvio al passo 12.19 del Lunyu.
Un richiamo intratestuale che ci agevola nella comprensione del ruolo
del Mastro Carpentiere (Dajiangzhuozhe 大 匠 斲 者 ) viene dal passo
«Sommo Intaglio nulla intacca» (Laozi 28.21, simile al passo Dajiang bu
zhuo 大匠不斲 «Mastro Carpentiere non taglia la legna», in Lüshi Chunqiu
1.4.3.5), a conferma del fatto che Saggio è colui che non millanta talenti di
cui è privo e che non si sostituisce a chi dimostra di maneggiare
sapientemente strumenti tanto necessari quanto pericolosi come la scure,
metafora dell’azione di governo del Sovrano che, nel tagliare, allinea,
riordina, sfronda.
75 (MWD 40; BD 39)

1. 人之飢
2. 以其上食稅之多
3. 是以飢
4. 民之難治
5. 以其上之有為
6. 是以難治
7. 民之輕死
8. 以其求生之厚
9. 是以輕死
10. 夫唯無以生為者
11. 是賢於貴生
1. Patiscono, gli uomini, la fame,
2. per l’esoso tributo in grano che i Superiori impongono:
3. la fame, per questo, patiscono.
4. Le genti sono difficili da governare,
5. perché i loro Superiori fin troppo s’adoperano nel nutrire secondi fini:
6. per questo [le genti] sono difficili da governare.
7. Il popolo incurante è della morte,
8. perché c’è chi agogna una vita sontuosa:
9. per questo è incurante della morte.
10. Eppure, è proprio facendo nulla per la vita
11. che, saggiamente, maggior valore le diamo.
I ricchi e i nobili devono i loro privilegi allo sfruttamento del popolo
soffocato dall’indigenza. Come già affermato nella stanza 74, esso non teme
ormai piú neppure la morte (vv. 7-9). Wang Bi evidenzia come
l’intemperanza e l’ingovernabilità del popolo siano dovute alle scarse
qualità morali di chi comanda, dei Superiori (shang 上 ), certo non alle
pecche degli inferiori (xia 下 ), che seguono e prendono a modello quanti
detengono il potere, i quali, nutrendo fini egoistici, non fanno altro che
spingere il popolo alla sedizione, alla disonestà e all’esercizio dell’inganno
(vv. 4-6).
Nei versi conclusivi, il testo afferma che la rincorsa affannosa
all’accaparramento di beni materiali non conduce certo a un miglioramento
delle reali condizioni di vita, bensí crea dipendenza, attira sciagure (vedi
Laozi 13.8-10) e distoglie dall’ottemperare al rispetto dei processi naturali.
Paradossalmente, solo il dis-interesse nei confronti di una vita agiata (v. 10)
assicura la realizzazione piena dell’esistenza: di un’esistenza autentica,
conforme solo al Dao.
76 (MWD 41; BD 40)

1. 人之生也柔弱
2. 其死也堅強
3. 萬物草木之生也柔脆
4. 其死也枯槁
5. 故堅強者死之徒
6. 柔弱者生之徒
7. 是以兵強則不勝
8. 木強則兵
9. 強大處下
10. 柔弱處上
1. Nel nascere, molle e delicato è l’uomo,
2. morendo, diventa duro e rigido.
3. Molli e fragili sono, nel nascere, i Diecimila Esseri, gli arbusti e
l’erba,
4. vizzi e secchi diventano, invece, quando muoiono.
5. Sicché, quel che è duro e rigido è compagno della morte,
6. quel che è molle e delicato lo è della vita.
7. Se rigido è l’assetto dell’esercito, preclusa sarà la vittoria,
8. se rigido è il tronco, per l’albero la fine è giunta.
9. Rigidità e grandezza in basso stanno,
10. in alto, invece, quel che è molle e delicato si pone.
Il contenuto della stanza 76 arricchisce gli spunti tematici sui «compagni
della vita» e sui «compagni della morte», già trattati in Laozi 50.2-3. Stando
al commentario di Heshanggong, alla nascita (sheng 生, oppure «nel pieno
e rigoglioso dispiegarsi della vita», poiché come si è già visto, sheng
possiede questa doppia accezione) ognuno è pervaso dall’armoniosa
potenza dei soffi vitali e dalla forza impressa dalla quintessenza e dallo
spirito numinoso: pertanto, la «consistenza» dell’uomo è molle e soffice,
flessibile (rou ruo 柔弱, v. 1). Morendo, però, prevalgono durezza e rigidità
(jian qiang 堅 強 , v. 2), perché la vitalità dei soffi vitali si inaridisce e la
quintessenza e lo spirito numinoso si disperdono.
Secondo una caratterizzazione tipica del pensiero cinese classico, gli
«opposti» identificano i punti terminali all’interno di un processo integrato
e in continua fluttuazione. Non fanno eccezione sheng e si «vita» e
«morte»: lungi dall’esprimere condizioni statiche, esse sono compresenti e
costantemente in dialogo. La «vita» rappresenta quell’esperienza che, a
partire dalla nascita, si contraddistingue per azione, movimento, vigore, e
che gradualmente scema per lasciare campo all’irrigidimento, alla staticità,
all’immobilità, che marcano il dominio della «morte».
«Vita» e «morte», vasi comunicanti e contaminati, fungono da
catalizzatori metaforici cui si associano qualità, attività, ruoli, fenomeni. Da
qui deriva l’amplificazione di caratterizzazioni a partire da emblemi
elementari che incorporano, ognuno, determinazioni sovrapposte – la forza,
la rigidità, il vigore, da contrapporre alla malleabilità, alla durezza – che si
applicano al corpo, alle stagioni, alle operazioni militari (v. 7), alla
conduzione dell’attività di governo.
Il v. 8 presenta l’ostacolo derivante dalla presenza di bing 兵, ragion per
cui la resa «se il tronco dell’albero è troppo rigido, può essere usato come
arma» risulta poco plausibile. Numerosi commentatori hanno rilevato che la
lezione zhe 折 «spezzare, spezzarsi» (presente nei passi paralleli al v. 8
attestati in Liezi 2.14.11 e in Huainanzi 1.5.6) sia ben piú fondata, tant’è che
la presenza dell’elemento jin 斤 in 兵 e in 折 potrebbe, in effetti, essere la
spia dell’introduzione di una corruttela durante la trasmissione del testo. Si
prospetta anche la sostituzione di bing 兵 con gong 共, lezione attestata in
FY, YZ e HSG, tale da non escludere il senso secondo cui se il tronco è
rigido, l’albero ne «patisce» (gong). Da questa ultima soluzione prende
corpo l’idea, pur remota, che hong 烘 «arrostire, bruciare, seccare, seccarsi»
sia la lezione autentica. Pur tuttavia, la soluzione offerta da MWD A – heng
恆 – depone a favore di gen 㮓, nell’accezione di «finire», sinonimo di jing
竟 (termine con cui nello Shuowen jiezi viene glossato gen 㮓 ), di cui la
lezione jing 競 «prudente, circospetto, rispettoso» adottata in MWD B è un
curioso raddoppiamento. La vicinanza fonetica tra 恆 e la parola
rappresentata dalla grafia vergata dallo scriba di BD, 核, sembra rafforzare
la validità di gen 㮓.
Le stanze 36 e 78 del Laozi rivendicano la superiorità – o, meglio, la
maggior efficacia – della malleabilità e della debolezza rispetto alla forza e
alla rigidità, contrariamente a quanto affermano i due versi conclusivi della
stanza 76, dove entrano in gioco le associazioni tra xia 下 «basso, inferiore»
e qiang da 強 大 «forza, rigidità e grandezza», da una parte, e shang 上
«alto, superiore» e rou ruo 柔 弱 «essere molle e delicato», dall’altra. Il
contenuto dei vv. 9 e 10 parrebbe, perciò, in aperto contrasto con altri passi
del Laozi (tra cui la stanza 61), che associano il ruolo di dominio a ciò che
occupa una posizione inferiore. Wang Bi risolve l’identificazione di xia con
le radici di un albero e di shang con i suoi rami; similmente, Heshanggong
lega solidità e ampiezza del tronco alle radici, mentre l’elasticità di rami e
foglie risponde, a suo avviso, all’altezza dell’albero. Una lettura alternativa
contempla, invece, che xia si riferisca agli «inferiori», ai sudditi, ai
subalterni, mentre shang abbia come riferimento i «superiori», che hanno
responsabilità di governo.
77 (MWD 42; BD 41)

1. 天之道其猶張弓與
2. 高者抑之
3. 下者舉之
4. 有餘者損之
5. 不足者補之
6. 天之道損有餘而補不足
7. 人之道則不然
8. 損不足以奉有餘
9. 孰能有餘以奉天下
10. 唯有道者
11. 是以聖人為而不恃
12. 功成而不處
13. 其不欲見賢
1. Il dao del Cielo simile è al tendersi di un arco:
2. l’estremo in alto fa calare,
3. quello in basso, alza,
4. quel che eccede, riduce,
5. quel che è carente, ripara.
6. Il dao del Cielo, [dunque,] l’eccesso riduce e alla carenza ripara.
7. Diverso è, invece, il dao dell’uomo:
8. sottrae a ciò che è carente per offrire a quel che già eccede.
9. Chi mai, dell’eccesso di cui dispone, a tutto ciò che sta sotto il Cielo
farebbe somma offerta?
10. Soltanto chi custodisce il Dao [a tanto arriva]!
11. Sicché, il Saggio agisce [per il bene degli esseri] senza che [questi]
avvertano il Suo sostegno,
12. e, conseguiti i risultati, non insiste sui Propri meriti,
13. poiché di tanto talento disdegna far mostra.
La metafora della curva di trazione dell’arco che si flette prima che
venga scoccato il colpo è un’efficace immagine del bilanciamento e
dell’armonizzazione perseguiti con costanza dal dao del Cielo (Tian zhi dao
天之道).
I valori espressi nei vv. 4-5 rappresentano un’estensione dell’incipit: il
dao del Cielo opera per far convergere gli opposti, per smussare gli estremi
(rinvio a Laozi 4.3 e 56.5-8), per sopperire agli squilibri che la parzialità
umana produce. Il fatto che riduca laddove c’è eccedenza e sopperisca alle
carenze dimostra che il dao del Cielo nel Laozi assume la stessa funzione
che Xunzi (circa 313-238 a.C.) attribuisce ai riti (li 禮: vedi Xunzi 19.94.8).
Non solo: il passo 14.1.3 dello Han Feizi identifica proprio in questo
modello «compensativo» la qualità distintiva del Sovrano Illuminato
(mingzhu 明主).
Abbiamo voluto contraddistinguere il dao del Cielo e il dao dell’uomo
(ren zhi dao 人 之 道 ) rispetto al Dao: nel ricorrere alla d minuscola, dao
assume la valenza di modalità tipica attraverso cui gli uomini e il Cielo
rivelano la loro piú intima natura. Una natura, nel caso degli uomini,
fortemente incline alla parzialità, di cui dao evidenzia solo un modus
operandi condizionato dalla finitudine: ben diverse sono tanto il Dao quanto
l’entità cosmica a Esso sottoposta, ma pur sempre possente, ovvero il Cielo.
Dao e Tian [zhi] dao non vanno, dunque, confusi: pur rispondendo a logiche
extra-umane, il secondo non può certo coincidere con l’incondizionato
principio che lo sovrasta (vedi le stanze 16 e 25).
I vv. 11 e 12 riprendono quanto già evidenziato in Laozi 51.10 e 2.8-9,
ribadendo come il Saggio si spenda per il bene degli esseri ma, senza
pretendere da questi alcun ringraziamento, non alimenta alcuna forma di
condizionamento, di dipendenza nei Suoi confronti.
78 (MWD 43; BD 42A)

1. 天下莫柔弱於水
2. 而攻堅強者莫之能勝
3. 其無以易之
4. 弱之勝強
5. 柔之勝剛
6. 天下莫不知莫能行
7. 是以聖人云
8. 受國之垢
9. 是謂社稷主
10. 受國不祥
11. 是為天下王
12. 正言若反
1. Sotto il Cielo non v’è cosa piú molle e piú debole dell’acqua,
2. eppure, nell’assalire quel che è duro e forte, niente può superarla,
3. tant’è che non v’è cosa che la rimpiazzi.
4. Che sia debolezza a sopraffare la forza,
5. e mollezza a sopraffare la rigidezza,
6. nessuno sotto il Cielo l’ignora, eppure, nessuno riesce a farne
condotta.
7. Ecco perché il Saggio cosí afferma:
8. ‘Chi s’addossa le lordure del regno,
9. lo si dice Signore delle Divinità del Suolo e delle Messi:
10. chi s’addossa gli infausti auspici del regno,
11. diventa Sovrano del mondo intero’.
12. Rette parole, [al buon senso] suonano contrarie.
L’acqua è una delle metafore piú ricorrenti nel Laozi per evocare il Dao e
colui che Lo custodisce. L’adattabilità dell’acqua è un modello di
riferimento per il Saggio, che aspira a conformarsi alla legge di natura
dimostrando umiltà, malleabilità, modestia e, infine, disponibilità ad
abbassarsi fino ad assumere responsabilità altrui (vv. 8-11): del resto, Egli
non ha scelta, dovendo occultare la propria virtú (Laozi 77.13).
Al v. 3 sono state date interpretazioni lievemente discrepanti, a seconda
del significato attribuito a yi 易 , «facile, semplice», ma anche «sostituire,
permutare». Xue Hui e Wu Cheng hanno ritenuto che il verso dovesse
essere inteso cosí come è stato qui tradotto, mentre Heshanggong e Lin Xiyi
sono dell’avviso che l’intenzione del testo fosse quella di trasmettere l’idea
che l’acqua rappresenta l’elemento piú facile (yi) da usare per sopraffare ciò
che è rigido e forte.
L’espressione sheji 社稷 nel v. 9 si riferisce alle divinità protettrici del
suolo e dei cereali e, per estensione, allude sia al territorio in cui esse
dimorano (ossia il paese intero, lo Stato) sia al rito sacrificale loro rivolto.
79 (MWD 44; BD 42B)

1. 和大怨必有餘怨
2. 安可以為善
3. 是以聖人執左契
4. 而不責於人
5. 有德司契
6. 無德司徹
7. 夫天道無親
8. 常與善人
1. Placato l’astio, rancore pur sempre resta:
2. come può ciò portare del bene?
3. Pertanto, il Saggio conserva la metà sinistra della tavoletta del
contratto,
4. senza dagli altri esigere alcunché.
5. Chi, pertanto, la Possanza possiede, agli accordi tiene fede,
6. chi la Possanza non possiede, a riscuotere le decime bada.
7. Il dao del Cielo non ha prediletti:
8. dei buoni è eterno compagno.
Nel v. 3, MWD A si distanzia da MWD B, BD e dalla vulgata nel leggere
«destra» (you 右 ) anziché «sinistra» (zuo 左 ). «Destra» e «sinistra» si
riferiscono alle due metà in cui, anticamente, veniva divisa la tavoletta (qi
契) che fungeva da contratto per sancire transazioni di vario tipo: la parte
destra era conservata solitamente dal venditore (o dal creditore), l’altra
dall’acquirente (o dal debitore). A cosa è imputabile l’introduzione di una
variante testuale cosí macroscopica come quella di MWD A? Di fatto,
questa opzione va contro il contenuto della stanza 31, secondo cui il Saggio
sposa la sinistra, di buon auspicio negli affari, mentre durante le cerimonie
funebri andrebbe privilegiata la destra. ZHENG LIANGSHU 1997 (pp. 338-39)
commenta il testo sottolineando come Laozi, presunto autore del testo,
fosse originario del regno di Chu, dove la prassi voleva che il creditore
conservasse la metà di sinistra, mentre nelle aree settentrionali sotto il
controllo Zhou, valeva la regola opposta. LIU XIAOGAN 2006 (vol. I, pp.
738-39) si sofferma sulla sensibile discrepanza attestata nelle fonti in
relazione alle differenziazioni a livello geografico e temporale
nell’assegnazione del maggior pregio alla destra oppure alla sinistra.
L’analisi di Liu Xiaogan mette in dubbio la posizione di GAO MING 1996
(pp. 214-17), secondo cui la lezione di MWD A risulta legittima, in quanto
ben piú «sottile», sofisticata – dunque difficilior – rispetto a quella della
vulgata. Per meglio far luce sulle sue implicazioni, non dovremmo
dimenticare che la Possanza del Saggio è «eccelsa» in quanto Egli rinuncia
ai privilegi derivanti dal ruolo che assume. Per questo motivo, riconoscere il
maggior peso della «destra» significa che il Saggio non si avvarrà mai dei
diritti che detiene ed eviterà di chiedere quanto gli spetta. Ciò, però, non
esclude che lo stesso possa valere per la sinistra. Tuttavia, tra le
testimonianze che confermano la preminenza della destra sulla sinistra,
menzioniamo Liji 1.30.4.27 (e il relativo commento di Zheng Xuan),
Zhuanguoce 28.1.3 e Shiji 76: 2369). La priorità assegnata alla sinistra è
palese agli occhi di Liu Xiaogan, soprattutto alla luce del contenuto di Laozi
31, e trova conferma in KIM HONGKYUNG 2012 (pp. 154-55), che chiama in
causa il passo B2.8.28.2 dello Zuozhuan nel quale si ribadisce la
predilezione del popolo di Chu per la sinistra. Il testo vuole comunque
sottolineare come il buon esito della transazione e l’eliminazione di ogni
forma di rancore dipendano dalla posizione in cui il Saggio si pone: piú in
particolare, Wang Bi illustra che, nel trattenere la parte sinistra del
contratto, il Saggio dimostra di non volere riscuotere quanto gli sarebbe
dovuto.
Degna di nota è l’occorrenza del termine che 徹 nel v. 6, che solitamente
viene reso con «decima, tassa, tributo». In realtà, questa è l’interpretazione
che si è radicata a partire dal XIV secolo, grazie a Wu Cheng, poiché gli
esegeti precedenti avevano, pressoché unanimi, assimilato che 徹 a che 轍
«impronte, tracce delle ruote di un carro sul terreno, carreggiata». Il testo,
accogliendo questa lettura, alluderebbe al fatto che quel Sovrano che non
detiene alcuna virtú, volendo in primis sanzionare i propri sudditi, ne segue
passo passo le tracce nella speranza di coglierli in fallo (guo 過 , secondo
Wang Bi) e punirli, cosí, per le loro manchevolezze (shi 失 , secondo
Heshanggong).
80 (MWD 30; BD 43)

1. 小國寡民
2. 使有什伯之器而不用
3. 使民重死而遠徙
4. 雖有舟輿無所乘之
5. 雖有甲兵無所陳之
6. 使人復結繩而用之
7. 甘其食
8. 美其服
9. 安其居
10. 樂其俗
11. 鄰國相望
12. 雞犬之聲相聞
13. 民至老死
14. 不相往來
1. Se, [come] in un piccolo regno con pochi abitanti,
2. incoraggiassimo ad abbandonare l’uso di arnesi che fanno il lavoro di
dieci o cento uomini,
3. e, il popolo, prendesse sul serio la morte e rifuggisse dall’idea
d’emigrare lontano,
4. ecco che, pur disponendo di carri e barche, non vi sarebbero motivi
per salirvi,
5. pur avendo corazze e armi, mancherebbero le occasioni per metterle
in mostra,
6. e cosí, inducendo il popolo a tornare ad annodare cordicelle e a
servirsene,
7. [ognuno, infine,] gusterebbe il proprio cibo,
8. belle troverebbe le proprie vesti,
9. al sicuro vivrebbe nelle proprie dimore,
10. e lieto sarebbe dei propri costumi,
11. tant’è che se vi fossero altri regni sí prossimi alla vista,
12. e in ognuno riecheggiasse il verso di galli e cani altrui,
13. giunti a veneranda età gli abitanti morirebbero,
14. senza mai [aver sentito il bisogno di] scambiarsi visita.
Sovente questa stanza è stata interpretata – sulla scorta del commentario
di Wu Cheng – come la celebrazione di una mitica età dell’oro in cui
piccole comunità autarchiche vivevano a stretto contatto con la natura,
incuranti l’una dell’altra, in linea con un ideale politico anarchico-
primitivista. Non dimentichiamo, però, che il Laozi in piú occasioni mira a
fornire gli strumenti piú funzionali per governare ciò che sta sotto il Cielo
(Tianxia 天下) e per amministrare un grande regno (stanze 60 e 61). Non
stupisce, dunque, come Heshanggong e Wang Zhen colgano la chiave di
lettura della stanza 80 nella necessità da parte del Saggio Sovrano di porsi
sempre nella posizione di colui che, diffidente nei confronti
dell’avanzamento della scienza, della tecnologia e del sapere, intende
applicare su larga scala un progetto di governo pensato, in realtà, per
amministrare una piccola comunità. Le espressioni xiao guo 小國 e gua min
寡民 dell’incipit potrebbero indicare, pertanto, non solo «piccolo Stato» e
«popolazione esigua», ma anche l’intenzione di «operare come se le
dimensioni del regno fossero ridotte (xiao 小 )» e «operare come se la
popolazione fosse esigua (gua 寡)». LAFARGUE 1992 (pp. 166-67), partendo
da simili presupposti, dubita che l’esaltazione del modello del piccolo regno
autarchico incarni realmente il progetto politico laoziano e scorge nella
stanza 80 un elemento volutamente «esagerato» (vedi anche HALL e AMES
2003, pp. 201-3) che ci spinge verso un’interpretazione non-letterale del
testo in questione. Non si spiega, infatti, come in una società cosí poco
evoluta tecnologicamente possano esserci tracce tanto evidenti di «cultura»
e «scienza» (rinvio ai vv. 4 e 5).
Il significato del composto shibai 什伯 nel v. 2 è stato riferito non solo a
quantità numeriche (nell’ordine, shi 什 «decine» e bai 伯 «centinaia») di
imprecisati qi 器 «strumenti, oggetti» (Wu Cheng) oppure «armi» (Jiao
Hong e Fan Yingyuan), ma anche, stando a Su Zhe e Dong Sijing, a unità
militari composte da dieci (shi 什 ) e da cento (bai 伯 ) uomini.
Nell’appoggiare la prima soluzione, nel testo emerge una marcata critica in
risposta a quanti sostenevano l’introduzione di strumenti tecnologici che
superassero per efficacia quelli del passato, come si legge nello
Shangjunshu (1.1) e nel Zhanguoce (6.26).
Il v. 3, nell’evocare il timore della morte, si riappropria dell’idea già
espressa precedentemente (stanze 72, 74 e 75) legata alla prostrazione del
popolo che, a seguito del malgoverno, nulla piú teme, neppure di perdere la
vita. Il mancato interesse verso ciò che è distante, invece, dà ulteriore forza
a quanto emerge nei vv. 7-14, in cui la soddisfazione dell’esperienza viene
ricondotta alla capacità di godere di ciò che si ha, stemperando la brama e la
curiosità verso ciò che non ci appartiene: che si tratti della conoscenza, dei
nostri vicini – nei confronti dei quali non dovremmo avvertire alcun obbligo
di frequentazione, come leggiamo nel v. conclusivo – o di beni materiali,
poco importa. Nella stanza 47 viene non a caso ribadito come «Piú esci e
piú t’allontani | Meno comprendi», proprio perché la comprensione del
mondo dipende piú dalla condizione delle nostre facoltà percettive che non
dall’accumulo di dati provenienti dall’esterno.
Il riferimento alle «cordicelle annodate» (jiesheng 結繩) nel v. 6 allude a
un primordiale sistema di registrazione degli eventi impiegato, forse, anche
per contrassegnare numericamente gli oggetti che venivano prodotti e
scambiati nelle transazioni commerciali. Nella sezione Xici (66.82.11) dello
Yijing e nel passo 39.234.1 del Baihutong il riferimento alle cordicelle
annodate richiama uno strumento di governo precedente all’introduzione
della scrittura e all’annotazione puntuale dei fatti (shu 書).
81 (MWD 31; BD 44)

1. 信言不美
2. 美言不信
3. 善者不辯
4. 辯者不善
5. 知者不博
6. 博者不知
7. 聖人不積
8. 既以為人己愈有
9. 既以與人己愈多
10. 天之道利而不害
11. 聖人之道為而不爭
1. Parole degne di fiducia non ammaliano,
2. [poiché, sovente,] parole che ammaliano di fiducia non sono degne.
3. Chi è valente, d’eloquio forbito non fa sfoggio,
4. [poiché, sovente,] chi d’eloquio forbito fa sfoggio, valente non è.
5. Chi sa non palesa erudizione,
6. [poiché, sovente,] chi lo fa, non sa.
7. Il Saggio non accumula:
8. piú per gli altri fa e piú per sé dispone,
9. piú agli altri dona e ancor piú gli resta.
10. [Se, dunque,] il dao del Cielo offese non reca, ma solo benefici,
11. il dao del Saggio suggerisce, agendo, di evitare ogni contesa.
L’ampiezza semantica di xin 信 (vv. 1-2) comprende sia «credibile,
affidabile, degno di fiducia» sia dar prova di «sincerità» nell’aderire
pienamente a ciò che «si ritiene vero». Convergendo su entrambe le
caratterizzazioni, nei dominî di xin si sovrappongono elementi che
contraddistinguono tanto la sincerità che l’affidabilità.
Nell’esprimere «sincerità» in quanto fedeltà verso sé, xin designa
sicuramente qualcosa di veritiero, ma non per questo sempre degno
dell’altrui credibilità.
Shan 善 (vv. 3-4), piú che un’imprecisata forma di «bontà», designa
l’essere esperto, l’avere perizia, ovvero dimostrare un’eccellenza nel fare
qualcosa, una capacità che non si avvale degli strumenti propri dell’eloquio
persuasivo e sofistico (bian 辯).
Secondo Wang Bi, la sequenza di massime asciutte che contraddistingue
questa stanza poggia sul presupposto che il dato essenziale, nella sua cruda
realtà (shi 實 ), risieda nella valorizzazione della «sostanza» effettiva (zhi
質), non edulcorata delle cose, la cui radice (ben 本) è saldamente ancorata
a pu 樸 , il disadorno, ruvido ceppo che non è ancora stato violato dalla
mano dell’uomo.
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Indice dei nomi

Ang 卬 (II secolo a.C.), principe di Jiaoxi

Bodde, Derk
Boltz, William
Buddha

Cao Daochong 曹道沖 (1039-1115)


Chao Yuezhi 晁說之 (1059-1129)
Cheng Xuanying 成玄英 (600-60 circa)
Chen Jingyuan 陳景元 (XI-XII secolo)
Chuzi 楚子, detto Re Zhuang di Chu (Chu Zhuangwang 楚莊王, r. 613-591 a.C.), visconte di
Chu
Confucio (Kongzi 孔子, 551-479 a.C.)

Dan 儋, vedi Taishi Dan


Deqing 德清 (Hanshan 憨山的情, 1546-1623)
Dong Sijing 董思靖 (XIII secolo)
Dou 竇 (m. 135 a.C.), imperatrice della dinastia Han
Dubs, Homer H.

Er Liang 兒良 (IV secolo a.C.)

Fan Chi (VI -V secolo a.C.)


Fan Yingyuan 范應元 (XIII secolo)
Fung Yu-lan 馮友蘭 (1895-1990)
Fu Yi 傅奕 (558-639)

Gao Heng 高亨 (1900-86)


Gong 宮, discendente di Laozi
Graham, Angus Charles
Grosch, Paul D.
Guan Yin 關尹 (III secolo a.C.)
Guo Zhongshu 郭忠恕 (X secolo)

Hadot, Pierre
Han 漢, dinastia (206 a.C. - 220 d.C.)
Hansen, Chad
Henricks, Robert G.
Heshanggong 河上公 (II secolo a.C. - III /IV secolo d.C.)
Huan (Huan gong 桓公, r. 712-694 a.C.), duca del regno di Lu
Huangdi 黃帝, imperatore mitico

Jaeger, Werner
Jia 假, discendente di Laozi
Jiao Hong 焦竑 (XVI -XVII secolo)
Jie 解, discendente di Laozi
Jing 景 (r. 156-141 a.C.), imperatore della dinastia Han

Lao Dan 老聃 (VI secolo a.C.)


Lao Laizi 老萊子 (VI -V secolo a.C.)
Laozi 老子
Lau, D.C.
Li Er (V -IV secolo a.C.; vedi anche Lao Dan 老聃)
Lin Xiyi 林希逸 (1193-1271)
Li Rong 李榮 (VII secolo)
Liu Shipei 劉師培 (1884-1919)
Liu Xiang 劉向 (79-8 a.C. circa)
Liu Xiaogan
Liu Xin 劉歆 (46 a.C. - 23 d.C.)
Li Xizhai 李息齋 (XII secolo)
Li Yue 李約 (751-810)
Lu Deming 陸德明 (556-627)
Lü Huiqing 呂惠卿 (1032-1111)
Lu Xisheng 陸希聲 (m. 895)

Madre genitrice (mu 母)


Madre Li 李
Mani (215-76), profeta e predicatore iranico
Matusalemme
Ming 明 (r. 57-75), imperatore della dinastia Han

Nangong Jingshu (VI -V secolo a.C.)


Nylan, Michael

Pan Dang 潘黨 (VII secolo a.C.)


Pieper, Josef

Qin 秦, dinastia (221-206 a.C.)


Qu Yong 瞿鏞 (1794-1846)

Ragazza di Giada, Yunu 玉女, X .


Roth, Harold

Scarpari, Maurizio
Shen Dao 慎到 (395-315 a.C. circa)
Shun 舜, imperatore mitico
Sima Qian 司馬遷 (145-86 a.C. circa)
Sun Changxing 宋常星 (XVIII secolo)
Sun Yan 孫炎 (III secolo)
Su Zhe 蘇轍 (1039-1112)

Taishi Dan 太史儋 (IV secolo a.C.)


Tang 唐, dinastia (618-907)

Wagner, Rudolf G.
Waley, Arthur
Wang Anshi 王安石 (1021-86)
Wang Bi 王弼 (226-49)
Wang Dao
Wang Yi 王逸 (II secolo)
Wang Zhen 王真 (IX secolo)
Wen 文 (r. 180-157 a.C.), imperatore della dinastia Han
Wu 武 (r. 141-87 a.C.), imperatore della dinastia Han
Wu Cheng 吳澄 (1249-1333)

Xiang Yu 項羽 (233-202 a.C.)


Xianzong 憲宗 (r. 806-20), imperatore della dinastia Tang
Xiaozong 孝宗 (r. 1163-89), imperatore della dinastia Song
Xiong Ke 熊克 (1111-84 circa)
Xi Tong 奚侗 (1878-1939)
Xuanzong 玄宗 (r. 712-56), imperatore della dinastia Tang
Xu Dachun 徐大椿 (1693-1771)
Xue Hui 薛蕙 (1489-1539)
Xunzi 荀子 (313-238 a.C. circa)

Yang Wangsun 楊王孫 (II-I secolo a.C.)


Yang Zhu 楊朱 (IV secolo a.C.)
Yan Zun 嚴遵 (83 a.C. - 10 d.C.)
Yao Nai 姚鼐 (1732-1815)
Ye Mengde 葉夢得 (1077-1148)
Yin Xi 尹喜 (III secolo a.C.)
Yu Yue 俞樾 (1821-1907)

Zhang Daoling 張道陵 (II secolo)


Zhang Lu 張魯 (188-220 circa) Zheng Xuan 鄭玄 (127-200)
Zhou 周, dinastia (XI -III secolo a.C.)
Zhu 注, discendente di Laozi
Zhuang Zhou 莊周 (IV -III secolo a.C.)
Zhuang Zun 莊遵, vedi Yan Zun
Zhu Qianzhi 朱謙之 (1899-1972)
Zong 宗, discendente di Laozi
Il libro

«N ESSUNO POTRÀ MAI COMPRENDERE LA CINA O RITENERSI DEGNO CITTADINO


del mondo senza avere almeno una minima idea del Laozi».
Chan Wing-tsit, studioso cinese, 1901-94

Senza nome, inafferrabile, impalpabile, evanescente, minuto eppure infinito…


questo è il Dao. Anzi, solo questo, forse, si può dire del Dao, ineffabile Assoluto che
il linguaggio non carpisce e che solo un’esperienza di totale abbandono consente di
esperire e contemplare al di là della sua mancata manifestazione.
Il Daodejing è l’opera che raccoglie l’impossibile sfida di accostarsi a ciò che si
sottrae al giogo delle parole, per misurarsi con il tentativo estremo di sospingere il
linguaggio oltre il limite di un paradossale discorso su ciò di cui nulla può esser
detto. Noto anche come Laozi o Laozi Daodejing, quest’autentica gemma della
letteratura mondiale è stata gradualmente compilata a partire dal IV-III secolo a.C. ed
è assurta a scrittura canonica per eccellenza del daoismo. Scritta in una lingua
asciutta e aspramente lirica, essa ha esercitato nell’arco di una lunghissima storia
un’influenza inversamente proporzionale alla sua brevità, diffondendosi ben oltre i
confini cinesi in Oriente come in Occidente e ispirando una sconfinata letteratura
esegetica.
Pervaso di una potenza evocativa senza pari, il Daodejing esplora l’inesplorabilità
del Dao fino a lambire il precipizio che s’affaccia sull’origine del cosmo, aprendo
squarci improvvisi sull’arcana natura di quella forza che permea l’intero mondo,
assumendo i tratti della Madre da cui traggono origine i Diecimila Esseri.
L’autore

ATTILIO ANDREINI insegna Lingua cinese classica all’Università Ca’ Foscari di


Venezia. Il suo ambito di studi copre vari aspetti della cultura cinese antica: dalla
storia del pensiero all’evoluzione della lingua, dalla paleografia alla codicologia.
© 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: statua di Laozi, bronzo, X secolo. New York, Metropolitan Museum of Art. (Foto
del Museo).

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Ebook ISBN 9788858428016

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