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28 maggio 2023 - 13:46 > Versione online

Cos'è e come combattere la gogna


mediatica sui social network
Sono tempi in cui una parola di troppo o un gesto scorretto possono distruggere una
reputazione: ecco quali sono le conseguenze
Di Raffaella Serini
28/05/2023
Nel 2015, l’autore inglese Jon Ronson ha pubblicato un libro dal titolo inequivocabile: I
giustizieri della Rete. Raccontava di come Facebook e Twitter, i social network più
popolari dell’epoca, alimentassero i peggiori istinti moralizzatori delle persone, dando
vita a una versione moderna e violentissima della gogna pubblica. Di che si tratta
esattamente? Dell’accusare pubblicamente una persona per aver detto una parola di
troppo o di cattivo gusto, oppure per avere avuto un atteggiamento giudicato scorretto.
Con il risultato di scatenarle addosso una shitstorm: una tempesta di cacca, come la
chiamano gli inglesi, ossia una pioggia di minacce e insulti a mezzo social, che cresce in
maniera esponenziale ogni secondo.
L'inevitabile gogna pubblica dei social network
Oggi che a Twitter e Facebook si sono aggiunti anche Instagram, TikTok e altri
social, la situazione è nettamente peggiorata. Ne sanno qualcosa le tre ragazze italiane
che, come avrete letto, sono state filmate su un treno mentre ridevano e facevano
battute sciocche su un gruppo di stranieri: il caso ha voluto che in quel gruppo ci fosse
anche un’influencer statunitense, la quale, sentendosi offesa dal loro comportamento, le
ha filmate e ha pubblicato il video su TikTok, accusando apertamente di razzismo le tre
e chiedendo a chi guardasse di "trovarle e farle vergognare".
In men che non si dica le ragazze sono state riconosciute, i loro nomi e cognomi resi
pubblici e il video ha fatto il giro del web, al punto che persino le loro università ne hanno
dovuto prendere le distanze. Spiega Manolo Farci, docente di Sociologia dei processi
culturali e comunicativi presso l'Università di Urbino: "Questo meccanismo si chiama
name and shame e consiste nel denunciare sui social una o più persone per un
comportamento ritenuto inaccettabile con l’obiettivo di 'dare loro una lezione',
aizzando gli utenti con parole di odio, minacce di morte o atti di doxxing (rivelazione di
dati personali, ndr). L’aspetto più drammatico è che l’azione viene fatta in nome di ideali
alti e nobili, come la lotta al razzismo, al sessismo e alle discriminazioni". Alla base c’è
una sorta di ricatto morale, perché chi non partecipa alla gogna o, addirittura, prova a
prendere le difese dell’accusato viene indiziato di complicità. "Se difendi tre razziste sei
razzista pure tu", hanno scritto a Farci. Ed è parte del meccanismo.
Il risultato è una sorta di Inquisizione 2.0 in cui si dice il peccato e anche il peccatore. E il
peccatore può essere chiunque, personaggio famoso o sconosciuto, ossia ciascuno di
noi. "Chiunque può estrapolare una battuta da un contesto e buttarla in pasto ai follower
creando un danno enorme alla reputazione di una persona. E questo equivale all’essere
condannati alla morte sociale", osserva il sociologo.

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28 maggio 2023 - 13:46 > Versione online

Edward BerthelotGetty Images


I rischi del public shaming
La metafora non è ardita. Se è vero, infatti, che facendo ricorso a un giudice si può
facilmente ottenere la cancellazione di un video e/o il mascheramento del volto, è
altrettanto vero che tutto ciò che viene pubblicato in rete rimane lì per sempre, e i link si
ripropongono all’infinito all’attenzione di un pubblico sempre diverso e sempre maggiore.
Con conseguenze talvolta devastanti: "C’è chi dopo un episodio di public shaming ha
sofferto di stress post-traumatico, chi ha tentato il suicidio", racconta Farci. "Perché
non c’è niente di peggio che distruggere la dignità di una persona attraverso la
vergogna".
Talvolta, la pratica dello shaming può avere un’influenza positiva e viene utilizzata in
settori cruciali della società: gli sprechi d’acqua vengono "svergognati" in Sudafrica, i
molestatori sessuali negli Stati Uniti e gli automobilisti in Australia. Inoltre, secondo
l’Ocse, il public shaming è il quarto strumento più utilizzato contro gli evasori fiscali nel
mondo, con esiti incoraggianti. La differenza, però, è che mentre questi sono tutti dei
reati, "nel caso delle ragazze l’unico reato conclamato è quello commesso
dall’influencer, che ha condiviso informazioni personali online", commenta Farci.
A ribadirlo è anche Guido Scorza, giurista e componente del Garante per la protezione
dei dati personali. "Siamo verosimilmente di fronte a un illecito significativo della privacy:
anche se la scena si svolge in un luogo pubblico, questo non vuol dire che possa essere
destinata alla mondovisione, soprattutto se alle persone riprese si attribuisce un fatto
grave, a prescindere se a torto o a ragione. Per rimanere nel giusto, la vittima avrebbe
potuto mostrare il filmato alle forze dell’ordine, utilizzando il video come prova di quello
che si considera un’offesa o un reato, ma che sta alle autorità giudicare. La gogna ce la
siamo lasciata alle spalle qualche secolo fa ed è stata una vittoria". Oltre che strumenti
per contenere la diffusione di immagini e di informazioni personali, la nostra giurisdizione
prevede anche sanzioni per chi li diffonde. "È un modo per disincentivare la violazione
della privacy altrui", sottolinea Scorza.
Quando la community diventa branco
Quello della vergogna pubblica è un vizio antico, ma che oggi viene amplificato dai
social ("fatti per accrescere l’approvazione sociale") e che, secondo il sociologo, si è
ingigantito con la pandemia. L’aspetto più subdolo è che chi vi partecipa spesso non lo
fa con cattiveria ma mosso da un intento positivo, perché vuole partecipare a una causa
giusta. "Solo che a un certo punto la community diventa branco e sragiona".

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Per capire meglio il principio basta pensare alle ronde, quelle vere. "Anche lì ci sono
persone che si mettono insieme per cercare presunti colpevoli e punirli. Ma in una
democrazia non ci si fa giustizia da soli, non si punisce uno per educarne cento". Certo,
da un lato i social possono anche essere uno strumento potente per sensibilizzare le
persone su determinati argomenti, ma per farlo non è necessario prima distruggerle.
"L’influencer americana che si è legittimamente sentita offesa e arrabbiata, anziché
pubblicare il video delle tre ragazze, avrebbe potuto limitarsi a raccontare l’accaduto e
cercare la solidarietà del pubblico dicendo di avere subito un’ingiustizia", conclude Farci.
"Sono certo che avrebbe centrato l’obiettivo molto più di così".
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