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Tipologia

B
ANALISI E PRODUZIONE
DI UN TESTO ARGOMENTATIVO

© Loescher Editore - Torino


© Loescher Editore - Torino
Tipologia B

TIPOLOGIA B
ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO
• La tipologia B sarà proposta con tre prove di diverso ambito, a partire da un testo compiuto o
da un estratto significativo ricavato da una trattazione più ampia.
• Il testo scelto sarà un testo argomentativo di tipo saggistico o giornalistico (in particolare,
articoli in forma di editoriale scritti da intellettuali o esperti di fama).
• I tre testi saranno scelti all’interno dei seguenti ambiti: artistico, letterario, storico, filosofico,
scientifico, tecnologico, economico, sociale.

Che tipo di prova è?


È una prova di tipo strutturato perché si compone di due parti:
• prima parte: comprensione e interpretazione sia di singoli passaggi sia dell’insieme (ad
esempio: quali sono le sequenze essenziali del discorso? Quale la tesi viene sostenuta? Quali
risorse espressive per sostenere l’opinione? Fai il riassunto ecc.);
• seconda parte: commento argomentativo sulla tesi o il tema proposti nel passo, con even-
tuali vincoli.

PRIMA PARTE (COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE DEL TESTO)


Come si propone di saggiare le capacità e le competenze specifiche dello studente?
• Attraverso richieste di attività come il riassunto;
• attraverso quesiti specifici su singoli passaggi o sull’intero passo;
• attraverso l’individuazione delle sequenze e/o dei nuclei informativi di cui si compone il
testo;
• attraverso l’individuazione dei rapporti logico-sintattici che legano tra loro i passaggi;
• attraverso l’individuazione della tesi, dell’antitesi, delle argomentazioni e della loro tipo-
logia;
• attraverso l’analisi e la valutazione delle soluzioni espressive adottate per sostenere una
tesi ecc.

SECONDA PARTE (COMMENTO ARGOMENTATIVO)


Come si propone di attivare le capacità di produzione autonoma?
• Attraverso la richiesta di un testo discorsivo coerente e coeso che rispetti una progressione
tematica efficace;
• in forma di commento argomentato, in cui lo studente sarà chiamato a esprimere una sua
opinione motivata sulla tesi e/o il tema trattato/i dal testo proposto;
• nel rispetto delle caratteristiche tipiche di una scrittura argomentativa più o meno vinco-
lata (eventuali vincoli testuali da soddisfare potranno essere indicati o meno nella consegna).

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Ambito artisticoi
Bénédicte Savoy
Restituiamo. Ma con gioia
In due minuti e trenta secondi, il 28 novembre 2017, Emmanuel Macron ha spazzato via in un
solo colpo svariati decenni di atti e di discorsi ufficiali francesi in materia di patrimonio cultu-
rale e di musei. L’ha fatto in un «luogo dove non si può barare», come l’ha definito, la sovraffol-
lata aula magna di un’Università africana, sotto gli occhi del presidente burkinese Roch Kaboré
5 e degli obiettivi delle telecamere di France 24.
L’ha fatto a nome della gioventù, genio tutelare invocato sette volte: «Appartengo a una ge-
nerazione di francesi per i quali i crimini del colonialismo europeo sono incontestabili e fanno
parte della loro storia». «Voglio che nell’arco di cinque anni si siano verificate le condizioni per
delle restituzioni temporanee o definitive del patrimonio culturale africano all’Africa». Applau-
10 si e fischi. Su Twitter, l’Eliseo rincara la dose: «Il patrimonio culturale africano non può essere
prigioniero dei musei europei». […]
La storia delle collezioni africane è una storia europea, un affare di famiglia se si vuole, in
cui curiosità estetica, interessi scientifici, spedizioni militari, reti commerciali e «opportunità»
di ogni genere hanno contribuito ad alimentare le logiche del dominio, dell’affermazione e del-
15 le rivalità nazionali. I musei delle capitali europee sono i depositari della creatività umana, ma
anche, non per colpa loro, di una storia più triste e troppo raramente raccontata.
Ancora oggi, in Francia come altrove in Europa, la semplice parola «restituzione» suscita au-
tomaticamente una reazione di arroccamento in posizioni difensive. Di questo tipo di reazione
diede dimostrazione pubblica François Mitterrand nel 1994 quando, per ringraziare Helmut Kohl
20 per la restituzione da parte della Germania di 27 quadri francesi sottratti dai nazisti, commentò:
«Quanti conservatori dei nostri Paesi, quanti responsabili dei nostri grandi musei devono questa
sera provare una certa inquietudine. E se questo si generalizzasse? Non credo di sbagliare nel
pensare che questo esempio resterà isolato e che il contagio si arresterà molto in fretta».
Restituzioni e contagio; prudenza politica e terrore dei musei: apparteniamo a una gene-
25 razione che ha conosciuto soltanto restituzioni dolorose o strappate dopo lunghe lotte. Nessu-
no in Francia ha dimenticato la «guerra di trincea» sostenuta nel 2010 dai conservatori della Bi-
bliothèque Nationale de France quando, a margine di trattative commerciali, Nicolas Sarkozy si
era impegnato a restituire alla Corea del Sud quasi 300 preziosi manoscritti provenienti da una
spedizione punitiva dell’esercito francese nel 1866. Nessuno dimentica in Italia il mezzo secolo
30 di negoziati che fu necessario per rendere all’Etiopia l’obelisco di Axum sottratto da Mussolini
nel 1937. E a nessuno a Berlino piacerebbe se un giorno si restituisse alla Tanzania l’immenso
scheletro fossile del più grande dinosauro del mondo, il Brachiosaurus brancai, «importato» nel
1912 dai territori allora soggetti al protettorato del Reich.
Si possono per il futuro ipotizzare restituzioni felici e condivise nel duplice interesse dei
35 popoli e degli oggetti? È possibile pensare a restituzioni in cui la posta in gioco non sia pura-
mente strategica, né semplicemente politica o economica, ma anche e veramente culturale?
L’annuncio fatto a Ouagadougou1 sembra rispondere positivamente alla domanda. Trae forza
da un cambio di generazione. Suggerisce che una condivisione è possibile. E, contro ogni aspet-
tativa, non ha suscitato quella levata di scudi istituzionale cui ci hanno abituato (ancora un
40 riflesso incondizionato) le discussioni di questi ultimi anni. […]

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Ora che si fa? Prima di tutto, in fretta e senza fare finta, si uniscano al dibattito france-
se voci multiple di attivisti, intellettuali, responsabili politici, professionisti di musei, africani
d’Africa e africani della diaspora, mecenati, insegnanti, artisti, persone che auspicano le resti-
tuzioni e persone contrarie. Ci si metta intorno a un tavolo, ci si ascolti.
45 Successivamente si faccia bene attenzione a non interferire nella sfera decisionale altrui.
Quando, dopo Waterloo, la Francia restituì all’Europa le opere trasferite a Parigi durante la Ri-
voluzione e l’Impero, non spiegò al papa e ai sovrani di Germania, Austria, Spagna ecc. il modo
corretto per valorizzare e conservare le loro collezioni. Ci vollero in molti casi vari decenni e
dibattiti contraddittori perché questi Paesi avessero politiche culturali «moderne» e infrastrut-
50 ture adatte. […] Allo stesso modo, nel 1945 gli americani non dissero ai francesi come trattare
le opere da loro recuperate nella Germania nazista e lo Stato francese non esitò, al ritorno di
queste opere, a venderne diverse migliaia all’asta. Bisogna lasciare a quanti recuperano le opere
l’attenzione e il tempo di trovare le soluzioni per loro migliori.
E poi, e soprattutto, bisogna permettersi di sognare: immaginare delle configurazioni giu-
55 ridiche inedite, testare nuove forme di collaborazione, come quelle praticate da dieci anni dalla
Fondation Zinsou nel Benin2, inventare dei modelli flessibili, adattati alle realtà di un conti-
nente immenso […]. Bisogna pensare in piccolo e in grande, a corto e a lungo termine. Bisogna
pensare, naturalmente, a quelli che riceveranno le opere, ma non bisogna sottovalutare quelli
che, in Francia e altrove, si sentiranno forse feriti nel loro «orgoglio patrimoniale» o nella loro
60 «identità culturale».
Bisognerà prendersi il tempo necessario per spiegare all’opinione pubblica di «casa no-
stra» che cosa è stato fatto e perché, raccontare ai visitatori dei musei come si erano formate le
collezioni, come, quando e a quale prezzo queste opere sono arrivate da noi. Bisognerà rimette-
re in discussione certe «evidenze» e certi «tabù» museografici. Se dobbiamo percorrere questa
65 via, dobbiamo percorrerla con gioia, una gioia responsabile, prudente e consapevole che dia
un’anima a questo grande progetto del XXI secolo. «Voglio che nell’arco di cinque anni si siano
verificate le condizioni per delle restituzioni temporanee o definitive del patrimonio culturale
africano in Africa», ha detto Macron. Scommettiamo…
(B. Savoy, Restituiamo. Ma con gioia, «Il Giornale dell’Arte», 384, marzo 2018)

1. Ouagadougou: capitale del Burkina Faso.


2. Benin: il Benin è un altro Stato dell’Africa occidentale. Ex colonia francese, confina a nord con il Burkina Faso.

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Comprensione e interpretazioneI
1 Individua i cinque blocchi in cui è organizzato il testo. Li elenchiamo qui sotto, ma nell’articolo
non si trovano in quest’ordine.
a. due capoversi pongono la questione delle collezioni di arte africana a partire da una dichia-
razione di Emmanuel Macron;
b. un capoverso contiene la tesi;
c. un capoverso esplicita la contraddizione che caratterizza le collezioni di arte africana;
d. quattro capoversi mostrano a quali condizioni la tesi può essere sostenuta;
e. due capoversi portano esempi delle difficoltà legate alle restituzioni.
2 La tesi si trova all’inizio, a metà o alla fine del testo? Riassumila.
3 Perché il patrimonio culturale africano è definito «prigioniero dei musei europei»?
4 Come spieghi l’uso della metafora della «guerra di trincea»?
5 L’autrice utilizza alcune domande dirette: come spieghi questa scelta stilistica?
6 Riassumi l’articolo utilizzando circa 250 parole.

CommentoI
7 Scrivi un testo lungo al massimo tre colonne di foglio protocollo in cui sostieni oppure con-
futi l’opportunità di restituire alcune opere africane ai Paesi d’origine. Dovrai fondare le tue
argomentazioni sugli esempi storici riportati nell’articolo, ragionando sul significato sociale e
politico delle istituzioni museali.

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Ambito artisticoi
Mario Coppola
Il ruolo dell’architettura nell’Antropocene
Dalle colonne di Domus EcoWorld, Leonardo Caffo1 muove una durissima critica al modo in cui
la progettazione – dal design all’urbanistica – affronta la crisi ambientale. Il filosofo definisce
gli sforzi compiuti dall’architettura green come «retorica» e spiega come sia venuto il momento
di agire concretamente sull’impatto dell’antropizzazione, concludendo: «Il futuro ha l’aspetto di
5 una capanna, non di un grattacielo».
Come dargli torto: gli sconquassamenti provocati dalle attività umane sono talmente im-
mensi e devastanti per gli equilibri planetari che, di certo, né la vegetazione né i pannelli foto-
voltaici, messi su qualche edificio, possono costituire un rimedio. Anche perché l’innalzamento
della temperatura di altri due gradi, sufficiente a innescare catastrofi di proporzioni apocalitti-
10 che perfino in questo secolo, sotto i nostri stessi occhi, sembra ormai inevitabile.
Prima degli allarmi lanciati negli ultimi decenni dalla comunità scientifica internaziona-
le, questo appello, con la stessa durezza sferzante, fu urlato al mondo da Paolo Soleri2 negli anni
Sessanta: l’architettura e la città, prodotti dello sviluppo culturale e tecnologico della civiltà
occidentale, sono intrinsecamente insostenibili e, per questo, compito dell’architetto è immagi-
15 nare nuovi scenari, nuove soluzioni. Soleri era un rivoluzionario, usò il termine «frugale» rife-
rendolo alla costruzione di edifici e spazi comuni e capì che, restando nelle metropoli, avrebbe
fatto solo retorica. Perciò si auto-esiliò nel deserto dell’Arizona e diede vita a Cosanti e Arcosanti:
arcologie, micro-città, ecosistemi umani in armonia con il resto del pianeta, utopie viventi fatte
di cemento modellato col terreno, di sudore, di mani e di corpi. A Cosanti, pochi anni fa, Soleri è
20 morto senza essere riuscito nell’impresa, tanto coraggiosa quanto solitaria, di salvare il mondo.
La storia dell’architetto torinese dimostra la spietata tesi di Manfredo Tafuri3: l’architettura,
per quanto ispirata da buoni propositi, non realizza utopie. Ecco perché accusare gli architetti
di retorica e simbolismo rischia di essere improduttivo: a meno che non scelgano l’Aventino,
come fece Soleri, gli architetti sono per definizione dei creatori di forme, di figure, di simboli; e
25 non hanno alcun potere sulla dimensione concreta di cui parla Caffo.
Nel migliore dei casi sono ingaggiati da entità pubbliche democratiche e progressiste,
nel peggiore da governi autoritari o da privati senza scrupoli: ad ogni modo – e non è sto-
ria nuova – gli architetti non agiscono per loro conto ma negli interessi di qualcun altro;
qualcuno che, quasi certamente, fa parte del grande paradigma economico-culturale fondato
30 sull’antropocentrismo. Dunque, purtroppo, nessun architetto avrebbe la forza di convincere
i suoi clienti ad abbandonare la strada dei grattacieli, delle industrie e degli aerei, anche se è
la strada per l’annientamento: ormai tutti conoscono le previsioni degli scienziati sulle con-
dizioni future del nostro pianeta, eppure, ciò nonostante, a un committente che chiede una
torre, o una modesta casa in campagna, non si propone una capanna senza essere liquidati
35 in pochi secondi.
Insomma, l’edificazione va regolamentata alla luce delle esigenze dell’ambiente. Solo in
questo modo sarà possibile progettare secondo nuovi schemi cui tutti, architetti, committenti

1. Leonardo Caffo: filosofo e saggista siciliano. 3. Manfredo Tafuri: storico dellʹarchitettura (1935-94).
2. Paolo Soleri: architetto, scrittore e urbanista torine-
se (1919-2013).

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Tipologia B

e fruitori, dovranno adeguarsi. Siamo quindi nel dominio della politica, che, in democrazia, rap-
presenta la volontà della maggioranza: è questo il campo in cui si può pianificare, attraverso le
40 leggi, aree “protette”, lasciate al non-umano, bandire alcune tipologie architettoniche, proibire
materiali e tecnologie, incentivarne altre, ridurre il costruito o sostituirlo con villaggi di capan-
ne. Questa, semplicemente, non è giurisdizione dell’architetto.
L’architettura esiste solo quando c’è trasformazione di un ambiente, ed è nel modo in cui
ciò accade, cioè nel come l’ambiente viene trasformato, che l’architetto può intervenire, sce-
45 gliendo che il suo manufatto sia di pietra, terra o cemento, che ospiti alberi e altre specie (a
patto che, con le leggi attuali, la committenza accetti di perdere spazio) e da quali geometrie
sia modellato. Perché l’architettura è sublime inutilità, è spazio, cioè linee, superfici, volumi:
nient’altro.
Ciò non significa che gli architetti debbano restare a guardare mentre si distrugge la Ter-
50 ra. L’arte, nel suo piccolo, influenza il mondo toccandone la coscienza (Argan), e anche l’architet-
tura, mera istanza di forma, in questo perimetro d’azione ha un potere e una responsabilità:
quella di esprimere l’identità dell’uomo, i suoi desideri, i suoi intenti più profondi. E, se da un
lato esprime tutto questo, dall’altro può ispirare un’idea, può dar corpo a un sogno. Nel nostro
tempo, l’Antropocene4, l’architettura può – deve – persino inventare e rappresentare uno scenario
55 diverso, di coesistenza e simbiosi con la biosfera, suggerendo una strada nuova che, però, starà
al mondo (e alla politica) ignorare o intraprendere.
(M. Coppola, Il ruolo dell’architettura nell’Antropocene, «Domus», 27 novembre 2018)

4. Antropocene: il termine indica l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente è fortemente influenzato e modifica-
to dall’azione dell’uomo.

Comprensione e interpretazioneI
1 Spiega la funzione di ciascun capoverso nel confutare la tesi di Caffo e corroborare quella
dell’autore. Il primo, ad esempio, espone la tesi da confutare.
2 Trovi che la scelta di spiegare il ruolo dell’architettura nella chiusa del testo sia efficace? Motiva
la tua risposta.
3 Perché l’autore, pur delineando un ruolo attivo e positivo per l’architettura, parla di «sublime
inutilità» (r. 47)?
4 In che senso un architetto può essere definito «retorico» in relazione alle tematiche ambien-
tali?
5 Quali sono i limiti del campo d’azione dell’architetto secondo l’autore? In che modo, all’interno
di questi limiti, l’architettura può diventare un modello positivo?
6 Riassumi il testo in 200 parole.

CommentoI
7 Scrivi un testo argomentativo in cui sostieni o confuti la posizione dell’autore stabilendo un
confronto con almeno un caso in cui – nel Novecento – l’arte e l’architettura abbiano avuto uno
stretto legame con ideali utopici.

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Ambito artisticoi
Walter Benjamin
L’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica
Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta
scaricata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettan-
za dell’occhio che guardava dentro l’obiettivo. Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non
la mano a disegnare, il processo della riproduzione figurativa venne accelerato al punto da es-
5 sere in grado di star dietro all’eloquio. L’operatore cinematografico nel suo studio, manovrando
la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa velocità con cui l’interprete parla. Se
nella litografia era virtualmente contenuto il giornale illustrato, nella fotografia si nascondeva
il film sonoro. La riproduzione tecnica del suono venne affrontata alla fine del secolo scorso.
Questi sforzi convergenti hanno prefigurato una situazione che Paul Valéry1 definisce con que-
10 sta frase: «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica entrano grazie a uno sforzo quasi nullo,
provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo
approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto,
quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Verso il 1900, la riproduzione tecnica aveva raggiunto
un livello che le permetteva non soltanto di prendere come oggetto tutto l’insieme delle opere
15 d’arte tramandate e di modificarne profondamente gli effetti, ma anche di conquistarsi un po-
sto autonomo tra i vari procedimenti artistici. […]
Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et
nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio
su questa esistenza, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del
20 suo durare. In quest’ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha subito nella sua strut-
tura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di proprietà in cui può essersi venuta a
trovare. La traccia delle prime può essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche o fisiche
che non possono venir eseguite sulla riproduzione; quella dei secondi è oggetto di una tradizio-
ne la cui ricostruzione deve procedere dalla sede dell’originale.
25 L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità.Analisi di genere chi-
mico della patina di un bronzo possono essere necessarie per la constatazione della sua auten-
ticità; corrispondentemente, la dimostrazione del fatto che un certo codice medievale proviene
da un archivio del secolo XV può essere necessaria per stabilirne l’autenticità. L’intero ambito
dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica – e naturalmente non di quella tecnica
30 soltanto. Ma mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione ma-
nuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riprodu-
zione tecnica. Essa può, per esempio mediante la fotografia, rilevare aspetti dell’originale che
sono accessibili soltanto all’obiettivo, che è spostabile e in grado di scegliere a piacimento il
suo punto di vista, ma non all’occhio umano, oppure, con l’aiuto di certi procedimenti, come
35 l’ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini che si sottraggono intera-
mente all’ottica naturale. È questo il primo punto. Essa può inoltre introdurre la riproduzione

1. Paul Valéry: scrittore, poeta e filosofo francese (1871-1945).

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dell’originale in situazioni che all’originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli per-
mette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La cattedrale
abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è
40 stato eseguito in un auditorio oppure all’aria aperta può venire ascoltato in una camera.
Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione tecnica può venirsi a tro-
vare possono lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte – ma in ogni modo de-
terminano la svalutazione del suo hic et nunc. Benché ciò non valga soltanto per l’opera d’arte,
ma anche, e allo stesso titolo, ad esempio, per un paesaggio che in un film si dispiega di fronte
45 allo spettatore, questo processo investe, dell’oggetto artistico, un ganglio che in nessun oggetto
naturale è così vulnerabile. Cioè: la sua autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza
di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla
sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzio-
ne, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della
50 cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della
cosa.
Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di «aura»; e si
può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’«aura» dell’opera d’arte. Il
processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della
55 riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizio-
ne. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa
di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua
particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano a un violento rivol-
gimento che investe ciò che viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra
60 faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente lega-
ti ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema.
(W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa,
trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1998)

Comprensione e interpretazioneI
1 Descrivi la struttura argomentativa del testo e spiega sinteticamente la tesi di Walter Benja-
min.
2 Quali cambiamenti ha introdotto la fotografia nella fruizione dell’opera d’arte?
3 Cosa intende Benjamin con «aura» (r. 52)? E perché egli ritiene che venga messa in crisi dalla
fotografia e dal cinema?
4 Che ruolo ha secondo te la citazione di Paul Valéry?
5 Ti sembra che Benjamin fornisca una valutazione dei cambiamenti innescati dalla fotografia e
dal cinema oppure che ne analizzi gli effetti in modo distaccato? Motiva la tua risposta basan-
doti sul lessico e sulla struttura logica del testo.
6 Riassumi il testo in 200 parole circa.

CommentoI
7 Ti sembra che l’«aura» dell’opera d’arte abbia subito un ulteriore cambiamento nell’epoca di
Internet? Esprimi la tua posizione in un testo di tre colonne al massimo.

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Ambito letterarioi
Italo Calvino
Esattezza
Cercherò prima di tutto di definire il mio tema. Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;
2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un
aggettivo che non esiste in inglese, «icastico», dal greco eikastikós;
5 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pen-
siero e dell’immaginazione.
Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvi? Credo
che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguag-
gio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intol-
10 lerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il
fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno pos-
sibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto
è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare
le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura – dico la letteratura che
15 risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che vera-
mente dovrebbe essere.
Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà
che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come
perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’e-
20 spressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare
le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove
circostanze. Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da ricercare
nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-me-
dia, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità
25 di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino
l’espandersi della peste del linguaggio.
Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste.
Anche le immagini, per esempio.
Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’immagini; i più potenti media non fanno che
30 trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di
specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratte-
rizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza di imporsi all’attenzione,
come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve im-
mediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una
35 sensazione d’estraneità e di disagio.
Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La
peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi,
casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato
nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura.
(I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988)

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Comprensione e interpretazioneI
1 Analizza e illustra gli snodi argomentativi del testo di Calvino.
2 Spiega l’affermazione «La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la
Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere» (rr. 14-16).
3 Spiega l’affermazione «Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto:
è nel mondo» (r. 36).
4 Valuta le scelte espressive operate dall’autore, soffermandoti sul ricorso al linguaggio meta-
forico e ai campi semantici oppositivi ricorrenti (campo semantico oppositivo: un insieme di
parole che rinviano a un’opposizione di significato, ad esempio: «alto-basso», «caldo-freddo»,
«giusto-sbagliato» ecc).
5 Riassumi il testo in 8 righe.

Commentoi
6 Considera il messaggio di Italo Calvino in relazione alla situazione odierna. Ti sembra mostrare
ancora spunti di attualità? Argomenta la tua posizione in un commento di almeno tre colonne
di foglio protocollo, da cui si evinca la tua tesi corredata da esempi tratti dalla realtà contem-
poranea e dal mondo dei media.

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Tipologia B

Ambito letterarioi
Tullio De Mauro
Scuola e linguaggio
Se noi sottolineiamo il fatto che al momento della unificazione politica soltanto lo 0,8% della
popolazione italiana conosceva l’italiano, non è per dire che i dialetti erano zizzania1, erano
malerba, ma per fare tutt’altro discorso. Che cosa era male? Era male l’uso obbligatorio ed esclu-
sivo del dialetto. Dov’era il drammatico? Non nella capacità del calabrese o del piemontese di
5 parlare piemontese, ma nel fatto che il parlare calabrese per il calabrese e piemontese per il pie-
montese era una specie di steccato e di ghetto. Il male era nel fatto che il calabrese non sapeva
parlare altro che calabrese e il piemontese non sapeva parlare nient’altro che il piemontese. […]
Quella che poteva essere (ed è, come vedremo) una ricchezza di mezzi espressivi (il possesso di
questo idioma familiare e locale) diventava una pesante palla al piede, una gabbia.
10 La situazione era da questo punto di vista drammatica, perché, al di fuori del nucleo to-
scano di circa mezzo milione di persone e al di fuori di un piccolo nucleo romano di circa
settantamila persone, per il resto, su una popolazione di circa 20 milioni di abitanti quelli che
parlavano italiano erano circa 160 000 o, meglio, quelli che avrebbero potuto parlare italiano
erano 160 000. Perché, ovviamente, voi capite che Alessandro Manzoni, uscendo di casa a Mi-
15 lano, non aveva senso che abbordasse in italiano la persona che incontrava, perché al 99% non
sarebbe stato capito.
Dimodoché, come Manzoni stesso ci racconta, parlava dialetto lui, il più grande prosa-
tore italiano, abitualmente; e lui stesso scriveva al ministro Broglio (ministro della pubblica
istruzione dal nome singolare, quasi profetico, diciamo) che l’italiano, nel 1868, era ancora una
20 «lingua morta». […]
Se voi andate a vedere i momenti di sviluppo del processo di acquisizione dell’istruzione
da parte delle classi popolari, vi accorgerete che la spinta di questo processo non è in una de-
cisione delle classi dirigenti, ma è largamente nelle spinte e nelle necessità maturate in quelle
che la «Civiltà cattolica»2 chiamava «classi infime». Perché diciamo questo? Perché sulla carta
25 l’obbligo dell’istruzione in Italia esisteva dal 18593, ma è rimasto inoperante finché non è stato
conquistato e realizzato dalle classi popolari, anzitutto con la grande emigrazione4. […] Se voi
andate a guardare statisticamente come vanno le cose, vedrete che nelle zone di maggiore emi-
grazione si verificano i più alti incrementi di frequenza contadina e operaia nelle scuole. […]
Altri momenti di questo lungo processo di conquista della capacità di usare la lingua ita-
30 liana sono le massicce migrazioni interne che hanno sconvolto completamente la demografia
del Sud, del Centro e del Nord dell’Italia, o la diffusione dell’ascolto televisivo, a partire dal ’53,
che, come risulta dai dati, ha inciso più della scuola. Vale a dire: se uno ha fatto cinque anni di
scuola elementare e non ascolta mai la televisione e uno ascolta abitualmente la televisione e

1. zizzania: il senso letterale, su cui De Mauro voluta- 3. dal 1859: si riferisce alla legge Casati, varata nel Re-
mente gioca, indica il nome di un’erba infestante e, per- gno di Sardegna e poi estesa al neonato Regno d’Italia;
tanto, considerata nociva per le piantagioni. rendeva obbligatorio il primo biennio della scuola ele-
2. «Civiltà cattolica»: rivista dei Gesuiti, schierata dopo mentare.
l’Unità d’Italia su posizioni reazionarie e contrarie all’e- 4. grande emigrazione: allusione ai fenomeni migra-
stensione dell’obbligo dell’istruzione elementare. tori degli italiani all’estero (America del Sud e del Nord)
tra il 1880 e il 1914.

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non ha fatto la scuola elementare, capisce e parla meglio l’italiano chi ascolta abitualmente la
35 televisione e non ha fatto la scuola elementare, specie in area meridionale.
C’è dunque un influsso positivo che viene anche dalla «malfamatissima» televisione
italiana; ma ciò si spiega per il fatto che in Italia la scuola funziona così male che persino Caro-
sello5 riesce ad avere una funzione utile.
Terzo fatto importante è la diffusione dell’obbligo scolastico che ha portato agli inizi degli
40 anni Sessanta il limite dell’obbligo dalla quinta elementare alla terza media, che ha determina-
to una enorme crescita della scolarità, soprattutto giovanile. […]
In questa situazione, voi capite che le cose, dal punto di vista della lingua, si sono profon-
damente modificate. Sapete che i dialetti si sono modificati, assorbendo parole ed espressioni
italiane, addolcendo la loro fisionomia aspramente autonoma, e che è cresciuto enormemen-
45 te il numero delle persone che parlano abitualmente l’italiano. Attualmente6 una valutazione
globale è difficile; probabilmente siamo sul 50% della popolazione: cioè entrando in un negozio
un italiano su due parla abitualmente in italiano, ma un italiano su due parla abitualmente in
dialetto.
Ci troviamo dunque di fronte ad una situazione cambiata, ma, purtroppo, ancora piena di
50 dislivelli drammatici; e di questa stratificazione sociale, che ancora esiste, dobbiamo renderci
conto per capire quello che la scuola può e deve fare. Si tratta di dislivelli, anzitutto tra regioni
della penisola, nel possesso di beni e nella capacità di accesso alle istituzioni culturali di base.
(T. De Mauro, Scuola e linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1981)

5. Carosello: programma televisivo che, tra il 1957 e il ro e intermezzi musicali.


1977, andava in onda tutti i giorni dalle 20:50 alle 21:00. 6. Attualmente: il dato che segue si riferisce al 1974,
Trasmetteva filmati come sketch comici di teatro legge- anno della conferenza da cui è tratto il passo proposto.

Comprensione e interpretazioneI
1 Riassumi brevemente il contenuto del testo.
2 Analizza i connettivi logici (congiunzioni) e semantici (espressioni e frasi di raccordo, di ordine
ecc.) più utili a ricostruire la progressione delle idee nel testo.
3 Individua la tesi.
4 Nel passo l’autore fa rapidi cenni alle cause dell’estensione dell’italiano: ripercorri questi cenni
esplicitando quanto in essi resti eventualmente implicito.
5 Analizza il rapporto tra dialetti e lingua nazionale proposto da Tullio De Mauro nel testo.
6 Soffermati sul nesso che, secondo De Mauro, lega l’acquisizione progressiva dell’italiano da
parte della popolazione e la democrazia.

CommentoI
7 Il testo corrisponde a una conferenza tenuta dal linguista Tullio De Mauro nel 1974. Rifletti
sull’attualità delle sue tesi e argomenta la tua posizione in un commento basato su un’analisi
della “salute” della lingua italiana nella società contemporanea.

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Ambito letterarioi
Umberto Eco
Non fate il funerale ai libri
È sperabile che, quando questa Bustina1 uscirà, la buriana si sia calmata, ma mentre
scrivo la mia estate è ossessionata da intere pagine culturali dei quotidiani i quali discutono se
eventuali contratti degli autori per mettere le loro opere sui vari Kindle o iPad non preludano
alla definitiva scomparsa del libro e delle librerie. Un quotidiano ha persino messo in bella
5 evidenza una foto dei bouquinistes del Lungosenna dicendo che questi venditori di libri (vecchi)
sono quindi destinati a sparire, senza considerare che, se davvero non si stampassero più libri,
fiorirebbe proprio un ghiotto mercato librario vintage e le bancarelle, unico posto dove si potreb-
bero trovare i libri di una volta, vivrebbero di nuova vita.
In realtà la domanda se siamo arrivati al tramonto del libro è iniziata con l’avvento del
10 personal computer (e fanno ormai trent’anni), tanto che alla fine Jean-Claude Carrière2 e io ci
siamo stancati di rispondervi e abbiamo pubblicato una lunga conversazione intitolata provo-
catoriamente «Non sperate di liberarvi dei libri».
Sostenere un lungo avvenire per il libro non significa negare che certi testi di consulta-
zione siano più comodi da trasportare su una tavoletta, che un presbite possa leggere meglio
15 un giornale su un supporto elettronico dove può amplificare il corpo tipografico a piacere, che
i nostri ragazzi possano evitare di inrachitirsi portando chili di carta nello zainetto. E neppure
si vuole sostenere a ogni costo che per leggere Guerra e pace sotto l’ombrellone sia più comoda
la forma-libro; io ne sono convinto, ma i gusti sono gusti, e auguro solo a chi ha gusti diversi
di non incappare in una giornata di blackout. Ma la vera ragione per cui i libri avranno lunga
20 vita è che abbiamo la prova che sopravvivono in ottima salute libri stampati più di cinquecen-
to anni fa, e pergamene di duemila anni, mentre non abbiamo alcuna prova della durata di un
supporto elettronico. Nel giro di trent’anni il disco floppy è stato sostituito dal dischetto rigido,
questo dal dvd, il dvd dalla chiavetta, nessun computer è più in grado di leggere un floppy degli
anni Ottanta e quindi non sappiamo se quanto c’era sopra sarebbe durato non dico mille anni
25 ma almeno dieci. Quindi, meglio conservare la nostra memoria su carta.
Inoltre c’è una bella differenza tra toccare e sfogliare un libro fresco e odoroso di stampa
e tenere in mano una chiavetta. Oppure tra ricuperare in cantina un testo di tanti anni fa che
reca le nostre sottolineature e le nostre note a margine, facendoci rivivere antiche emozioni, e
rileggere la stessa opera, in Times New Roman corpo 12, sullo schermo del computer. E anche
30 ammesso che chi prova piaceri del genere sia una minoranza, su sei miliardi di abitanti del
pianeta (ma saranno otto entro quindici anni), ci saranno abbastanza appassionati da sostenere
un fiorente mercato del libro. E se poi usciranno dalle librerie e vivranno solo su Kindle o iPad i
libri usa e getta, i best seller da leggere in treno, gli orari ferroviari o le raccolte di barzellette su
Totti o sui carabinieri, tanto meglio, tutta carta risparmiata.
35 Anni fa deprecavo che nelle vecchie e ombrose librerie di un tempo chi vi entrava per cu-
riosità fosse affrontato da un signore severo che domandava che cosa cercasse, e il malcapitato,

1. Bustina: «La bustina di Minerva» è una rubrica che 2. Jean-Claude Carrière: scrittore e regista teatrale
Umberto Eco tenne ogni settimana sull’ultima pagina surrealista.
dell’«Espresso» a partire dal marzo del 1985.

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intimidito, usciva subito. E giustamente trovavo più incoraggianti le nuove librerie-cattedrale


dove si può stare seduti o accovacciati per ore a scoprire e sfogliare di tutto. Ora però, se le tavo-
lette elettroniche assorbiranno tutto il mercato dei libri usa e getta, potrebbero ritornare buone
40 le librerie dei tempi andati, dove gli affezionati andranno a cercare i libri che non si gettano.
E poi, ricordo che anche in quelle librerie un ragazzo che faceva amicizia col libraio poteva lo
stesso sostare per ore a curiosare tra gli scaffali.
Infine ricordiamo che mai, nel corso dei secoli, un nuovo mezzo ha sostituito totalmente
il precedente. Neppure il maglio ha sostituito il martello. La fotografia non ha condannato a
45 morte la pittura (se mai ha scoraggiato il ritratto, il paesaggio e incoraggiato l’arte astratta), il
cinema non ha ucciso la fotografia, la televisione non ha eliminato il cinema, il treno convive
benissimo con auto ed aereo.
Dunque avremo una diarchia tra lettura su schermo e lettura su carta, e in ogni caso au-
menterà in modo astronomico il numero delle persone che impareranno a leggere – visto che
50 persino gli sms sono potenti strumenti di alfabetizzazione dei ripetenti. E, se aumenterà l’anal-
fabetismo di ritorno nella vecchia Europa decadente e malthusiana3, avremo miliardi di nuovi
lettori in Asia e in Africa. E, per chi leggerà a cavalcioni del ramo di un albero nella foresta
subtropicale, andrà sempre meglio un libro di carta che uno elettronico.
(U. Eco, Non fate il funerale ai libri, «L’Espresso», 5 agosto 2010)

3. malthusiana: il malthusianesimo è una dottrina economica che si rifà alle idee dellʹeconomista inglese Thomas
Malthus (1766-1834), secondo le quali cʹè una forte relazione tra crescita demografica e diffusione della povertà.

Comprensione e interpretazioneI
1 Qual è la tesi sostenuta da Eco? Quali frasi, nella vasta serie di esempi e riflessioni, consentono
di metterla a fuoco?
2 Quali posizioni estreme intende confutare Eco?
3 Pur nel tono leggero e ironico del testo, si colgono connettivi e scelte espressive proprie del
testo argomentativo. Rintracciali.
4 Riassumi il testo in 10 righe.

CommentoI
5 Argomenta le tue posizioni adottando uno stile agile e utilizzando, come avviene nel testo di
Umberto Eco, la tecnica della confutazione. Se la tua posizione ricalca quella espressa da Eco,
dovrai utilizzare esempi e riferimenti diversi da quelli presenti nel testo.

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Ambito letterarioi
Benedetta Craveri
Marc Fumaroli:
«Un’Europa fondata sulla cultura»
A partire dall’età dell’Umanesimo fino alla fine dell’Antico Regime, nell’Europa insanguinata
dalle ambizioni dinastiche, dalle guerre di religione e dalle rivalità tra le grandi potenze, lette-
rati – oggi diremmo intellettuali – di nazionalità e di fedi diverse non smisero mai di dialogare
tra di loro in piena libertà di pensiero, uniti nella ricerca comune del bello, del buono e del vero.
5 Una società nella società, per la quale il veneziano Francesco Barbaro coniò, nel 1417, il nome di
Respublica litteraria.
Essa si servì come lingua di comunicazione internazionale del latino, e per quanto invi-
sibile, fu di grande importanza per la storia della cultura europea. A questa esperienza Marc
Fumaroli1 dedica La République des Lettres (Gallimard), una raccolta di saggi che testimoniano di
10 una lunga, dotta e appassionata frequentazione.

Quando è iniziato il suo interesse per la Repubblica delle lettere?


«Quando ho letto l’epistolario di Petrarca e ho capito che mi trovavo davanti all’invenzione di
una forma di relazione del tutto nuova, che connoterà la corrispondenza di Erasmo come quella
di Voltaire. Nelle sue lettere Petrarca forniva agli uomini di alta cultura l’esempio di una solida-
15 rietà amichevole, di una socievolezza all’insegna della delicatezza e della fiducia, capace di tra-
scendere le tensioni polemiche e i conflitti passionali in nome di un livello di civiltà superiore.
Una forma di saper vivere che darà luogo a quello che chiamiamo civiltà europea».

A quando risale questa lettura?


«Agli anni della mia formazione. È stato il Petrarca filologo, innamorato dei testi antichi, a far-
20 mi capire come l’educazione umanista abbia il vantaggio di introdurci in un universo del tutto
diverso da quello in cui viviamo. È questa distanza fra il mondo dei libri e il mondo reale che
permette di acquisire un atteggiamento critico e che consente di vivere su due diversi registri,
di giudicare l’uno attraverso l’altro, di non limitarsi a quello dell’attualità». […]

Non sempre, però, le relazioni tra membri della Repubblica delle lettere erano così ecu-
25 meniche e amichevoli. Basta pensare alla guerra fra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla a
proposito del De rerum natura di Lucrezio.
«Ma anche le liti più aspre si svolgevano in un’atmosfera che era di considerazione reciproca.
Quando Bayle affermava che “la Repubblica delle lettere era una guerra permanente, dove il
padre non esitava a condannare il figlio”, intendeva dire che l’onestà intellettuale imponeva
30 tanto l’autocritica che la critica, a garanzia contro i ciarlatani e le idee false».

1. Marc Fumaroli: Fumaroli, che qui rilascia un’intervista al quotidiano «la Repubblica», è uno storico e saggista
francese, membro dell’Académie Française dal 1995. È noto in particolare per aver ripreso gli studi sulla retorica nel
mondo universitario francese.

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Nell’Età dell’eloquenza lei rinnova gli studi di retorica e ne riafferma l’importanza. Perché,
come sosteneva anche Ezio Raimondi, è essenziale per lo studio delle lettere?
«La retorica è una griglia interpretativa ma, in primo luogo, è un’educazione delle forme. Essa
insegna a non considerare la parola come l’espressione egoista del proprio io ma come il desi-
35 derio di rivolgersi all’altro. Non è un sistema di dogmi, è il risultato di un’esperienza profonda
del linguaggio, è il ricorso a una tradizione, a dei modelli che ci permettono di adattare il nostro
discorso alle circostanze. E con essa le relazioni sociali sono più feconde. La retorica è una vit-
toria sulla violenza».

Se la retorica è l’arte di adattarsi al pubblico cui ci si rivolge, essa non risponde anche agli
40 obiettivi della produzione culturale contemporanea?
«La retorica non si riduce a un adattamento servile della parola all’opinione pubblica e al po-
litically correct anonimo. Se così fosse il suo ideale sarebbe la pubblicità di massa o, peggio, la
propaganda populista. Essa ha imparato da Socrate che per persuadere bisogna screditare gli
errori correnti. La letteratura e la poesia attuali, quando sfuggono alla tirannide della pubblicità
45 commerciale e ideologica, si rivolgono a individui che cercano di sottrarsi al condizionamento
sociale, e non già alla folla che chiede di essere condizionata».

Lei dichiara di vivere in due temperie culturali diverse. Ma quando smette di colloquiare
con gli autori del passato e si confronta con il mondo contemporaneo, il suo approccio è
fortemente polemico.
50 «Quello che mi ha consentito di passare dalla dimensione di studioso del passato a quella
dell’attualità è innanzitutto il problema dell’educazione dei giovani. Un problema fondamen-
tale, che è al cuore della tradizione classica e umanistica, e di cui abbiamo sottovalutato troppo
l’importanza. Oggi, in Francia come in Italia, l’educazione si pone come obiettivo di acclimata-
re i giovani al mondo in cui sono nati, là dove sarebbe necessario insegnare loro il contrario di
55 quanto si vede dalla mattina alla sera sui loro schermi. Il che non significa un rifiuto del mondo
attuale, ma l’invito a guardarlo in una prospettiva critica».

Cosa pensa delle discussioni seguite alla tragedia di Charlie Hebdo2 su libertà d’espressio-
ne e diritto o meno alla blasfemia?
«La libertà d’espressione è una delle grandi conquiste moderne della civiltà europea, perseguita
60 fin dall’inizio dalla Repubblica delle lettere. Ma la libertà d’espressione non può voler dire una li-
bertà “espressionista”, senza legge, senza regola, senza tatto. La libertà d’espressione, come la liber-
tà tout court, implica padronanza di sé e considerazione per l’altro. Anche la satira ha i suoi limiti.
E la blasfemia non è il metodo più sottile ed efficace per rendere odiosi il fanatismo e la barbarie».
(B. Craveri, Marc Fumaroli: «Un’Europa fondata sulla cultura», «la Repubblica», 21 marzo 2015)

2. tragedia di Charlie Hebdo: Charlie Hebdo è un periodico settimanale satirico francese; il 7 gennaio 2015 nella
sua sede furono uccise, in un attentato di matrice islamica, dodici persone, tra le quali il direttore, a seguito della
pubblicazione di vignette irriverenti nei confronti dell’Islam.

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Comprensione e interpretazionei
1 Ricava dalle risposte di Marc Fumaroli una sintesi dei temi affrontati, la sua tesi e le relative
sottotesi.
2 Rielaborando le parole dello studioso, spiega che cosa intende per «Repubblica delle lettere» e
perché la considera un valore ancora attuale.
3 In alcuni punti dell’articolo l’intervistatrice avanza delle possibili obiezioni a quanto sostenuto
da Marc Fumaroli. Individua i passaggi precisi e la sostanza delle obiezioni mosse, quindi ricava
dalle risposte le contro-obiezioni dello studioso.
4 Spiega e commenta l’affermazione «La retorica è una vittoria sulla violenza» (rr. 37-38).
5 Individua la relazione logica che lega l’ultima domanda al resto dell’intervista.

CommentoI
6 L’intervista affronta il tema dell’educazione, che si ritiene finalizzata non ad aiutare i giovani
ad “acclimatarsi” nella situazione attuale, bensì a formare la loro capacità di guardare il mondo
secondo una prospettiva critica. Sei d’accordo con questa tesi? Ritieni che scuola e istruzione
davvero offrano strumenti per assumere uno spirito critico? Argomenta la tua posizione dopo
avere commentato le affermazioni di Marc Fumaroli.

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Ambito letterarioi
Ezio Raimondi
L’estetismo di d’Annunzio
e la volgarità del mondo moderno
La volgarità del mondo moderno fa sempre da retroscena o da cornice all’estetismo dannun-
ziano, e ne rappresenta alla fine il polo negativo, il contrappunto dialettico. Viene alla memoria
l’esordio del Piacere, dove si spiega, con una correlazione quanto mai sintomatica e scoperta-
mente ideologica, che «sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare
5 sommerge miseramente, va anche poco a poco scomparendo quella special classe di antica no-
biltà italica, in cui era tanto viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare
d’alta cultura, d’eleganza e di arte» […].
Mentre scorge nel realismo della grande città contemporanea la morte dell’arte e intrave-
de il difficile rapporto tra letteratura e incipiente società di massa, il d’Annunzio avverte anche
10 però, all’interno del mondo borghese, un’inquietudine diffusa, un’esigenza di sottrarsi all’ordi-
ne della razionalità quotidiana, di cui non possono più essere interpreti a suo avviso, dopo il fal-
limento di uno Zola, né i discepoli del pessimismo di Schopenhauer né gli scrittori della morale
evangelica slava e a cui può dare invece una risposta la «grande orchestra wagneriana», poiché
«soltanto alla musica è dato esprimere i sogni che nascono nella profondità della malinconia
15 moderna». Queste ultime parole si leggono nella «Tribuna»1 del 1893 e hanno un’importanza
che non è certo sfuggita ai critici: ma per intenderle sino in fondo, conviene forse collegarle a
quanto il d’Annunzio sosterrà, due anni dopo, nell’intervista con l’Ojetti2, rifacendosi appunto
alle idee degli articoli su Zola, Wagner e Nietzsche, ma in un contesto più ricco e con l’occhio
rivolto al destino della letteratura nel mondo moderno. A differenza di coloro che temono, con
20 la fine del secolo, il naufragio di tutte le cose belle e di tutte le idealità, l’intervistato dichiara
tra l’altro che il mercato editoriale, dove «migliaia e migliaia di volumi si propagano come fo-
glie d’una foresta battute da un vento d’autunno» e dove i giornali, anziché uccidere il libro, lo
rilanciano tra un pubblico più largo, dimostra la vitalità dell’opera letteraria meglio di qualsiasi
ragionamento: ed è una vitalità, poi, che dipende proprio dalle nuove strutture della società
25 capitalistica e dall’appetito sentimentale della «moltitudine», la quale ha bisogno di una proie-
zione al di fuori della vita borghese d’ogni giorno. […]
Al d’Annunzio dunque non sfugge il bovarismo che fermenta nel cuore delle masse mo-
derne, e anche se egli considera la letteratura di consumo, che vi corrisponde, come un prodotto
di corruzione rispetto a un’arte illustre, è chiaro però che il fenomeno ha per lui un significato
30 decisivo, in quanto indica una direzione lungo la quale deve muoversi lo scrittore in armonia
con lo spirito del proprio tempo […] alla ricerca di una rispondenza tutt’altro che occasionale
tra la letteratura e il pubblico mediante un rapporto che è insieme una legge di mercato. Il co-
siddetto istinto dannunziano appare anche, in fondo, il frutto di un calcolo, di un’intelligenza
che anticipa e asseconda con le proprie invenzioni le inquietudini, i furori nascosti di una so-
35 cietà in equilibrio precario. […] L’idea della bellezza che chiude il dialogo con l’Ojetti, e che poi

1. «Tribuna»: giornale quotidiano fondato a Roma nel 2. Ojetti: Ugo Ojetti (1871-1946), giornalista e scrittore
1883. italiano.

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si ritrova, a tacere del resto, in tutti i romanzi, comporta una protesta informe contro il mondo
borghese delle cose grigie, disumane, disperse, e con la promessa di “continuare” la natura in
un ciclo infinito di esaltanti epifanie esige un’identificazione di arte e vita, che alla lunga si
traduce, per la letteratura, nella necessità di trascendere di continuo se stessa, di farsi gesto,
40 evento mitico d’una esistenza totale.
Assunta così quale principio unico di verità, la religione della bellezza diventa però nello
stesso tempo un mezzo per blandire il pubblico nel suo amore dell’irrazionale e per suggerirgli
una nostalgia anarchica, i cui contenuti prendono quasi il valore di ambigue formule magiche.
(E. Raimondi, Volgarità e importanza del pubblico moderno secondo d’Annunzio, da Una vita come opera d’arte,
in I sentieri del lettore, il Mulino, Bologna 1994, vol. III)

Comprensione e interpretazionei
1 Ricava da ciascun capoverso la frase tematica (o le frasi tematiche) che ne condensa il senso.
2 Rileggi il secondo capoverso e analizza i connettivi che meglio consentono di comprendere la
progressione delle idee, individuando anche il tipo di rapporto logico che istituiscono tra un
passaggio e l’altro (causa-effetto, correlazione, opposizione, parallelismo ecc.).
3 Riassumi l’ambiguo rapporto che, secondo Raimondi, d’Annunzio instaura con il pubblico delle
sue opere letterarie.
4 Come valuta d’Annunzio la «vitalità del mercato editoriale» dei suoi tempi? Come si può con-
ciliare questo suo giudizio con il disprezzo verso l’arte di consumo?
5 Raimondi, per definire l’atteggiamento del pubblico moderno, parla di «bovarismo» (r. 27). Dai
una definizione precisa del termine e spiega in che senso può essere usato per indicare le
aspettative delle masse di lettori del tempo.
6 In che senso d’Annunzio può affermare che la grande diffusione dei giornali ai suoi tempi non
è in concorrenza con il libro, ma al contrario ne può supportare e rilanciare la diffusione?

Commentoi
7 Esponi sinteticamente la tesi esposta nel testo. Commenta, alla luce di questo giudizio, la
novità introdotta da d’Annunzio nel rapporto con il pubblico e rifletti su altri casi letterari, au-
tori e generi a te noti, il cui successo sia dovuto a un approccio simile. Esprimi quindi una tua
opinione sull’idea che la letteratura, o l’arte in genere, debba corrispondere in primo luogo al
gusto del pubblico.

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Ambito letterario – Testi a confrontoi


Testo 1 Gian Biagio Conte
Radici classiche ed Europa moderna
L’Europa è la sua storia. E questa sua storia è in gran parte storia delle idee filosofiche dell’Oc-
cidente: non la storia di un’unica idea che permette una sola tradizione, ma la storia di una
tradizione che permette le idee più diverse. Non è la storia di una prigione mentale, è piuttosto
la storia – talvolta dolorosa, talvolta impazzita – della provincia del mondo che ha conosciuto la
5 fioritura più varia e ricca di idee (buone e cattive), spesso in contrasto tra loro.
Nella fase di globalizzazione, quale è quella verso cui siamo inevitabilmente sospinti, ri-
cercare l’identità è opportuno; anzi è necessario, altrimenti questa si perde; ma perderla signi-
ficherebbe un indebolimento dei rapporti con le altre culture. Non avremmo niente da portare
agli altri. Ma il nostro Umanesimo occidentale deve anche modulare un modo diverso per ri-
10 entrare in possesso della tradizione classica. Non ci basta più un modello di classico assoluta-
mente universale, ove la cultura europea si esima dal confronto con le altre culture: dobbiamo
prepararci ad una «cena collaticia», ad un éranos greco, quel tipo di banchetto in cui ciascuno
porta la sua quota per allestire la cena comune. Proprio perché si abbia qualcosa da offrire, bi-
sogna – da un lato – non perdere le proprie radici – dall’altro – non abbarbicarsi immobilmente
15 ad esse.
Nel panorama della mondializzazione e del multiculturalismo, termini di cui tanto si fa
abuso, esiste una sorta di strabismo da evitare. Con un occhio si guarda a una cultura planetaria
che risulterebbe, alla maniera dell’esperanto, dalla convergenza e fusione delle varie culture;
con l’altro si percepisce che le culture politicamente ed economicamente più deboli si chiu-
20 dono a riccio su se stesse applicando il cosiddetto fondamentalismo (e si sa che i fondamen-
talismi sono soprattutto paura di uno sradicamento). Raddrizzare gli occhi, guardando avanti,
significa essere consapevoli che i processi storici possono condurre al di là di una semplice
convergenza: possono produrre cioè una polifonia. Dal che risulta sbagliato tanto proporre la
propria cultura come un superclassico per l’intera umanità, quanto abbandonarla in cerca di
25 mediazioni superficiali. Per l’Occidente non perdere una delle sue tre radici – Atene, Roma,
Gerusalemme – significa anche portare una maggiore ricchezza nell’incontro-scontro con le
altre culture mondiali. […] Se non rinfreschiamo i nostri pensieri l’identità scompare, lavata
via. Noi permaniamo soltanto trasformandoci, e l’identità non è qualcosa di dato, insomma, ma
di ininterrottamente costruito. La staticità non esiste nella storia. Se applichiamo con libertà
30 questo modello alla cultura umana, l’identità dell’Occidente, già composta di tanti fili intrec-
ciati (già plurima, già plurale), si conferma soltanto rinnovandosi. Nella nostra futura ma pre-
vedibile prospettiva, le grandi culture, rimaste a lungo isolate o più recentemente conosciute
solo da grandi specialisti, sono destinate a incontrarsi nelle esperienze di centinaia di migliaia
di uomini (milioni di Musulmani in Europa, di Latinos negli Stati Uniti, di Indiani in Sud Africa
35 ecc.). Questo dovrà trasformare anche la nostra immagine dell’antichità nel senso che le radici
dell’Umanesimo greco-latino vanno ripensate in confronto con le radici delle altre civiltà. Il
confronto ora diventa macroscopico ed anche le competenze di frontiera vanno inventate.
(G. B. Conte, Identità storica e confronto culturale: dieci punti sulla tradizione umanistica europea, Utet, Torino 2006)

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Testo 2 Maurizio Bettini


Contro la relazione radici-identità
L’associazione fra tradizione e identità ricorre sempre più frequentemente nel nostro dibattito
culturale, quasi che l’identità collettiva – l’identità di un certo gruppo – dovesse essere conce-
pita come qualcosa che deriva direttamente e unicamente dalla tradizione. Una delle afferma-
zioni oggi più circolanti [...] è proprio la seguente: «l’identità si fonda sulla tradizione». Basta
5 rammentare gli anatemi che negli scorsi anni sono stati lanciati, anche in Italia, contro l’im-
migrazione, in particolare islamica, e i mutamenti culturali che da essa sarebbero provocati.
[...] A giudizio di chi la pensa in questo modo, accettare la crescita delle comunità islamiche
nel nostro Paese significherebbe automaticamente mettere a repentaglio la nostra identità di
italiani, di europei o di occidentali, a seconda delle circostanze. Queste persone sembrano dare
10 insomma per scontato il fatto che l’identità sia un prodotto della tradizione, delegando con
questo al passato [...] il potere di dirci «chi siamo» nel presente.
L’esempio forse più esplicito di questo atteggiamento ci viene da un discorso che Marcello
Pera, allora Presidente del Senato, pronunciò alcuni anni fa [...]: «I fondamenti morali li offrono
le tradizioni. La nostra storia è giudaico-cristiana e greco-romana. Scendiamo da tre colline, il
15 Sinai, il Golgota, l’Acropoli. E abbiamo tre capitali: Gerusalemme, Atene, Roma. Questa è la no-
stra tradizione. Da qui sono nati i nostri valori [...]».
La posizione è chiara: l’identità viene dalle tradizioni (giudaico-cristiana e greco-romana)
e risiede in specifici luoghi mitologizzati, veri e propri monumenti della memoria culturale quali
il Sinai, l’Acropoli e il Golgota, ovvero Gerusalemme, Atene e Roma. Il rapporto causa/effetto che
20 viene stabilito fra tradizione e identità [...] emerge direttamente dalle stesse metafore che [...]
vengono usate per parlarne. Quando si vuole indicare la tradizione culturale di un gruppo o di
un paese, infatti, l’immagine più ricorrente è quella delle radici. [...]. Questa immagine ha la ca-
pacità di suggestionare fortemente qualsiasi discorso su identità e tradizione, e per un motivo
abbastanza semplice: in un campo così astratto come quello delle determinazioni filosofiche
25 o antropologiche, l’immagine delle radici permette di sostituire il ragionamento direttamente
con una visione [...]. Nessuno ha mai visto la propria tradizione, tantomeno avrà visto la propria
identità, ma tutti nella loro vita hanno visto delle radici: in una discussione sulla tradizione,
anche il più accanito dei tradizionalisti avrebbe difficoltà a dirci quale tradizione effettivamen-
te intenda come la «vera» tradizione del gruppo, e da che cosa sia concretamente rappresentata
30 per lui questa tradizione. Lo stesso discorso vale per quella cosa che chiamiamo identità. Ecco
il motivo per cui è molto meglio spostare tutto sul piano della metafora, e far balenare allo
sguardo dell’ascoltatore semplicemente delle radici. Questa immagine, infatti, come direbbe
Cicerone, «pone al cospetto dell’animo ciò che non potremmo né distinguere né vedere» [...].
[Inoltre] tramite questa immagine vitale, la tradizione viene chiamata a far parte addirittura
35 dell’ordine naturale, e dall’intrinseca validità di quest’ordine – chi oserebbe mai contrastare la
natura? – riceve automaticamente anche la propria giustificazione. […] Il rapporto di determi-
nazione fra tradizione e identità assume in questo modo l’aspetto di una forza che scaturisce
direttamente dalla natura organica. Se un albero è quel certo albero perché è cresciuto da quelle
radici, noi siamo noi perché siamo cresciuti dalle radici della nostra tradizione culturale. In un
40 certo senso, è come se noi non potessimo essere altrimenti. [...]
Come se non bastasse, la metafora delle radici ha dalla sua non solo la forza della vita, ma
anche quella, potremmo dire, della posizione relativa. Basta considerare qual è la collocazione

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di questa componente della pianta rispetto alle altre. Le radici stanno in basso, cioè al fondo
rispetto a tronco, rami, foglie. Di conseguenza il paradigma metaforico arboricolo viene insen-
45 sibilmente, ma altrettanto inevitabilmente, messo in risonanza con ciò che è fondamentale. [...].
Ne deriva che le radici – in quanto costituiscono la base della pianta – sono non solo forti e vive,
ma anche fondamentali. Se dunque si congiungono per via di metafora radici e tradizione, si
fa di quest’ultima qualcosa non solo di biologicamente necessario, ma anche di fondamentale
nell’esperienza e nell’identità di una persona. [...]
50 Inutile dire che il ricorso alla metafora arboricola punta a questo scopo: costruire un vero
e proprio dispositivo di autorità che, attraverso i contenuti evocati dall’immagine, si alimenta di
nuclei semantici forti quali la vita, la natura, la necessità biologica, la gerarchia di posizione e
così via. [...] Una volta che questo dispositivo di autorità sia stato messo in movimento, la con-
seguenza non può che essere la seguente: l’identità culturale predicata attraverso la metafora
55 delle radici viene estesa a un intero gruppo, indipendentemente dalla volontà dei singoli. [...]
Una volta «radicati» in una certa tradizione, scegliere autonomamente la propria identità cul-
turale diventa impossibile, ci si può solo riconoscere in quella che altri hanno costruito per noi.
Eppure, se Voltaire poteva scrivere che «ogni uomo nasce con il diritto naturale di scegliersi
una patria» a maggior ragione si dovrà dire che ogni uomo nasce con il diritto naturale di sce-
60 gliersi una cultura.
(M. Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, il Mulino, Bologna 2012)

Comprensione e interpretazioneI
1 Individua il tema/problema che i passi hanno in comune.
2 Scegli nel passo di Conte una frase che a tuo avviso sintetizza al meglio la sua posizione e
commentala.
3 Allo stesso modo, scegli una frase particolarmente significativa del brano di Bettini e commen-
tala.

CommentoI
4 Elabora ora un commento argomentativo ai due testi, articolato come segue:
a. presenta le tesi esposte dai due studiosi mettendo in evidenza gli eventuali punti di con-
vergenza e le differenze;
b. inquadra il tema affrontato in un contesto di riferimento che permetta di coglierne l’attua-
lità e le implicazioni nella società contemporanea;
c. esprimi un tuo parere motivato sul tema e sulle posizioni espresse dai due autori.

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Ambito storicoi
Carlo M. Cipolla
Sull’utilità della storia
Nel corso della storia ricorrono frequenti situazioni che mostrano tra di loro rimarchevoli ana-
logie. Ma per quanto marcate possano risultare tali analogie ogni situazione storica rimane
unica ed irripetibile. Si può indulgere in un rozzo parallelo dicendo che esistono individui che
si somigliano ma ciò non toglie che ciascuno di essi sia unico ed irripetibile. Il fatto fondamen-
5 tale della irripetibilità della storia conferisce un particolare significato al detto tradizionale
«historia magistra vitae». In effetti c’è incompatibilità tra l’affermazione che la storia si ripete
e la norma che «la storia è maestra di vita» perché, se una data situazione si ripetesse, coloro
che una volta hanno perduto, la volta seguente, traendo vantaggio dall’esperienza, si comporte-
rebbero in maniera diversa per evitare di essere nuovamente perdenti e per via di questo loro
10 comportamento diverso la nuova situazione si differenzierebbe da quella precedente.
Henry Kissinger scrisse una volta che la storia «non è un libro di cucina che offre ricette
già sperimentate». Una tale affermazione è il corollario del postulato precedente che la storia
non si ripete. A questo punto mi immagino che ci sia chi si chieda a che serve allora studiare la
storia. A mio modo di vedere la domanda è rozzamente stupida. Ogni forma di sapere si giusti-
15 fica in quanto tale. Nel caso specifico della storia ho anche difficoltà a concepire una società ci-
vile che non sia interessata allo studio delle proprie origini. La storia ci dice chi siamo e perché
siamo quel che siamo. «Noi uomini siamo sempre coinvolti in storie», scrisse Wilhelm Schapp.
Tutto ciò per me è elementare. Ma sono convinto che non siano pochissimi coloro che con-
siderano una tale posizione elitistica e socialmente ingiustificabile. Per costoro, ammalati di
20 utilitarismo benthamita1, […] penso che sia opportuno fare ulteriormente rilevare che lo studio
della storia ha un significato eminentemente formativo. Come scrisse Huizinga2, la storia non
è soltanto un ramo del sapere ma anche «una forma intellettuale per comprendere il mondo».
Anzitutto lo studio della storia permette di vedere nella loro corretta dimensione storica pro-
blemi attuali con cui dobbiamo confrontarci e, come scrisse Richard Lodge3 nel 1894, «esso offre
25 l’unico strumento con il quale l’uomo può comprendere a fondo il presente».
D’altra parte lo studio della storia rappresenta un esercizio pratico nella conoscenza
dell’uomo e della società. Tutti noi si tende ad essere provinciali, intolleranti ed etnocentrici.
Tutti noi si ha bisogno di compiere sforzi continui per esercitarci ad essere comprensivi e in-
telligenti di sistemi di vita, scale di valori, modi di comportamenti diversi dai nostri – il che sta
30 alla base di ogni convivenza civile tra gli individui come tra i popoli. Lo studio della storia è
essenziale al riguardo. Studiare la storia vuol dire compiere un viaggio nel passato che la ricerca
storica comporta. Viaggiare apre gli occhi, arricchisce di conoscenza, invita ad aperture menta-
li. Più lungo è il viaggio e più distanti i paesi visitati, più robusto è il challenge4 alla nostra visione
del mondo. Per questo io credo che gli storici che si occupano di società più lontane nel tempo

1. utilitarismo benthamita: ci si riferisce al filosofo 2. Huizinga: Johan Huizinga (1872-1945), storico olan-
e giurista inglese Jeremy Bentham (1748-1832), teori- dese.
co dell’utilitarismo, secondo cui ogni individuo tende 3. Richard Lodge: Lodge (1855-1936) è stato uno storico
naturalmente al proprio utile, che non confligge ma si britannico.
armonizza con il bene comune. Bentham contesta dun- 4. challenge: sfida.
que la tradizionale condanna cristiana dell’egoismo.

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35 dalla nostra abbiano, a parità di altre condizioni, un senso storico più sottile ed affinato degli
storici di età a noi più vicine. Con questo non voglio, né intendo dire, che lo studio della storia
o il viaggiare bastino a fare di un uomo un saggio. Se così fosse i professori di storia sarebbero
tutti dei saggi – il che è ben lungi dall’essere vero. Il viaggio e una conoscenza della storia sono
condizioni necessarie ma non sufficienti alla comprensione degli eventi umani.
(C. M. Cipolla, Introduzione alla storia economica, il Mulino, Bologna 2003)

Comprensione e interpretazioneI
1 Il brano si presenta diviso in tre capoversi: ti sembra che tale divisione rispecchi l’andamento
dell’argomentazione dell’autore? Se non è così, spezza i paragrafi esistenti con dei nuovi a
capo. Infine, dai un titolo a ogni capoverso ottenuto.
2 Quale similitudine, nelle prime righe del brano, è utilizzata dall’autore per spiegare l’irripetibi-
lità dei fatti storici?
3 Qual è il problema – la domanda di fondo – da cui prende le mosse Carlo Cipolla?
4 Riepiloga, per punti, gli argomenti proposti da Carlo Cipolla per giustificare l’importanza dello
studio della storia.
5 Che cosa intende dire l’autore con la frase: «Più lungo è il viaggio e più distanti i paesi visitati,
più robusto è il challenge alla nostra visione del mondo»?
6 È corretto affermare che, secondo Cipolla, gli storici dell’antichità hanno «un senso storico più
sottile ed affinato» di quelli – poniamo – dell’età contemporanea? In che senso?
7 Sulla base di quanto hai letto in questo brano, indica quali affermazioni, a tuo parere, l’autore
potrebbe sottoscrivere:
a. La storia ci insegna a capire quali valori, quali visioni del mondo sono più giuste delle altre.
b. Studiare la storia è importante, ma ancor più importante è viaggiare per conoscere il mondo
direttamente.
c. Studiare la storia è importante anche a prescindere da qualsiasi criterio di utilità della disci-
plina.
d. La storia è «maestra di vita» perché nel presente si ripetono situazioni già vissute nel pas-
sato.
e. La storia è «maestra di vita» in quanto ci racconta qualcosa di noi, delle nostre origini.
f. Senza conoscere la storia è impossibile capire il presente.

CommentoI
8 Scrivi un testo argomentativo di almeno due colonne di foglio protocollo in cui esporrai il tuo
punto di vista sull’importanza della storia nella formazione degli individui e nel governo delle
società e degli esseri umani. Dichiara in particolare la tua posizione circa:
a. l’affermazione per la quale studiare la storia è importante per il semplice fatto che «ogni
forma di sapere si giustifica in quanto tale»;
b. l’utilità della storia: se la storia non si ripete mai, gli insegnamenti del passato sono davvero
utili?

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Ambito storicoi
Giovanni De Luna
L’uso pubblico della storia al tempo del web
Uno storico che parla in prima persona, che si propone con la consapevolezza che i gesti e le
parole sono parte essenziale della sua lezione esattamente come i contenuti che sviluppa, è uno
che ha accettato di scendere nella grande arena dell’uso pubblico della storia, raccogliendo una
sfida che ha come posta in gioco la capacità di costruire quelle rappresentazioni del passato in
5 grado di diffondere sapere storico. Da questo punto di vista, sembra quasi che restituire una
faccia e un corpo agli storici sia una reazione all’impalpabilità del web, a una virtualità che
ha progressivamente disincarnato la storia per consegnarla in maniera confusa e dimessa al
mondo piatto e grigio della rete.
Riguardo alla televisione, la rottura con i ruoli tradizionali è stata ancora più drastica. Gli
10 inizi erano stati tutt’altro che promettenti, con l’accusa alla Tv di impoverire il senso del tempo
e della storia nell’uomo moderno scagliata da chi vide (McLuhan1) l’epoca del villaggio globale
contrassegnata da una marcata contiguità tra luoghi e culture che in precedenza apparivano
lontanissime tra loro, avviluppate da un tempo diafano, sottile, appiattito sull’istante, da con-
sumarsi febbrilmente e voracemente. Questo non impedì ad alcuni storici prestigiosi di transi-
15 tare direttamente dall’accademia ai palinsesti della Tv: in Francia, alla fine degli anni Settanta,
Fernand Braudel e George Duby2 collaborarono assiduamente a fortunate serie televisive, ispi-
randosi ai temi della loro produzione scientifica. In quelle esperienze, però, non si avvertiva nes-
suna consapevolezza delle implicazioni insite nel passaggio dalla scrittura all’audiovisione: tra-
sportare di peso nell’universo televisivo le regole stilistiche e argomentative del racconto scritto
20 non era certamente la soluzione più adatta per alimentare un fecondo interscambio. I due mon-
di restarono sostanzialmente separati alimentando, da un lato, l’indifferenza o il disprezzo di
quelli che consideravano l’apparire in Tv una gravissima infedeltà nei confronti della propria
disciplina, dall’altro, il senso di delusione di quelli che avevano accettato di collaborare e che,
abituati a comunicare attraverso la parola scritta, si erano trovati smarriti rispetto ad un altro
25 tipo di linguaggio, fatto di immagini, parole, musica, e di un diverso senso del tempo e del ritmo.
Oggi tutto questo appare superato e tra gli storici si è diffusa la consapevolezza che si pos-
sa utilizzare anche la Tv per raccontare la storia in modo efficace e credibile. Consapevolezza
confermata dal successo che ha una trasmissione come Il tempo e la storia che la Rai ha scelto
di trasmettere su una rete generalista in una fascia oraria in precedenza occupata da una soap
30 opera. La sfida per uno studioso è acquisire familiarità con le specificità del modello narrativo
televisivo e confrontarsi con le possibili contaminazioni tra questo e quello del racconto storico
tradizionale, in una sintesi che offra allo storico uno strumento originale, in grado di sciogliere
le contraddizioni e i dubbi del passato. Il crocevia di questo passaggio sembra essere proprio la
personalizzazione del suo ruolo. Perfino nei manuali (roccaforti della tradizione) sono compar-
35 se le fotografie degli autori, quasi a volere dare alla parola scritta il tono colloquiale e disteso
dello studio televisivo e rendere riconoscibile un’autorialità anche fisicamente palpabile.

1. McLuhan: Marshall McLuhan (1911-80) fu un socio- 2. Fernand Braudel e George Duby: Braudel (1902-85)
logo e filosofo canadese. e Duby (1919-96) sono ritenuti tra i massimi storici del
Novecento.

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Resta una considerazione sul tributo che la storia e gli storici pagano a uno spirito del no-
stro tempo segnato da una progressiva individualizzazione delle forme in cui la cultura viene
prodotta e viene consumata. La storia, uscita dall’accademia, si è imbattuta in questa deriva, ne
40 è stata avvinta, conquistata e ha preteso che gli storici offrissero al pubblico anche i loro vissuti
e la loro personalità. D’altronde lo aveva scritto tanti anni fa Edward Carr3: leggendo un libro
di storia occorre innanzi tutto prestare attenzione allo storico, per «sentire che cosa frulla»
nella sua testa: «Se non sentiamo niente, o siamo sordi o lo storico in questione non ha nulla
da dirci».
(G. De Luna, L’uso pubblico della storia al tempo del web, «la Repubblica», 1 novembre 2015)

3. Edward Carr: Carr (1892-1982), inglese, è stato uno storico, giornalista e diplomatico.

Compressione e interpretazioneI
1 Osserva la fonte al fondo del brano: come vedi, l’articolo – apparso originariamente su un quo-
tidiano – è stato privato del titolo. Ripristina tu un titolo coerente con il contenuto del testo.
2 Spiega il significato dei seguenti termini o espressioni. Laddove essi abbiano un senso metafo-
rico, scegli la definizione che meglio si adatta al contesto e al pensiero dell’autore.
a. Arena
b. Impalpabilità
c. Villaggio globale
d. Avviluppate
e. Diafano
f. Palinsesti
g. Roccaforti
3 Ti sembra che l’autore esprima una posizione di apertura o di chiusura nei confronti della «con-
taminazione» tra accademia e televisione?
4 Quali sono gli elementi critici che De Luna individua nel rapporto tra storia e intrattenimento
televisivo?
5 Perché secondo te l’autore definisce «piatto e grigio» (r. 8) il mondo del web?

CommentoI
6 Ti capita di fruire – a casa o in classe – di contenuti storici veicolati da media diversi dal libro
o dalla carta stampata? Per esempio in tv o su YouTube? Quali differenze intercorrono tra
queste diverse modalità di divulgazione della conoscenza? Ritieni si tratti di una commistione
innaturale e in ultima analisi impossibile, oppure pensi che il sapere storico possa trarre nuove
energie dal dialogo con la multimedialità? A partire da una riflessione sul cosiddetto «uso pub-
blico» della storia (che cos’è? A che cosa serve? È opportuno/utile/inevitabile?) esponi, in un
testo argomentativo di almeno due colonne di foglio protocollo, una tua riflessione originale
sul tema del rapporto tra sapere storico e nuovi (e vecchi) media.

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Ambito storicoi
Massimo L. Salvadori
Un bilancio del Novecento
e uno sguardo al futuro
Mi sono schierato tra quegli studiosi che ritengono che il Novecento sia stato un «secolo lungo»,
anzi il più lungo della storia: perché mai in cento anni il mondo è mutato tanto rapidamente
[...].
Ho sottolineato che il Novecento è stato un secolo di violenze e tragedie quali non si erano
5 sino ad allora viste. Hegel1 aveva definito il passato «storia di un macello universale». Ebbene
ciò non fu mai tanto vero quanto durante il periodo di cui stiamo discorrendo. Occorre subito
aggiungere che le violenze e le tragedie novecentesche furono rese possibili non solo dall’a-
sprezza dei conflitti politici, sociali, ideologici, religiosi, etnici e razziali e da guerre spaven-
tose – dimensioni del vivere di per sé antichissime ancorché concepite e vissute in forme del
10 tutto nuove – bensì dal fatto che gli uomini e i loro Stati si trovarono ad avere a disposizione
strumenti di annientamento di una potenza enorme via via crescente forniti dalla scienza e
dalla tecnologia. Se prima degli inizi del Novecento tale potenza restava pur sempre entro certi
limiti, con il risultato che l’aggressività umana fu anch’essa relativamente contenuta nei suoi
effetti, a partire da allora quest’ultima poté svilupparsi avendo a disposizione un potenziale
15 distruttivo in grado di superare ogni confine precedentemente immaginabile. Dal che è deriva-
ta la grande violenza che ha segnato il secolo, di cui le stragi commesse durante le due guerre
mondiali e gli altri maggiori scontri bellici, il terrorismo dei regimi totalitari con i loro campi
di sterminio, l’Olocausto e il lancio delle bombe atomiche sul Giappone sono state le punte
estreme. Il significato umano e simbolico di una simile violenza ha impresso un marchio in-
20 delebile sul secolo.
Il divampare dei conflitti culminati nella morte di decine e decine di milioni di esseri
umani, nell’annientamento spirituale e fisico di minoranze e di interi popoli, le conquiste della
scienza e della tecnologia messe al servizio della distruzione hanno ridotto a una gigantesca
illusione il mito del Progresso indefinito che, sorto nel Settecento, era diventato una fede dif-
25 fusa e gratificante nel corso dell’Ottocento, quando venne coltivata con sempre maggior forza
l’idea della sua inevitabilità e necessità. Il Novecento è stato il secolo prima del dubbio radicale
e poi della caduta di questo mito. E a farlo definitivamente cadere ha contribuito in maniera
determinante negli ultimi decenni l’allarme ambientale, ovvero la presa di coscienza, a mano
a mano divenuta più acuta ma non accompagnata da alcuna seria conclusione pratica, che il
30 prezzo dello sviluppo economico e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali è di
mettere a rischio le stesse basi dell’esistenza umana.
D’altra parte, mentre ha mostrato le caratteristiche di cui sopra si è detto, il Novecento
ne ha messe in luce altre di segno diverso e persino opposto. Centinaia di milioni di persone
sono state liberate dalla servitù coloniale; grandi masse sono entrate nel processo di emanci-
35 pazione politica; i sistemi democratici, quali che ne siano stati i difetti, hanno resistito all’at-
tacco dell’autoritarismo e del totalitarismo e sono andati diffondendosi; sono drasticamente

1. Hegel: Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), filosofo tedesco, padre dell’idealismo.

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migliorate le condizioni di vita; la lotta contro le malattie ha raggiunto traguardi che parevano
impossibili.
Questi, tratteggiati per rapidissimi accenni, sono i due volti del lunghissimo secolo che si
40 è appena chiuso.
[...] Per la prima volta nella sua storia l’uomo si trova ora di fronte a un drammatico bivio,
a due strade, quella dell’aggressività e quella del miglioramento civile, che non possono più
intrecciarsi l’una con l’altra.
(M. L. Salvadori, Il Novecento. Un’introduzione, Laterza, Roma-Bari 2002)

Compressione e interpretazioneI
1 Che cosa voleva dire Hegel definendo il passato «storia di un macello universale» (r. 5)?
2 A che cosa si riferisce l’autore parlando di «mito del Progresso indefinito» (r. 24)? Perché la
parola «Progresso» è indicata con l’iniziale maiuscola?
3 L’autore fa cenno alla durezza dei conflitti «politici, sociali, ideologici, religiosi, etnici e razziali»
(r. 8), oltre che a «guerre spaventose» (rr. 8-9), ma, in questo brano, non cita casi concreti. Fai
un esempio, per ognuno degli aggettivi impiegati da Salvadori, di almeno un fatto storico che
dimostri la sua affermazione.
4 Rispetto alle epoche precedenti, qual è stato il «salto di qualità», in termini di conflitti e vio-
lenze, verificatosi nel Novecento?
5 Qual è la nuova grande emergenza, nel mondo di oggi, indicata dall’autore?

CommentoI
6 In questo breve brano – che introduce una più ampia riflessione sul Novecento svolta dallo
storico Massimo Salvadori poco dopo la fine del secolo – l’autore tratteggia il secolo appena
passato come un periodo a due facce: da una parte l’aspetto brutale e violento della guerra e
dei conflitti ideologici e politici, dall’altra i fenomeni di emancipazione e di democratizzazione
che pure hanno caratterizzato il secolo. In base a quanto hai imparato nel tuo percorso di studi
e a quanto hai appreso dalle tue letture, dai film che hai visto, dai racconti di famiglia, quale
ritratto ti convince maggiormente? Se tu fossi chiamato a fare un bilancio del Novecento, su
quali aspetti insisteresti di più? Esponi una tua riflessione in almeno due colonne di foglio
protocollo, concludendo il tuo scritto con un’opinione circa l’auspicio finale dell’autore: dopo
quasi vent’anni da quando egli ha scritto quelle righe, ti sembra che il mondo stia andando
nella direzione che egli si augurava?

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Paul Ginsborg
Il Sessantotto italiano
Tra il 1962 e il 1968 i governi di centro-sinistra erano falliti nel rispondere alle molteplici esi-
genze di un’Italia in rapido cambiamento. Essi avevano fatto insieme troppo e troppo poco, nel
senso che avevano parlato ininterrottamente di riforme ma lasciando poi deluse quasi tutte le
aspettative. Dal 1968 in avanti l’inerzia dei vertici fu sostituita dall’attività della base. Quello
5 che seguì fu un periodo di straordinario fermento sociale, la più grande stagione di azione col-
lettiva nella storia della Repubblica. Durante questi anni l’organizzazione della società italiana
fu messa in discussione a quasi tutti i livelli. L’Italia non eguagliò certo, per intensità e poten-
ziale rivoluzionario, i fatti del maggio Sessantotto in Francia, ma il movimento di protesta ita-
liano fu il più profondo e il più duraturo in Europa. Esso si diffuse dalle università e dalle scuole
10 nelle fabbriche e successivamente entro tutta la società.
[...] Le basi materiali dell’esplosione della protesta nelle università italiane devono esse-
re rintracciate nelle riforme scolastiche degli anni ’60. Con l’introduzione della scuola media
dell’obbligo estesa fino ai 14 anni, nel 1962, per la prima volta si era creato un sistema di istru-
zione a livello di massa oltre la scuola primaria. Esso mostrava gravi lacune – curricula tradizio-
15 nali, carenza di aule e libri di testo, mancanza di aggiornamento degli insegnanti ecc. –, ma aprì
nuovi orizzonti a migliaia di ragazzi dei ceti medi e della classe operaia. Molti di loro, soprattut-
to quelli delle classi medie, decisero di continuare gli studi fino all’università. [...]
Questa nuova generazione di universitari entrò in un sistema che era già in avanzato stato
di disfunzione. L’ultima seria riforma universitaria risaliva al 1923 e da allora si era fatto ben
20 poco per rispondere ai bisogni di un numero quasi decuplicato di studenti. [...]
La decisione di liberalizzare l’accesso a un sistema universitario così pesantemente ina-
deguato significò semplicemente immettere in esso una bomba ad orologeria. La condizione
degli «studenti lavoratori» era particolarmente intollerabile. Lo Stato non dava alcun sussidio
agli studenti, tranne qualche borsa di studio ai più meritevoli. [...]
25 Queste erano le basi materiali per la rivolta, ma ve n’erano altre, di tipo ideologico, di si-
gnificato forse ancor più importante. Molti studenti nella seconda metà degli anni ’60 condi-
videvano assai poco i valori dominanti nell’Italia del «miracolo economico»: l’individualismo,
il potere totalizzante della tecnologia, l’esaltazione della famiglia; la stessa corsa ai consumi
veniva giudicata da parecchi giovani come un fenomeno tutt’altro che positivo. La possibilità
30 di suonare e ascoltare musica rock, di vestire in modo diverso, di muoversi e viaggiare libera-
mente, era naturalmente gradita, ma non pochi erano spaventati dall’ossessionante consumi-
smo degli anni ’60. [...]
Il 1968 fu, dunque, molto più di una protesta contro la miseria della condizione studente-
sca; fu una rivolta etica, un rilevante tentativo di rovesciare i valori dominanti dell’epoca.
(P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989)

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Compressione e interpretazioneI
1 In quali luoghi ha origine lo «straordinario fermento sociale» (r. 5) di cui parla l’autore?
2 Quali differenze intercorrono fra il Sessantotto italiano e quello francese?
3 Quali sono i due ordini di cause individuate da Ginsborg all’origine della rivolta studentesca del
Sessantotto?
4 Che cosa significa, nel contesto cui fa riferimento l’autore, l’espressione «liberalizzare l’acces-
so» all’università (r. 21)?
5 Spiega, in modo chiaro ma con l’impiego del minor numero possibile di parole, il significato che
i seguenti concetti, espressioni o fenomeni storici hanno nel testo che hai letto:
a. riforme (r. 3) ..............................................................................................................................................................................................................................
b. basi materiali (r. 11) ..........................................................................................................................................................................................................
c. curricula (r. 14) .........................................................................................................................................................................................................................
d. disfunzione (r. 19) ...............................................................................................................................................................................................................
e. bomba ad orologeria (r. 22) ....................................................................................................................................................................................
f. borsa di studio (r. 24) .....................................................................................................................................................................................................
g. ideologico (r. 25) ..................................................................................................................................................................................................................
h. «miracolo economico» (r. 27) .................................................................................................................................................................................
i. consumismo (r. 31) ............................................................................................................................................................................................................
6 In base a quanto hai letto nel brano, ti sembra che l’autore dia maggior peso alle cause mate-
riali o a quelle morali e culturali della rivolta studentesca? Che relazione ci fu tra queste due
sfere?

CommentoI
7 A partire dagli spunti forniti da Paul Ginsborg in questo breve brano e facendo riferimento ai
tuoi studi sulla storia d’Italia, elabora un testo di almeno due colonne di foglio protocollo in cui
argomenterai la tua interpretazione del Sessantotto italiano come fenomeno storico di «pro-
gresso» o, all’opposto, di «involuzione» della società italiana, facendo in particolare riferimento
al ruolo svolto in quel periodo dagli studenti medi e universitari.
Puoi dare la struttura che preferisci al tuo scritto o adottare, in parte o del tutto, lo schema
seguente:
a. contestualizzazione del fenomeno: che cos’è il Sessantotto (anche in riferimento ad altri
Paesi: Francia, Stati Uniti ecc.);
b. il Sessantotto in Italia: cause e conseguenze (dal miracolo economico alla liberalizzazione
dei costumi);
c. l’eredità del Sessantotto / il Sessantotto e i giovani oggi: «l’individualismo, il potere tota-
lizzante della tecnologia, l’esaltazione della famiglia; la stessa corsa ai consumi» (rr. 27-28)
sono oggi ritenuti valori positivi o negativi dalle giovani generazioni?

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Ambito filosoficoi
Umberto Galimberti
Filosofia e conoscenza di sé
Ogni tanto mi viene il sospetto che la psicoterapia, la cura con la parola, sia nata perché la filo-
sofia ha disertato se stessa e, da pratica di vita, è diventata il mestiere dell’insegnamento.
Ora questo mestiere si sta esaurendo, eppure le iscrizioni degli studenti alle varie facoltà
di filosofia non diminuiscono, nonostante la disapprovazione dei genitori («non ti dà un me-
5 stiere») e i continui inviti che da ogni parte giungono a «professionalizzare» la scuola, a «spe-
cializzarla» per i mestieri.
Poi è sufficiente che al Teatro Parenti di Milano si discuta di filosofia o a Modena si faccia
addirittura un Festival della filosofia e si riempiono le sale e le piazze. Ma perché? Qual è la do-
manda a cui la filosofia ha smesso di dare una risposta?
10 La domanda, inutile girarci intorno, è la domanda di senso da parte di esistenze che na-
scono, crescono, lavorano, producono, consumano, invecchiano, muoiono, senza riuscire a rin-
tracciare nella propria biografia una traccia di sé in cui riconoscersi e a cui dare espressione. Di
ciò ognuno di noi soffre, anzi forse questa è l’essenza del dolore che deriva dal fatto che, forniti
per natura di una coscienza, viviamo vite irriflesse, a cui non prestiamo la minima attenzione.
15 E allora o ottundiamo la coscienza con il lavoro e l’evasione o la lasciamo nel dolore di una do-
manda senza risposta.
Nel primo caso nessuno si occupa di noi dal momento che per primi abbiamo noi deciso
di non occuparci di noi stessi. Un po’ di lavoro, un po’ di consumo, un po’ di famiglia, un po’ di
sesso, un po’ di calcio, un po’ di tv e la vita passa senza troppe domande. Nel secondo caso, quan-
20 do la domanda di senso non ci abbandona e si ripropone, non necessariamente nei momenti
cruciali della vita, ma quando andiamo al lavoro, quando facciamo acquisti, quando torniamo
in famiglia, quando facciamo l’amore, quando andiamo allo stadio o guardiamo un po’ di tv,
allora veniamo subito rubricati nella patologia.
A questo punto o si va in farmacia a comprare qualche antidepressivo, su indicazione me-
25 dica naturalmente, o si va in psicoterapia. In questo caso o per adattare se stessi al mondo in
cui viviamo, dal momento che non si può cambiare il mondo, o per cercare se stessi e cosa nella
nostra vita emotiva è causa di dolore.
[...] Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’autenticità, l’essere se stes-
so, il conoscere se stesso, che l’antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell’a-
30 nima, diventa qualcosa di patologico, come può esserlo l’esser centrati su di sé (self-centred), la
scarsa capacità di adattamento (poor adaptation), il complesso di inferiorità (inferiority complex).
Quest’ultima patologia lascia intendere che è inferiore chi non è adattato, e quindi che «essere
se stesso» e non rinunciare alla specificità della propria identità è una patologia.
[...] Alla ricerca di sé, del proprio sé profondo, si dedica invece la psicoanalisi per capire
35 quanti imbrogli (razionalizzazioni) abbiamo fatto con noi stessi nel tentativo di comporre i
conflitti che nascono tra i nostri irrinunciabili desideri e le richieste che ci vengono dall’ester-
no a cui non possiamo sottrarci. Qui la razionalità deve confrontarsi con le regioni oscure di
noi stessi per scoprire ciò che è «difensivo» rispetto a qualcosa che non si vuole o non si può
accettare di sé, ciò che è «compensativo» di nostre debolezze che mai abbiamo voluto prendere

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40 in considerazione, e infine ciò che è veramente «espressivo» di noi stessi e che ancora non ab-
biamo avuto il coraggio di esprimere.
Tutte le psicoterapie, se ben condotte, funzionano, sia per chi non vuol saper nulla di sé,
ma vuole semplicemente trovare un buon adattamento nel mondo, sia per chi vuol sapere qual-
cosa di sé indipendentemente dai problemi di adattamento. Ma per chi, adattato al mondo, e
45 con una discreta consapevolezza di sé, ancora non reperisce un senso della propria esistenza, e
quindi viene a contatto non con questo o quel dolore, ma con l’essenza del dolore, per costui non
c’è rimedio in farmacia e forse neppure in psicoterapia. Per queste persone, che a guardar bene
sono la quasi totalità dell’umano, non restano che due vie: la religione o la filosofia.
Che la religione, tutte le religioni abbiano svolto una terapia di massa dell’umanità non
50 c’è alcun dubbio. La fede iscrive ogni biografia in un grandioso orizzonte di senso dove ogni
domanda trova la sua risposta, ogni azione la sua giustificazione, ogni vita e perfino la morte
il suo significato. E per chi non crede in Dio e negli dèi le alternative non possono essere la
farmacia o la psicoterapia. E allora? Allora per chi rifiuta di trovare il senso della propria vita in
un dogma a cui si accede per fede, non resta che la filosofia, nata in Grecia nel V secolo a.C. non
55 solo come conoscenza, ma come pratica di vita. Tali erano le scuole filosofiche greche prima
che la filosofia, amputando se stessa, si disinteressasse della vita e divenisse solo conoscenza
teorica, assestandosi su un terreno che oggi le scienze di giorno in giorno erodono.
Nessuno di noi abita il mondo, ma esclusivamente la propria visione del mondo. E non è
reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della
60 nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di sof-
frire. Questa chiarificazione non è una faccenda di psicoterapia. Chi chiede una consulenza fi-
losofica non è “malato”, è solo alla ricerca di un senso. E dove è reperibile un senso, anzi il senso
che, sotterraneo e ignorato, percorre la propria vita a nostra insaputa se non in quelle proposte
di senso in cui propriamente consiste la filosofia e la sua storia?
65 [...] Spesso il dolore, anzi l’essenza del dolore, è solo ignoranza di sé.
(U. Galimberti, Il successo della filosofia, «la Repubblica», 22 ottobre 2003)

Comprensione e interpretazionneI
1 Di seguito sono elencati, secondo un ordine diverso da quello in cui compaiono nel testo, dieci
blocchi tematici corrispondenti ad altrettante informazioni-chiave del brano. A ciascuno si è
dato un titolo-frase. Ricostruisci l’ordine corretto con il quale compaiono nel brano.
a. ☐ La religione dà risposte a ogni domanda di senso.
b. ☐ La filosofia attira i giovani nonostante i genitori cerchino di dissuaderli dall’intraprende-
re un corso universitario specifico di questa disciplina.
c. ☐ Essere se stessi è considerato una patologia.
d. ☐ Noi guardiamo il mondo da un punto di vista determinato: la filosofia ci aiuta a capirlo.
e. ☐ La psicoanalisi ci aiuta a esplorare il nostro io e ad adattarci al mondo, ma non risponde
alla domanda sul senso dell’esistenza.
f. ☐ Le nuove forme del fare filosofia suscitano interesse perché la filosofia studiata a scuola
e nelle università non dà più le risposte che cerchiamo.
g. ☐ Non possiamo fare a meno di interrogarci sul senso della vita, anche se cerchiamo di
scacciare il pensiero con le distrazioni o con i farmaci.
h. ☐ La psicoterapia è nata per supplire alle carenze della filosofia.
i. ☐ La filosofia, da pratica di vita, è diventata mestiere dell’insegnamento.
l. ☐ Per chi non crede in Dio, la filosofia è l’unica alternativa alle risposte della religione.

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2 Quale tra i nuclei indicati nel precedente esercizio è identificabile con la tesi dell’autore? Puoi
utilizzare anche più di un nucleo tematico per rendere esaustiva la formulazione della tesi.
3 Perché secondo l’autore la psicoterapia non è una valida alternativa alla filosofia?
4 Che differenza c’è tra le risposte che dà la religione e quelle che dà la filosofia alle nostre
domande di senso?
5 Sapresti ricondurre i seguenti temi cui fa cenno l’autore ad altrettante correnti filosofiche che
hai incontrato nel corso dei tuoi studi?
a. Importanza di conoscere se stessi e filosofia come pratica di vita.
b. La distrazione come fuga dalle domande sul senso dell’esistenza.
c. Conoscenza del mondo come risultato di un’interazione soggetto-oggetto.
d. Indagine razionale sulle regioni oscure di noi stessi.
6 Riassumi il brano di Galimberti in circa 200 parole.

CommentoI
7 Elabora un testo di almeno tre colonne di foglio protocollo in cui prenderai posizione sulle tesi
espresse da Umberto Galimberti.
Se concordi con l’autore, segui la sua argomentazione riproponendo i nodi tematici che ti
sembrano più significativi e rinforzandoli eventualmente con altri argomenti originali. Dichiara
inoltre se hai incontrato i temi posti da Galimberti nel pensiero dei filosofi che hai studiato,
soffermandoti poi su quello che ti ha maggiormente colpito.
Se dissenti dall’autore, confuta i suoi argomenti, spiegando in particolare se reputi la filosofia
inadatta a ricoprire il ruolo che egli le attribuisce, se le risposte alla domanda di senso evocata
dall’autore vadano cercate altrove o se invece, a tuo parere, quella di Galimberti sia una que-
stione mal posta.

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Joseph Schumpeter
Una teoria realista della democrazia
La filosofia settecentesca del metodo democratico si riassume in questa definizione: il metodo
democratico è quell’insieme di accorgimenti costituzionali per giungere a decisioni politiche,
che realizza il bene comune permettendo allo stesso popolo di decidere attraverso l’elezione
di singoli individui tenuti a riunirsi per esprimere la sua volontà. Sviluppiamo il contenuto di
5 questa teoria.
Anzitutto, essa ammette l’esistenza di un bene comune, faro da cui la politica è illumi-
nata e che è, insieme, facile da definire ed accessibile a ogni persona normale coi mezzi del
ragionamento e della discussione. Ne segue che non v’è scusante per chi non lo riconosce,
né spiegazione del fatto che qualcuno non lo riconosca, all’infuori dell’ignoranza – che si può
10 eliminare –, della stupidità, e dell’interesse antisociale. [...] Poiché, almeno in linea di princi-
pio, è impossibile che l’accordo non sia generale, esiste anche una volontà comune del popolo
(= volontà di tutti gli individui dotati di ragione) che s’identifica col bene, o con l’interesse, o
con la felicità, di tutti.
[...] Senonché, tutte queste ipotesi sono affermazioni di fatto che bisognerebbe dimostrare
15 prima di poter stabilire se la conclusione è vera. Ed è molto più facile dimostrare il contrario.
Prima di tutto, un bene comune univocamente definito, sul quale tutti possano concor-
dare immediatamente o in forza di un’argomentazione logica, non esiste. E questo non perché
alcuni possono desiderare qualcosa di diverso dal bene comune, ma perché – considerazione
molto più importante – il bene comune avrà significati diversi per individui e gruppi diversi.
20 [...]
In secondo luogo, un «bene comune» sufficientemente definito – per esempio, il massimo
di soddisfazione economica degli utilitaristi –, quand’anche si dimostrasse accettabile a tutti
non implicherebbe risposte egualmente definite a singoli problemi. In merito a questi ultimi,
possono determinarsi divergenze profonde [...].
25 Ma – terzo punto – il particolare concetto della volontà del popolo e della volonté générale
che gli utilitaristi accettano si sbriciola, perché suppone l’esistenza di un bene comune univo-
camente definito e discernibile da chiunque.
Credo che gli studiosi della politica accetteranno ormai in maggioranza le critiche rivolte
[...] alla teoria classica della democrazia. Credo anche che siano, o saranno quanto prima, d’ac-
30 cordo nell’accettare un’altra teoria che, da un lato, è molto più consona alle realtà della vita e,
dall’altro, salva gran parte di ciò che i profeti del metodo democratico intendevano designa-
re con questa parola. Come la teoria classica, la si può racchiudere nel guscio di noce di una
definizione [...]: il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni
politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una com-
35 petizione che ha per oggetto il voto popolare.
Dalla difesa e dalla spiegazione di questo concetto risulterà che [...] essa migliora notevol-
mente la dottrina del processo democratico.
Prima di tutto, essa fornisce un criterio ragionevolmente pratico per distinguere i governi
democratici dai governi che non sono tali. [...] La teoria classica urta su questo punto in serie
40 difficoltà, perché tanto la volontà quanto il bene del popolo possono essere serviti – e sono stati

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serviti in molti casi storici – altrettanto bene o forse meglio da governi che non si possono de-
finire democratici [...].
[...] In secondo luogo, la teoria racchiusa in questa definizione consente un equo ricono-
scimento del fatto d’importanza primaria che è la leadership. Lungi da ciò, la teoria classica,
45 come abbiamo visto, attribuiva agli elettori un grado di iniziativa del tutto irrealistico che, pra-
ticamente, equivaleva ad ignorare ogni capacità di comando. Ma le collettività agiscono quasi
esclusivamente accettando una leadership [...].
(J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano 2001)

Comprensione e interpretazionneI
1 In base alle tue conoscenze e a quanto hai letto nel brano di Schumpeter, dai una definizione
di «bene comune» in circa 100 parole, facendo riferimento al pensiero di almeno un filosofo.
2 Che cosa significa «interesse antisociale» (r. 10)? Spiegane il significato riportando anche uno o
più esempi tratti dalla tua esperienza quotidiana.
3 Il brano si compone di una pars destruens, in cui l’autore esamina e confuta quella che egli chia-
ma la «teoria classica della democrazia», e una pars costruens, in cui propone una diversa teoria
del metodo democratico. La cesura tra le due parti è stata però eliminata: individua il punto in
cui essa va ripristinata.
4 Quale filosofo ha parlato di volonté générale? Ti sembra che egli sia l’unico bersaglio polemico
dell’autore o che le critiche investano anche altre correnti di pensiero? Quali?
5 Individua la frase in cui Schumpeter fa esplicito riferimento al realismo della sua teoria.
6 In base alla definizione che Schumpeter dà del «metodo democratico» puoi dedurre che, a suo
parere, il potere va ottenuto con:
☐ la rivoluzione ☐ il colpo di Stato
☐ le elezioni ☐ il sorteggio
7 Perché secondo Schumpeter la supposta esistenza di un bene comune o di una volontà gene-
rale non basterebbe a distinguere un regime democratico da un regime non democratico?

CommentoI
8 Riflettendo su quello che hai letto nel brano e sulle tue conoscenze di filosofia politica, prendi
posizione – in un testo di due o più colonne di foglio protocollo – sull’alternativa tra una con-
cezione della democrazia come metodo di espressione e realizzazione di una volontà collettiva
o, invece, come lotta tra gruppi per la leadership. Potrai utilizzare gli argomenti di una posizione
per confutare quelli dell’altra, avendo cura di volgerli in positivo o in negativo in base al punto
di vista per cui hai optato. Spiega infine, portando qualche esempio dalla cronaca recente,
quale idea della democrazia descrive meglio, a tuo parere, la realtà politica odierna.

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Maurizio Ferraris
Tra postmodernismo e nuovo realismo
Uno spettro si aggira per l’Europa. È lo spettro di ciò che propongo di chiamare «New Realism»,
e che dà il titolo a un convegno internazionale che si terrà a Bonn la primavera prossima e che
ho organizzato con due giovani colleghi, Markus Gabriel (Bonn) e Petar Bojanic (Belgrado). Il
convegno, cui parteciperanno figure come Paul Boghossian1, Umberto Eco e John Searle2, vuole
5 restituire lo spazio che si merita, in filosofia, in politica e nella vita quotidiana, a una nozione,
quella di «realismo», che nel mondo postmoderno è stata considerata una ingenuità filosofica
e una manifestazione di conservatorismo politico. La realtà, si diceva ai tempi dell’ermeneu-
tica e del pensiero debole, non è mai accessibile in quanto tale, visto che è mediata dai nostri
pensieri e dai nostri sensi. Oltre che filosoficamente inconsistente, appellarsi alla realtà, in
10 epoche ancora legate al micidiale slogan «l’immaginazione al potere», appariva come il desi-
derio che nulla cambiasse, come una accettazione del mondo così com’è. A far scricchiolare
le certezze dei postmoderni ha contribuito prima di tutto la politica. L’avvento dei populismi
mediatici – una circostanza tutt’altro che puramente immaginaria – ha fornito l’esempio di un
addio alla realtà per niente emancipativo, senza parlare poi dell’uso spregiudicato della verità
15 come costruzione ideologica e «imperiale» da parte dell’amministrazione Bush, che ha sca-
tenato una guerra sulla base di finte prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa. Nei
telegiornali e nei programmi politici abbiamo visto regnare il principio di Nietzsche «non ci
sono fatti, solo interpretazioni», che pochi anni prima i filosofi proponevano come la via per
l’emancipazione, e che in effetti si è presentato come la giustificazione per dire e per fare quel-
20 lo che si voleva. Si è scoperto così il vero significato del detto di Nietzsche: «La ragione del più
forte è sempre la migliore». È anche per questo, credo, che a partire dalla fine del secolo scorso
si sono fatte avanti delle rivendicazioni di realismo filosofico. Il New Realism nasce infatti da
una semplice domanda. Che la modernità sia liquida e la postmodernità sia gassosa è vero,
o si tratta semplicemente di una rappresentazione ideologica? È un po’ come quando si dice
25 che siamo entrati nel mondo dell’immateriale e insieme coltiviamo la sacrosanta paura che
ci cada il computer. Da questo punto di vista, un primo gesto fondamentale è consistito nella
critica dell’idea che tutto sia socialmente costruito, compreso il mondo naturale, e sotto questa
prospettiva il libro di Searle La costruzione della realtà sociale (1995) è stato un punto di svolta. In
Italia, il segnale è venuto da Kant e l’ornitorinco di Eco (1997), che vedeva nel reale uno «zoccolo
30 duro» con cui necessariamente si tratta di fare i conti [...]. Lo stesso fatto che, sempre in quegli
anni, si sia tornati a considerare l’estetica non come una filosofia dell’illusione, ma come una
filosofia della percezione, ha rivelato una nuova disponibilità nei confronti del mondo esterno,
di un reale che sta fuori degli schemi concettuali, e che ne è indipendente, proprio come non ci
è possibile, con la sola forza della riflessione, correggere le illusioni ottiche, o cambiare i colori
35 degli oggetti che ci circondano. Questa maggiore attenzione al mondo esterno ha significato,
anche, una riabilitazione della nozione di «verità», che i postmoderni ritenevano esaurita e
meno importante, per esempio, della solidarietà. Non considerando quanto importante sia la

1. Paul Boghossian: Boghossian (1957) è un filosofo sta- 2. John Searle: Searle (1932) è un filosofo statunitense.
tunitense di origini armene.

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verità nelle nostre pratiche quotidiane, e quanto la verità sia intimamente connessa con la
realtà. Se uno va dal medico, sarebbe certo felice di avere solidarietà, ma ciò di cui soprattutto
40 ha bisogno sono risposte vere sul suo stato di salute. E quelle risposte non possono limitarsi a
interpretazioni più o meno creative: devono essere corrispondenti a una qualche realtà che si
trova nel mondo esterno, cioè, nella fattispecie, nel suo corpo. È per questo che in opere come
Paura di conoscere (2005) di Paul Boghossian e Per la verità (2007) di Diego Marconi3 si è proceduto
a argomentare contro la tesi secondo cui la verità è una nozione relativa, e del tutto dipendente
45 dagli schemi concettuali con cui ci accostiamo al mondo. È in questo quadro che si definiscono
le parole-chiave del New Realism: Ontologia, Critica, Illuminismo. Ontologia significa sempli-
cemente: il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare. L’errore dei postmoderni poggiava su una
semplice confusione tra ontologia ed epistemologia, tra quello che c’è e quello che sappiamo a
proposito di quello che c’è. È chiaro che per sapere che l’acqua è H2O ho bisogno di linguaggio,
50 di schemi e di categorie. Ma l’acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che io non
lo sappia, indipendentemente da linguaggi e da categorie. A un certo punto c’è qualcosa che
ci resiste. È quello che chiamo «inemendabilità», il carattere saliente del reale. Che può essere
certo una limitazione ma che, al tempo stesso, ci fornisce proprio quel punto d’appoggio che
permette di distinguere il sogno dalla realtà e la scienza dalla magia. Critica, poi, significa que-
55 sto. L’argomento dei postmoderni era che l’irrealismo e il cuore oltre l’ostacolo sono emancipa-
tori. Ma chiaramente non è così, perché mentre il realismo è immediatamente critico («le cose
stanno così», l’accertamento non è accettazione!), l’irrealismo pone un problema. Se pensi che
non ci sono fatti, solo interpretazioni, come fai a sapere che stai trasformando il mondo e non,
invece, stai semplicemente immaginando di trasformarlo, sognando di trasformarlo? Nel reali-
60 smo è incorporata la critica, all’irrealismo è connaturata l’acquiescenza, la favola che si raccon-
ta ai bambini perché prendano sonno. Veniamo, infine, all’Illuminismo. La storia recente ha
confermato la diagnosi di Habermas4 che trent’anni fa vedeva nel postmodernismo un’ondata
anti-illuminista. L’Illuminismo, come diceva Kant, è osare sapere ed è l’uscita dell’uomo dalla
sua infanzia. Da questo punto di vista, l’Illuminismo richiede ancora oggi una scelta di campo,
65 e una fiducia nell’umanità, nel sapere e nel progresso. L’umanità deve salvarsi, e certo mai e poi
mai potrà farlo un Dio. Occorrono il sapere, la verità e la realtà. Non accettarli, come hanno fatto
il postmoderno filosofico e il populismo politico, significa seguire l’alternativa, sempre possi-
bile, che propone il Grande Inquisitore: seguire la via del miracolo, del mistero e dell’autorità.
(M. Ferraris, Il ritorno al pensiero forte, «la Repubblica», 8 agosto 2011)

3. Diego Marconi: filosofo torinese (1947).


4. Habermas: Jürgen Habermas (1929) è un filosofo, sociologo e politologo tedesco.

Comprensione e interpretazioneI
1 Come vedi, l’articolo di Maurizio Ferraris è del tutto privo di a capi. Rileggi il brano e segnala,
in base alle tappe argomentative che riconosci, dove inseriresti un a capo.
2 Dai un breve titolo a ogni capoverso che hai creato inserendo gli a capi mancanti.
3 Rifletti sulla scelta espressiva che l’autore ha compiuto nell’incipit dell’articolo. Ti sembra effica-
ce? Quale citazione riconosci nelle prime parole del testo? In che relazione sta tale riferimento
filosofico-politico con la volontà di pubblicare un «manifesto» di una nuova corrente filosofica?
4 Sotto quale definizione l’autore accomuna ermeneutica e pensiero debole?
¨ postmoderno ¨ realismo
¨ moderno ¨ nuovo realismo
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5 Perché secondo te l’autore, dal suo punto di vista, definisce «micidiale» lo slogan «l’immagina-
zione al potere» (r. 10)?
6 Quali sono state, secondo Ferraris, le conseguenze politiche negative dell’abbandono dell’og-
gettività e di una verità fondata sui fatti?
7 Per affermare la preminenza dei fatti sulle interpretazioni, Ferraris riporta due esempi tratti
dalla vita quotidiana. Quali?
8 A quale concetto si oppone più direttamente il concetto di ontologia?
¨ idealismo ¨ realismo
¨ fenomenologia ¨ pensiero debole
9 Spiega in circa 50 parole il concetto di «inemendabilità» del reale (r. 52).

CommentoI
10 Elabora un testo – di una lunghezza pari ad almeno tre colonne di foglio protocollo – in cui
commenti criticamente la posizione di Ferraris. Puoi proporre una serie di argomenti originali
o seguire uno schema di questo tipo:
a. i bersagli polemici di Ferraris: che cos’è il postmoderno (ricorda per esempio l’idea espressa
da Jean-François Lyotard circa la fine dei «grandi racconti»: Illuminismo, idealismo, marxi-
smo);
b. il nuovo realismo (puoi riepilogare qui gli argomenti di Ferraris o sceglierne uno in partico-
lare);
c. opposizione totale o complementarità? La visione «relativista» postmoderna è totalmente
incompatibile con l’oggettivismo del Nuovo Realismo o l’una e l’altra posizione hanno buoni
argomenti a seconda della sfera di applicazione che si prende in considerazione (per esem-
pio quella dei fenomeni naturali e quella della morale)?

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Michela Marzano
Tolleranza non è ridurre le libertà
delle donne
Pare che George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe ri-
chiesto loro di adempiere il servizio militare, avesse detto che gli «scrupoli di coscienza di tut-
ti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande cura e gentilezza». E che quindi, in
nome della tolleranza, si sarebbe dovuta «accomodare» persino la legge. Ma fino a che punto
5 si possono «accomodare» alcuni diritti? È giusto arretrare anche solo sulle proprie abitudini?
È ammissibile, per le donne, rinunciare a quelle libertà conquistate da poco e con tanta fatica,
come è accaduto recentemente ad Amsterdam, dove sono stati vietati minigonne e stivali sexy
negli uffici comunali per non urtare la sensibilità di una clientela multietnica? Si può, per dirla
in altri termini, tollerare l’intolleranza altrui senza rischiare di cancellare la possibilità stessa
10 della tolleranza?
La tolleranza, come ci insegnano Locke o Voltaire, non è solo quella virtù che porta a ri-
spettare l’altro e le sue differenze. È anche e soprattutto ciò che permette di organizzare il vive-
re-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose diverse, spingendoci a sop-
portare anche ciò che si disapprova. In che senso? Nel senso che quegli «scrupoli di coscienza»
15 di cui parlava Washington non dovrebbero impedire alle donne di vestirsi come vogliono o agli
umoristi di ironizzare o far ridere su qualunque cosa. Esattamente come non dovrebbero im-
pedire, a chi lo desidera, di augurare ad amici e a parenti «Buon Natale» o «Buona Pasqua», solo
perché il Natale o la Pasqua sono festività cristiane. Ecco perché in ogni democrazia liberale e
pluralista, pur non sopportando il fatto che una donna si veli, si dovrebbe essere capaci di accet-
20 tarlo; esattamente come si dovrebbe accettare il fatto che alcune donne mettano la minigonna
o vadano in giro con abiti sexy, anche quando la cosa infastidisce. A meno di non voler distrug-
gere proprio la tolleranza, visto che «tolleranza» e «intolleranza» non fanno altro che elidersi
reciprocamente. Se in nome della tolleranza si tollerasse l’intolleranza si finirebbe d’altronde
con lo svuotare di senso il concetto stesso di tolleranza.
25 È questo che vogliamo? Siamo sicuri che è il modo migliore per promuovere l’integrazione
nei nostri Paesi? Non rischiamo così di aumentare la conflittualità e, nel nome della convivenza,
di rinunciare a valori e ideali per i quali si sono battute generazioni intere di uomini e di donne?
L’integrazione non è mai facile. Non lo è per nessuno. Non lo è stato per gli italiani, i po-
lacchi, gli spagnoli e i portoghesi che sono emigrati il secolo scorso. Lo è ancora meno per chi
30 viene da una cultura o da una religione completamente diversa come l’Islam. In ogni caso, si
è confrontati all’alterità. E l’alterità, per definizione, è difficilmente assimilabile. Anche perché
l’altro, in quanto tale, è il contrario dell’identico, e quindi di tutto ciò che si conosce e che si è
intuitivamente disposti ad accettare. Ci si può integrare, come spiega il filosofo Alasdair Mac-
Intyre1, solo a partire dalle proprie molteplici «appartenenze» (famiglia, quartiere, tradizioni,
35 chiese…). «E la particolarità», scrive MacIntyre, «non può mai essere semplicemente lasciata

1. Alasdair MacIntyre: MacIntyre (1929) è un filosofo scozzese vicino al pensiero di Aristotele e di Tommaso
d’Aquino.

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alle spalle o cancellata rifugiandosi in un mondo di massime universali». Al tempo stesso, però,
ci sono diritti, o anche solo abitudini, su cui sarebbe un grave errore arretrare vuoi per paura,
vuoi per rispetto. Soprattutto quando si pensa a quei territori di libertà femminili che si sono
conquistate pian piano, con sofferenze e sacrifici. Perché poi è sempre così che finisce: sono
40 le donne — ma anche le persone omosessuali e transessuali — che rischiano di pagare sulla
propria pelle il prezzo di quest’accomodarsi per paura di ferire la sensibilità altrui. Come si può
anche solo pensare di vietare le minigonne o di coprire delle statue nude — come è accaduto in
Italia in occasione della visita del presidente dell’Iran — solo perché il nudo potrebbe imbaraz-
zare chi non si imbarazza affatto quando, a casa sua, si tratta di imporre i propri usi e costumi?
45 Come si può anche solo immaginare di tollerare l’intolleranza di chi è convinto che un uomo
non debba nemmeno sognarsi di stringere la mano di una donna?
Oswald Spengler2, ne Il Tramonto dell’Occidente, spiegava che il mondo si fa, si disfa e si rifà,
indipendentemente da quello che possiamo fare o volere. Con queste parole, il filosofo tedesco
anticipava profeticamente la fine della «Modernità». Al tempo stesso, però, affermava qualcosa
50 di profondamente erroneo. Almeno per chi parte dal presupposto che, nonostante ci sia sempre
qualcosa che sfugga al controllo, gli esseri umani sono comunque responsabili del proprio de-
stino. E crede quindi che ci si debba sempre battere per salvaguardare i propri diritti ed evitare
di arretrare. Tanto più che, oggi, sono numerosi coloro che vorrebbero cancellare anni di storia
e di battaglie femminili.
55 Gli integralismi, quando si tratta delle donne, si assomigliano tutti. E con la scusa di difen-
dere valori come la famiglia, l’onore, il pudore o la castità, vogliono di fatto tornare a quell’epoca
in cui le donne, docili e silenziose per natura, dovevano accontentarsi di restare a casa, lascian-
do agli uomini gli oneri e gli onori della vita pubblica. Il diavolo si nasconde spesso nei dettagli:
una minigonna vietata o un velo imposto, un «vergognati» o un «resta al posto tuo», un «era
60 meglio prima» o un «questo è puro e questo è impuro». Tanti dettagli che, col tempo, rischiano
però di diventare pericolosi. Soprattutto quando, nel nome della tolleranza e del rispetto, di
fatto si impongono solo intolleranza e umiliazione. Ma come si può, nel nome della tolleranza,
tollerare appunto l’intolleranza?
(M. Marzano, Tolleranza non è ridurre la libertà delle donne, «Corriere della Sera», 30 marzo 2016)

2. Oswald Spengler: Spengler (1880-1936) è stato un filosofo e scrittore tedesco.

Comprensione e interpretazioneI
1 Come definisce la tolleranza l’autrice del brano?
2 «Se in nome della tolleranza si tollerasse l’intolleranza si finirebbe d’altronde con lo svuotare di
senso il concetto stesso di tolleranza» (rr. 23-24). Spiega il significato di questa osservazione.
3 Qual è il fatto di cronaca, citato nell’articolo, da cui scaturisce la riflessione sul tema della tol-
leranza?
4 Osserva e ricostruisci in uno schema ragionato la struttura dell’argomentazione dei primi due
paragrafi.

CommentoI
5 Sei d’accordo con la posizione espressa da Michela Marzano in questo articolo? Esponi la tua
posizione sul problema posto al centro della riflessione dalla filosofa Marzano in un testo di
almeno tre colonne. La tua argomentazione deve comprendere esempi simili a quelli portati
dall’autrice dell’articolo.

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Ambito filosofico - Testi a confrontoi


Testo 1 Fernando Savater
Appartenenza e partecipazione
Noi uomini abbiamo tradizionalmente due tipi d’integrazione nelle società di cui facciamo
parte: appartenenza e partecipazione. Questi due modelli non si escludono reciprocamente, ma
sono complementari. L’appartenenza è la prima forma fondamentale con la quale ci integria-
mo nel nostro gruppo sociale: apparteniamo alla nostra famiglia, al nostro paese natale, alla
5 nostra tribù, al nostro gruppo etnico o «razziale», alla religione con la quale siamo stati educa-
ti, eccetera. Le appartenenze definiscono l’essenza immutabile della nostra identità. Tuttavia
presentano anche delle contraddizioni: fomentano mentalità ristretta, dogmatismo, incom-
prensione nei confronti del diverso, di chi «non è dei nostri», vale a dire di chi non appartiene
al nostro clan. La partecipazione viene dopo e si basa su scelte personali: facciamo parte di quei
10 gruppi di cui condividiamo gli ideali, i cui valori ci appaiono accettabili o le cui leggi possiamo
decidere insieme agli altri. La partecipazione ha delle difficoltà: obbliga a uno sforzo costante,
a discussioni su ciò che è preferibile o raggiungibile con gli altri, a una incertezza permanente
e, in molti casi, a sottomettere le mie preferenze a modifiche che le rendano compatibili con le
altrui preferenze. Ma ha anche dei vantaggi: mi abitua a relativizzare tutte le mie fedeltà, ad ac-
15 certarle non come un destino immutabile ma come una scelta passibile di eventuali revisioni
e a riconoscerle come riconducibili non solo a quelli che sono come me ma a chiunque accetti
le regole che, insieme agli altri cittadini, abbiamo elaborato.
Nell’integrazione sociale di ciascuno di noi si combinano elementi di appartenenza ed
elementi di partecipazione. […] Il sistema democratico è prima di tutto partecipativo e in esso
20 rientrano appartenenze diverse che possono coesistere ugualmente nonostante la presenza di
modelli comuni di partecipazione. Ciò che è importante in ultima analisi non sono né l’origine
né le radici, ma i diritti e i doveri che l’individuo è disposto a dividere con gli altri: quello che
conta non è da dove proviene il singolo e quali sono le sue adesioni primarie (ossia il passato),
ma il suo riconoscimento convenzionale di un progetto sociale in comune con gli altri: vale
25 a dire il futuro. […] Risulta ovvio che praticamente tutti gli attuali stati europei sono formati
da cittadini di appartenenze distinte che però hanno in comune valori e procedure politiche
somiglianti. […] Ciascuno di noi ha più identità e appartiene a fedeltà diverse: la maggioranza
degli uomini e delle donne d’oggi in un modo o nell’altro sono meticci. […] Quale deve essere,
allora, la nostra «vera» appartenenza? Come ha detto in qualche occasione George Steiner1, gli
30 esseri umani non hanno radici come gli alberi ma piedi per condurli dove li spinge la necessità
o li attrae la speranza. Quello che importa non è l’albero genealogico dal quale discendiamo, ma
l’ideale di convivenza verso il quale ci incamminiamo.
(F. Savater, Il futuro oltre le radici, «Il Messaggero», 24 settembre 2009)

1. George Steiner: scrittore e saggista francese (1929).

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Testo 2 Marcello Pera


Come convivere tra culture diverse?
La nostra storia, lo vogliano ammettere o no coloro che hanno scritto il preambolo della Costi-
tuzione europea, è storia giudaico-cristiana e greco-romana. Noi scendiamo da tre colline, il
Sinai, il Golgota, l’Acropoli. E abbiamo tre capitali, noi: Gerusalemme, Atene e Roma. Questa è
la nostra tradizione. Qui sono nati i nostri valori. Senza la legge di Mosè, senza il sacrificio del
5 Cristo, non avremmo quel sentimento morale che ci fa sentire tutti – dico tutti, credenti e non
credenti –, fratelli uguali e compassionevoli. Senza la ragione dei greci e senza il diritto delle
genti dei romani, noi non avremmo quelle forme di pensiero che sorreggono le nostre istituzio-
ni pubbliche. […] Chi rinnega queste origini tradisce la propria storia e perde la propria identità.
Noi non dovremmo consentirlo.
10 Ma, noi chi? Noi non siamo soli. Come rapportarci agli altri, quando, immigrando, vogliono
entrare nella nostra comunità? E come difenderci dagli altri, quando, violando le nostre leggi, ci
vogliono distruggere? Sul problema della convivenza e della integrazione, l’Europa ha dato una
risposta sbagliata e una ingenua. La risposta sbagliata è quella che ho già chiamato multicul-
turalismo, cioè la protezione delle culture in quanto tali, delle comunità in quanto tali, anziché
15 degli individui. [...]
Altra risposta che l’Europa ha dato – che ho chiamato ingenua –, è la risposta della tolleran-
za. Mi direte: come, la tolleranza è una risposta ingenua? Attenzione al malinteso. La tolleranza,
così come oggi è intesa e praticata da noi, è una virtù passiva, che confina più o meno con l’in-
differenza, la sopportazione: tollero gli altri, i diversi, vuol dire li sopporto, mi sono indifferenti,
20 non entro in contatto con loro. [...] Non c’è altra strada da prendere, io credo: o ci impegniamo
a integrare gli altri, rispettandoli e facendoli diventare cittadini della nostra civiltà, con la
nostra educazione, la nostra lingua, la conoscenza della nostra storia, la condivisione dei nostri
principi, oppure la partita della integrazione sarà completamente perduta.
Ma che cosa dobbiamo fare quando l’altro non ci concede il rispetto che noi vogliamo dargli
25 o addirittura ci dichiara guerra, come oggi fa il terrorista islamico che ci combatte una guerra di
religione, una guerra santa, la Jihad? La mia risposta è: in quel caso ci difendiamo. Ci difendiamo
con la diplomazia, la politica, la cultura, i commerci, gli accordi, i negoziati. Ci difendiamo offren-
do rispetto e chiedendo rispetto. E alla fine ci difendiamo anche con la forza delle armi. Quando
sia arrivata questa fine, è questione difficile, di scelta e di prudenza politica. Non possiamo dirlo
30 in teoria. È importante che la fine sia veramente la fine, che arrivi in fondo, ma è ancora più im-
portante che la fine non significhi mai, perché se significasse mai ci saremmo arresi fin dall’inizio.
(M. Pera, discorso tenuto al Meeting di Comunione e Liberazione, 2005)

Marcello Pera è un filosofo, ex presidente del Senato nella XIV Legislatura (2001-2006).

Comprensione e interpretazioneI
1 Individua e sintetizza: argomento; problema; tesi di Savater; tesi di Pera; argomenti di Savater;
argomenti di Pera.

CommentoI
2 Commenta le due posizioni, focalizzando la tua attenzione su affinità e differenze. In un testo
non più lungo di due colonne di foglio protocollo spiega quindi a quale delle due posizioni ti
senti più vicino, argomentando le ragioni della tua scelta.

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Ambito scientifico
Edoardo Boncinelli
Anziani? Solo dopo i 75 anni
(abbiamo imparato a volerci bene)
«Meglio aggiungere la vita ai giorni, che giorni alla vita» disse a suo tempo Rita Levi Montalci-
ni, una che di vita se ne intendeva, sia sul versante del corpo che su quello dello spirito! Eppure
tutti noi vorremmo anche aggiungere giorni, e magari anni, alla nostra vita. Ma devono essere
giorni buoni, cioè vissuti bene e con una certa soddisfazione. «Non importa quanto vivo, ma
5 come vivo» disse a suo tempo quella pittima di Seneca. Per completare il quadro, citerò Cice-
rone: «Nessuno è tanto vecchio da non pensare di vivere ancora un anno». Ma non perdiamo
tempo, perché il tempo è il presente che si va assentando.
In un mondo in cui tutti si lamentano, io vado proclamando che ho avuto una fortuna
sfacciata a vivere in questa epoca. Per tanti motivi, ma anche per aver testimoniato di perso-
10 na l’incredibile allungamento della nostra vita e, spesso, della nostra vita attiva. E combattiva.
Come è stato certificato ieri anche dalla Società di gerontologia e geriatria, oggi si è ufficialmen-
te «anziani» dai 75 anni in su, non prima.
Al tempo dei miei nonni un 70enne era «un vecchio» e uno di 65 anni era «in rassegnata
attesa». Dalle nostre parti, perché in altri luoghi e in altri tempi le cose erano molto peggiori.
15 Sappiamo ormai da qualche anno che la vita media di noi uomini si è molto allungata. Qualche
numero: almeno in Occidente, abbiamo guadagnato 10 anni di vita in più negli ultimi qua-
rant’anni e tre negli ultimi dodici, con un bonus addizionale per le signore che vivono qualche
anno in più dei maschi, per un motivo che non conosciamo. In sostanza, viviamo tutti un tri-
mestre di più per ogni anno che passa! In media ovviamente. Da qualche anno e probabilmente
20 per qualche anno ancora. Perché? I nostri geni non sono affatto cambiati, ma la nostra vita sì:
cibo migliore, più abbondante e bilanciato — nonostante tutte le geremiadi che si sentono in
giro — meno parassiti, meno germi, lavori meno massacranti, più vigilanza, più prevenzione,
più medicina mirata e più cure. Insomma, ci crediate o meno, ci vogliamo più bene. Anche se,
forse, cominciamo a esagerare, soprattutto col cibo.
25 I capisaldi di questi avanzamenti sono stati le migliori condizioni igieniche, l’introduzio-
ne degli antibiotici e una «medicina dell’età avanzata» che prima non esisteva proprio. Basta
pensare alla pressione sanguigna. Moltissime persone tendenti all’ipertensione se la cavano
oggi con qualche pasticchina, presa però regolarmente. Di quanto si potrà allungare ancora la
vita? Dal morire non potremo esimerci, perché la capacità di morire è parte integrante della
30 definizione di vita, ma raggiungere un secolo di vita non è probabilmente una chimera. In
ogni nazione il numero dei centenari aumenta in continuazione e l’età massima raggiungibile
cresce di un anno ogni dieci. In conclusione, per le cose che ancora non avete potuto fare c’è
ancora tempo. Mai dire mai!
E che vita sarà? Questa è forse la domanda più importante. Vivere sì, ma vivere bene. Su
35 questo versante i progressi sono meno clamorosi e meno oggettivabili, ma ciascuno di noi po-
trebbe addurre molti esempi di vispi vecchietti e ancor più di vispe vecchiette, ansiosi tutti di
fare qualcosa. Così che anche la medicina più seria se n’è accorta e si parla di una ridefinizione
del termine «vecchiaia». Questa non è una novità ma una consacrazione, per dire così. Invec-

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chiamo più lentamente e in una forma migliore. Al punto che ci sono persone che hanno avuto
40 «un brutto male» o addirittura «un male incurabile» e che sono ancora vive. Rifletteteci. Prima
non ce n’erano o ce n’erano pochissime.
Ovviamente esistono anche lati negativi: medici e sociali. Dal punto di vista medico l’al-
lungamento della vita ha portato alla ribalta malattie una volta più rare, come le malattie neu-
rovegetative, i disturbi cardio-circolatori e i tumori. Vivendo più a lungo siamo più esposti a
45 queste evenienze. In fondo è il prezzo stesso dei vantaggi che può essere sanato solo con ancora
tanti progressi medici. Ma forse il problema più serio e certamente più generale è quello sociale.
Che cosa faremo fare a queste torme di «vecchietti»? Le motivazioni dei 70 anni non sono quelle
dei 50 anni né quelle dei 30 anni, ma senza motivazioni non si vive. Dobbiamo perciò riorganiz-
zare la vita sociale nel suo complesso in modo da dare nuovo alimento vitale alle persone che
50 affrontano una terza o quarta epoca dell’esistenza e dare un senso all’età che abbiamo guada-
gnato. Anche, perché no?, sul piano sentimentale.
(E. Boncinelli, Anziani? Solo dopo i 75 anni, «Corriere della Sera», 30 novembre 2018)

Comprensione e interpretazione
1 Individua i passaggi logico-argomentativi su cui è costruito l’articolo e analizzane la funzione.
2 Nel testo Boncinelli, noto genetista e biologo, non si limita a esporre i risultati di alcune recenti
ricerche scientifico-mediche, ma afferma anche una sua tesi sulla questione trattata. Rielabo-
rane i passaggi ricavandoli dai punti del testo utili a questo scopo.
3 Riassumi il contenuto dell’articolo in 250 parole. Non usare la prima persona singolare; non
usare formule come «Nell’articolo si dice» / «L’autore afferma…»; puoi oscillare di dieci parole
sotto e sopra il limite indicato.

Commento
4 Svolgi a tua scelta una delle seguenti proposte di scrittura argomentativa.
a. Confuta la tesi di Boncinelli utilizzando come punto di vista alternativo al suo quello di un
giovane dei nostri giorni, che vive in una società come quella italiana contemporanea (mi-
nimo tre colonne di foglio protocollo).
b. Sei d’accordo con l’immagine della scienza che emerge dall’articolo di Boncinelli? Esponi
tesi e argomentazioni in un testo di adeguata ampiezza (minimo tre colonne di foglio pro-
tocollo).

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Ambito scientifico
Antonello Pasini
L’intelligenza artificiale conferma:
siamo noi i responsabili
del riscaldamento globale
Le applicazioni dell’intelligenza artificiale (IA), sia in ambito scientifico che tecnologico, sono
molto numerose. Pochi, tuttavia, si aspetterebbero che l’IA possa aiutarci a comprendere le
origini di un problema attuale e pressante come quello dei cambiamenti climatici. Una ricerca
recente dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche
5 (Iia-Cnr), pubblicata su  «Scientific Reports»  e condotta in collaborazione con l’Università di
Torino e l’Università di Roma Tre, ha mostrato come modelli di reti di neuroni artificiali (le
cosiddette reti neurali) siano in grado di «comprendere» i complessi rapporti tra i vari influssi
umani o naturali e il comportamento climatico. «Il cervello di un bambino che cresce aggiusta
pian piano i propri circuiti neuronali e impara infine semplici regole e relazioni causa-effet-
10 to che regolano l’ambiente in cui vive, per esempio per muoversi correttamente all’interno di
esso», spiega Antonello Pasini, ricercatore dell’Iia-Cnr e primo autore della ricerca. «Come que-
sto bimbo, il modello di cervello artificiale che abbiamo sviluppato ha studiato i dati climatici
disponibili e ha trovato le relazioni tra i fattori naturali o umani e i cambiamenti del clima, in
particolare quelli della temperatura globale».
15 Finora, l’individuazione delle cause del riscaldamento del pianeta è studiata quasi esclu-
sivamente mediante modelli climatici globali che utilizzano la nostra conoscenza fisica del
funzionamento dell’atmosfera, dell’oceano e delle altre parti che compongono il sistema clima.
«Tutti questi modelli attribuiscono alle azioni umane, in particolare all’emissione di gas ser-
ra come l’anidride carbonica, l’aumento delle temperature nell’ultimo mezzo secolo, e questa
20 uniformità di risultati non sorprende, poiché i modelli sono piuttosto simili tra loro. Un’analisi
completamente diversa consentirebbe pertanto di capire meglio se e quanto questi risultati
siano solidi», continua Pasini.
Questo è quanto hanno realizzato i ricercatori, con un modello che «impara» esclusiva-
mente dai dati osservati e non fa uso della nostra conoscenza fisica del clima. «In breve – evi-
25 denzia Pasini – le reti neurali da noi costruite confermano che la causa fondamentale del ri-
scaldamento globale degli ultimi 50 anni è l’aumento di concentrazione dei gas serra, dovuto
soprattutto alle nostre combustioni fossili e alla deforestazione. Ma il nostro modello permette
di ottenere di più: ci dà informazioni sulle cause di tutte le variazioni di temperatura dell’ul-
timo secolo. Così, si vede che, mentre l’influsso solare non ha avuto alcun peso sulla tendenza
30 all’aumento degli ultimi decenni, le sue variazioni hanno causato almeno una parte dell’incre-
mento di temperatura cui si è assistito dal 1910 al 1945. La pausa nel riscaldamento registrata
tra il 1945 e il 1975, invece, è dovuta all’effetto combinato di un ciclo naturale del clima visibile
particolarmente nell’Atlantico e delle emissioni antropiche di particelle contenenti zolfo, a loro
volta causa di cambiamenti nel ciclo naturale».
35 La ricerca chiarisce quindi nel dettaglio i ruoli umani e naturali sul clima. «E conferma la
conclusione che i primi siano stati molto forti e influenti almeno a partire dal secondo dopo-

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guerra», conclude Pasini. «Ma questa non è una notizia negativa, anzi: significa che possiamo
agire per limitare le nostre emissioni ed evitare conseguenze peggiori anche in Italia, Paese
particolarmente vulnerabile dal punto di vista climatico-ambientale».
(A. Pasini, L'intelligenza artificiale conferma: siamo noi i responsabili del riscaldamento globale,
da Galileonet.it, 15 gennaio 2018)

Comprensione e interpretazione
1 Qual è l’affinità tra i modelli di intelligenza artificiale elaborati per studiare i cambiamenti cli-
matici e il funzionamento del cervello umano?
2 Qual è stata la principale scoperta resa possibile da questo modello?
3 Quali altre scoperte sono menzionate nell’articolo?
4 Come giudichi l’atteggiamento di Pasini nei confronti della scoperta delle cause principali dei
cambiamenti climatici?

Commento
5 In un testo espositivo-argomentativo di tre colonne al massimo, attingendo alle tue conoscen-
ze sulla questione del riscaldamento globale, sintetizzane cause ed effetti e indica possibili
rimedi per contenerlo. La tesi che dovrai far emergere è che c’è la possibilità di porre un freno
ai cambiamenti climatici.

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Ambito scientifico
Luca Mercalli
Ma 0,5 gradi in più
possono causare disastri enormi
L’obiettivo dell’Accordo di Parigi1 è contenere il riscaldamento globale entro il 2100 al di sotto
dei 2 °C rispetto all’era preindustriale, possibilmente entro 1,5 °C. Ma che cosa comporta?
Anzitutto, come specificato nel testo del trattato, l’insieme dei piani nazionali di riduzione
dei gas serra finora presentati da 185 Paesi ancora non basta a raggiungere tale traguardo – è
5 infatti più vicino a 3 °C che a 2 °C – e più avanti occorrerà puntare a più massicci tagli alle
emissioni.
Con la Cop212 si è scritta una pagina inedita nella storia dei trattati sul clima, ma ancora
insufficiente per porre mano al problema in modo radicale ed efficace a lungo termine. An-
che un riscaldamento di 1,5 °C (finora nell’ultimo secolo siamo arrivati a quasi 1 °C) avrebbe
10 conseguenze importanti – benché probabilmente ancora gestibili – con aumento degli eventi
atmosferici intensi, perdita di metà delle barriere coralline e di produttività agricola nelle
zone tropicali, diffusione di malattie tipiche di regioni calde. Ma ogni ritardo nelle azioni
di contrasto ci porrà inevitabilmente su traiettorie di emissione e di riscaldamento più dan-
nose.
15 Salendo a 2 °C già crescerebbe molto il rischio di superamento di soglie critiche nell’asset-
to planetario quali la totale scomparsa della banchisa artica, fenomeno che a sua volta, per il
mancato effetto riflettente della radiazione solare, amplificherebbe il riscaldamento. Infatti la
gravità delle conseguenze dei cambiamenti climatici cresce con l’incremento delle temperatu-
re molto più rapidamente, e con effetti moltiplicativi, di quanto il nostro pensiero tipicamente
20 lineare ci porti a immaginare.
Passare da 2 a 4 °C significherebbe dunque molto più che raddoppiare i problemi, con
il collasso irreversibile delle calotte di Antartide e Groenlandia, aumento dei livelli marini di
diversi metri a livello plurisecolare e allagamento dei luoghi oggi abitati da centinaia di milio-
ni di persone, incluse vaste zone delle nostre pianure costiere, soprattutto dell’Alto Adriatico,
25 scongelamento del permafrost3 artico con ulteriore rilascio di gas serra, fino ad arrivare – nel
caso del temibile scenario «business-as-usual»4 che finora abbiamo seguito, privo di freni alle
emissioni – a un riscaldamento globale di 5 °C e perfino di oltre 6-7 °C nelle estati del Nord
Italia: una situazione che cambierebbe volto al pianeta tanto da mettere in forse la sopravvi-
venza della civiltà, messa di fronte al tracollo degli ecosistemi da cui dipendono la produzione
30 alimentare e la struttura stessa dell’economia.

1. Accordo di Parigi: si tratta del documento adottato 3. permafrost: si tratta di uno strato di terreno sotter-
da 195 Paesi in occasione della conferenza sul clima, te- raneo (sotto quello superficiale), che a certe latitudini e
nutasi a Parigi nel 2015. È il primo accordo universale altitudini è perennemente congelato.
e giuridicamente vincolante su questa materia, teso a 4. «business-as-usual»: espressione inglese che può
limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 oC. assumere diverse sfumature di significato in base al
2. Cop21: sigla che sta a indicare la 21a Conferenza delle contesto; qui sta a indicare che la situazione continua
parti, tenutasi appunto a Parigi nel 2015. senza modifiche, come al solito.

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Ecco perché la Cop21 era così strategica per il nostro futuro… eppure nella società civile – a
parte gruppi di virtuosi, pur sempre minoritari, che si sono fatti sentire ad esempio con le va-
rie «Marce per il clima» – ha suscitato un’attenzione inferiore a quella di norma riservata a un
qualunque campionato sportivo.
(L. Mercalli, Ma 0,5 gradi in più possono causare disastri enormi, «La Stampa», 13 dicembre 2015)

Comprensione e interpretazionei
1 Riassumi il testo basandoti solo sui nuclei tematici fondamentali di ciascun paragrafo.
2 Quale criterio nella progressione delle idee lega il secondo, il terzo e il quarto capoverso? For-
mulalo in termini generali; spiega quindi qual è la funzione in termini argomentativi di questa
parte del testo.
3 Spiega il seguente passaggio, cruciale ai fini della comprensione del testo: «la gravità delle
conseguenze dei cambiamenti climatici cresce con l’incremento delle temperature molto più
rapidamente, e con effetti moltiplicativi, di quanto il nostro pensiero tipicamente lineare ci
porti a immaginare» (rr. 15-18).
4 Nonostante l’autore dell’articolo sia un climatologo, nell’affrontare la questione non si affida
solo ad argomenti obiettivi e alla dimostrazione, ma punta anche a suscitare una reazione
emotiva in chi legge. Quali scelte espressive dell’autore sembrano andare in questa direzione?
Individuale e commentale.
5 L’articolo si apre con l’affermazione «L’obiettivo dell’Accordo di Parigi è…» e si chiude con «Ecco
perché la Cop21 era così strategica…». Come spieghi il passaggio dal tempo presente all’imper-
fetto?

Commentoi
6 Commenta quanto sostenuto da Luca Mercalli nella conclusione dell’articolo. In particolare,
esprimi la tua opinione in merito all’allarme lanciato dal climatologo circa la scarsa eco che
i temi ambientali hanno nella società civile. Se condividi la sua posizione, esponi le tue idee
sulle cause di questo fenomeno; se, invece, sei di opinione diversa, presenta la tua posizione
e argomentala.

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Ambito scientifico
Francesco Semprini
Agenda 2030: ognuno deve fare la sua parte
Ognuno deve fare la sua parte, Paesi in via di sviluppo, emergenti e maturi, governi e cittadini,
imprese e associazioni, tenendo presente lo stretto legame che esiste tra tutti gli aspetti che
riguardano la vita del Pianeta.
È questa la filosofia alla base dell’Agenda 2030, il nuovo capitolo con il quale le Nazioni
5 Unite si mobilitano nel gigantesco sforzo di migliorare le condizioni del mondo e di chi lo abita.
Uno sforzo sul quale ieri i 193 Stati membri dell’Onu, nel corso del summit sull’ambiente a mar-
gine della 70ª Assemblea generale Onu, hanno approvato i «Sustainable Development Goals»
(Sdg).
È la prosecuzione naturale dei «Millennium Development Goals», l’Agenda 2015 articolata
10 in otto «goal» suddivisi in «target» (grandi obiettivi e sotto-obiettivi specifici) che andavano
dalla lotta alla fame e alla povertà alla garanzia di istruzione primaria, dal rafforzamento del
ruolo delle donne, alla riduzione della mortalità infantile. E ancora, miglioramento delle con-
dizioni di salute in maternità, lotta all’Aids/Hiv, malaria e altre malattie endemiche, sostenibi-
lità ambientale, e sviluppo di un partenariato per il progresso del Mondo. […]
15 Gli Sdg [sono] un piano ancora più ambizioso costituito da 17 «goal» e 169 «target» da real-
izzarsi entro il 2030. Ambizioso per il diverso approccio e per la diversa natura che lo ispira. La
durata del processo preparatorio è stata molto più lunga, poi ad essere coinvolti saranno, non
solo governi, ma anche la società civile, Ong, individui e imprese.
Anche l’approccio è del tutto rinnovato: «Uno dei limiti del precedente piano è stato la
20 compartimentazione – spiegano fonti Onu –, il fatto che non si è avuta la percezione della in-
terconnessione tra obiettivi». La riduzione della povertà in Cina, ad esempio, ha avuto ricadute
pesantissime su ambiente e consumo di risorse. «La chiave, quindi, è capire come collegare i
vari aspetti per favorire lo sviluppo sostenibile». Occorre un approccio sistemico, ma anche
universale, rivolto quindi pure alle nazioni avanzate, dove con la crisi è aumentato il divario
25 in termini di ricchezza. A interpretare questo approccio è stato proprio papa Francesco1, ricor-
dando che occorre essere «efficaci nella lotta contro ogni flagello». Ed ognuno deve fare la sua
parte, come ricorda Ban Ki-moon2: «Il mondo ci ha chiesto di fare luce su un futuro di promesse
e opportunità». Un futuro che non può reggersi più solo su solidarietà e progresso misurato
esclusivamente «a punti di Pil».
(F. Semprini, Ecco l’Agenda dei grandi per battere fame e povertà, «La Stampa», 26 settembre 2015)

1. Papa Francesco: papa Francesco pronunciò a New 2. Ban Ki-moon (1944): ex ministro degli esteri della
York un discorso all’Onu il giorno stesso dell’approva- Corea del Sud e segretario generale delle Nazioni Unite
zione dell’Agenda 2030; nei giorni successivi interven- dal 2007 al 2016.
nero nella stessa sede i capi di Stato dei maggiori Paesi
del mondo.

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I 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030

(www.unric.org/it/agenda-2030)

Comprensione e interpretazione
1 Che cosa stabilisce l’Agenda 2030?
2 Perché il suo piano è più ambizioso di quello proposto dall’Agenda 2015?
3 Che cosa significa che « Occorre un approccio sistemico, ma anche universale, rivolto
quindi pure alle nazioni avanzate, dove con la crisi è aumentato il divario in termini di
ricchezza» (rr. 23-25)?
4 Il testo è di carattere espositivo, e tuttavia non privo di argomentazioni e punti di vista.
Rintracciali nel testo.

Commento
5 In base alle tue conoscenze personali, svolgi una riflessione argomentativa su:
– urgenza e importanza degli obiettivi dell’Agenda 2030;
– loro perseguibilità;
– sforzi di cui sei a conoscenza, nel nostro Paese o in altri, per il loro perseguimento.

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Ambito scientifico
Elena Dusi
Sempre più intelligenti
Cresce il Qi dell’umanità. Come rivela uno studio, dal 1950 a oggi sono aumentati da 100 a 120 i punti medi
del quoziente intellettivo. Uno sviluppo sorprendente delle nostre capacità logiche. E in testa ci sono Cina
e India.

L’umanità sta diventando sempre più intelligente. Da almeno sessant’anni (da quando
esistono dati) i figli hanno regolarmente il cervello più fino dei padri. L’effetto è stato notato per
la prima volta negli anni ʹ80 e, contrariamente alle previsioni, non accenna a fermarsi ancora
oggi. Lo hanno appena confermato tre ricercatori del Kings College London in un’analisi pub-
5 blicata dalla rivista «Intelligence». Studiando i risultati di una particolare versione dei test di
intelligenza (le matrici di Raven), i ricercatori hanno osservato che dal 1950 a oggi in 48 Paesi
del mondo il punteggio medio del quoziente intellettivo (Qi) è aumentato da 100 a 120.
I quiz in realtà sono tarati per ottenere un valore standard di 100 nella popolazione. Non
è dunque il punteggio medio a variare nel tempo, quanto la difficoltà del test. E fu proprio sfo-
10 gliando i manuali di un secolo prima che, all’inizio degli anni ’80, lo psicologo neozelandese
James Flynn notò quanto fossero facili. Provò a sottoporli ai giovani della sua epoca e vide che i
punteggi medi erano regolarmente più alti. Molto più alti. Da allora il continuo miglioramento
del Qi dell’umanità  – che prende il nome di «effetto Flynn»  –  è stato confermato da decine
di studi. Ogni decennio l’intelligenza del mondo aumenta di due o tre punti, a seconda della
15 regione geografica. Se un americano di oggi si sottoponesse al test di un secolo fa otterrebbe
130 anziché il punteggio standard di 100. E se, al contrario, il trisnonno provasse ad affrontare il
quiz del pronipote arriverebbe a 70: sull’orlo della definizione di ritardo mentale.
I passi avanti più risoluti nella crescita dell’intelligenza arrivano dai Paesi in via di svilup-
po. Cina e India, nello studio di «Intelligence», mostrano di bruciare le tappe, quasi cancellando
20 il divario con i Paesi avanzati. Mentre gli Stati Uniti continuano a crescere (e anche al loro in-
terno si riduce il divario fra la popolazione bianca e quella nera), il resto del mondo sviluppato
si muove a ranghi sparsi. Il quoziente intellettivo è in crescita in Giappone, Francia, Israele e
Olanda.
Norvegia e Svezia sono stazionarie, mentre Danimarca e Gran Bretagna sono in lieve de-
25 clino. Una carta geografica a macchia di leopardo e il dubbio che la crescita complessiva prima
o poi possa fermarsi conducono dritti dritti alla domanda: ma cos’è che fa aumentare l’intelli-
genza?
L’educazione, è la risposta più plausibile secondo i ricercatori di «Intelligence», Peera Won-
gupparaj, Veena Kumari e Robin Morris. «Le matrici di Raven mettono in luce l’intelligenza lo-
30 gico-spaziale» spiega Rita Raffaella Fabbrizio, la psicologa che supervisiona i test per il Mensa,
il club che raccoglie individui con quoziente di intelligenza altissimo (il miglior 2% d’Italia).
«Sono figure da completare seguendo un determinato criterio logico e sono considerate
un buon indicatore anche per altri aspetti dell’intelligenza». Logica e astrazione sono effetti-
vamente fra le facoltà più stimolate nei bambini che vanno a scuola. Al miglioramento della
35 pedagogia può dunque essere attribuito l’aumento dei punteggi in questo tipo di quiz, anche
se Flynn, in un’intervista alla Bbc, allarga il merito a una diffusione più generale del pensiero

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razionale e astratto: una forma di ragionamento che nelle società industrializzate è diffuso ben
oltre le aule scolastiche. Lo psicologo neozelandese ha calcolato che nel 1900 il 3% degli ameri-
cani svolgeva un lavoro impegnativo dal punto di vista cognitivo. Oggi la percentuale è salita al
40 35%. «I bambini stessi sono sottoposti a una marea di stimoli» sottolinea Fabbrizio.
Di certo la crescita del Qi è troppo rapida e ripida per essere attribuita ai geni, che hanno
bisogno di molte generazioni per penetrare e diffondersi in una popolazione. Le ricerche che
miravano a individuare uno o più «geni dell’intelligenza» non hanno dato risultati davvero
convincenti in circa 15 anni di sforzi. Né le analisi sui genitori dei premi Nobel hanno dimo-
45 strato che il Qi è ereditabile. Altre possibili cause dell’aumento dell’intelligenza vanno dalla dif-
fusione dell’energia elettrica, che permette di leggere anche la sera, alla tendenza della nostra
civiltà a diventare sempre più visiva (quindi abile nell’interpretare le figure geometriche delle
matrici di Raven).
Poco importa che altre ricerche abbiano legato l’aumento dell’intelligenza anche all’au-
50 mento dell’ansia, e scollegato il Qi allo spessore del portafoglio. Albert Rothenberg dell’Uni-
versità di Harvard qualche anno fa si è cimentato con il calcolo dell’influenza che ogni singolo
fattore avrebbe sul quoziente di intelligenza: frequentare l’asilo da bambini darebbe almeno
quattro punti, mentre leggere storie in braccio ai genitori regalerebbe sei punti. A un bambino
adottato che passi da una famiglia operaia a una della classe media viene attribuito un miglio-
55 ramento del Qi di 12-18 punti.
Al di là delle cifre, a una sia pur difficile definizione di intelligenza prova ad avvicinarsi
Pier Paolo Battaglini, professore del centro Brain per le neuroscienze dell’Università di Trieste:
«È la capacità di legare insieme, fare collegamenti, e si basa sulla plasticità del cervello. Un
cervello che ha più sinapsi, più giunzioni fra i neuroni, è come una popolazione che abbia più
60 cellulari: comunica di più, esattamente come avviene nei Paesi sviluppati. E per far aumentare
le sinapsi c’è un’unica ricetta: stimolarle, arricchirsi di esperienze. Le maggiori potenzialità di
apprendimento di un essere umano si raggiungono a quattro anni. A quell’età, più di ogni altra,
tanto più ci si sforza per apprendere, tanto più le sinapsi si moltiplicano. Se questo avviene in
un contesto gratificante, nel bambino si creano uno stress positivo e un background biochimi-
65 co adatto allo sviluppo dell’intelligenza».
Questo mix di fattori si sta evidentemente producendo in Asia. La nuova generazione di
cinesi (i test hanno preso in considerazione ragazzi di 12 anni) è cresciuta di 6,2 punti negli ul-
timi 25 anni. Il Giappone roboante degli anni fra il 1940 e il 1965 ha divorato 7,7 punti ogni dieci
anni mentre Singapore, con una media di 108, avrebbe oggi il Qi medio più alto del mondo. Una
70 cartina geografica basata sui test di intelligenza vedrebbe la vecchia Europa stretta nella tena-
glia di Stati Uniti e Asia. Ma per fortuna non è solo alle matrici di Raven che è affidata la nostra
sorte. Anzi. «L’intelligenza logico-spaziale è ritenuta una delle più nobili forme di pensiero»
ricorda Fabbrizio.
«Ma oggi si stanno diffondendo anche altri tipi di test, che misurano l’intelligenza emoti-
75 va e relazionale. C’è chi pensa che si tratti di una variabile assai più importante per il successo
nella vita». La psicologa del Mensa è anche presidente di Cross Competence, una società che
crea test ad hoc per le aziende alla ricerca di personale da assumere. «Effettivamente le matrici
di Raven interessano poco al mondo del lavoro» spiega. «L’intelligenza relazionale ed emotiva e
la capacità di empatia sono sicuramente le doti che premiano di più nelle aziende».
(E. Dusi, Sempre più intelligenti, «la Repubblica», 3 marzo 2015)

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Comprensione e interpretazione
1 Come funzionano i test che misurano il quoziente di intelligenza e che cosa significa la frase:
«I quiz in realtà sono tarati per ottenere un valore standard di 100 nella popolazione. Non è
dunque il punteggio medio a variare nel tempo, quanto la difficoltà del test» (rr. 8-9)?
2 Che cos’è l’«effetto Fynn» e perché ha questo nome?
3 Qual è il fattore principale dello sviluppo del quoziente intellettivo?
4 L’autrice scrive: «Ma per fortuna non è solo alle matrici di Raven che è affidata la nostra sorte»
(rr. 71-72). Che cosa significa? Quale concezione dell’intelligenza umana manifesta quest’affer-
mazione?

Commento
5 Basandoti anche sulla tua esperienza, chiarisci in un testo argomentativo che cosa intendi tu
per «intelligenza» e quali sono a tuo parere gli elementi che concorrono a incrementarla. Non
superare le tre colonne di foglio protocollo.

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Ambito scientifico
Anna Lisa Bonfranceschi
Il mondo li stupisce?
Per questo i bambini imparano di più
Secondo uno studio della Johns Hopkins University, quando qualcosa non si comporta secondo le proprie
aspettative diventa oggetto di attenzione da parte dei più piccoli. Ma, soprattutto, un’opportunità per ca-
pire qualcosa di più sul mondo che li circonda

Già da piccoli, piccolissimi, i bambini hanno una loro rappresentazione del mondo e sono in
grado di capire quando un oggetto si comporta in maniera tipica o in modo del tutto imprevi-
sto. Bimbi di nemmeno un anno sono capaci, infatti, di fare delle previsioni del mondo che li
circonda e quando queste vengono disattese si sorprendono: spalancano gli occhi, fissano l’og-
5 getto e cambiano espressione. Ma non solo: quando vengono sbalorditi i bambini ne approfit-
tano per imparare qualcosa di più sull’oggetto in questione e anche per esplorare il mondo che
li circonda, come piccoli ricercatori alle prese col metodo scientifico: testano ipotesi e cercano
conferme.
Del potere della sorpresa come strumento di apprendimento parla uno studio pubblicato
10 su «Science». L’idea di partenza delle due ricercatrici della Johns Hopkins University, Aimee E.
Stahl e Lisa Feigenson, era quella di capire qualcosa di più sul processo della conoscenza nei
piccolissimi, che hanno un piccolo bagaglio di esperienze e che non hanno ancora imparato a
parlare. «Per i piccoli, il mondo è un posto incredibilmente complesso e pieno di stimoli dina-
mici. Come fanno a sapere cosa mettere a fuoco e su cosa imparare di più e cosa invece igno-
15 rare?», si è chiesta Feigenson. «La nostra ricerca ci suggerisce che i bambini usano ciò che già
conoscono del mondo per elaborare delle previsioni. Quando queste previsioni si dimostrano
sbagliate, i bambini usano questa sorpresa come una speciale opportunità di apprendimento».
Anche se non possono descrivere il mondo e gli oggetti, i piccoli, spiegano le ricercatrici,
hanno un modo tutto loro per comunicare quello che conoscono e quello che non conoscono:
20 lo sguardo. Al di là delle misure del flusso cerebrale, dell’attività cerebrale o delle espressioni
facciali, gli scienziati sanno da tempo che i bambini guardano più a lungo e più insistente-
mente qualcosa che gli adulti giudicano sorprendente e che si comporta in modo inatteso. Una
sorpresa, in tal senso, può essere tutto ciò che contraddice le aspettative, come per esempio una
palla che cade lungo un pendio e che invece di essere bloccata da un muro sembra attraversarlo.
25 Stahl e Feigenson hanno usato proprio quest’immagine per capire cosa succede a livello
cognitivo dopo un evento sorprendente nel cervello dei bambini di appena 11 mesi. Ad alcuni
di questi hanno mostrato una sequenza attesa (come la palla che cade e che si blocca quando
raggiunge un muro), ad altri l’evento inatteso (la palla che sembra attraversare il muro). Dopo di
che le scienziate hanno insegnato ai bambini che la palla emetteva anche un suono se scossa,
30 osservando che l’apprendimento era maggiore nel gruppo dei bimbi che erano stati sorpresi.
Questo tipo di apprendimento però era «oggetto specifico»: quando infatti le ricercatrici cer-
cavano di insegnare ai piccoli qualcos’altro relativo a un oggetto del tutto nuovo, nessun bam-
bino mostrava particolare interesse o capacità di apprendimento potenziate, anche dopo aver
assistito a un evento sorprendente. Inoltre, anche quando i bambini venivano lasciati liberi di

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35 giocare con la palla stessa o un altro oggetto, come una macchinina che non aveva violato nes-
suna previsione, quelli che avevano visto l’evento sorprendente spendevano più tempo con la
palla che con la macchinina, quasi a voler cercare di carpirne i segreti. I bimbi che invece ave-
vano visto l’evento tipico (la palla bloccata dal muro) non mostravano preferenze per la palla o
la macchinina.
40 Nell’ultimo dei loro esperimenti Stahl e Feigenson hanno osservato come i bimbi gioca-
vano con la palla dopo che alcuni l’avevano vista attraversare il muro e altri invece rimanere
misteriosamente sospesa in aria (un altro evento giudicato sorprendente). I primi la battevano
ripetutamente, gli altri invece tendevano a farla cadere, con azioni legate al tipo di evento par-
ticolare che avevano visto.
45 Tutto questo, concludono le ricercatrici, mostra che gli eventi che contraddicono le pre-
visioni, le sorprese, sono un’opportunità per i bambini per apprendere, e non in maniera ri-
flessiva, ma con comportamenti che cercano di capire gli aspetti che sono in disaccordo con le
aspettative. «Quando i bambini sono sorpresi», ribadisce Feigenson, «imparano molto meglio,
come se stessero sfruttando l’occasione per cercare di capire qualcosa sul loro mondo».
(A. L. Bonfranceschi, Il mondo li stupisce? Per questo i bambini imparano di più, «la Repubblica», Scienze, 1° maggio 2015)

Comprensione e interpretazione
1 Sintetizza in cinque righe al massimo la tesi delle due scienziate.
2 Riassumi le fasi dell’esperimento scientifico da loro condotto sui bambini.
3 Che cosa significa che l’apprendimento dei bambini avviene «non in maniera riflessiva»?

Commento
4 Nel brano si istituisce un legame tra sorpresa e apprendimento. Ritieni che esso sussista an-
che nell’apprendimento di giovani e adulti? Affronta la questione in un testo argomentativo di
almeno tre colonne.

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Ambito tecnologico
Chiara Palmerini
Smartphone, che cosa produce
nel nostro cervello la lettura digitale
Siamo nati per vedere, per muoverci, per parlare, per pensare. Non per leggere. La lettura è un’ac-
quisizione straordinaria ma recente, molto recente, nella storia dell’umanità. E dato che il no-
stro cervello non ha un circuito geneticamente programmato per questa attività, che si forgia
in base a quanto, a come e a che cosa leggiamo, la lettura potrebbe rivelarsi una conquista «fragile».
5 Un muscolo che si atrofizza se non viene utilizzato. Parte da questo presupposto apparente-
mente contro intuitivo Maryanne Wolf, una delle più influenti studiose della lettura (è neuro-
scienziata cognitiva e insegna alla University of California a Los Angeles). Dopo Proust e il cala-
maro – Storia e scienza del cervello che legge, in cui descriveva l’arco evolutivo dell’alfabetizzazione,
ora in Lettore, vieni a casa, scritto in forma di nove appassionate epistole e appena uscito, come
10 il precedente, per «Vita e Pensiero», allerta sul destino della lettura nell’era digitale. Come un
canarino nella miniera della mente, certi cambiamenti del cervello dovrebbero allertarci su un
pericolo imminente, per di più su fronti inaspettati.
Ma che cosa rischiamo di perdere, precisamente? Che cos’è questa «lettura profonda» che
sarebbe a rischio di estinzione nel mondo digitale? «Il cervello che legge è intrinsecamente
15 malleabile ed è influenzato da fattori chiave: ciò che legge, cioè il sistema di scrittura e il conte-
nuto; come legge, cioè il mezzo, testo stampato o schermo digitale; e come si forma, cioè come
impara a leggere… Quando siamo davvero immersi in quello che leggiamo, attiviamo una serie
di processi che coinvolgono tutto il cervello», spiega a IL in una conversazione via Skype dalla
sua casa in California, illuminata dal sole.
20 «Leggendo partiamo da ciò che sappiamo. Ma il detective nel nostro cervello, come
Sherlock Holmes, deduce qualcosa che va oltre quanto è detto. Leggere in profondità significa
elaborare l’informazione, per costituire conoscenza».
Questa attività totalizzante ed esclusiva, che sorprendentemente si svolge nel giro di po-
chi secondi nei nostri circuiti cerebrali, oltre a trasformare le informazioni in conoscenza ana-
25 litica mette in moto i sentimenti. «Prendiamo un romanzo di Elena Ferrante». («È popolare in
Italia quanto lo è negli Stati Uniti?», si informa scherzando). «Ti fa sentire che cosa significa
essere una donna in relazione con un’altra donna. Fa entrare nella prospettiva e nei pensieri di
un’altra persona. Questo processo cognitivo è l’inizio dell’empatia. E della compassione».
In questa congiuntura storica, a metà del guado tra la vecchia carta stampata e gli schermi
30 di computer, tablet e telefoni, non si sa ancora che sorte ci riserverà il futuro. In termini assolu-
ti non è neppure vero che leggiamo meno. In realtà siamo sopraffatti dalle informazioni: l’in-
dividuo medio consuma, saltabeccando da un dispositivo all’altro, 34 gigabyte al giorno di con-
tenuti, l’equivalente di circa 100mila parole, in pratica un romanzo lungo. Quello di cui siamo
sempre più incapaci, sovrastati dalla massa delle informazioni da Internet e distratti da mille
35 stimoli digitali, è trovare la calma e la forza, o meglio la «pazienza cognitiva», per affrontare
letture lunghe e lente, capaci di risuonare dentro di noi, di aprire mondi sconosciuti e trasfor-
marsi in riflessione, conoscenza e saggezza. Al computer o sui telefonini, la nostra mente è una
cavalletta. Diversi gruppi di ricerca stanno studiando e quantificando che cosa succede quando

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leggiamo su uno schermo rispetto a quando posiamo gli occhi su una pagina stampata, e qual è
40 il tributo da pagare per l’apparente velocità e il minore sforzo con cui maciniamo informazioni.
«Di una storia letta su uno schermo ricordiamo meno dettagli, e anche la comprensione
è inferiore. Benché, come mostrano alcune ricerche, si abbia magari la sensazione di sapere
di più». Gli studi consentono già di stilare anche una sorta di classifica. «Il peggio per la
comprensione è lo schermo del computer o del telefono, il meglio la pagina stampata, gli
45 e-book stanno in mezzo».
Siamo in un’età di mezzo, ma Wolf non è certo una passatista. «È impossibile tornare in-
dietro, ma forse c’è il tempo di una pausa per prendere consapevolezza di dove stiamo andando,
di che cosa stiamo facendo con la tecnologia, e di che cosa la tecnologia fa a noi», ammonisce.
L’obiettivo di Maryanne Wolf è far evolvere nelle nuove generazioni un cervello bi-alfabetizza-
50 to, in grado di leggere in modi distinti, usando la velocità quando è necessario, ma riservando
tempo ed energie anche alla lettura profonda.
Certi altri sintomi dovrebbero far riflettere. Mentre i manager della Silicon Valley cercano
per i loro figli scuole technology free, in tante famiglie il tablet o il telefono sono diventati il nuovo
ciuccio, o il sostituto della baby sitter. Dalla sua esperienza come esperta di sviluppo cognitivo
55 dei bambini, Wolf non si tira certo indietro nel fornire indicazioni concrete su come gestire il
rapporto con la tecnologia. «Fino a due anni i bambini non dovrebbero avere in mano schermi
digitali. Che possono essere introdotti più tardi, in dosi crescenti secondo l’età. Ma i ragazzi do-
vrebbero comunque imparare la lettura sui libri. E gli insegnanti dovrebbero essere formati su
come usare la tecnologia in classe». E gli adulti? «L’ideale sarebbe spegnere gli schermi due ore
60 prima di andare a dormire. È difficile, lo so. Anche io prima di spegnere la luce mando le ultime
mail che mi permettono di cominciare con meno affanno il mattino dopo… Ma sarebbe davve-
ro necessario riscoprire la funzione contemplativa della lettura: ritirarci almeno una volta al
giorno in quel santuario».
Già ora, dice Wolf, siamo a un passo dal non riuscire più a riconoscere la bellezza del lin-
65 guaggio degli scrittori difficili e dalla rimozione di pensieri complessi, che non si adattano alla
restrizione del numero di caratteri usati per trasmetterli. Ma il peggio forse non è neppure
questo. «La cosa più tremenda è che non abbiamo più tempo per riflettere sul valore di verità di
quello che leggiamo. Leggiamo le cose comode, che si conformano a quello che già pensiamo,
che rinforzano, invece di sfidare, le nostre prospettive. Alla fine diamo retta a chi ci dice quello
70 che vogliamo sentire».
(C. Palmerini, Smartphone, che cosa produce nel nostro cervello la lettura digitale, www.ilsole24ore.com, 2 dicembre 2018)

Comprensione e interpretazione
1 Qual è la tesi sostenuta da Maryanne Wolf?
2 Quali sono gli argomenti a sostegno di questa tesi?
3 Quali consigli e possibili rimedi vengono presentati, in risposta al problema enunciato?

Commento
4 Sul tema affrontato nel brano scrivi un tuo testo argomentativo, articolato in paragrafi e for-
nito di titoli, in cui sostieni la tesi opposta, cioè che gli strumenti digitali ampliano i nostri
orizzonti di lettura.

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Ambito tecnologico
Gianni Riotta
I fatti non contano più:
è l’epoca della «post verità»
L’Oxford Dictionary ha eletto parola dell’anno «post truth». La gente è più influenzabile dalle emozioni che
dalla realtà.

Una delle più struggenti storie della storica campagna elettorale americana del 2016 resta la
profezia del musicista Kurt Cobain, nel 1993, un anno prima di suicidarsi: «Alla fine la mia
generazione sorprenderà tutti. Sappiamo che i due partiti giocano insieme al centro e, quando
matureremo, eleggeremo finalmente un uomo libero. Non sarei per nulla sorpreso se fosse un
5 uomo d’affari, incorruttibile, che si dia davvero da fare per la gente. Un tipo alla Donald Trump,
e non datemi del pazzo…».
Peccato che la citazione del leader dei Nirvana, che ha fatto il giro dei social media, Twit-
ter, Facebook, Google, sia inventata, forse in Russia, forse in America, da trolls che inquinano
di menzogne i Paesi democratici. Bene ha fatto dunque ieri l’Oxford Dictionary a dichiarare
10 «Parola dell’anno 2016», «Post truth», la post verità, diffidenza per le opinioni diffuse e credu-
lità per bugie condivise da siti a noi cari. La battaglia Trump-Clinton ha vissuto di post verità,
dall’attore Denzel Washington paladino di Trump, alla bambina di 12 anni che accusa il neo
presidente di stupro. Falsità che milioni di cittadini amano tuttavia credere.
Aristotele aveva legato «verità» e «realtà», facendo dire secoli dopo al logico Alfred Tar-
15 ski che «La frase “La neve è bianca” è vera se, e solo se, la neve è bianca». Questa è nozione di
verità che impariamo da bambini, ma la crisi dell’autorità nel secondo Novecento, mettendo in
discussione politica, famiglia, tradizioni, cultura, religione, ha frantumato la fede nel nesso Ve-
rità-Realtà, dapprima con un salutare moto critico, poi sprofondando nel nichilismo. Il filosofo
Carlo Sini sintetizza la sindrome con una battuta macabra «La verità è la tomba dei filosofi… la
20 Signora è decisamente invecchiata».
Ma i filosofi, non è purtroppo la prima volta, non avevano previsto che quando la mattanza
della verità lascia le sofisticate torri accademiche per investire il web, le «menzogne», o false
notizie, avrebbero impestato, come un’epidemia, il dibattito. Già nel 2014 il World Economic
Forum denunciava i falsi online «uno dei pericoli del nostro tempo», studiosi come Farida Vis
25 e Walter Quattrociocchi catalogavano casi gravi di menzogne diventate «vere», ma intanto il
virus della bugia veniva militarizzato da Stati e nuclei terroristici. Oggi il presidente cinese Xi
Jinping, in un messaggio alla Conferenza internazionale sul web di Wuzhen, ricorda la neces-
sità del controllo statale sulla rete, contro i falsi: medicina drastica da società autoritarie, non
da democrazia. Così da Mosca Putin scatena seminatori di zizzania digitale, da un laboratorio
30 di San Pietroburgo, 50 di via Savushkina, e giovani macedoni spacciano falsi online in America,
mano d’opera a basso costo. […]
Ciascuno di noi crede ai propri «fatti», su vaccini, calcio, clima, politica, e l’algoritmo dei
social ci respinge tra i nostri simili. Ora il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, cerca di
difendersi assicurando che «il 99% di quello che gira da noi è vero, il falso solo l’1%» e dichiara
35 di non volersi fare lui «arbitro del vero». Purtroppo l’ex collaboratore Garcia Martinez lo smen-

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tisce dicendo che i funzionari provano a vendere pubblicità politica agendo giusto da «arbitri
del vero». Quel 99 a 1 che a Zuckerberg sembra innocuo è letale, perché non sappiamo «dove» si
nasconda, e quindi finiamo con il dubitare dell’insieme. «Ex falso sequitur quodlibet», dal falso
deriva ogni cosa in modo indifferente: la massima medievale anticipa l’era della post verità, un
40 solo 1% di falso basta a rendere incredibile il 99% di vero.
(G. Riotta, I fatti non contano più: è l'epoca della «postverità», «La Stampa», 17 novembre 2016)

Comprensione e interpretazione
1 Analizza il lead dell’articolo: lo ritieni efficace? Perché? Per motivare la tua risposta considera i
primi due paragrafi.
2 Analizza la conclusione e valuta la sua efficacia dal punto di vista argomentativo e retorico.
3 Dai un titolo-frase a ciascun paragrafo in modo da concettualizzarne il contenuto.
4 Riformula la tesi di Riotta con parole tue in un breve testo che non superi le 50 parole.
5 Ricostruisci, sintetizzandolo con parole tue, il ragionamento contenuto nei paragrafi 3 e 4. Non
superare le dieci righe.

Commento
6 Macchina delle fake news e produzione di false verità: conosci qualche esempio recente di que-
ste pratiche? Quali sono le loro conseguenze sociali? Svolgi la tua riflessione in un testo di tipo
espositivo-argomentativo.

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Ambito tecnologico
Federico Rampini
Arriva il software che legge le emozioni:
così il nostro viso diventa un libro aperto
La colpa o il merito, all’origine, potrebbe essere del nostro Cesare Lombroso. Il pioniere dell’an-
tropologia criminale era convinto che la fisionomia umana andasse studiata, scomposta, ca-
talogata per stabilire dei legami scientifici tra volto e psiche. Anche se le teorie lombrosiane
sono state abbandonate, dal suo impulso iniziale nacquero altre discipline che applicavano la
5 psicologia allo studio delle nostre espressioni. Nell’èra digitale, quegli studi aprono conseguen-
ze inaspettate: il software che decifra le emozioni. Una nuova frontiera della tecnologia, dalle
ricadute molteplici: nel marketing, ma non solo. Se il nostro volto diventa «trasparente», come
un libro aperto; se ogni mossa dei nostri muscoli facciali si presta a essere interpretata da una
webcamera, da un computer, da uno smartphone, l’intelligenza artificiale fa un balzo avanti
10 inaudito.
Già nel luglio 2013 il New York Times rivelò una lista di big della distribuzione – vi figura
anche l’italiano Benetton insieme a catene Usa come Nordstrom, Family Dollar, Warby Par-
ker – che sperimentano queste nuove tecnologie. Tra le aziende hi-tech che forniscono la stru-
mentazione per spiarci: la Euclid Analytics di Palo Alto nella Silicon Valley, la Cisco anch’essa
15 californiana, la Nomi di New York o la Brickstream di Atlanta, e anche società inglesi come la
Realeyes, russe come Synqera. L’obiettivo è lo stesso: leggerci nel pensiero. Le videocamere, che
sono un oggetto familiare nei negozi perché da tempo usate come anti-furto, stanno assumen-
do funzioni molto più complesse. Una società come Realeyes (“occhi veri”) installa nei negozi
delle telecamere con funzioni di «facial recognition». La tecnologia di ricognizione facciale stu-
20 dia le nostre reazioni e decompone le nostre emozioni, di fronte a ogni reparto, a ogni vetrina
espositiva; queste informazioni vengono elaborate in tempo reale per lanciarci delle offerte su
misura, ad personam.
Ora il Wall Street Journal rivela che è in atto un’accelerazione in questi software decifra-
emozioni. Grazie a uno scienziato ottantenne che forse si offenderebbe della definizione di
25 «lombrosiano». Lui si chiama Paul Ekman, è psicologo di formazione, e dagli anni Settanta
si dedica allo studio dell’espressività umana. Ha catalogato più di cinquemila movimenti dei
muscoli facciali, associandoli a emozioni, stati d’animo, reazioni psichiche provocate da even-
ti esterni. Più di recente, secondo quanto rivela il Wall Street Journal, il professor Ekman da
pensionato ha accettato un incarico di consulenza per una startup di San Diego, in California.
30 L’azienda neonata si chiama Emotient, una crasi da “quoziente emotivo”. Emotient è l’ultima
arrivata nella schiera delle imprese hi-tech che si occupano di ricognizione facciale, altre start-
up del settore sono Affectiva e Eyeris. La gara tra loro consiste nel mettere a punto un algoritmo
che analizzi a gran velocità tutti i micro-movimenti del volto, della bocca, degli occhi, asso-
ciando a ciascuno un possibile significato. Le applicazioni nel campo del marketing sono già
35 cominciate. La casa automobilistica giapponese Honda sta usando il software di Emotient per
osservare le reazioni di automobilisti-cavia di fronte ai suoi nuovi modelli. Coca Cola e Unilever
invece fanno uso del software Affectiva per studiare nei minimi dettagli le emozioni che i loro
spot pubblicitari provocano nel telespettatore.

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Le start-up che ci «leggono nell’anima» non vogliono limitarsi agli usi commerciali. I loro
40 inventori sono convinti che il software decifra-emozioni può avere applicazioni molto più no-
bili. Due sono gli esempi citati in quest’ottica. Uno riguarda la possibilità di avvistamento pre-
ventivo dei segnali di stanchezza, da parte di lavoratori ad alto rischio di incidenti. Un pilota
aereo, un macchinista di treni ad alta velocità, il camionista di un Tir, potrebbe essere aiutato
da questo software: facendo scattare l’allarme ai primi cenni di stanchezza sul volto, si salve-
45 rebbero vite umane. Altri esempi di applicazioni ad alta utilità sociale vengono associati all’in-
segnamento: percepire i primi segnali di noia e distrazione in una classe di studenti aiuterebbe
i prof a migliorare i loro metodi didattici per ottenere più concentrazione e migliori risultati
nell’apprendimento.
Una sfida avvincente che questi software devono affrontare, riguarda le diversità etniche.
50 Il modo in cui le nostre emozioni si traducono in espressioni facciali, può variare molto a se-
conda che io sia italiano o svedese, cinese o afroamericano. Qui la tecnologia e la potenza in-
formatica intervengono in aiuto: Affectiva ha potuto catalogare 7 miliardi di reazioni emotive
selezionandole da 2,4 milioni di video, con espressioni del viso filmate in 80 Paesi diversi.
(F. Rampini, Arriva il software che legge le emozioni, «la Repubblica», 31 gennaio 2015)

comprensione e interpretazione
1 Quali sono i possibili ambiti di applicazione di un software che decifra le espressioni?
2 Perché all’inizio del brano si attribuisce la «colpa» di questo software a Cesare Lombroso?
3 Quale ti sembra l’atteggiamento dell’autore dell’articolo sulla questione?

Commento
4 In un testo di almeno tre colonne esprimi la tua posizione su un software di questo tipo, spie-
gando in maniera argomentata se lo ritieni un’aberrazione pericolosa o una possibilità affasci-
nante.

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Tipologia B

Ambito economico
Pier Paolo Pasolini
Mondo contadino e società del benessere
Caro Calvino,
[...] Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte,
è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti
conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io,
5 come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e
innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo:
il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi
mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva.
Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo
10 per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell’Italietta. Al
di fuori di questa pura e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l’Italia. L’u-
niverso contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi
anni fa, quelle delle minoranze operaie – ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia
nel ’17, è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo
15 di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e
la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri
fini politici (per un lucano – penso a De Martino1 – la nazione a lui estranea, è stato prima il Re-
gno Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale: senza soluzione
di continuità).
20 È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a
solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile nei Paesi
del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando
nell’orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se
25 non formalmente con l’Italietta2. Essi vivevano quella che Chilanti3 ha chiamato l’età del pane.
Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva
estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui
rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo
argomento).
30 Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio.
Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto
più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.
Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico ha distrutto le varie
culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche
35 alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe):

1. De Martino: Ernesto De Martino (1908-65) è stato nei suoi provincialismi e nelle sue velleità politiche,
uno dei più importanti studiosi italiani della cultura economiche e culturali. Spesso usato per indicare
popolare. l’Italia del periodo fascista e post-fascista.
2. Italietta: con il termine «Italietta» Pasolini intende 3. Chilanti: Felice Chilanti (1914-82) è stato un parti-
trasmettere un’immagine negativa dell’Italia, chiusa giano, giornalista e scrittore del Polesine.

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Tipologia B

il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La con-
formazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo
e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della
civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal
40 punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa,
con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontana-
ti nel tempo e nello spazio: i figli son costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Mila-
no o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità
inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il
45 gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a con-
sultare l’annesso glossario come un buon borghese del Nord!
Naturalmente questa mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguar-
da il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue soprav-
vivenze.
50 Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comporta-
mento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non
può più essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo
che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra
stessa élite, e condannati a essere ancora più infelici di noi: e quindi probabilmente anche
55 migliori. [...]
Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all’altro) e ci sono
sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono sempre stati conformisti e il più pos-
sibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all’interno di tale distinzione di
classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui
60 cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro se-
condo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud):
almeno potenzialmente nell’ansiosa volontà di uniformarsi.
(P. P. Pasolini, Lettera aperta a Italo Calvino. Pasolini: quello che rimpiango, «Paese Sera», 8 luglio 1974)

Comprensione e interpretazione
1 Riassumi in dieci righe il contenuto del testo facendo emergere la tesi di fondo dell’articolo.
2 In che cosa consiste la mutazione antropologica dell’uomo della società del benessere?
3 In che senso Pasolini, riferendosi alla società dei consumi, ne parla come del più «repressivo
totalitarismo che si sia mai visto» (r. 39)?
4 Che significato ha il «terzomondismo» di Pasolini?
Analisi
Commento
5 Condividi la posizione di Pasolini? Ritieni che, alla luce di quanto accaduto nell’epoca post-mo-
derna e globalizzata, ci siano aspetti validi e premonitori del suo ragionamento? Discuti la
questione facendo opportuni riferimenti alla realtà contemporanea.

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Ambito economico - Testi a confronto


Testo 1  La Rete nazionale
degli operatori dell’usato
Il 22 novembre 2011 gli operatori e gli organizzatori dei mercati storici e delle pulci, delle fie-
re e delle strade, delle cooperative sociali, delle cooperative di produzione lavoro che lavorano
nel sociale, delle botteghe di rigatteria e dell’usato e dei negozi in conto terzi si sono costituiti
in un’unica grande associazione, la Rete ONU (Rete Nazionale Operatori dell’Usato). Un com-
5 parto produttivo che conta almeno 50 000 operatori, 80 000 persone impiegate e un volume di
scambi in continua crescita. È un settore che crea opportunità di lavoro, assorbimento sociale
ed opportunità di consumo a basso costo, riduce significativamente lo spreco, esalta l’attenzio-
ne verso la qualità, conserva e rinnova nello scambio di cose appartenenti ad altre epoche la
cultura materiale e la diffusione del sapere tra le generazioni, ridà corpo e senso allo scambio
10 gratuito che è presente nella catena di distribuzione, rappresentando un autentico antidoto ai
guasti della crisi economica e sociale che stiamo attraversando. Il settore dell’usato evita il con-
ferimento in discarica di ingentissimi volumi di potenziali rifiuti. In base a studi a campione
compiuti da Occhio del Riciclone e alla comparazione con altri studi europei, si stima che tra il
5% e il 10% dei Rifiuti Urbani sia potenzialmente riutilizzabile, e che il raggiungimento dell’in-
15 tero potenziale sia possibile e pensabile solo grazie all’applicazione della preparazione al riu-
tilizzo e alla distribuzione all’ingrosso agli operatori dell’usato. L’ultima direttiva europea sui
rifiuti, la 2008/98, recepita dall’Italia con il Decreto Legislativo n° 205 del 3 dicembre 2010, ob-
bliga gli Stati membri a introdurre il Riutilizzo nei Piani di gestione dei rifiuti a partire da
obiettivi chiari e appoggiandosi alle «reti locali già esistenti». Scioglie infine il nodo che finora
20 ha impedito di riusare i beni già entrati nel circuito della raccolta, permettendone il ritorno in
circolazione dopo la «Preparazione al Riutilizzo», ovvero controllo, igienizzazione ed eventuale
riparazione, e senza nessun altro trattamento.
La recente attenzione normativa in materia di riuso è ancora un timido affaccio su un
mondo che, nonostante il suo radicamento popolare, non ha mai incontrato l’attenzione del
25 legislatore, piuttosto incline ad assimilarne le regole ad altri comparti, o a lasciare veri e propri
vuoti normativi, riempiti su scala locale con provvedimenti atti a salvaguardare salute e ordine
pubblico, piuttosto che volti a considerare tali attività come portatrici di sviluppo, e di benefici
ambientali e sociali.
Eppure il riutilizzo, secondo le linee comunitarie, è uno dei settori guida per il rilancio
30 economico dell’Europa. Il vuoto normativo esistente in materia affligge oggi l’intero compar-
to degli operatori dell’usato, impedendone il riconoscimento specifico, e quindi lo sviluppo di
un’attività che offre al Paese esternalità positive sui terreni dell’ambiente, della cultura, dell’oc-
cupazione e dell’avviamento al lavoro dei soggetti deboli.
La sfida di oggi consiste nel sostenere, promuovere e far emergere il settore dell’usato per-
35 ché esso esprima completamente le sue potenzialità e le metta a servizio del Paese.
(www.reteonu.it)

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Testo 2 Qualche dato


Sfiora i 22 miliardi di euro il giro d’affari dell’ecomafia stimato nel 2014: sette miliardi in più
rispetto all’anno precedente. Un’impennata che dimostra quanto questo settore sia sempre più
rilevante all’interno dell’economia criminale.

21,9 IL FATTURATO PER SETTORI


miliardi di euro
25 nel 2014, +47%
APPALTI IN OPERE PUBBLICHE 7,9 miliardi di euro
rispetto al 2013
ILLEGALITÀ ALIMENTARE 4,3 miliardi di euro
20

GESTIONE RIFIUTI SPECIALI 3,1 miliardi di euro


15
ANIMALI E FAUNA SELVATICA 2,6 miliardi di euro
10
1,4 miliardi di euro
340,1
INQUINAMENTO AMBIENTALE

5
miliardi di euro ABUSIVISMO EDILIZIA 1,1 miliardi di euro
di business dal 1992 al 2014
GESTIONE RIFIUTI URBANI 1,0 miliardi di euro
2
3
4
5
6
7
8
9
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
0
1
2
3
4
199
199
199
199
199
199
199
199
200
200
200
200
200
200
200
200
200
200
201
201
201
201
201

ARCHEOMAFIA 0,5 miliardi di euro

(hiip://noecomafia.it/2015/italia/illegalita-ambientale/numeri/lillegalita-ambientale-in-italia-nel-2014)

Comprensione e interpretazione
1 I due testi sono eterogenei per contenuto e forma, e tuttavia presentano una relazione tema-
tica. Quale?
2 Quali sono i vantaggi del ricorso al settore dell’usato?
3 Che cos’è l’ecomafia? Quali sono i principali ambiti del suo giro d’affari?

Commento
4 Sulla tematica dei rifiuti e del riutilizzo, riprendi le argomentazioni dell’articolo a favore della
rete dell’usato e arricchiscile in un tuo testo argomentativo in cui dimostri i vantaggi dell’eco-
nomia del riuso. Attribuisci un titolo al tuo elaborato e organizzalo in paragrafi.

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Ambito sociale
Umberto Galimberti
I malati di Internet
Se ti svegli alle 3 di notte per andare in bagno e ti fermi a controllare la tua e-mail sulla via del
ritorno, se spegni il tuo modem e provi un vuoto terribile perché per te il mondo reale non ha
ormai più alcuna consistenza, se passi metà del tuo viaggio in treno o in aereo col portatile
sulle gambe, se ridi delle persone che hanno un modem 2400 baud di velocità, se chiami i tuoi
5 figli Eudora, Mozilla, Puntocom, allora è arrivato il momento di farsi curare perché evidenti si
sono fatti i segni di quella vera e propria patologia che ricerche americane hanno etichettato
Internet Addiction Disorder (disturbo da dipendenza da Internet).
La dipendenza implica tre meccanismi: la tolleranza (per cui si è costretti ad aumentare
le dosi di una sostanza per ottenere lo stesso effetto), l’astinenza (con comparsa di sintomi spe-
10 cifici in seguito alla riduzione o sospensione di una particolare sostanza), il «craving» o smania
che porta a un fortissimo e irresistibile desiderio di assumere una sostanza, desiderio che, se
non soddisfatto, causa intensa sofferenza psichica e a volte fisica, con fissazione del pensiero,
malessere, alterazione del senso della fame e della sete, irritabilità, ansia, insonnia, depressione
e, nei casi più gravi, sensazioni di derealizzazione e depersonalizzazione.
15 Questi tratti, che sono tipici della tossicodipendenza, del tabagismo, dell’alcolismo, del
gioco d’azzardo, dell’attività sessuale irrefrenabile, dell’assunzione di cibo seguita da vomito,
oggi sono riconoscibili in quanti fanno un uso eccessivo di Internet per soddisfare sul piano
virtuale quel che non riescono a ottenere sul piano della realtà, fino al punto di percepire il
mondo reale come un semplice ostacolo o impedimento all’esercizio della propria onnipotenza
20 che sperimentano con immenso piacere nel mondo virtuale.
In riferimento alle patologie sopraelencate, la dipendenza da Internet ha in comune il
tratto ossessivo-compulsivo che tende ad aumentare la propria capacità di controllo della real-
tà. E non c’è dubbio che Internet rappresenti in questo senso il mezzo tecnologico più avanzato,
rispetto al quale le crudeli pratiche di controllo (del proprio peso) messe in atto dalle anores-
25 siche appaiono rituali medioevali. Con una differenza però: che la compulsione da Internet si
basa sul «piacere» anziché sulla «fobia». E proprio perché si basa sul piacere, anziché sul disagio
e la sofferenza, eliminarla risulta molto difficile.
Si prenda ad esempio lo shopping compulsivo online dettato non tanto dal bisogno di
eliminare una sensazione spiacevole, quanto dal piacere di catapultarsi in qualsiasi centro
30 commerciale del mondo, frugare incuriosito senza essere visto da nessuno, entrando e uscen-
do dal negozio in corrispondenza alle proprie esitazioni dettate dall’ansia e dal desiderio, sen-
za suscitare il riso del commesso che, nella realtà, osserverebbe divertito lo svolgersi di questo
rituale.
Lo stesso dicasi per il trading online a cui si applicano quanti giocano in Borsa attraverso
35 Internet. Il trader oscilla solitamente tra due estremi: la paura e l’avidità che, quando entrano
in cortocircuito, minano le capacità di controllo dell’investitore, spinto da una sensazione di
invincibilità a correre rischi sempre più grandi e a prendere decisioni più frettolose. Questo
processo viene esaltato da Internet, perché la Rete dà la sensazione di poter tenere sotto con-
trollo la situazione, in quanto permette di conoscere l’andamento dei mercati a qualunque ora
40 del giorno e della notte con la contemporanea possibilità di operare online.

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Tipologia B

Questa patologia ha un doppio profilo: uno legato alla piacevole perversione angoscia-ec-
citazione, comune tanto ai giocatori d’azzardo che agli investitori in Borsa, l’altro, tipico degli
investitori, legato al bisogno di mantenere un controllo che, non essendo mai sufficiente, porta
alla perdita dello stesso. Rispetto al gioco d’azzardo, il gioco in Borsa online è molto più pericoloso
45 perché, grazie alla legittimità che gli viene attribuita, non è attraversato dai sensi di colpa di chi
in Rete si accosta ai 700 casinò virtuali oggi esistenti, e quindi manca quel leggero freno che il
senso di colpa può indurre in chi perde per aver «giocato», rispetto a chi perde per aver «investito».
E poi le chat, dove uno è libero di usare la fantasia nel presentarsi agli altri e nell’immagi-
narli. Non è difficile incontrare persone che dichiarano un’identità sessuale diversa da quella
50 reale, così come caratteristiche fisiche, età, occupazione, stato civile. Qui mentire fa parte del
gioco perché dà a ciascuno l’euforia di una libertà illimitata e forse, per la prima volta in vita,
l’ebbrezza di essere affascinanti, mostrando lati della propria persona che solo in un contesto
privo di riscontri visivi, si sente di poter esaltare. In questo modo chi chatta ha la possibilità di
realizzare in modo virtuale il proprio ideale dell’io, e di riflesso sentirsi finalmente ideale.
55 Con queste sensazioni a portata di mano, come fa costui a spegnere il modem e tornare in
famiglia o tra gli amici dove nessuno lo crede davvero ideale? A questo punto le ore al computer de-
dicate allo scambio di informazioni, sensazioni ed emozioni aumentano e diventa difficile passare
troppo tempo senza connettersi. Se poi scatta la tentazione di incontrarsi, spesso la realtà non ri-
specchia le aspettative, allora l’illuso insoddisfatto diventa disilluso, e quello soddisfatto, ma respin-
60 to, diventa un depresso. Eppure, nonostante la realtà smentisca il virtuale, non per questo ci si astie-
ne, perché se solo il virtuale dà quello che il reale nega, allora si prende casa nel virtuale, riducendo
i contatti reali, quelli a tu per tu, ormai divenuti fonte d’ansia e quindi da evitare il più possibile.
Resta da ultimo il cybersesso, vera e propria dipendenza da sesso virtuale, dove la mastur-
bazione individuale si arricchisce di una rappresentazione condivisa. La possibilità di essere
65 espliciti, offerta dall’anonimato, porta l’utente a scoprire forme di eccitazione prima a lui stesso
ignote e accogliere nelle proprie perversioni la loro valenza seduttiva. Giocando con la perver-
sione e l’allucinazione del desiderio si allontana dai rapporti sessuali reali perché, rispetto a
quelli virtuali, appaiono troppo insignificanti, troppo limitati dall’opacità della materia.
Per chi vuol saperne di più sulle psicopatologie da Internet e il loro possibile trattamento,
70 consiglio la lettura di Perversioni in rete (Ponte alle Grazie, Milano) da cui a mia volta ho tratto
tutte queste informazioni. Gli autori, Giorgio Nardone e Federica Cagnoni, sono due psicologi
cognitivo-comportamentali. Nardone ha lavorato alla scuola di Palo Alto con Paul Watziawick
e con lui ha scritto L’arte del cambiamento e Paura, panico, fobie, editi sempre da Ponte alle Grazie.
Leggo inoltre sul risvolto di copertina che Nardone ha fondato un Centro di terapia strategica ad
75 Arezzo dove si sono cominciate a curare anche le dipendenze da Internet. Ma per accedervi pen-
so sia necessario che chi è preso nella «rete» di questa dipendenza si renda conto di essere come
un pesce nella rete del pescatore, dove non è possibile salvarsi sbattendo le pinne. E allora la mia
domanda è: come può chi accede alla Rete per soddisfare il piacere della propria onnipotenza
percepire la propria impotenza e decidere di farsi aiutare? Qui resta ancora qualcosa da pensare.
80 D’altra parte questo tipo di dipendenza è così recente che un po’ di tempo ai ricercatori bisogna
lasciarlo. L’invito è non pregiudicare la scoperta della specificità di questa dipendenza, appog-
giandosi alle conoscenze che già si possiedono sulle sindromi ossessivo-compulsive.
Qui qualcosa di nuovo, che non so identificare, ci deve essere e, visto il numero crescente
di persone imprigionate da questa dipendenza, bisogna far presto a trovarlo, anche a costo di
85 andare oltre l’impalcatura teorica su cui oggi si basa la psicologia cognitivo-comportamentale
a cui i nostri autori fanno riferimento.
(U. Galimberti, I malati di Internet, www.privacy.it, 4 novembre 2002)

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Comprensione e interpretazione
1 Quali sono i tre meccanismi relativi alla dipendenza da internet?
2 L’articolo tratta le patologie della dipendenza da Internet: riassumile brevemente in un massi-
mo di cinque righe ciascuna.
3 Che cosa hanno in comune e cosa di diverso patologie come alcolismo, tabagismo, tossicodi-
pendenza con quelle relative all’abuso del web?
4 Quali ripercussioni queste patologie hanno sul modo di relazionarsi al reale da parte di chi,
quasi sempre a sua insaputa, ne è affetto?
5 A chi è rivolto l’articolo? A esperti del settore o no? Rispondi indicando le parti del testo a so-
stegno della tua opinione.

Commento
6 Scrivi una riflessione di massimo tre colonne sull’argomento e sui possibili progressi avvenuti
nell’ambito della conoscenza di queste nuove patologie negli anni che ci separano dal momen-
to in cui è stato scritto l’articolo (2002). Riferisciti a film, libri, incontri, conferenze che hanno
affrontato il tema.

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Tipologia B

Ambito sociale
Vanna Iori
Giovani ed emotività
Paura, rabbia, noia, malinconia, felicità, delusione, dolore, gelosia, aggressività, invidia, speranza
fluttuano e mutano in relazione ai cambiamenti delle prospettive esistenziali di ogni singolo
giovane, sulla base delle biografie personali e generazionali. Nei giovani (in quelli di oggi e forse
in quelli di sempre) sono presenti tonalità emotive diverse, legate alle differenti esperienze esi-
5 stenziali e ai percorsi di transizione all’età adulta. Ci sono certamente inquietudini comuni ai
giovani di ogni tempo: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età
della vita», scriveva Paul Nizan1 nel 1931. Ma ci sono anche trasformazioni significative legate alla
propria generazione di giovani. Diverso è stato, anche storicamente, vivere la stagione della gio-
vinezza negli anni delle guerre e delle carestie oppure nei periodi di espansione economica. Per
10 parlare della vita emotiva dei giovani di oggi occorre quindi tener conto sia delle caratteristiche
tipiche della stagione giovanile iscritta nel corso della vita, sia delle connotazioni di incertezza
del tempo presente, della globalizzazione e dell’attuale crisi economica. Certamente l’assenza di
prospettive di lavoro e di autonomia economica mina le prospettive progettuali, la speranza e la
fiducia. [...] Educare i giovani ai sentimenti non significa insegnare a negare le pulsioni, a tacere
15 le emozioni, a «non pensarci», a reprimere quegli stati d’animo che possono «intralciare» il cor-
retto uso della ragione. Il compito educativo si manifesta nell’accompagnare i giovani a riservare
un ruolo significativo alla vita emotiva nella loro esistenza, assumendone la responsabilità. […]
Sapere e sentire non sono dunque considerabili contrapposti o separati ma profondamente con-
nessi nell’esistenza umana che si nutre sempre di mente e cuore, ragione e sentimento, pathos
20 e logos, in ogni età della vita. Una formazione che trascuri le tonalità emotive (Stimmungen)
(Bollnow, 2009), ossia quei moti dell’animo che coinvolgono l’esistenza consentendo ai giovani di
regolare le loro relazioni con il mondo e con gli altri, finisce per destituire il senso dei sentimenti.
Questa carenza educativa si ripercuote drammaticamente nella società contemporanea, poiché i
sentimenti sono all’origine del pensiero e dell’etica (Nussbaum, 2004). Non si ha educazione della
25 persona umana integrale se si trascura questa dimensione fondamentale e si privilegia l’istruire
sull’educare. Il predominio di un sapere volto all’utile, al calcolo, all’intelletto dimentica che «le
emozioni, i sentimenti, ci fanno conoscere che cosa ci sia nel cuore e nell’immaginazione degli
altri-da-noi» (Borgna, 2003, 19). […] La frattura tra il pensare e il sentire ha prodotto giovani con-
fusi, sempre oscillanti tra la pulsione verso il pericolo, il brivido, anche la morte, e, all’opposto, la
30 rinuncia, il letargo, l’apatia, l’indifferenza, il vuoto interiore (Lacroix, 2002). Molti ragazzi e ragazze
si trovano oggi fortemente disorientati tra i messaggi contrastanti che, da un lato, sembrano in-
centivare la ragione, il distacco, il controllo, e persino l’indifferenza, il cinismo, la durezza di cuore
davanti alle sofferenze altrui, dall’altro propongono un vero e proprio «culto delle emozioni» at-
traverso la velocità, le sostanze euforizzanti, l’alcol, il culto dello «sballo», i luoghi delle emozioni
35 collettive e condivise (gli stadi, i concerti rock, le discoteche, i rave party).
(V. Iori, I giovani e la vita emotiva, «Educational sciences & society», 2012)

1. Paul Nizan: vissuto tra il 1905 e il 1940, scrittore e saggista francese, aderisce al Partito Comunista Francese, ma
poi se ne allontana per divergenze politiche. Morirà in battaglia durante la Seconda guerra mondiale. Aden Arabia
(1931), da cui è tratta la citazione riportata nel testo, è il suo libro più noto.

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Tipologia B

Comprensione e interpretazione
1 A che cosa sono dovute, secondo l’autrice, le inquietudini dei giovani di oggi? Si può pensare
che sono quelle dei giovani di sempre, o diversi sono i fattori che concorrono nel tempo all’e-
motività giovanile?
2 Che cosa si intende per «educare i giovani ai sentimenti»?
3 Qual è la tesi dell’autrice? E in quale punto del testo si trova?
4 Ti sembra che l’autrice partecipi emotivamente a ciò che scrive? Correda la tua risposta con
esempi dal testo.
5 Spiega con parole tue questa affermazione: «Non si ha educazione della persona umana in-
tegrale se si trascura questa dimensione fondamentale e si privilegia l’istruire sull’educare. Il
predominio di un sapere volto all’utile, al calcolo, all’intelletto dimentica che «le emozioni, i
sentimenti, ci fanno conoscere che cosa ci sia nel cuore e nell’immaginazione degli altri-da-
noi» (rr. 24-28).

Commento
6 Scrivi un commento al testo di massimo tre colonne, confutando o accettando la tesi di Vanna
Iori. Dovrai mantenere un’impostazione impersonale, senza riferirti a te in particolare. (Un
suggerimento: qual è la fascia di età in cui oggi si può parlare di «giovani»? Ti sembra la stessa
di 50 anni fa?).

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Ambito sociale
Maria Laura Lanzillo
Tolleranza
A partire dagli anni Novanta del xx secolo la tolleranza è ritornata al centro della riflessione politica, ripor-
tando in auge un concetto certamente centrale nell’ambito della storia del pensiero politico in età moderna,
ma rispetto a cui la partita sembrava essere stata chiusa con la Rivoluzione francese, che sulle proprie ban-
diere portava scritte le parole libertà, eguaglianza, fraternità, e non tolleranza.

Le costituzioni liberali e, poi, liberal-democratiche che ne seguirono avrebbero, infatti, rico-


nosciuto non la concessione della tolleranza (che indica un atteggiamento di sopportazione
nei confronti di chi non riconosciamo uguale a noi e che paternalisticamente accettiamo di
sopportare, ovviamente senza che ciò implichi il riconoscimento di alcun diritto), ma la li-
5 bertà – religiosa e di parola, di stampa e di opinione, ecc. – come diritto pubblico soggettivo di
ogni individuo. 
La questione della tolleranza nasce nei secoli xvi e xvii dalla distinzione fra
lo spazio interno dello Stato e quello esterno abitato dagli Stati, dalla necessità di avere ordine
all’interno per garantire la pace civile fra i cittadini e di instaurare all’esterno una regolata con-
vivenza fra Stati. Si sente il bisogno di distinguere gli scopi dello Stato da quelli della religione,
10 distinzione che, sancendo il riconoscimento del pluralismo delle confessioni, previa neutra-
lizzazione del loro potenziale conflittuale, determinerà in seguito il riconoscimento dei diritti
civili e politici di tutti gli individui. Figura emblematica della lotta moderna per la tolleranza
fu Voltaire. Da un lato, negli scritti di Voltaire troviamo affermato il tema del latitudinarismo1,
che gli permette di dimostrare che la sola soluzione possibile alle guerre e ai disordini generati
15 dall’intolleranza è il mantenimento di un ampio assetto pluralistico delle credenze, dal mo-
mento che tutte trovano il proprio fondamento su un nucleo comune di natura che rende gli
uomini uguali fra di loro. D’altro lato, la tolleranza è teorizzata come cuore di una concezione
moderna della politica, fondata anche sulla necessità di dirimere i rapporti fra Stato e Chiesa
in nome della salvaguardia dell’ordine sociale e politico.

Dimenticata per quasi due secoli dal
20 pensiero politico, la questione della tolleranza si ripropone oggi nelle più diverse accezioni:
non solo tolleranza religiosa, ma anche razziale, di stile di vita, nei confronti di ogni diversità.
Nel dibattito occidentale le nuove teorie della tolleranza vengono proposte come risposta alla
questione della giustizia, data la complessità e la molteplicità che abitano le società occiden-
tali, che, lungi dall’essere omogenee secondo l’ideologia dello Stato-nazione, appaiono sempre
25 più diversificate al proprio interno. 
All’interno del dibattito contemporaneo sulla tolleranza si
possono sinteticamente distinguere due posizioni: da una parte si trovano quegli autori libe-
rali, fra tutti John Rawls, che propongono la tolleranza quale sistema prudenziale per incre-
mentare i diritti e che dunque considerano la tolleranza come necessaria strategia di omoge-
neizzazione e unificazione dello spazio politico attorno a quello che viene riconosciuto, come
30 principio fondante le odierne democrazie, il pluralismo dei valori. Dall’altra, vi sono autori, in
particolare nordamericani, che si riconoscono nelle posizioni dei comunitarians (Taylor, Kym-

1. latitudinarismo: corrente teologica anglicana, sviluppatasi nel xvii secolo, che riconosce un nucleo ristretto di
articoli di fede e princìpi fondamentali, ammettendo poi una pluralità di declinazioni e di riti a seconda dei luoghi,
e professando in questo modo una «tolleranza», ritenuta legittima, nei confronti delle diverse dottrine teologiche.

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licka, Walzer), che intendono la tolleranza non come processo di neutralizzazione in un’ottica
proceduralista2 quale quella liberale, ma come strategia necessaria per ottenere un riconosci-
mento attivo delle diversità, vale a dire delle presunte differenti identità che costituirebbero le
35 molteplici comunità che abitano lo spazio delle società contemporanee. In questo secondo caso
il dibattito sulla tolleranza si intreccia, oltre che con le questioni di giustizia, con quello sul
multiculturalismo.

La tolleranza, in ultima analisi, si declina oggi, come nei secoli della piena
modernità, come una pratica di organizzazione politica dello spazio, che implica un rapporto
spaziale fra gli attori che lo abitano. Il riaffacciarsi alla discussione politica del concetto di tol-
40 leranza è effetto dell’emergere di nuovi attori sulla scena politica e ciò determina la necessità
di una nuova e concreta ridefinizione dello spazio politico. Necessità che viene evidenziata da
tutti gli odierni teorici della tolleranza, i quali però, proprio perché propongono la «virtù» della
tolleranza come soluzione, non possono che continuare a pensarla a partire da un atto di esclu-
sione (la «soglia di tolleranza») su cui viene fondato il processo di riconoscimento di chi è den-
45 tro rispetto a chi è fuori dalla società, di chi è cittadino rispetto a chi non lo è. Oggi, la tolleranza
pluralista alla Rawls, come già la tolleranza di Locke o la tolleranza dei multiculturalisti, risulta
sempre una pratica di concessione da parte di quel gruppo che si definisce «società liberale e
democratica» o «società plurale» nei confronti di chi è percepito non farne parte.

Ma ben altro
è il compito che il pensiero e la pratica politica dovrebbero affrontare: riuscire ad uscire da una
50 relazione con l’Altro fondata sull’assimilazione o sull’esclusione è la nuova sfida che la nostra
dimensione storica ci pone. E ciò significa procedere oltre la tolleranza e avere il coraggio di
affrontare realmente la questione dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri che materialmente ci
legano gli uni agli altri.
(M. L. Lanzillo, Tolleranza, www.resetdoc.org, 7 novembre 2006)

2. ottica proceduralista: concezione giuridica secondo la quale non esiste un criterio indipendente dalla proce-
dura per valutare i suoi risultati.

Comprensione e interpretazione
1 Quando nasce storicamente la questione della tolleranza? E per quali motivi?
2 Quale ruolo ha avuto Voltaire nella lotta moderna per la tolleranza?
3 Spiega le due diverse posizioni nel dibattito odierno sulla tolleranza di John Rawls e i comunita-
rians.
4 Qual è la tesi dell’autrice? Che cosa propone? In quale punto dell’articolo?
5 Spiega con parole tue questa affermazione: «La tolleranza, in ultima analisi, si declina oggi,
come nei secoli della piena modernità, come una pratica di organizzazione politica dello spazio,
che implica un rapporto spaziale fra gli attori che lo abitano» (rr. 37-39).

Commento
6 Commenta in tre colonne il testo, soffermandoti sul termine «tolleranza» e sul suo significato.

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Ambito sociale
Ernesto Galli della Loggia
L’Islam non ci chieda di limitare la libertà
Le parole ormai famose di papa Bergoglio a commento della strage di Parigi («se tu offendi la
mia mamma, un pugno te lo devi aspettare») hanno segnato l’inizio di una significativa inver-
sione di tendenza — o almeno di un dubbio — nel giudizio su quei fatti da parte dell’opinione
pubblica occidentale. Che si può esprimere con queste parole: «La libertà va difesa, naturalmen-
5 te, ma offendere le religioni, e poi con quella volgare crudezza propria di Charlie Hebdo, è sba-
gliato. È sbagliato non tener conto della particolare sensibilità che hanno in proposito i fedeli
musulmani». Sono parole ispirate a una saggia prudenza in teoria condivisibile, che possono
però avvalorare due gravi errori di giudizio.
Il primo è quello di far credere che il radicalismo islamico abbia nella sostanza un carattere
10 di reazione, di risposta a presunte azioni dell’Occidente. Che è precisamente ciò che esso vuol far
credere per ovvi motivi di popolarità, ma che è falso. E che sia falso lo dimostrano proprio i re-
centi sanguinosi fatti di Parigi: di quali offese religiose si era mai macchiata, infatti, la poliziotta
spietatamente freddata a Montrouge poche ore dopo la mattanza nella redazione di «Charlie
Hebdo»? E qual era la terribile blasfemia commessa dai 4 clienti del supermercato kosher al-
15 trettanto spietatamente fatti fuori? Forse quella davvero imperdonabile di essere ebrei, come
tante altre vittime uccise di recente in Francia e in Belgio? Ancora: quali insulti a quale mam-
ma avevano lanciato i tremila morti degli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle? Riesce
difficile rispondere. Così come riesce alquanto difficile indicare le ipotetiche colpe commesse
dalle centinaia e centinaia di cristiani massacrati da anni, dal Pakistan alla Nigeria, per mano
20 del fanatismo islamico. Se non una sola colpa, certo gravissima: essere cristiani, per l’appunto.
Il secondo errore che l’improvvisata affermazione papale può ingenerare è questo: che se
pure viene accettato il principio della difesa della sensibilità religiosa, tracciare in materia un
confine giuridico oggettivo resta quanto mai difficile, anzi impossibile. Non è male ricordare a
questo proposito che la vignetta che da anni costa al suo autore danese una vita infernale, rin-
25 chiuso in una sorta di casa-bunker, protetto da decine di gendarmi contro la furia omicida del
fanatismo islamico, non aveva nessuno dei caratteri volgari e sessualmente spinti di «Charlie
Hebdo». Ritraeva Maometto con un turbante che avvolgeva una bomba. Ma tanto è bastato. Il
romanzo di Salman Rushdie Versetti satanici contiene una rivisitazione in chiave onirica di una
presunta ispirazione diabolica di Maometto. Di nuovo: tanto è bastato per far guadagnare al suo
30 autore una condanna a morte dall’imam Khomeini, al traduttore giapponese del libro la mor-
te effettiva, e infine il ferimento di quello italiano e dell’editore norvegese dell’opera. Un altro
esempio: il regista olandese Theo van Gogh è stato ucciso solo per aver girato un documentario
sull’oppressione delle donne nel mondo islamico, mentre la deputata olandese musulmana,
collaboratrice del regista, ha dovuto rifugiarsi negli Usa e da allora vive sotto protezione.
35 La domanda allora è: visto che da quanto appena detto sembra proprio che la soglia di
sensibilità religiosa diffusa nell’Islam sia estremamente bassa, davvero dovremmo farla nostra,
adottandola nella nostra legislazione? Va da sé però che in questo caso dovremmo adottarla
come norma generale applicabile a tutte le fedi religiose. Ma allora, di conseguenza, domani
per esempio dovrebbe essere vietato disegnare il Papa nelle vesti di un crociato, oppure criti-
40 care i risultati del Sinodo sulla famiglia per non offendere la sensibilità dei cattolici, così come

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bisognerebbe vietare il commercio delle opere di Nietzsche in cui si attacca ferocemente il


Cristianesimo, e così via immaginando. Che facciamo se no? Decidiamo noi quale sia la soglia
politicamente corretta della sensibilità religiosa, solo oltre la quale scatta la sanzione penale? E
in base a quale criterio? E con quale certezza di risultati?
45 In realtà l’intolleranza fanatica così diffusa nell’universo islamico – madre diretta della
sua vasta propensione alla violenza – rimanda direttamente a un fattore che tuttora ci osti-
niamo a non considerare: e cioè la scarsa conoscenza che in esso si ha del mondo moderno,
causata a sua volta da una scarsa diffusione dell’istruzione. Per cui in pratica l’unico strumento
di acculturazione per masse larghissime della popolazione finisce per essere l’insegnamento
50 religioso.
Secondo l’Unesco, infatti, nel 2009 circa il 40 per cento degli arabi sopra i 15 anni, specie le
donne, era analfabeta (il 50 per cento addirittura, secondo le stime di un docente dell’Università
di Rabat su «Le Monde» nel luglio 2012). E da allora la situazione non sembra essere molto mi-
gliorata. Non solo, ma come ha dichiarato il direttore delle Iniziative culturali dell’Istituto del
55 Mondo arabo con sede a Parigi, Mohamed Métalsi, «per i più piccoli l’educazione è fortemente
impregnata di religione, mentre per i più grandi l’insegnamento della filosofia si attiene solo
ai testi musulmani. Della filosofia greca o dei Lumi neppure a parlarne». Con tali premesse non
stupisce il risultato di un rapporto redatto nel 2002 sotto l’egida delle Nazioni Unite: e cioè che
nell’insieme dei Paesi arabi (circa 400 milioni di abitanti) si pubblicavano meno libri che nella
60 sola Spagna; mentre secondo un rapporto analogo del 2003, in mille anni (mille anni!) il mondo
arabo nel suo complesso avrebbe tradotto all’incirca 10 mila titoli: ancora una volta l’equiva-
lente di quelli che sempre la sola Spagna traduce in solo anno. Per giunta «le grandi opere della
cultura occidentale – è sempre Métalsi a parlare – sono tradotte in un numero limitatissimo, e
le traduzioni sono spesso mediocri».
65 Forse da qui, da questi dati dovremmo cominciare a ragionare quando parliamo – così
spesso a vanvera – di terrorismo, multiculturalismo e integrazione. Forse a partire da questi
dati dovremmo impegnare un confronto serrato, amichevole ma fuori dai denti, con i Paesi
arabi.
(E. Galli della Loggia, L’Islam non ci chieda di limitare la libertà, «Il Corriere della Sera», 28 gennaio 2015)

Comprensione e interpretazione
1 Qual è la funzione dei primi quattro blocchi di testo? Dopo aver individuato la funzione, rias-
sumine il contenuto in cinque righe.
2 Qual è la funzione degli ultimi tre blocchi? Dopo aver individuato la funzione, riassumine il
contenuto in quattro righe.
3 In quale blocco del testo è contenuta la tesi? Esprimila con parole tue.
4 Riformula questa domanda: «La domanda allora è: visto che da quanto appena detto sembra
proprio che la soglia di sensibilità religiosa diffusa nell’Islam sia estremamente bassa, davvero
dovremmo farla nostra, adottandola nella nostra legislazione?» (rr. 35-37).
5 Quali scelte stilistico-espressive rivelano il carattere argomentativo-persuasivo del testo?

Commento
6 Scrivi un commento al testo di massimo tre colonne di foglio protocollo, soffermandoti sull’im-
portanza della diffusione dell’istruzione per capire il mondo moderno e agire sui suoi meccani-
smi, in un confronto serrato con i Paesi arabi.

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Ambito sociale
Umberto Eco
La pena di morte ha due facce
Mobilitazione per Sakineh Ashtiani, silenzio per Teresa Lewis. Ma se i nostri pensieri non fossero torbidi
dovremmo dire che non si deve ammazzare nessuno, neppure in modo indolore.

Da pochi giorni, in Virginia, Teresa Lewis è stata uccisa con una iniezione letale, e nessuno è
andato in prigione perché questa signora era stata legittimamente condannata a morte. Aveva
tentato di ammazzare marito e figlio adottivo, e lo aveva fatto senza permesso. Coloro che l’han-
no uccisa lo hanno invece fatto col consenso delle autorità. Per cui bisognerebbe riformulare il
5 quinto comandamento come «Non ammazzare senza permesso». In fondo da secoli benedicia-
mo le bandiere dei soldati che, inviati alla guerra, hanno licenza di uccidere, come James Bond.
Ora pare che Ahmadinejad1, il quale sta per far lapidare una donna (se non l’avrà già fatto
quando leggerete questa bustina) abbia reagito agli appelli, arrivati dall’Occidente, dicendo: «Vi
lamentate perché noi vogliamo ammazzare legalmente una donna iraniana, mentre ammaz-
10 zate legalmente una donna americana?»
Naturalmente gli è stato obiettato che la donna americana aveva cercato di uccidere suo
marito, mentre l’iraniana lo ha solo cornificato. E che l’americana è stata uccisa in modo in-
dolore, mentre l’iraniana sarebbe uccisa in modo dolorosissimo. Però una risposta del genere
verrebbe a sottintendere due cose: che è giusto ammazzare un’assassina mentre per un’adul-
15 tera basterebbe una separazione legale senza alimenti; e che si può ammazzare secondo la leg-
ge purché in modo poco doloroso. Mentre quello che si dovrebbe invece sostenere, se i nostri
pensieri non fossero torbidi, è che non si deve ammazzare neppure un’assassina, e non si deve
ammazzare neppure per legge e neppure se l’esecuzione è poco dolorosa, persino se avvenisse
iniettando una droga che procura uno sballo delizioso.
20 Come reagire se Paesi poco democratici chiedono a noi cittadini di Paesi democratici di
non occuparci delle pene di morte loro visto che abbiamo le pene di morte nostre?
La situazione è molto imbarazzante e mi piacerebbe anzi sapere se il numero degli occi-
dentali, tra cui addirittura una first lady francese, che hanno protestato contro la pena di morte
iraniana hanno anche protestato contro la pena di morte americana. A naso direi di no, perché
25 di condanne a morte negli Stati Uniti, per non dire della Cina, ce ne sono moltissime e ci abbia-
mo fatto il callo, mentre è naturale che l’idea di una donna massacrata a colpi di pietra faccia
più effetto. Mi rendo conto che quando mi hanno chiesto di dare una firma per impedire la
lapidazione dell’iraniana l’ho subito fatto, ma mi era sfuggito che nel frattempo stavano am-
mazzando una virginiana.
30 Avremmo ugualmente protestato se la donna iraniana fosse stata condannata a una paci-
fica iniezione letale? Ci indigniamo per la lapidazione o per la morte inflitta a chi non ha vio-
lato il quinto bensì solo il sesto comandamento? Non so, è che le nostre reazioni sono sovente
istintive e irrazionali.

1. Ahmadinejad: politico iraniano, sesto Presidente della Repubblica islamica dell’Iran dal 3 agosto 2005 al 3 ago-
sto 2013.

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In agosto era apparso su Internet un sito dove si insegnavano vari modi per cucinare un
35 gatto. Scherzo o cosa seria che fosse, tutti gli animalisti del mondo erano insorti. Io sono un
devoto del gatto (uno dei pochi esseri viventi che non si lascia sfruttare dal proprio padrone
ma al contrario lo sfrutta con cinismo olimpico, e la cui affezione alla casa prefigura una forma
di patriottismo) e pertanto rifuggirei con orrore da uno stufato di gatto. Però trovo egualmente
grazioso, anche se forse meno intelligente, il coniglio, eppure lo mangio senza riserve mentali.
40 Mi scandalizzo vedendo le case cinesi dove i cani girano in libertà, magari giocando coi
bambini, e tutti sanno che saranno mangiati a fine anno, ma nelle nostre fattorie si aggirano i
maiali, che mi dicono siano animali intelligentissimi, e nessuno si preoccupa che ne debbano
nascere prosciutti.
Che cosa ci induce a giudicare certi animali immangiabili, altri protetti da una loro carat-
45 teristica quasi antropomorfa, e altri mangiabilissimi, come i vitellini di latte e gli agnellini che
pure da vivi ci ispirano tanta tenerezza?
Siamo veramente (noi) animali stranissimi, capaci di grandi amori e spaventosi cinismi,
pronti a proteggere un pesciolino rosso e a far bollire viva un’aragosta, a schiacciare senza ri-
morsi un millepiedi ma a giudicare barbara l’uccisione di una farfalla. Così usiamo due pesi e
50 due misure per due condanne a morte, ovvero ci scandalizziamo per una e facciamo finta di
non sapere dell’altra.
Certe volte si è tentati di dar ragione a Cioran2, e ritenere che la creazione, sfuggita dalle
mani di Dio, sia dipesa da un Demiurgo maldestro e pasticcione, forse un poco alcolizzato, che
si era messo al lavoro con idee molto confuse.
(U. Eco, La pena di morte ha due facce, «L'Espresso», 3 ottobre 2010)

2. Cioran: Emil Cioran (1911-95), filosofo, saggista e aforista rumeno.

Comprensione e interpretazionei
1 Che cosa vuol dire Eco con la frase «perché questa signora era stata legittimamente condan-
nata a morte» (r. 2)?
2 Sostituisci con sinonimi adeguati le seguenti espressioni: «con cinismo olimpico», «la cui affe-
zione alla casa prefigura una forma di patriottismo», «senza riserve mentali».
3 Su quale procedimento logico si basa il ragionamento di Eco nella parte dell’articolo che va da
«Mi scandalizzo» a «non sapere dell’altra»?
4 Qual è il significato della conclusione del passo?
5 Ricava dall’articolo la scaletta su cui è costruito l’articolo di Eco sviluppandola per punti e sot-
topunti.

Commentoi
6 Immagina di dover scrivere un intervento in una seduta dell’Onu in cui sosterrai la stessa tesi
di Eco e utilizzerai i suoi argomenti, ma in uno stile e con un lessico adeguato al contesto.

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Ambito socialei
Paolo Crepet
Aprite gli occhi sul male di vivere
dei giovani
Altro che Europa delle monete e dei mercati, il continente non soffre solo di disoccupazione e
di intolleranza razziale. Il male è più oscuro, più interno, forse più invisibile. Il male è diffuso,
le sue metastasi corrono lente a colpire la linfa più giovane ed esuberante. I dati francesi, che
parlano di un boom senza precedenti di morti per incidenti e suicidi tra i ragazzi d’età compre-
5 sa tra i 15 e i 24 anni, sono impietosi ma non riguardano solo una porzione del continente, ri-
guardano anche noi popoli del sud. Siete sorpresi che un terzo dei giovani francesi dichiarino di
essere fragili e impauriti, forse addirittura psicologicamente minati? Anche da noi è così, anzi
lo saprebbero tutti se il Ministero della Sanità avesse la stessa attenzione di quello francese nei
confronti del disagio giovanile.Tre anni fa ricordo di avere letto una ricerca su questo argomen-
10 to finanziata appunto dal nostro Ministero: il campione era rappresentato da poche decine di
giovani e il costo era di circa 150 milioni. Questo è tutto quello che un governo fa per sapere
qualcosa di più di uno dei più inquietanti fenomeni di questo scorcio di secolo. Domandate alla
Benetton o alla Nike quanti miliardi spendono ogni anno per conoscere il mondo giovanile,
le sue culture, i suoi sogni, le sue paure: molti miliardi, il che vuol dire che quando noi adulti
15 dobbiamo vendere qualcosa ai ragazzi spendiamo volentieri, mentre quando è la comunità a
doversene interessare allora diamo solo qualche spicciolo.
E allora. Se la situazione è così grave perché il nostro Ministro della Sanità non si degna di
occuparsi dei giovani in modo serio e adeguato? Che cosa ci frena dal fare finalmente qualcosa
per loro? Perché ce ne interessiamo solo quando siamo costretti dai casi di cronaca? Che cosa
20 devono fare i giovani per chiedere un po’ di attenzione: gettare i sassi da un cavalcavia, uccidere
un coetaneo per 100 000 lire, abbandonare in massa la scuola? Ma noi non vogliamo capire. I
giornalisti riempiono le loro trasmissioni televisive solo quando ci sono i morti e non ne basta
più uno solo: qualche settimana fa ci sono voluti sette suicidi in un giorno per ottenere che le
cronache dei giornali parlassero del malessere giovanile.
25 Eppure le cause di questo terribile mal di vivere sono sotto gli occhi di ognuno: bastereb-
be vedere come si è trasformata la famiglia diventando una struttura anoressica e totalmente
muta, basterebbe guardare al degrado dei nostri quartieri dove abbiamo lasciato ai giovani un
muretto dove appoggiarsi e una sala giochi dove finire per diventare autistici, basterebbe en-
trare in una scuola per accorgersi di quanto sia degradata e di quanto il solco che divide i pro-
30 fessori dagli allievi sia diventato abissale. Perché mai un giovane dovrebbe nutrire speranza in
un mondo dove è così periferico e inascoltato?
Ma forse nemmeno i dati francesi ci scuoteranno, la politica si interessa ad altro, le città
funzionano per gli adulti, lo stato assistenziale serve solo per gli anziani. La denuncia di «Le
Monde» non ci sveglierà dal nostro torpore narcisistico, dovremo aspettare il prossimo sasso

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35 dal cavalcavia, la prossima epidemia di suicidi. Poveracci noi, adulti malandati che dobbiamo
continuare a rimuovere le sorti dei nostri figli che non hanno nemmeno più la voce per gridare
la propria indignazione, forse si sono arresi, forse non gliene importa più nemmeno delle sta-
tistiche che li riguardano.
(P. Crepet, Non siamo capaci di ascoltarli, Einaudi, Torino 2001)

Analisi e interpretazionei
1 Individua il problema e riformulalo sotto forma di domanda.
2 La tesi non è identificabile solo in una frase, ma va ricostruita leggendo il testo nella sua inte-
rezza. Dopo aver selezionato le frasi «topiche» di ciascun paragrafo, ricostruisci l’opinione di
Crepet e riformulala in un periodo unitario (puoi anche operare per collage inserendo i giusti
connettivi logici).
3 Individua ed elenca il corredo degli argomenti (prove) a sostegno utilizzati da Crepet nel suo
testo.
4 Rifletti sull’ordine seguito da Crepet; in particolare analizza ciascun paragrafo spiegando quale
funzione assolve nella progressione delle idee (un paragrafo potrebbe assolvere anche più di
una funzione).
5 La tecnica argomentativa utilizzata da Crepet è orientata più alla dimostrazione o alla per-
suasione? Conseguentamente, qual è lo scopo del testo e quale il possibile destinatario? Per
rispondere analizza:
– l’ordine del ragionamento, e in particolare l’inizio del testo;
- l’utilizzo di particolari scelte stilistiche, retoriche (metafore), sintattiche.
6 Elabora una sintesi del testo che lo riduca a 10 righe.

Commentoi
7 Il testo di Crepet risale a una ventina di anni fa. Ritieni che oggi il quadro rappresentato dallo
psicanalista sia mutato? Esponi in un commento motivato di adeguata ampiezza la tua opinio-
ne sull’argomento supportandola con le informazioni e gli esempi in tuo possesso.

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Ambito socialei
Edgar Morin
La sfida civica
L’indebolimento di una percezione globale conduce all’indebolimento del senso della respon-
sabilità, poiché ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato,
così come all’indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno percepisce solo il legame orga-
nico con la propria città e i propri concittadini.
5 C’è un deficit democratico crescente dovuto all’appropriazione da parte degli esperti, degli
specialisti, dei tecnici, di un numero crescente di problemi vitali.
Il sapere è divenuto sempre più esoterico (accessibile ai soli specialisti) e anonimo (quan-
titativo e formalizzato). Inoltre la conoscenza tecnica è riservata agli esperti, la cui competenza
in un dominio chiuso si accompagna a un’incompetenza quando questo campo è parassitato
10 da influenze esterne o modificato da un evento nuovo. In tali condizioni il cittadino perde il
diritto alla conoscenza. Ha il diritto di acquisire un sapere specializzato compiendo studi ad
hoc, ma è spossessato in quanto cittadino di ogni punto di vista inglobante e pertinente. Se è
ancora possibile discutere al caffè commercio della condotta del capo dello Stato, non è più pos-
sibile comprendere ciò che scatena il crac asiatico così come ciò che impedisce a questo crac di
15 provocare una crisi economica maggiore, e del resto gli stessi esperti sono profondamente di-
visi sulla diagnosi e sulla politica economica da seguire. Se è stato possibile seguire la Seconda
guerra mondiale con delle bandierine sulla mappa, non lo è concepire i calcoli e le simulazioni
dei computer che delineano gli scenari della guerra futura. L’arma atomica ha totalmente spos-
sessato i cittadini della possibilità di pensarla e di controllarla. La sua utilizzazione è rimessa
20 alla decisione personale del solo capo dello Stato, senza consultazione di alcuna istanza demo-
cratica regolare. Più la politica diventa tecnica, più la competenza democratica regredisce.
Il perdurare del processo tecno-scientifico attuale, processo del resto cieco che sfugge alla
coscienza e alla volontà degli stessi scienziati, conduce a una forte regressione di democrazia.
Così, mentre l’esperto perde la capacità di concepire il globale e il fondamentale, il cittadino
25 perde il diritto alla conoscenza. Quindi lo spossessamento del sapere, molto poco equilibrato
dalla volgarizzazione mediatica, pone il problema storico ormai capitale della necessità di una
democrazia cognitiva.
Attualmente è impossibile democratizzare un sapere compartimentato e per natura eso-
terizzato. Ma forse sarebbe possibile desiderare una riforma di pensiero che permettesse di af-
30 frontare la formidabile sfida che ci chiude nella seguente alternativa: o subire il bombarda-
mento di innumerevoli informazioni che ci arrivano a pioggia quotidianamente attraverso i
giornali, le radio, le televisioni; oppure affidarci a dottrine che delle informazioni accettano
solo ciò che le conferma o che è loro intelligibile, rifiutando come errore o illusione tutto ciò
che le smentisce o che risulta loro incomprensibile. Questo problema si pone non solo per la
35 conoscenza quotidiana del mondo, ma anche per quella di tutte le cose umane e per la stessa
conoscenza scientifica.
(E. Morin, La testa ben fatta, Cortina, Milano 2000)

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Analisi e interpretazionei
1 Riassumi in 10 righe circa il contenuto del testo.
2 Spiega con parole tue il significato delle seguenti espressioni tratte dal testo di Morin:
a. «Inoltre la conoscenza tecnica è riservata agli esperti, la cui competenza in un dominio
chiuso si accompagna a un’incompetenza quando questo campo è parassitato da influenze
esterne o modificato da un evento nuovo» (rr. 8-10);
b. «lo spossessamento del sapere, molto poco equilibrato dalla volgarizzazione mediatica, pone
il problema storico ormai capitale della necessità di una democrazia cognitiva» (rr. 25-27);
c. «sapere compartimentato e per natura esoterizzato» (rr. 28-29).
3 Individua ed esponi l’argomento di fondo del brano e la tesi sostenuta dall’autore; riporta e
commenta gli argomenti a sostegno che ti paiono più significativi.
4 Quale soluzione possibile al problema affrontato è indirettamente prospettata da Morin?

Commentoi
5 Il testo di Morin, anche se di alcuni anni fa, tocca una questione di grande attualità che investe
il mondo della formazione e che riguarda anche la riforma della scuola e le sue possibili linee
di sviluppo. Intervieni sul tema esponendo in modo sintetico ma esauriente le tue opinioni al
riguardo: quali gli obiettivi, i compiti e le responsabilità sociali della formazione?

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