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V. Pravadelli - Le donne del cinema.

Dive, registe,
spettatrici
(Riassunto)
Teorie del cinema (Sapienza - Università di Roma)
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PRAVADELLI RIASSUNTI

LE DONNE DEL CINEMA

PARTE PRIMA - SPETTATRICI

I La spettatrice in sala tra emancipazione, intrattenimento e piacere

1. Il cinema delle origini e l’esperienza quotidiana: cinema, New Woman e modernità La


modernità urbana tra fine Ottocento e inizio Novecento porta a cambiamenti significativi anche
nello stile di vita femminile, le quali iniziano a lavorare e soprattutto a spostarsi dalle campagne alle
grandi città, acquisendo così indipendenza anche dal punto di vista sessuale. Questa modernità
mette radici anche nel rapporto tra lavoro e tempo libero, e in questo contesto il cinema occupa un
ruolo importantissimo in quanto per le giovani donne, una volta finito il turno di lavoro, non era
affatto insolito recarsi al cinema. Scomodando Baudelaire, potremmo dire che la donna diventa
“visibile”, o meglio che da flaneur si inizia a parlare di flaneuse. Ann Friedberg afferma che la
donna diventa soggetto attivo di sguardo grazie anche all’ “invenzione” del grande magazzino. La
donna diventa una consumatrice attiva, ha un ruolo centrale nell’atto delle compere e il paragone
vetrina del negozio-schermo cinematografico viene spontaneo: andare al cinema e lo shopping
sono
due piaceri entrati di diritto nel quotidiano femminile. Proprio l’atto di recarsi nella sala
cinematografica, infatti, era quasi più importante della visione stessa, un atto sempre volto ad
affermare la propria nuova indipendenza. Una volta davanti allo schermo, la donna (e in generale
gli spettatori) rivedevano se stessi nel film. Tuttavia, l’opinione borghese riteneva pericolosa la
presenza delle donne negli spazi pubblici, poiché queste erano cariche di un’emotività tale da creare
disturbo, in quanto non in grado di distinguere la finzione dalla realtà, e quindi ciò che succedeva
sullo schermo da ciò che era effettivamente reale. Per questo motivo si riteneva che fosse necessario
“educare” questa categoria, colpevole di attivare le pulsioni sessuali maschili o di andare al cinema
per avere un incontro erotico. Nascono in tal modo i white slave films, storie che vedono
protagoniste giovani donne avviate alla prostituzione e in costante pericolo a causa della
frequentazione dei luoghi pubblici (tra cui c’era proprio la sala cinematografica). Tuttavia la
sessualità esplicita e i contenuti morbosi di questi prodotti li resero dei grandi successi al
botteghino, e le donne stesse ne erano attratte. Quella che all’epoca era vista come un soggetto
debole e troppo emotivo, ad oggi è definita “spettatrice attiva”, in quanto la donna era capace di
emozionarsi e lasciarsi coinvolgere da ciò che guardava sullo schermo mentre lo guardava. Ma
come faceva la donna ad immedesimarsi in ciò che vedeva sullo schermo? Innanzitutto, molti film
prendevano in esame le tematiche discusse finora; inoltre, il soggetto femminile rappresentato sullo
schermo o sovvertiva nella fase finale il tipo rapporto di potere maschile esercitato sulle donne,
oppure era esplicitamente messo in scena lo sguardo attivo della donna. Si crea così un nuovo
modello di donna, sicuramente nuovo e moderno poiché attivo e consapevole di sé ed
eventualmente anche della propria sessualità. Un esempio lampante per descrivere queste nuove
dinamiche di gender è presente nel film What Happened on Twenty-third Street, New York City
(1901): vediamo una coppia che cammina volutamente su una grata; la donna sarà dunque cosciente
che il flusso d’aria le alzerà la gonna. Così accade, e ne ride con il compagno. L’uomo in questo
caso diventa complice di una sessualità consapevolmente esposta. Nel cinema delle origini, la donna
è agente del proprio desiderio: con un solo sguardo riesce a ridicolizzare l’uomo con astuzia, poiché
questi non riesce a resistere alle incontrollate pulsioni sessuali che la donna è consapevole di
provocare.
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2. La spettatrice del cinema classico e le forme dell’identificazione Il concetto di


riconoscimento con l’attrice adoperato nel cinema delle origini va sostituito con quello di
identificazione una volta che emerge il cinema classico, che si fonda nella quasi totalità sulle
dinamiche dello sguardo e sui concetti della psicoanalisi. L’identificazione è infatti un processo
ordinario (ed inconscio) per la psicoanalisi stessa, poiché serve alla costruzione dell’identità; con
l’identificazione si crea un autoriconoscimento e si riconoscono somiglianze e differenze nel
rapporto tra l’io e l’altro. L’identificazione al cinema, secondo Freud, si basa su un’illusione: lo
spettatore guarda non visto un mondo simile al reale, e si identifica con la star in quanto questa
percorre una traiettoria edipica per venire a patti con il proprio desiderio. Il cinema classico è infatti
costruito su scenari

freudiani in cui è messa in scena la ricerca della mascolinità o della femminilità e, infine, della
coppia, in quanto fuoco, problema ed esito imprescindibile della narrazione. Secondo Bellour la
donna provava piacere ad identificarsi con un soggetto subordinato allo sguardo maschile, ed è
proprio su questa concezione che Laura Mulvey si concentra nel suo saggio Piacere visivo e
cinema narrativo (1975). Secondo la Mulvey, i processi di identificazione non sono ugualitari
perché nel cinema classico ci si basa sui concetti di voyeurismo e narcisismo (rispettivamente
pulsione sessuale e autoconservazione) che sono soltanto appannaggio dell’uomo, soggetto attivo
dello sguardo, e dunque a discapito della donna, oggetto sessuale passivo da guardare e dal quale
trarre piacere. Dunque solo l’uomo sarà in grado di identificarsi con ciò che vede sullo schermo, e

sarà in grado di “possedere” la donna. La teoria di Mulvey rappresenta indubbiamente una parte del
cinema hollywoodiano del periodo, ma non ammette la pluralità di dinamiche dell’identificazione
femminile. Generi come il western e il noir avvalorano questa tesi: nei primi la donna è sì
sottomessa ma è il perno della famiglia e soprattutto l’elemento civilizzatore, nei secondi la donna è
una vera e propria femme fatale che esercita un fascino non indifferente e tante volte irresistibile
sullo spettatore maschio che regola e conduce l’azione. Le femme fatales, avendo dunque una certa
pregnanza a livello di immagine, non possono essere considerate personaggi passivi, ma anzi
consapevoli della propria carica erotica e insieme di tratti passivi e attivi. L’identificazione
femminile è quindi mutevole, plurale e mobile, tanto che identificarsi con la passività è solo una
delle possibilità offerte alla spettatrice. L’identificazione avviene inoltre tramite la costruzione
stessa dell’immagine e soprattutto in base ai rapporti con gli altri, perché è in base alle relazioni
sociali che si costruiscono la storia del film e i rapporti interpersonali. Inoltre, visto che particolare
luce viene data al rapporto uomo-donna, le questioni relative alla sessualità sono senza dubbio
primarie e indirizzano in modo privilegiato l’esperienza della spettatrice. Ma proprio perché
l’identificazione è plurale, può capitare che la spettatrice si identifichi anche nel personaggio
maschile, e ciò capita in base ad una serie di esperienze del tutto diverse che spettatori e spettatrici
hanno accumulato prima della visione del film e che scaturiscono durante la proiezione.

Il woman’s film degli anni ’30 e ’40 è utile a valutare l’esperienza della spettatrice in sala.
Basandosi sul concetto del fantasma psicoanalitico, il soggetto o è partecipe di una stessa scena
oppure guarda un oggetto che non può o non vuole ottenere (il piacere fantasmatico sta nella
disposizione degli oggetti e non nel loro possesso). In Venere bionda vediamo una Marlene
Dietrich madre, prostituta e star che non viene mai meno ai suoi doveri famigliari, pur praticando
professioni disdicevoli o conducendo una vita più che agiata. Tuttavia non viene condannata poiché
le sue azioni sono tutte volte al benessere del figlio, e l’identificazione è mutevole di volta in volta
che l’attrice esercita un cambiamento della propria identità (cambiamenti sempre di ordine sessuale,
connotati da tratti mascolini e lesbici). In Perdutamente tua la timida e goffa Charlotte Vale ottiene
indipendenza dalla madre e diventa una donna bellissima ed emancipata; tuttavia la traiettoria
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edipica della protagonista è incompleta, poiché da un lato vorrebbe vedere avverato il suo sogno
d’amore e dall’altro vuole essere una buona madre per la piccola Tina, con cui si identifica essendo
stata a sua volta una figlia a cui è mancato l’affetto materno. Charlotte deciderà allora di rinunciare
all’amore sentimentale per la bambina. L’identificazione è qua molteplice: se ci si identifica con i
desideri di Charlotte il film è deludente, in quanto le sue aspettative in campo sentimentale non
sono state soddisfatte, mentre se ci identifichiamo con il rapporto madre-figlia il film soddisferà
appieno le aspettative in quanto questo desiderio è stato portato a conclusione dalla protagonista.
Ecco perché la spettatrice “rappresenta l’unico luogo in cui tutti i termini del fantasma hanno fine”.

3. La spettatrice intellettuale della feminist avant-garde Negli anni ’20 la facevano da


padrone due linee di pensiero: provocare il pubblico analogamente all’esperienza dada e creare una
linea formale interessata alla percezione del cinema come arte. Quest’ultima ha un forte impatto
sull’esperienza visiva dello spettatore, poiché gli si richiede un tipo di coinvolgimento psico-
fisicopercettivo diverso da quello impiegato nel cinema narrativo. Secondo Laura Mulvey infatti le
strategie del cinema d’avanguardia sono quelle di distruggere il piacere del cinema narrativo,
mettendo in evidenza il meccanismo voyeuristico dell’atto di guardare il film; il film sarà dunque
costruito con tecniche opposte a quelle utilizzate per il cinema narrativo. Dunque le tecniche di
produzione si sostituiscono al piacere narrativo. Nel cinema femminista sperimentale la parola ha
un’importanza grandissima, ecco perché molti prodotti appartenenti a questa corrente vedono un
utilizzo massiccio della voice over, tanto da

dare al film un tono teorico-saggistico. In quest’ottica la spettatrice vive un’esperienza intellettuale,


complice anche il fatto che le registe femministe sono state prima di tutto militanti e teoriche del
movimento; la spettatrice si sente dunque parte integrante di un processo che riesce a comprendere
alla perfezione. I documentari dell’epoca riflettono sulle tecniche dell’autocoscienza, forma
primaria della politica femminista: questa si realizza in piccoli gruppi di donne che si incontrano
periodicamente e discutono proprio della loro esperienza di donna. Nel racconto di altre donne,
dunque, la spettatrice riesce a riconoscere se stessa, e ciò è un punto fondamentale per
l’emancipazione femminile.

PARTE SECONDA - DIVE

II Dive al lavoro: working girls e donne forti nel cinema americano dagli anni ’10 agli anni ’50

1. La diva e le teorie del divismo, in breve Ogni star ha successo sul pubblico se è una
fusione di “eventi”, di esperienze quotidiane ed eccezionali, di aspirazioni e di paure in cui lo
spettatore si può rivedere. Le star comunque, specie quelle americane, furono costruite in modo tale
che la casalinga media, moglie di un ricco imprenditore medio, potesse immedesimarsi in loro in
quanto veicoli della moda e del corretto lifestyle. Il cinema americano classico basa la costruzione
della star femminile su tutta una serie di dicotomie e contraddizioni, prima tra tutte quella della
protagonista nata e cresciuta in un contesto di povertà che giunge finalmente in città e si realizza dal
punto di vista sentimentale e dell’indipendenza. questa serie di dicotomie è più presente nelle dive
che nei divi, e soprattutto indica una certa attività, poiché la bellezza e la forza intrinseche in questi
personaggi di certo non possono ritrovarsi in un personaggio passivo. Infine secondo Orrin Klapp le
star, sia maschili che femminili, rispondono a dei tipi sociali socialmente accettati (il brav’uomo, il
duro e la pin-up), ma esistono anche dei tipi sovversivi che rifiutano l’ordine stabilito (il ribelle e la
donna indipendente).

2. Femministe e donne forti nel cinema degli anni ’10 e ’20 Negli anni ’30 le svolte sia
cinematografiche che quotidiane avvenute nella vita delle donne subiscono un ritorno al passato:
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infatti si riafferma l’ideale di donna subordinata e dedita soltanto alla casa e alla famiglia;
un’eccezione era rappresentata dalle donne che non necessitavano di un lavoro e che quindi
potevano mantenere una certa autonomia (protagoniste, al cinema, delle commedie sofisticate). La
figura della donna lavoratrice tornerà nuovamente in auge pochi anni dopo, durante la Seconda
Guerra Mondiale. Fin dagli anni ’10, comunque, a dominare gli schermi c’era la figura della New
Woman, la cui femminilità era moderna e anche stravolta, in quanto si era appropriata di elementi
tipicamente maschili. I film in cui questo nuovo modello di femminilità la faceva da padrone erano
i serial queen, film ad episodi in cui la protagonista viveva una serie di avventure e mostrava le
sue abilità ginniche, con le quali salvava se stessa ed anche gli altri (ciò che si credeva, appunto,
potesse fare soltanto un uomo); non è più, dunque, una giovane ragazza indifesa che aspetta l’eroe
per essere salvata. Queste eroine, inoltre, provengono dal popolo, come l’audience a cui i film sono
destinati. Intorno agli anni ’20 la figura della New Woman è ancora presente sugli schermi, ma
subisce dei cambiamenti che vanno di pari passo a quelli della società e che investono
principalmente la sfera sessuale. Una nuova figura di new woman è rappresentata dalla flapper,
emblema degli anni ’20 e simbolo della femminilità di quel periodo, che era indipendente ed
assolutamente consapevole di sé. Emerge nei cosiddetti flapper film. Secondo Francis Scott
Fitzgerald la flapper ideale era “adorabile, costosa e aveva circa diciannove anni”.

3. Clara Bow, “the It Girl” Clara Bow ha in qualche modo eternizzato la figura della flapper,
perché definita “il simbolo stesso dell’essere flapper” (Motion Picture Classic, 1925). Il film che le
assicura piena visibilità è The Plastic Age (1925), una college comedy in cui i giovani, maschi e
femmine, si ritrovano a condividere spazi, e quindi esperienze, comuni, fondati sul piacere e lo
svago. Clara Bow interpreta Cynthia, una flapper dalla gestualità marcata e dalla

forte personalità, che ruba la scena anche alle protagoniste della pellicola grazie ad una sessualità
naturale ma comunque innocente. La sua recitazione è in grado di cambiare le carte in tavola, il
presupposto di una sceneggiatura, come nel caso di Dancing Mothers (1926). Il film deriva da un
dramma teatrale in cui la madre si ritrova sola, poiché la figlia e il marito vogliono solo divertirsi;
nella pellicola invece lo spettatore tende ad empatizzare con Clara e la sua vitalità. Con It (1927) la
Bow ottiene un successo planetario e diviene la star più richiesta. Il film riesce a condensare tutti gli
elementi moderni della New Woman e la carica erotica naturale che contraddistingueva le It Girls.
La New Woman è in primo luogo una working girl che attraverso il lavoro ambisce a migliorare la
propria condizione; tuttavia il film riprende molto dai serial film e cita le eroine protagoniste delle
pellicole: nella scena in cui Betty Lou (il personaggio interpretato dalla Bow) cade in mare con la
sua rivale in amore, la prima si precipita a salvarla, omaggiando così una tradizione di più di un
decennio prima, a cui questa nuova New Woman doveva sicuramente molto.

4. Barbara Stanwyck, “the Girl from the Wrong Side of the Tracks” Molti personaggi
interpretati da Barbara Stanwyck hanno in comune un background fatto di condizioni economiche
precarie e di un forte desiderio di riscatto sociale. All’inizio degli anni ’30 la Stanwyck interpreta
ruoli di giovani donne che desiderano fare una scalata sociale attraverso il sesso e/o il lavoro. In
Baby Face (1933), uno dei suoi film più famosi, Barbara Stanwyck interpreta Lily Powers, una
giovane donna che lavora come barista e subisce le angherie del padre, che la costringe a
prostituirsi. Quando l’uomo muore, la ragazza si trasferisce a New York e ottiene un lavoro
impiegatizio, la cui ascesa sociale è determinata dallo sfruttamento sessuale dei suoi superiori
(nonostante sia anche molto capace lavorativamente); tramite l’uso del proprio corpo, Lily riesce a
sopravvivere, ma allo stesso tempo ciò è determinato dal contesto in cui è cresciuta: la ragazza
conosce soltanto questo mezzo per guadagnare soldi o comunque qualche beneficio. In un contesto
tale, il finale in cui l’amore trionfa appare quasi illogico. Il film comunque non fa alcun moralismo
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sulla sessualità delle donne; la prostituzione rappresenta una modernità in cui l’amore si è perso,
poiché è un fenomeno in larga espansione in un periodo in cui la donna acquista l’indipendenza che
le permette di andare anche in giro da sola, ma allo stesso tempo di diventare ancora di più un
oggetto di sguardo. Ad ogni modo, per Lily la prostituzione e il lavoro impiegatizio sono la stessa
cosa, in quanto entrambi rappresentano una fonte di guadagno: il film dunque non condanna la
scelta della ragazza, perché è tramite la stessa che riesce a guadagnare indipendenza e a darsi da
fare. Si può dire, quindi, che Lily lavori nel senso marxiano del termine; la catena del lavoro si
spezza nel finale, in cui Lily rimane accanto al marito anche se questi ha perduto tutti i soldi. A tal
proposito la teoria di Walter Benjamin appare azzeccata: l’amore emerge quando lo scambio tra la
merce e il denaro non può più avere luogo. In Ladies of Leisure (1930) ritroviamo le stesse
dinamiche tra classe, sessualità e sentimento. Barbara Stanwyck interpreta Kay Arnold, una ragazza
dedita al divertimento e ai viaggi di lusso grazie al sostegno finanziario degli uomini che incontra;
si innamorerà di Jerry Strong, figlio di un tycoon delle ferrovie, e per la prima volta non si
dimostrerà interessata ai soldi ma al sincero amore che li lega. Barbara Stganwyck, comunque, darà
il meglio delle sue doti recitative nei western, in cui può esaltare le sue qualità mascoline e i suoi
tratti caratteriali.

5. Joan Crawford, “the Queen of the Working Girls” Joan Crawford, nei primi anni della sua
carriera, segue gli itinerari intrapresi dalle dive appena trattate, ma avrà successo come “queen of
the working girls” in Grand Hotel, in cui interpreta la stenografa Flaemmchen, un personaggio
giovane, vitale, moderno e positivo, in contrapposizione con il personaggio di Greta Garbo, coperto
di una patina di stantia e pessimistica aristocrazia. Il suo ruolo più famoso è in Mildred Pierce
(1945), in cui interpreta una donna (che dà il titolo al film) e la vita quotidiana che si ritrova ad
affrontare come lavoratrice. Mildred è una casalinga che per arrotondare, a causa anche
dell’inadempienza e la tendenza al tradimento del marito (che caccerà poi di casa), sforna torte per i
vicini. Una volta rimasta sola, Mildred inizia a lavorare come cameriera e decide di aprire un
proprio ristorante, il Mildred’s, che avrà così tanto successo da diventare un vero e proprio
franchise. Tuttavia al successo lavorativo corrisponde la disgrazia in ambito famigliare e
sentimentale: la figlia la disprezza e Monte, il nuovo fidanzato di Mildred, la usa solo per i soldi,
oltre a tradirla con la figlia. Mildred li scopre e se ne va affranta dopo che la

figlia le ha detto che Monte vuole chiedere il divorzio per sposare la stessa; tuttavia Monte nega, e
la ragazza lo uccide. Mildred promette di proteggerla, ma la giovane teme che la madre abbia già
parlato con la polizia e quindi confessa il delitto. Possiamo dunque vedere come la parabola di
Mildred e il suo desiderio di autoaffermazione abbiano un esito tragico; il film è costruito su un
immaginario femminile (la donna che si afferma e “fa” da sola) e su uno maschile (l’annullamento
dell’affermazione stessa). La colpa che ha Mildred, che è l’unico personaggio positivo, forte e
attivo del film, è proprio quella di usurpare un ruolo maschile che nella pellicola non viene mai
mostrato come positivo.

III Dive moderne, femministe e celebrità nel cinema del secondo Novecento

1. Divismo e nuovo cinema europeo A partire dagli anni ’60 in Europa si forma questa nuova
schiera di attrici-dive che, per certi versi, rappresentano delle “New New Women” in quanto
incarnano una nuova modernità che le differenzia dalle attrici americane e che gli garantisce un
grande successo internazionale pur restando in Europa. La modernità tipica di questo periodo, in cui
si sperimentano nuovi tipi di libertà (sessuale ed economica) e in cui cambia anche la cultura di
massa, si ritrova nel modello che incarnano queste attrici sia dal punto di vista fisico che dalle
caratteristiche comportamentali. Se da una parte abbiamo per esempio bellezze più “terra terra”
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come Brigitte Bardot e Sophia Loren, dall’altro abbiamo Monica Vitti, Jeanne Moreau e Anna
Karina, simboli perfetti della modernità italiana e francese e delle avanguardie anche
cinematografiche, i cui film sono pervasi da un senso di esistenzialismo in crisi.

2. Dal divismo del volto al divismo del corpo: Brigitte Bardot e Sophia Loren Brigitte
Bardot acquisisce il successo internazionale con Et Dieu… créa la femme(1956) e diventa il
simbolo della gioventù ribelle - in salsa francese - degli anni ’50. Il successo di BB comunque non è
solo da relegare al cinema, ma anche a tutti gli altri ambiti della cultura pop. Il suo modello
comportamentale divistico, in grado di influenzare le scelte personali e l’abbigliamento delle donne
“normali”, è analogo a quello delle dive hollywoodiane degli anni ’30, poiché in entrambi i casi si
invitava alla possibilità di un cambiamento della propria vita volto all’indipendenza. BB è un
soggetto attivo, anche se rimane oggetto di sguardo poiché la sua libertà si esprime soltanto
attraverso la sessualità; tuttavia è consapevole di essere un oggetto del desiderio maschile ed agisce
e si esprime in virtù di ciò. Proprio per questa sessualità esplicita, in un corpo comunque da
ragazzina che si ritrova a sedurre uomini più adulti, in Francia la sua figura è ambigua, divisa tra
ammirazione e ostilità: il mondo dell’adolescente è impenetrabile all’uomo adulto, e la differenza
d’età tra i due soggetti in questione ristabilisce quella distanza che si considerava presupposto
necessario del desiderio. Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, in Italia emerge la figura
della maggiorata fisica, grazie ad attrici come Silvana Mangano e soprattutto Gina Lollobrigida, che
interpretavano sensuali e veraci popolane. L’attrice che comunque incarna al meglio questo nuovo
modello è Sophia Loren che, a partire da L’oro di Napoli, interpreta personaggi di popolane
passionali, forti, schiette e sessualmente esplicite. La differenza tra la diva francese e quella italiana
sta nel fatto che, se la prima rappresenta la modernità tipica del periodo, la seconda è ancora
attaccata ad un concetto di Meridione arcaico, anche a causa delle differenti condizioni
socioeconomiche in cui versavano la Francia e l’Italia del dopoguerra. Sophia Loren interpreta
personaggi di madre distrutti dal dolore (La ciociara, 1960) con estrema efficacia, molto diversi da
quelli con cui si era fatta conoscere, pregni di una forte carica erotica espressa dal corpo procace
seminudo (Due notti con Cleopatra, 1954). Questo cambiamento permette all’attrice di interpretare
figure di donne e madri intrise nella cultura napoletana, che mettono al primo posto i figli e la
famiglia anche sovvertendo la giustizia, come Adelina in Ieri, oggi, domani (1963). Oppure
pensiamo a Filomena Marturano di Matrimonio all’italiana (1964), in cui l’attrice interpreta una
donna che, grazie all’astuzia, riesce a sposare un uomo e a fargli accettare i tre figli, nonostante
viva la propria subalternità come un destino dal quale non può sfuggire ma che riesce a piegare al
proprio volere. Questa perfetta immagine di donna dell’Italia meridionale è espressa fortemente
anche dalla fisicità più che dal volto: la recitazione della Loren si basa più sul corpo che sulla
mimica facciale, ed è forse questa forte “italianità” che ne decreta il successo anche all’estero.

3. Dall’America all’Europa e ritorno: il caso di Jane Fonda Jane Fonda cambia il termine
“diva” in “celebrità”: la celebrity altro non è che la star impegnata in maniera attiva politicamente
e in questioni umanitarie, oltre a rendere interessante agli occhi dei media e del pubblico la propria
vita privata, cosa che la Fonda farà a partire dagli anni ’70. Fino agli anni ’60, però, la sua
immagine sarà definita dal suo sex appeal, come è palese nel film del 1968 Barbarella. Tutta
l’opera è caratterizzata da un immaginario erotico ed esplicito, come nella scena iniziale in cui la
protagonista si libera della tuta spaziale per rimanere completamente nuda. Ma la scena più iconica
è la tortura del villain Durand Durand ai danni di Barbarella: tramite una macchina, alla malcapitata
viene provocato un piacere sessuale così intenso da portarla alla morte. Tuttavia la protagonista è
talmente coinvolta dal processo da sfruttare il piacere sessuale a proprio favore, distruggendo la
macchina e sconfiggendo lo scienziato, il quale stava avendo metonimicamente un rapporto
sessuale con la donna, ma non riesce a raggiungere il piacere. Barbarella sovverte quindi l’ordine
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patriarcale secondo il quale solo l’uomo è legittimato a raggiungere l’orgasmo, diventando un


soggetto attivo. A partire dagli anni ’70 l’impegno politico di Jane Fonda farà di lei una celebrità
filantropa, e ciò negli anni ’80 la porterà ad interpretare anche ruoli estremamente femministi; lo
stesso accadde ad attrici come Sigourney Weaver (Ripley in Alien), Susan Sarandon (Thelma &
Louise) e Jodie Foster (Clarice Starling).

4. Dal divismo alla celebrity culture: Angelina Jolie celebrità globale La figura di Angelina
Jolie è diventata celebre prima di tutto per la sua vita extra cinematografica: negli anni ’90 divenne
famosa grazie al suo background problematico e ribelle, ai rumors sul rapporto incestuoso con il
fratello e a scelte discutibili (come quella di portare al collo una fiala contenente il sangue del
secondo marito, Billy Bob Thornton). Recita in film celebri come Ragazze interrotte (1999) e nella
saga di Lara Croft; inizia anche il suo impegno umanitario, che la porta ad essere nominata
ambasciatrice per l’UNHCR e ad adottare dei bambini. Ma è il matrimonio con Brad Pitt che la
consacra nell’Olimpo delle celebrità, tanto che la loro unione veniva riconosciuta con il neologismo
“Brangelina” e le foto della loro primogenita appena nata vennero vendute a cifre stratosferiche.
Tramite questa unione, e all’impegno umanitario in cui ha coinvolto Pitt, la Jolie si è liberata
dell’immagine di giovane ribelle problematica e si è fatta portavoce dei valori della famiglia, come
se questi ultimi potessero in qualche modo aiutare a ritrovare l’equilibrio in seguito a crisi
identitarie. L’immagine di Lara Croft è quanto più diversa: trasuda “mascolinità femminile”, è
sexy ed atletica ma nonostante ciò è anche segnata da un background psicologico molto forte, in
quanto presenta un attaccamento edipico ed irrisolto verso il padre scomparso. L’immagine tutta di
Angelina Jolie ci fa dunque riflettere su quanto i valori intrinsechi in una persona siano mobili, in
quanto la stessa è stratificata in modelli sempre differenti ed ugualmente efficaci.

PARTE TERZA - REGISTE

IV Le registe-pioniere del cinema muto

1. La teoria dell’autore/autrice, in breve Nel cinema spesso autore e regista non sono
sinonimi, e la dimostrazione lo è il fatto che nei primi anni di avvento del cinematografo tantissime
sceneggiature fossero state scritte da donne, senza che comunque avessero alcun credito. La
questione cambia quando i metodi e le tecniche di ripresa iniziano a farsi un po’ più complessi:
autrice di questo cambiamento è Gene Gauntier, che nel 1912 propone una sceneggiatura provvista
di tutte le indicazioni utili a cast e troupe. Il ruolo delle sceneggiatrici, se prendiamo in
considerazione gli anni ’20, è molto importante e soprattutto vasto, in quanto si occupavano anche
di più mansioni, come ad esempio il casting.

2. Alice Guy, prima pioniera del cinema Alice Guy è la prima donna ad entrare nel mondo
cinematografico in quanto la sua carriera inizia proprio con la nascita del cinema stesso; tuttavia la
donna inizia a sperimentare con film di finzione, addirittura prima di Méliès: è del 1896 infatti il
suo La fée aux choux, un’inquadratura in cui una donna vestita da fata “coglie” dei bambini da dei
cavoli (che altro non sono che sagome di

legno dipinte: siamo di fronte anche alla prima scenografia di finzione). Il film fonde tematiche
legate alla femminilità, e quindi al gender, con quelle della commedia, e questa convergenza
rimarrà un punto cardine nella filmografia di Alice Guy. Nelle commedie la regista poteva infatti
tranquillamente esplorare anche le dinamiche e le questioni che regolano il rapporto uomo-donna.
Alice Guy tende comunque a decostruire le convenzioni tipiche, come in Madame a des envies
(1906), dove viene messo in scena il desiderio di una donna e tutta una serie di allusioni al sesso
orale. Vediamo infatti la donna “obbedire” al proprio desiderio, intenta a succhiare sia un lecca
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lecca, che ricorda un fallo, sia a fumare la pipa e un sigaro, oggetti prettamente maschili. Si
appropria quindi di caratteristiche tipicamente mascoline, ed è proprio questa appropriazione del
mascolino che permette alla donna una propria soddisfazione sessuale. Questo discorso appare
quantomai produttivo se analizziamo la figura del marito della donna, piccolo di statura e sempre
subordinato a lei, in un ruolo decisamente passivo. Se i film francesi della Guy comunque
mostravano una sessualità marcata e una tendenza all’eroticizzazione, quelli americani si
concentravano maggiormente sulla questione della parità dei sessi: in A House Divided la parità sta
nel fatto che marito e moglie si sospettano a vicenda di tradimento e finiscono con il non parlarsi
più; in Matrimony Speedy Limit la ragazza raggira il fidanzato con una serie di espedienti (deve
sposarsi entro un certo lasso di tempo per ereditare una grande fortuna) per fare in modo che lui la
sposi. I film girati verso la fine del 1913 hanno tutti come protagonista maschile un artista di cui si
narrano sia le gesta creative sia quelle romantiche, che lo vedono sempre diviso tra due donne
(riferimento autobiografico alla vita coniugale della regista stessa). Il personaggio di quella donna
che nei film guarda sempre l’amato rincorrere l’altra è il surrogato della stessa Guy, rivive quindi le
esperienze e le emozioni della regista. In The Ocean Waif la donna tradita ma potente è Ruth, che
non si scompone nel sapere che il fidanzato la tradisce con la giovane Millie, anzi lo lascia
immediatamente quando comprende il suo desiderio di rimanere con la giovane; pur non essendo la
protagonista, Ruth ricopre il ruolo di una New Woman attiva.

3. Lois Weber, moralista-riformista americana Oltre ad essere stata una regista capace, alla
Weber veniva dato il merito di aver scoperto tantissimi talenti femminili. Inoltre affrontava serie
tematiche sociali apprezzate sia dalla critica sia dal pubblico; ciò la rese una dei capostipiti del
modello di “riformazione” del cinema, e le donne erano ritenute il veicolo ideale in questo
processo, in quanto moralmente superiori rispetto agli uomini. Il lavoro di Lois Weber si inserisce
nel contesto del social problem film, un filone che affrontava argomenti molto serie e scabrosi,
inerenti alla sessualità, e che per questo avevano un grande appeal sul pubblico. Il lavoro della
regista vuole attivare qualcosa nelle menti degli spettatori, far assaporare entrambe le facce della
medaglia di una determinata problematica e proporre una soluzione che può sì non essere condivisa
ma che sicuramente non può essere condannata. Il suo cinema, quindi, deve far pensare, oltre a
stupire visivamente perché molto curato. È il caso di Hypocrites, sull’ipocriti di molti infedeli con
l’invito a cercare una nuova Verità, rappresentata da una giovane attrice nuda. In Where Are My
Children? affronta il problema dell’aborto clandestino come rimedio ad una gravidanza
indesiderata, mentre nel film dell’anno successivo The Hand that Rocks the Cradle (1917) il
personaggio di Mrs. Broome, ispirato a Margaret Sanger, diffonde illegalmente materiale sui
contraccettivi. Margaret Sanger iniziò a diffondere lo stesso tipo di materiale solo dopo anni passati
a praticare aborti clandestini, avendo potuto così toccare con mano la realtà di quelle famiglie non
proprio benestanti in cui aleggiava sempre un destino di precarietà e morte prematura sia per la
madre sia per i bambini. Se una donna benestante poteva infatti permettersi non rimanere incinta,
anche appunto ricorrendo alla pratica dell’aborto clandestino, una donna povera non ha i mezzi né
le conoscenze per evitare una gravidanza, e mette così in pericolo le vite di tutti quei bambini che
non può neanche mantenere. I critici del tempo, anche a fronte di questo discorso, ritenevano che
nel primo film ci fosse una base “eugenetica”, in quanto all’epoca si invitavano le donne benestanti
a fare più figli perché avrebbero potuto mantenerli e soprattutto sarebbero cresciuti sani, al
contrario dei bambini nati da una donna povera, che era invece invitata (se non obbligata) ad
abortire. Tuttavia ciò che realmente interessava a Lois Weber era i diritto della donna di scegliere
per sé in totale

autonomia, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza, senza condannare né l’una né l’altra
parte. Scopo della pellicola è, semmai, quello di mostrare due realtà molto differenti tra loro. Il
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desiderio di avere figli del signor Walton non appare meno o più legittimo di quello della moglie di
non averne (la donna ricorre infatti agli aborti clandestini del dottor Homer). Non c’è alcuna
condanna all’aborto, e ciò appare evidente quando il fratello della signora Walton seduce Lillian, la
cameriera, e la abbandona incinta; la ragazza perderà la vita in seguito ad un aborto clandestino, e
tutti considereranno colpevole della sua morte il seduttore, non di certo la pratica abortiva. Where
Are My Children? prende in considerazione sia il desiderio maschile sia quello femminile, non
condannando nessuno dei due ma anzi evidenziando la differenza di genere e di classe; una
differenza in cui non si può sottovalutare il fatto che, se una donna rifiuta il sesso per riproduzione,
automaticamente considera lo stesso come raggiungimento del proprio piacere. Le differenze di
classe vengono riprese in The Blot (1921), in cui la storia raccontata viene vista dagli occhi di
Amalia Griggs, giovane figlia di un professore che non riesce a provvedere, con il solo stipendio, al
sostentamento della famiglia e alle cure della giovane quando si ammala. Il film è suddiviso in tre
poli: il primo è quello tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, a discapito del primo; il secondo è
quello tra la signora Griggs e la signora Olsen, quest’ultima invidiata dalla prima che, dalla finestra,
vede il ben di Dio culinario che gli Olsen possono offrire agli ospiti, quando in casa Griggs non si
riesce a servire neppure un the; il terzo ed ultimo polo è infine rappresentato dai capitalisti: il figlio
di uno di questi si innamorerà di Amalia e, con lo stupore di tutti, cercherà di aiutare la famiglia e
soprattutto convincere il padre, superiore del professor Griggs, ad aumentargli lo stipendio. Il finale
lascia intuire un matrimonio interclasse tra i due giovani. Amalia rappresenta così un modello di
New Woman ante litteram, pur non possedendone alcuna caratteristica.

4. Elvira Notari, regista napoletana Il successo di Elvira Notari, ben iscritto nella tradizione
napoletana, raccoglie consensi in tutto il Meridione, mentre non si può dire lo stesso del Nord Italia.
I film sono pervasi degli stessi temi (amore, tradimento, passione e onore) e i personaggi sono fissi,
spesso interpretati dagli stessi attori. La dimensione degli scenari è molto arcaica: solo la vecchia
madre è connotata in modo positivo e amata quasi al limite della venerazione dal figlio minore
Gennariello, mentre il maggiore Tore diventa un perdigiorno in seguito alle avances di una giovane
donna a cui viene data tutta la colpa della sventura famigliare. Ciò non è molto distante da quello
che avvenne quando il figlio della Notari, Eduardo, divenne oggetto di corteggiamenti. La regista,
che non era mai stata una femminista, con l’avanzare dell’età divenne una moralista ferrea e
bigotta. Se in pubblico la Notari è definibile come una donna moderna, lo stesso non si può dire
della sua sfera privata. Il ruolo della donna nei film di Notari si riduce a quello della madre
accentratrice o a quello della vamp traditrice: non esiste una via di mezzo e alcun segno di
modernità. Lo scenario famigliare è inoltre incompleto, in quanto manca di una figura paterna. In È
piccerella (1922) Tore si innamora di Margaretella, una vamp interessata solo ai regali di lusso, e
per lei rovina la famiglia. In ‘A Santanotte Tore si innamora di Nanninella, come anche il suo
migliore amico Carluccio, che è in combutta con il padre della giovane. Quando l’uomo muore
accidentalmente, Carluccio incolpa Tore e lo fa arrestare; nel frattempo Nanninella prima sposa
Carluccio e poi scopre l’innocenza di
Tore. La ragazza morirà tra le braccia di Tore in seguito alla confessione del misfatto da parte di
Carluccio. Fantasia ‘e surdate (1927) è invece ambientato a Roma. Giggi, dopo la straziante fine
di un amore, incontra un’altra ragazza e se ne innamora; tuttavia anche in questo caso la giovane lo
usa soltanto per i suoi soldi, e ciò lo porta al suicidio. La ragazza accusa il fratello di lui,
Gennariello, della morte di Giggi, così il ragazzo prima va in carcere e poi in guerra. Tuttavia alla
fine la ragazza rivela tutto alla polizia e si riappacifica con la vecchia madre. Il melodramma è stato
inserito nella tradizione teatrale e cinematografica come un genere in cui si evince una critica dei
valori borghesi; ciò è quel che proprio manca nella filmografia di Elvira Notari, a causa
dell’assenza di qualsiasi elemento “trasformativo”, in quanto tutto è ambientato in una Napoli
eterna, senza tempo ma comunque arcaica e immune al cambiamento; in uno scenario simile, è
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normale che le possibilità di cambiamento per la donna siano assenti e, laddove presenti, viste come
un pericolo.

V Il cinema d’avanguardia e le forme del desiderio femminile

Il cinema d’avanguardia ha sempre avuto tra le sue fila un grandissimo numero di registe donne,
specialmente negli anni ’70. Fin dall’Ottocento con “avanguardia” si intendeva il sovvertimento
dell’ordine costituito e il perseguimento di nuovi orizzonti di libertà e di creatività.

1. Le prime avanguardiste: Germaine Dulac e Maya Deren Queste due registe lavorano nel
campo dell’inconscio, dell’ignoto, dell’assurdo: la loro estetica è quindi in linea con il surrealismo;
il fulcro del racconto invece è il desiderio femminile e il ruolo della donna nel circuito del desiderio
eterosessuale. Germaine Dulac fonde in modo esemplare il modello narrativo con quello della
sperimentazione tecnica, al fine di rendere al meglio l’esperienza psicologica femminile attraverso
tutti i suoi stadi emotivi. La donna rappresentata è sempre una donna moderna, spesso confrontata
con una di campagna, e la regista prende le parti della prima. In La Souriante Mme Beudet (1923)
le strategie dello sguardo ci permettono una piena identificazione con la protagonista, annoiata e
disgustata dal marito, che rimane inconsapevole del fatto e non viene mai mostrato come un
soggetto attivo; quando abbraccia la moglie, questa rivolge alla macchina da presa uno sguardo di
aiuto, che la spettatrice non può che osservare con un’empatica impotenza. In La coquille et le
clergyman (1928) la mascolinità è rappresentata come goffa (il clergyman), priva di qualsiasi
attrattiva erotica (il generale) e dunque inadeguata all’eleganza femminile. La donna protagonista
inizialmente è accompagnata dal generale, ma poi inizierà una danza frenetica di inseguimenti
durante la quale il clergyman tenterà di sedurla, il tutto in una dimensione inconscia ed onirica che
fa da cornice ad una ricerca dell’identità vera e propria da parte del giovane. Quando questi spia la
coppia, si può ricondurre al bambino che spia il coito parentale, e l’unione matrimoniale invece alla
corretta mascolinità ritrovata, in cui all’amore per la madre si sostituisce finalmente quello per una
donna. Il film non permette comunque di identificarsi con alcun personaggio in quanto è appunto
costruito come un sogno: lo spettatore è così chiamato ad identificarsi con tutti i fantasmi del film,
pur rimanendo la donna il centro del desiderio. Rielaborando il tutto in chiave psicologica ed
onirica, la donna incarna la possibilità stessa del desiderio, e il fallimento del clergyman altro non è
che il fallimento della mascolinità e dell’eterosessualità.

Maya Deren ha ispirato l’avanguardia americana postbellica e il New American Cinema degli anni
’60, basato sulla sperimentazione tecnica, a seguito del budget molto ridotto, e sulla completa
espressione creativa dell’autore. Questo cinema del tutto personale rielabora gli aspetti della
psicologia e della memoria, dell’indagine intimistica, poiché è molto personale e autobiografico.
Meshes of the Afternoon (1943) vede come protagonista la regista stessa, che interpreta una donna
che si addormenta su una poltrona e intraprende una sorta di viaggio onirico in cui il suo io si
moltiplica: il film inizia infatti con inquadrature frammentate del corpo della protagonista, e nel
sogno vede se stessa inseguire una figura con lo specchio al posto del volto, a simboleggiare la
propria ricerca dell’identità. Il sogno termina quando il marito sveglia la protagonista ed incombe su
di lei, quasi minaccioso. La donna, che fino a quel momento aveva avuto il controllo, seppur in una
dimensione onirica, adesso sembra averlo perso; il marito la riconduce in camera da letto e sembra
aver ristabilito il dominio del maschile sul femmine, finché la donna non cerca di aggredirlo con un
coltello: il suo volto si trasforma in uno specchio in frantumi. La donna ha così distrutto l’uomo,
andando “fuori di sé per controllare il proprio io”, ma ciò la porterà alla morte. La donna può
intraprendere la ricerca di sé soltanto in una dimensione onirica, che evade il quotidiano, e in
assenza di un compagno, all’interno di quelle mura domestiche che rappresentano sia la
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sottomissione che l’evasione. Tutto nel film riconduce ad un’iconografia erotica: le porte aperte e
chiuse e la serratura, le scale riprese tramite inquadrature estreme. Si può dire che il film sia un
melodramma ed un noir, per l’elemento domestico della casa e per quello della forte illuminazione
contrastante. La ricerca di autonomia e di identità non patriarcali saranno alla base del women’s
cinema degli anni ’70.

2. Il women’s cinema e il movimento femminista

Questo nuovo tipo di cinema, in linea con il movimento femminista, si fa carico di sperimentare
nuove tecniche cinematografiche promuovendo la soggettività femminile, in grado di essere
compreso e realizzato indistintamente da critiche, teoriche e cineaste. In questo frangente si
inquadrano la feminist avant-garde e il documentario. Nella prima prevalgono narrazione e
sperimentazione, analizzate sotto la lente teorica-femminista, in cui la donna è l’agente principale e
attivo che costruisce traiettorie femminili deostruendo però le strutture narrative tradizionali e
formali. In quest’ottica possiamo dunque inquadrare due sottogeneri della feminist avant-garde:
l’écriture féminine (Chantal Akerman) e la decostruzione e l’autoriflessività delle norme
stabilite (Laura Mulvey). Nel documentario invece non troviamo lo stesso apprezzamento, in
quanto è più realista; tuttavia rende in pieno il concetto di soggettività e di identificazione della
spettatrice, rendendo in questo modo il genere simile al cinema narrativo dominante.

3. L’écriture féminine di Chantal Akerman Ogni azione femminista parte dalla pratica
dell’autocoscienza: gruppi di donne che si riuniscono e parlano delle proprie esperienze,
confrontandosi. In questa pratica, in cui si discute riguardo l’essere donne da parte delle stesse, è
escluso il maschio e quindi c’è una tensione maggiore a voler evidenziare la differenza di genere
piuttosto che l’uguaglianza. In quest’ottica allora si può anche evidenziare la differenza maschile e
femminile in relazione agli stili e alle forme artistiche. L’écriture féminine rifiuta le regole della
sintassi; Hélène Cixous l’ha paragonata alla soggettività del desiderio, che nel caso femminile è
bisessuale (cosa che il maschile non fa, anzi va a ricercare conflitto e appropriazione dell’altro).
Cixous fonde scrittura filosofica e creativa, criticando il sistema dominante e le sue rigide regole e
affermando allo stesso tempo una scrittura libera come lo è il desiderio liberato dall’opposizione
maschile-femminile. Il desiderio di Cixous, quindi, da una parte si appropria del canone occidentale
svelandone il fallocentrismo e dall’altra iscrive una nuova pratica del desiderio. Il cinema di
Akerman agisce più o meno nella stessa maniera, riaffermando il corpo femminile e la sua
materialità. La performance del soggetto, che può inscriversi nel rapporto madre-figlia ma anche
nell’omosessualità, altro non è che una ricerca dell’identità. Questa ricerca permette alla
protagonista di interrogare cliché sulla donna e su tutto ciò che riguarda lei e il suo corpo.
Decostruendo immagini e significati socialmente codificati, la Akerman fa emergere nuovi modelli
di identità possibili. Le riprese lunghe e minimaliste dilatano il tempo e la parola diventa uno
strumento autonomo rispetto all’immagine: questi fattori pongono lo spettatore di fronte al film, in
modo da non dimenticare sé stesso e soprattutto da attivare i meccanismi del pensiero.

4. Il cinema teorico-decostruttivo di Laura Mulvey Il film di Laura Mulvey Riddles of the


Sphinx (1977) inizia con un prologo in cui vede una Sfinge dimenticata, alternata ad immagini di
Laura Mulvey che afferma che la donna è, per il patriarcato, l’equivalente di una Sfinge, con tutti i
suoi enigmi e minacce. Il patriarcato tenderà sempre a soffocare la Sfinge, che può solo esprimersi
con una voce off. Questo prologo, che tornerà nell’epilogo, fa da sfondo alla storia centrale, ovvero
“Louise’s story told in thirteen shots”: il rapporto tra Louise e la sua figlioletta Anna, a cui è tanto
attaccata da rifiutare il mondo esterno e da perdere il compagno. Louise deve quindi trovarsi un
lavoro e portare la bimba all’asilo, dove conosce Maxine, che diventa sua amica. Louise cerca di
convincere il sindacato ad aprire un asilo nel posto in cui lavora e, nella scena 10, si reca dalla
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madre con Maxine e insieme hanno un dialogo, da cui gli uomini sono esclusi (in queste scene si dà
molta attenzione alle politiche sociali). La Mulvey utilizza moltissime panoramiche a 360° che
servono, come da lei precedentemente teorizzato, ad eliminare il piacere visivo per ciò che si sta
guardando. Secondo il film, in sostanza, lavoro e maternità sono incompatibili, a causa di una
dinamica patriarcale che la piccola Anna cerca di risolvere nel finale del film, quando si trova con
Louise nella sala egiziana del British Museum e parla in voice over. Dapprima la bambina si
esprime attraverso la logica patriarcale, ma poi riesce a sentire la voce della Sfinge e a capire
finalmente il significato della condizione femminile: i sacrifici della mamma le hanno senza dubbio
aperto la strada verso la libertà e l’emancipazione.

5. Il documentario sperimentale di Michelle Citron e Alina Marazzi

Michelle Citron in Daughter Rite (1978) riesce a combinare la pratica documentaristica con quella
avanguardistica, così da trovare una mediazione apprezzabile anche dalla FFT. L’uso del found
footage lo lega al film di Alina Marazzi Un’ora sola ti vorrei (2002), molto legato al cinema
femminista e al femminismo degli anni ’70. Ma ciò che lega di più entrambe le opere è l’uso di
home videos, il legame madre-figlia e l’autobiografismo, visto che la storia è raccontata dalla
cineasta, e inevitabilmente il voice over a raccontare le immagini. In Daughter Rite si alternano
piccoli momenti ripresi in home videos, in cui vediamo Michelle e la sorella da bambine insieme
alla madre (è il padre che filma e quindi ha, in qualche modo, il controllo totale su ciò che decide di
riprendere e quindi di mostrare), e un documentario, che si scoprirà poi fittizio, di due (non) sorelle,
Stephanie e Maggie, che conversano riguardo la madre, attaccandola anche pesantemente e
prendendola in giro. Nel primo materiale, quello degli home videos, ci vengono offerte non
memorie delle bambine, ma piuttosto memorie di quel genitore che stava filmando. Le scene
vengono ripetute e rallentate, specialmente quelle delle camminate, così da denaturalizzare il
movimento e il momento famigliare, al fine di concentrarsi su come la postura e la camminata
femminile siano il risultato di apprendimento. Su queste immagini la regista sovrappone la propria
voce e parla del suo attuale rapporto con la madre. La messa in scena del secondo tipo di materiale
è svelata quando le due “sorelle” sono riprese a conversare in modo intimo, diverso da quando, di
fronte alla macchina da presa, parlavano del loro rapporto con la madre; siamo legittimati a credere,
quindi, che tutto ciò che verrà dopo questo cambio di registro sia stato inventato. Il lavoro di Citron
sta nel prendere ciò che è effettivamente documentario, gli home movies, e rielaborarlo in maniera
tale che sembri un prodotto avanguardistico, e mostrare che ciò che invece sembra un vero
documentario è in realtà finzione. Per la regista non esiste quindi una differenza antologica con il
cinema di finzione. Nell’episodio delle due sorelle si vuole evidenziare come amare la propria
madre voglia dire, per una figlia, essere già fuori dal patriarcato; nell’episodio dei video di Michelle
bambina, questa afferma come riesca a comprendere la madre, in quanto le libertà portate dal
movimento femminista potevano essere colte soltanto da generazioni diverse di donne. Tra madre e
figlia c’è sì una distanza intellettuale ma un’assoluta vicinanza affettiva. La madre di Michelle si
esaurisce solo nel proprio ruolo di genitrice, e si potrebbe pensare che lo stesso destino è riservato
alle figlie, ma già il fatto che la Citron si sia affermata come regista fa intendere che è anche altro; il
making del film comunque avviene quando la madre si separa dal padre, e adesso è visibile anche in
quanto donna.

In Un’ora sola ti vorrei Alina Marazzi riscopre l’identità della madre, Liseli Hoepli, morta suicida a
33 anni quando la regista era una bambina; attraverso una serie di home videos riscopre la madre e

quasi crea il rapporto che avrebbero potuto avere. L’azione della regista infatti non riscopre il
passato, ma lo crea, ed è ovviamente molto parziale poiché la figlia-cineasta rielabora i materiali di
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chi davvero ha vissuto sua madre e la sua persona. Tuttavia non manca di dare giudizi e attribuire le
dovute colpe ai genitori di Liseli, colpevoli di aver sottovalutato le condizioni della sua malattia
mentale e di averla quindi condotta al suicidio. Se infatti le immagini della prima parte del film
sono filmati, anche molto vecchi, della ricca famiglia Hoepli, la voice over di Alina legge ed
interpreta i diari della madre, che critica quel mondo in cui è nata e cresciuta; ciò contribuisce a
decostruire le immagini che vediamo, specialmente verso la fine, in cui agli home videos della
nuova vita di Liseli (quella di donna sposata) si sovrappongono i passi del diario in cui la donna non
vede possibilità di guarigione e incolpa il padre di non capirla, poiché considera la sua malattia “un
capriccio”. La donna è una vera e propria vittima del sistema patriarcale. La voice over è enunciata
attraverso una lettera che la Marazzi scrive in prima persona ma fingendo di essere sua madre, in
modo da creare quel rapporto che non hanno mai potuto avere.

6. Il cinema lesbico e i Dunyementaries di Cheryl Dunye Tra gli anni ’70 e ’80 la sessualità
lesbica assume una componente significativa soprattutto nel New American Cinema, di cui la
pioniera è Barbara Hammer, che cerca di mostrare l’omosessualità femminile privandola di tutti i
fronzoli erotico-patriarcali. Nei suoi film la Hammer si riappropria del matriarcato e crea analogie
tra immagini della natura e parti del corpo femminile. Susan Friedrich occupa un ruolo altrettanto
importante; la sua mescolanza di materiali serve ad unire il registro emotivo con quello intellettuale.
Damned If You Don’t (1987) racconta di una

ragazza innamorata di una suora, finché non si uniscono in un rapporto, e in generale si occupa di
analizzare il desiderio sessuale all’interno delle comunità religiose cattoliche, sempre con
l’attenzione volta a non rendere le immagini pornografiche. Affrontando queste tematiche è bene
anche tener conto della nazionalità delle registe, che ci aiuta a comprendere come la sessualità viene
affrontata di paese in paese. La differenza tra donne, specie in campo etnico, viene affrontata da
Lizzie Borden nel film Born in Flames(1983), in cui viene mostrata l’invisibilità delle donne nere
nel cinema delle registe bianche; l’opera riflette anche sul fatto che ogni caratteristica femminile,
passando dalle più piccole alle più evidenti, come ad esempio il colore della pelle, contribuisce a
rendere ogni donna unica e diversa dall’altra: le differenze tra donne sono quindi differenze nelle
donne. La donna è di per sé un luogo di differenze e un soggetto sociale. Un caso sperimentale in tal
senso è The Watermelon Woman (1996) di Cheryl Dunye; è un film autobiografico, in cui la regista
si riprende nella sua esperienza nel tentativo di diventare filmaker. Al contempo effettua una ricerca
su questa fantomatica Watermelon Woman, un’attrice afroamericana degli anni ’30 mai accreditata,
che man mano si scopre sempre più simile alla protagonista (per etnia, esperienze ed orientamento
sessuale); tuttavia il motivo per il quale questa attrice non è mai stata riconosciuta è perché non è
mai esistita: la regista ha creato ad hoc tutti i documenti in cui è presente e li ha manipolati per
renderli il più simile possibile a quelli degli anni ’30. Il Dunyementary è un genere cinematografico
autobiografico, di finzione e umoristico in chiave sperimentale e si concentra, come possiamo
capire dal nome, sulla ricerca che la regista compie su sé stessa, analizzando la propria soggettività
in continua trasformazione.

VI Il cinema narrativo dalla classicità al World Cinemacontemporaneo

Ogni forma filmica si è sempre sviluppata in relazione al contesto economico, e notiamo già ad una
prima e superficiale occhiata che le donne hanno avuto successo laddove il capitale era ridotto. È
con le Nouvelle Vagues che le donne iniziano ad inserirsi al meglio nel contesto cinematografico, e
tra gli anni ’80 e gli anni ’90 si forma un nuovo women’s cinema che trova il suo successo nel
circuito indipendente e dei festival come il Sundance: si tratta di un cinema narrativo e al contempo
autotriale che predilige storie di marginalità.
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1. La regia femminile nel cinema classico americano: Dorothy Azner e Ida Lupino Anche
nelle forme narrative del cinema più “tradizionale si è affrontato il tema del desiderio, della
sessualità e dell’identità. Quando esce Ragazze in uniforme (1931), considerato il primo film
lesbico, Dorothy Azner ha già diretto numerosi film, concentrati praticamente sempre su figure
femminili poco inclini al compromesso patriarcale; utilizza degli espedienti invisibili ma che
attirano l’attenzione della spettatrice, come in Dance, Girl, Dance (1940), in cui la performer Judy,
che teoricamente dovrebbe essere solo oggetto di sguardo, nel finale grida alla platea tutto il suo
disprezzo. Judy sovverte tutto ciò che aveva teorizzato Laura Mulvey, e si appropria di prerogative
prettamente maschili aggredendo al contempo il pubblico diegetico e quello extradiegetico. Nel
cinema di Arzner le donne rispondono in maniera trasgressiva all’ordine patriarcale, ma per
affermare la propria indipendenza non cercano di creare un nuovo ordine, quanto piuttosto cercano
di affermarsi sovvertendo il maschile e riscrivendolo. Il problema del desiderio femminile è
centrale, e si ottiene cercando di contrastare il patriarcato. Non è possibile un’identificazione con la
protagonista, in quanto si mettono in moto una serie di dinamiche che tendono a far comprendere la
questione portata sullo schermo piuttosto che la protagonista in sé; ed è proprio il processo di
comprensione che si attiva, invece che quello di identificazione.

Per quanto riguarda Ida Lupino, le sue opere sono definite social problem melodramas, in quanto
erano una commistione di generi ed affrontavano tematiche molto forti (come la violenza sessuale,
la disabilità, la bigamia ecc.): spesso la figura del veterano che tornava dalla guerra menomato nel
corpo e/o nella mente era al centro dei suoi film, e solitamente questo disagio sfociava nella
violenza sessuale.

La preda della belva (1950) presenta tre tipi di mascolinità storicamente connotati, e dunque tre tipi
di rapporto uomo-donna in cui incappa la protagonista Ann, che viene violentata e rivive il trauma
passato ad una festa. Lo stupratore viene connotato in maniera negativa e il film se ne distanzia, ma
le sue azioni deplorevoli vengono attribuite ai traumi subiti in guerra: la causa della barbarie non è
dunque da imputare all’uomo, ma proprio al conflitto bellico, che è una agency al di fuori della
soggettività maschile. Tuttavia l’esperienza di Ann non viene mai messa in dubbio, ma anzi la
spettatrice si immedesima con lei quando, alla festa, Frank Marini tenta un approccio fisico e di
baciarla nonostante i suoi rifiuti, e ciò è paragonabile alla violenza passata. Bruce invece, colui che
difende Ann e la risolleva dal trauma subito, rappresenta le caratteristiche dell’uomo perfetto meno
che quella erotica; la sua sessualità non fallica sarebbe preferibile alle relazioni di potere
eterosessuali insite nel matrimonio e nello stupro [Pam Cook]. Consapevole che Ann ha un
fidanzato, Bruce si “sacrifica” per lasciare che la ragazza torni da lui.

2. Le registe delle Nouvelle Vagues europee: Agnès Varda e Vêra Chytilová Il women’s
cinema che si sviluppa negli anni ’60 è innanzitutto differente l’uno dall’altro a causa della
nazionalità delle registe, che però trattano storie femminili in relazione al desiderio e alla sessualità,
pur impiegano tecniche tipicamente maschili. Per analizzare la filmografia di Agnès Varda e
cercare di capire come questa si muova dietro la macchina da presa occorre concentrarci su Cléo de
5 à 7 (1961), che narra due ore nella vita di Cleo, una giovane cantante che aspetta la diagnosi di un
cancro. In questo lasso di tempo la vediamo vivere la sua vita a Parigi, impegnata in diverse attività.
Proprio il fatto di riprendere la città ha una forte vena documentaristica, e alla capitale francese la
regista aveva già dedicato due documentari, girati quando era incinta. Il punto di vista è quello di
una donna gravida, segnata dalla fatica e da un forte bagaglio emotivo. In Cléo la componente
documentaristica si fonde con quella di finzione. La problematica centrale del film è la questione di
Cleo, in quanto donna, come immagine: la ragazza si trasforma da donna-spettacolo, quando
compie azioni civettuole e superficiali (come specchiarsi nelle vetrine dei negozi), a soggetto attivo,
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appropriandosi dello sguardo e iniziando ad essere lei l’agente del controllo. L’aspetto più
superficiale di Cleo si pone nella prima parte del film, quando la ragazza utilizza la sua bellezza
come un antidoto alla malattia (e la regista la esalta: ad esempio, le passeggiate di Cleo sono riprese
in lunghissimi carrelli); ma nella seconda parte, Cleo prima non viene riconosciuta quando inserisce
una sua canzone nel jukebox, e poi le si rompe uno specchietto da borsetta. Ciò che in questo caso
preoccupa Cleo non è il fatto di non potersi più ammirare, ma la superstizione insita nello specchio
rotto. Quando il tempo per venire a conoscenza della diagnosi è prossimo, Cleo incontra un soldato
in procinto di partire per l’Algeria; entrambi accomunati da un probabile destino di morte, i due si
avviano insieme a ritirare le analisi della ragazza, che potrà guarire in un paio di mesi. Dopo la
diagnosi, Cleo afferma di sentirsi felice, nonostante dovrà affrontare un periodo di radioterapia.
L’esperienza che l’ha avvicinata alla morte l’ha anche cambiata, rendendola finalmente autentica.

Il cinema di Vêra Chytilová si sviluppa in una dimensione completamente diversa, complice anche
l’invasione sovietica del 1968, evento di cui risentirà anche la sua biografia artistica. La regista
esordisce nel 1961 con Strop, in cui si racconta la vita di una giovane modella, professione di cui si
mostrano soltanto i lati negativi; il film si conclude con una sequenza astratta che ricorda la
camminata di Jeanne Moreau in La notte e il finale di L’eclisse, in cui il corpo della protagonista
diventa un elemento formale dell’inquadratura. In Qualcosa d’altro (1963) si confrontano le vite di
due donne molto diverse tra loro, e questo tipo di indagine torna in Le margheritine (1966). Le
adolescenti Maria I e Maria II si propongono di fare atti rivoluzionari contro un mondo deteriorato
che non capisce nulla e non capisce loro, esprimendosi in termini e obbiettivi tipicamente dada. Le
due non sono dotate di interiorità in quanto hanno sembianze e movimenti di bambole. Gli atti
rivoluzionari delle due protagoniste sono più performance che necessità di sovvertire l’ordine
affinché vengano notate, e proprio il fatto che le ragazze si esibiscano in performance aiuta ad
affermare il femminile, poiché un’opera è riconosciuta indipendentemente da chi l’ha realizzata; è
la performance a costruire l’identità, e non il contrario. I sistemi di codificazione costantemente
messi in discussione sono la sessualità e le regole a tavola: le ragazze infatti, in cambio di cene
gratis, promettono a uomini adulti e sposati un

rapporto sessuale a fine serata. Una delle due esce a cena e poi l’altra si unisce al tavolo ed inizia ad
ordinare ciò che vuole, e alla fine nessuna delle due dà all’uomo ciò che gli era stato promesso. La
scena che viene offerta ai nostri occhi è senza dubbio comica. Quesi episodi del cibo si ricollegano
al tragico epilogo: le ragazze distruggono con estrema violenza un banchetto e nel frattempo si
cibano degli stessi pasti; alla fine dell’ennesimo atto distruttivo le ragazze decidono di cambiare
vita, assumendo un atteggiamento costruttivo. Ironia della sorte, il pesante lampadario sopra di loro
si stacca dal soffitto e le schiaccia, uccidendole sul colpo.

3. Il cinema indipendente americano e le pratiche dell’identità Le questioni dell’identità


attirano l’attenzione dei distributori ai festival, poiché solitamente sono trattate in film indipendenti.
Ora la questione femminile non è più trattata in termini universali ma si prediligono le esperienze
individuali di donne appartenenti a classi sociali, etnie e orientamenti sessuali diversi. Queste
caratteristiche spesso sono parte integrante anche della regista stessa. La comunità di appartenenza
delle protagoniste di un film è il primo pubblico di riferimento del prodotto, e la diffusione nei
festival e nelle sale contribuisce a diffondere quella cultura.

True Love è la storia di Donna e Mike, due italoamericani in procinto di sposarsi. Il loro mondo è
chiuso in una comunità in cui tutti si conoscono e che non lascia spazio alle “contaminazioni”
esterne; nulla cambia, tutto è statico e claustrofobico, ed è ciò che ritroverà Donna nella propria
vita. Mike ha deciso che vuole passare la prima notte di nozze con i suoi amici e lei è distrutta dal
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dolore, tanto che si rintana a piangere in bagno, circondata dalle sue amiche. Questo spazio angusto
in cui si consuma la sofferenza della protagonista sembra una scatola dalla quale non si può uscire,
ed effettivamente Donna non vede alcuna identità per se stessa fuori dal matrimonio, mentre Mike
lo ritiene uno scenario insoddisfacente. Questa condizione è espressa anche grazie al montaggio
alternato, in cui le scene femminili sono ambientate sempre tra le mura domestiche e quelle
maschili in luoghi d’incontro come il bar o il luogo di lavoro. La protagonista non ha comunque
alcuna intenzione di cambiare il suo destino, perché senza di esso si sentirebbe insoddisfatta, anche
a causa della presenza ossessiva della famiglia e della comunità. Donna non avrà alcun momento di
evasione, se non quelli in cui si trova con le amiche, dal momento in cui sembra che il divertimento
possa essere garantito solo se in presenza dello stesso sesso.

Nel deserto di laramie affronta la storia di una madre bianca e delle sue due figlie in una
comunità di chicani in New Mexico. La famiglia vive in condizioni povere ma dignitosamente in
una roulotte ed è considerata dai chicani “white trash”, spazzatura bianca. La figlia maggiore,
Trudi, ha subito una violenza sessuale in passato, ed in qualche modo esorcizza il dolore con la
promiscuità. La madre è single, in quanto abbandonata dal marito dopo aver partorito le figlie.
Shade, la figlia più piccola e punto di vista della storia, cerca di liberarsi dalla monotonia della vita
a Laramie andando al cinema, dove hanno luogo le sue ispirazioni più importanti, di cui ci informa
attraverso la voice over. Decide infatti che è ora che la madre si trovi un uomo, mentre lei vuole
mettersi alla ricerca del padre. Nel finale Shade trova finalmente ragazzo stabile, un giovane
chicano, mentre la vita della madre e della sorella rimane la stessa; ciò è simbolo del fatto che la
cultura messicana è più radicata rispetto a quella yankee, che invece è dominata dalla fugacità.

Go Fish è il film che dà ufficialmente inizio alla nuova ondata di New Lesbian film di metà anni
’90, oltre ad essere uno dei più importanti in termini di New Queer Cinema. I film appartenenti a
questa corrente utilizzano una forte ironia ed irriverenza, e si propongono di trattare la sessualità
come qualcosa di mobile, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale ed identità di
genere. Tuttavia molti studiosi si sentono ancora in difficoltà ad inserire il cinema lesbico nella
corrente del New Queer Cinema, in quanto ha trattato in gran parte traiettorie maschili, ma in questo
senso specifico è utile dal momento in cui mette in discussione la separazione tra cinema narrativo,
sperimentale e documentario. L’ironia la fa da padrona in Go Fish, in cui l’identità lesbica è la
normalità ed è ormai un tratto caratteristico del gruppo di amiche protagoniste, le quali non sono più
alle prese con i problemi relativi al coming out ma si concentrano sulle loro relazioni e uscite. La
collettività è un punto

fermo e fondamentale in Go Fish, in quanto le scelte vanno prese in relazione alla comunità e non
individualmente, così come i problemi e le gioie vanno rispettivamente affrontati e condivise in
gruppo, la cui forza sta anche nella diversità etnica delle amiche. Importanza è data alla sessualità e
ai look che caratterizzano le protagoniste.

4. Women’s cinema/World Cinema: il caso delle registe del Mediterraneo Se consideriamo il


women’s cinema contemporaneo al World Cinema saremo in grado di creare una geografia
transnazionale di legami e connessioni. Il cinema delle donne non racconta mai una storia
individuale, ma abbraccia un gruppo di esperienze in cui chiunque riesce a riconoscersi a dispetto
proprio dei confini geografici, in cui nessuna donna è a casa propria a causa di una serie di
tradizioni e retaggi culturali propri del paese in cui è nata e vive. Questi film raccontano dunque di
donne alle prese sia con la propria identità culturale sia delle problematiche ad essa collegate.
Spesso la protagonista non è singola, ma c’è un gruppo di amiche che diventano tali nonostante le
loro differenze etniche, sociali e culturali. Questa interpretazione è utile per raccontare il rapporto
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problematico tra Oriente e Occidente, in quanto nei film appartenenti alla corrente le differenze non
sono mai motivo di distacco, ma anzi uniscono le donne e le aiutano nella strada verso
l’emancipazione. Questi rapporti sono in conflitto con quelli maschili, volti di più ad un contatto dal
punto di vista politico, privo però di quell’emotività tipica dei rapporti femminili in cui,
difficilmente, si potrà cambiare qualcosa nel senso più ampio del termine. In Il canto della sposa
(2008), ambientato a Tunisi nel 1942, troviamo le due amiche Nour e Mariam: la prima è
musulmana, la seconda ebrea. Nonostante ciò le due ragazze diventano amiche e rimangono tali
anche quando vengono applicate le leggi razziali e la città viene invasa dai nazisti. L’amicizia delle
ragazze viene analizzata anche in relazione alle strutture simboliche delle rispettive culture di
appartenenza: Nour non va a scuola, ma ha potuto scegliersi un ragazzo di cui è davvero innamorata
e al quale si ribella quando vorrebbe intimarle di non frequentare più Myriam la quale, al contrario,
va a scuola ed è stata promessa in sposa ad un uomo ricco, molto più vecchio di lei, al fine di una
convenienza economica per la famiglia. Caramel (2007) si svolge invece prevalentemente
all’interno di un centro estetico di Beirut, in cui veniamo a conoscenza dell’amicizia e delle
dinamiche interpersonali - e sessuali - delle cinque protagoniste, tutte diverse tra loro per i
parametri citati in precedenza. Il salone di bellezza rappresenta quasi la roccaforte del gruppo di
amiche, oltre all’unico luogo di evasione dalle costrizioni famigliari e dai soprusi delle autorità. Le
ragazze si consigliano e prendono decisioni insieme, e hanno come unico fine il benessere l’una
dell’altra. Agiscono con astuzia, grazie alla quale è possibile aggirare sia gli uomini sia la leggere. E
infatti alla forza delle donne si contrappone la debolezza maschile: l’amante della cristiana Layale
non ci viene mai mostrato, il fidanzato della musulmana Nisrine non agisce con astuzia. L’unico ad
essere connotato in maniera positiva è il poliziotto di quartiere, da tempo innamorato di Layale, la
quale, prima di accettarlo come proprio possibile fidanzato, lo sottopone ad un processo di
“devirilizzazione”, facendogli una ceretta completa su tutto il corpo. Un ulteriore esempio di
emancipazione si trova nell’episodio in cui la cliente dai bellissimi e lunghi capelli neri di cui è
innamorata Rima entra nel salone per farsi un taglio a caschetto. Ciò potrebbe stare ad implicare
una futura e probabile relazione tra le due. Il film in definitiva tende a smascherare i modelli di
comportamento patriarcali occidentali e orientali.

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