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Morto Romero Salgari, l’ultimo discendente del grande

scrittore. Con lui si chiude la storia tragica di una


famiglia disseminata di suicidi e follie
Con lui si chiude la storia tragica di una famiglia cominciata negli splendori
vittoriani della Belle Époque
PIERANGELO SAPEGNO
13 Dicembre 2022 Aggiornato alle 10:243 minuti di lettura
È morto Romero Salgari, l’ultimo discendente che portava il cognome
del grande scrittore. Con lui si chiude la storia tragica di una famiglia,
disseminata di suicidi e follie, cominciata negli splendori vittoriani
della Belle Époque con la grande e irresistibile passione che aveva legato
insieme un geniale romanziere squattrinato, inventore dei personaggi di
Sandokan e del Corsaro Nero, e Ida Peruzzi, attrice di qualche successo che
aveva deciso di abbandonare le scene per amore. Avevano fatto 4 figli dai nomi
esotici (Fatima, Omar, Nadir, Romero) e nelle domeniche libere andavano tutti
insieme a passeggiare col cestino da picnic in mano sulle colline sopra la casa
dove abitavano a Torino, come una famiglia felice, prima che la follia di lei
rendesse lui prigioniero di un contratto capestro e di giorni disperati,
consumati tutti per evitare che Ida potesse finire in manicomio.

Emilio Salgari si uccise il 25 aprile del 1911, una mattina di sole: uscì dalla sua
casa di corso Casale 205 dopo aver salutato i figli, salì alla Madonna del Pilone
e da lì tagliò per i prati fino a una impervia radura schermata dagli alberi e
dagli arbusti, fermandosi ai limiti di un crepaccio. Con un rasoio si squarciò il
corpo e si tagliò la gola, poi precipitò nel burrone. Aveva lasciato tre lettere.
Una ai suoi editori, «a voi che vi siete arricchiti sulla mia pelle. Vi saluto
spezzando la penna». E le altre ai figli spiegando che la follia della mamma gli
aveva tolto tutte le energie e consumato il cuore. Senza più lui a proteggerla, il
medico decise il ricovero in manicomio per Ida. Lei aveva amato Emilio sino
alla pazzia e lui aveva amato lei sino alla morte.

Al bivio della vita, il destino ormai aveva preso la strada sbagliata. Ida passò il
resto dei suoi anni in manicomio e uscì nel 1922 solo il giorno prima della sua
morte, una domenica di sole come quelle che passavano seduti sui prati a fare il
picnic guardando Torino distesa sotto le colline. L’ultimo referto clinico è del
29 maggio 1922: la malata è molto triste e soffre per un carcinoma. Qualche
anno prima, nel 1914, aveva perso la figlia più grande, Fatima, uccisa ad appena
24 anni dalla tubercolosi. Quel dolore l’aveva piegata ancora di più assieme ai
ricordi. Non è giusto che finisca così un grande amore, aveva detto a suo marito
quando aveva tentato la prima volta di togliersi la vita con la spada. La notte,
prima di addormentarsi, lei gli chiedeva di raccontare come tutto era
cominciato. Emilio l’aveva vista a teatro e ne era rimasto folgorato: vergava
lettere d’amore come un pirata malese, dicendo che lei era la sua eroina. «Mi
ricordo che eravamo stretti insieme, ansanti, febbricitanti, entrambi deliranti
d’amore», le scrisse anche negli ultimi giorni per rammentare la loro prima
volta. Dopo la morte di Ida, questa storia tragica sembra non doversi fermare
più. Un altro figlio, Romero, finisce suicida come il padre, nel 1931, dopo aver
cercato di assassinare la moglie, il figlio Mimmo e il cognato. Nadir muore in un
incidente in moto nel 1957. E l’ultimo figlio superstite, Omar, si toglie anche lui
la vita, nel 1963.

Mimmo, miracolosamente sopravvissuto alla follia del genitore, ha finalmente


una esistenza normale, si sposa e si trasferisce nel paese del Roero. Ha due figli:
Romero junior e Patrizia. Ma la maledizione sembra non sia ancora finita: nel
1984, quando ha 24 anni, il giovane Romero finisce sulle pagine della cronaca
per l’omicidio di una postina in pensione, Lucia Valsania. E’ un delitto assurdo,
dopo il quale anche lui tenta il suicidio. Viene riconosciuto infermo di mente e
internato per alcuni anni. Poi torna a vivere a Montà d’Alba, Cuneo, assieme
alla madre. Con la sorella, mancata nel 2008 per un male incurabile, si dedica a
tener viva la memoria del bisnonno. Nella lettera d’addio lasciata ai figli,
Emilio Salgari aveva scritto: «Spero che i milioni di ammiratori e lettori che ho
nel mondo potranno assicurarvi un avvenire». Non è andata così. Ma niente è
andato come doveva andare nella storia di questo geniale scrittore. Una vota
ingiusta. Per uccidersi, aveva ripercorso le stesse passeggiate che era solito fare
mentre cercava l’ispirazione e sognava mari lontani che non aveva mai visto.
«Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli», diceva. E lui scriveva
persino tre libri all’anno, lavorando giorno e notte, per rispettare contratti
capestro che lo pagavano come un impiegato statale anche se i suoi romanzi
vendevano moltissimo. Era un uomo mite, amato dai lettori di ogni genere, in
corrispondenza pure con la regina Margherita che apprezzava la sua
produzione, ma di tutto questo niente gli veniva riconosciuto. Al medico di
famiglia, Arminio Herr, disse che non aveva i soldi per far ricoverare sua moglie
in una clinica e non in un manicomio dove finiscono i poveri e allora lei doveva
restare con lui. La tragedia della sua famiglia cominciò così, quando la
lavandaia Luigia Qurico, riparandosi gli occhi dai raggi del sole, scorse quel
corpo senza vita in fondo al burrone.

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