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ALEKSANDR SOLŽENICYN
NEL PRIMO CERCHIO

VOLAND
SÍRIN

 
Aleksandr Solženicyn

Nel primo cerchio


traduzione di Denise Silvestri
postfazione di Anna Zafesova

Voland
Titolo originale: V kruge pervom
© 1968, 1978 Aleksandr Solženicyn

© dell’edizione italiana
Voland s.r.l. Roma 2017

Tutti i diritti riservati

Prima edizione: dicembre 2018

ISBN 978-88-6243-386-0

 
The publication was effected under the auspices
of Mikhail Prokhorov Foundation
TRANSCRIPT Programme to Support Translations of Russian Literature

 
Published with the support of
the Institute for Literary Translation (Russia)

 
Per alcuni termini e acronimi meno conosciuti si rimanda al glossario in fondo al volume
Il destino dei libri russi contemporanei: se e quando riescono a salire in
superficie, vengono fuori spennati. Così è successo di recente al Maestro e
Margherita di Bulgakov: le piume sono galleggiate fino a noi in un secondo
tempo. Così è accaduto a questo mio romanzo: perché godesse almeno di una
flebile vita, per osare mostrarlo e portarlo in redazione, l’ho ridotto e
modificato io stesso, o meglio l’ho smontato e ricomposto di nuovo, e in questa
forma è divenuto celebre.
E anche se ormai non si può tornare indietro e rimediare, eccovi l’originale.
Peraltro, nel ricostruirlo qualcosa ho migliorato: allora avevo quarant’anni, ora
ne ho cinquanta.

scritto: 1955-1958
modificato: 1964
ricostruito: 1968
Agli amici della šaraška
1
IL SILURO

Le lancette traforate segnavano le quattro e cinque.


In quella morente giornata di dicembre, il bronzo dell’orologio sull’étagère
si era già scurito del tutto.
I vetri dell’alta finestra occupavano tutta la parete. Dietro di essi, in basso,
sul Kuzneckij most, si aprivano il frettoloso viavai della strada e l’ostinato
affaccendarsi dei portinai, che spazzavano da sotto i piedi dei passanti la neve
appena caduta ma già pesante e di un bruno sporco.
Vedendo tutto questo senza vederlo affatto, il consigliere di Stato di
secondo rango Innokentij Volodin, appoggiato allo stipite della finestra, non
smetteva di fischiettare un motivetto acuto dalle note lunghe. Con la punta
delle dita sfogliava, senza far caso al contenuto, le pagine patinate e variopinte
di una rivista straniera.
Il consigliere di Stato di secondo rango, tenente colonnello del corpo
diplomatico, alto, stretto non nell’uniforme ma in un completo di stoffa
leggera, sembrava più un giovane sfaccendato benestante che un funzionario
del Ministero degli Affari esteri.
Era già arrivata l’ora di accendere la luce nell’ufficio, ma lui non l’accendeva,
o di tornare a casa, ma lui non si muoveva.
Le quattro passate non rappresentavano la fine di una giornata di lavoro ma
della sua parte diurna, la più breve. Ora sarebbero rientrati tutti a casa a
mangiare, a dormire, ma dalle dieci di sera in poi le finestre dei quarantacinque
ministeri pansovietici e dei venti repubblicani si sarebbero riaccese a migliaia.
Dietro una dozzina di mura fortificate, un uomo soltanto di notte non dormiva
e aveva insegnato alla Mosca di alto rango a vegliare con lui fino alle tre o alle
quattro del mattino. Conoscendo le abitudini notturne del loro signore, una
sessantina di ministri vigilavano come scolaretti in attesa dell’appello. Per non
cedere al sonno, convocavano i loro vice, e i vice importunavano i capiufficio,
gli archivisti sulle scalette spulciavano negli schedari, i segretari volavano per i
corridoi, le stenografe spezzavano la punta delle matite.
Persino quel giorno, alla Vigilia del Natale della Chiesa occidentale (da due
giorni tutte le ambasciate erano come ammutolite, nessuno telefonava), il
lavoro notturno nel loro ministero sarebbe continuato.
Quelli, invece, avrebbero fatto due settimane di vacanza. Che bambocci
ingenui. Che gran somari!
Con dita nervose, il giovane sfogliava le pagine in fretta e senza prestare
attenzione, mentre dentro di lui una strana paura ora si sollevava e si
riscaldava, ora calava e tornava a raffreddarsi.
Innokentij scagliò via la rivista e, con le spalle curve, cominciò a camminare
avanti e indietro per la stanza.
Telefonare o no? Doveva farlo proprio in quel momento? Laggiù non
sarebbe stato troppo tardi? Allora giovedì o venerdì?
Troppo tardi...
Aveva così poco tempo per rifletterci e assolutamente nessuno cui chiedere
consiglio!
Possibile che esistessero mezzi per identificare una persona che chiamava da
un telefono pubblico? E se avesse parlato solo in russo? Se non si fosse
dilungato e si fosse allontanato subito? Era davvero possibile riconoscere al
telefono una voce camuffata? Una tecnica del genere non poteva esistere.
Di lì a tre o quattro giorni ci sarebbe andato di persona in aereo. Era più
logico aspettare. Più saggio.
Ma sarebbe stato troppo tardi.
Per la miseria... un brivido gli percorse le spalle non abituate a simili pesi.
Sarebbe stato meglio non averlo scoperto. Non saperlo. Non avere scoperto
che...
Raccolse tutto ciò che aveva sulla scrivania e lo portò alla cassaforte.
L’agitazione era sempre più intensa. Innokentij chinò la fronte sulla cassa di
ferro verniciata di rosso, chiuse gli occhi e riposò un po’.
All’improvviso, come se si stesse lasciando scappare gli ultimi istanti, senza
nemmeno telefonare al garage per la macchina e tappare il calamaio, si mosse
veloce, chiuse la porta con la chiave, che poi in fondo al corridoio restituì al
sorvegliante di turno, si precipitò quasi giù per le scale, superando i funzionari
locali, immobili nelle cuciture d’oro e nei galloni, si infilò al volo il cappotto e,
calcato il cappello, fuggì fuori nell’umido calar della sera.
Quei movimenti veloci lo fecero star meglio.
I suoi scarponcini francesi, portati secondo la moda senza le soprascarpe,
sprofondavano nella neve sporca ormai quasi sciolta.
Mentre attraversava il cortiletto del ministero chiuso su tre lati, passando
accanto al monumento a Vorovskij, Innokentij alzò lo sguardo e trasalì. Aveva
intuito un nuovo senso nel nuovo edificio della Bol’šaja Lubjanka affacciato sul
vicolo Furkasovskij. Quel bestione grigio scuro di nove piani era una corazzata,
e i diciotto pilastri si ergevano sulla fiancata destra come diciotto torrette
d’artiglieria. Innokentij, solitaria e malsicura barchetta, veniva risucchiato
laggiù, sotto la prua della veloce e pesante nave.
Anzi, no, non veniva attratto come una barchetta, era lui a lanciarsi verso la
corazzata come un siluro!
Resistere era impossibile. Le sfuggì virando verso destra, lungo il Kuzneckij
most. Accanto al marciapiede un taxi era pronto a partire; Innokentij lo prese
al volo, fece cenno di proseguire fino in fondo alla via e ordinò di svoltare a
sinistra, sotto i lampioni da poco accesi di via Petrovka.
Non sapeva ancora da dove telefonare in modo che non gli mettessero fretta,
non gli stessero addosso, non sbirciassero dalla porta. Ma in una cabina
tranquilla e isolata poteva farsi notare di più. Non era forse meglio in mezzo
alla confusione, una cabina che fosse chiusa, nel muro? Mettersi a gironzolare
in taxi, poi, con l’autista come testimone, era davvero da sciocchi. Si frugò in
tasca alla ricerca di quindici copechi, sperando di non trovarli. Poteva essere la
scusa per rimandare.
Di fronte al semaforo dell’Ochotnyj Rjad, si palpò ed estrasse subito due
monete da quindici. Dunque era così che doveva andare.
Sembrò calmarsi. Pericoloso o meno, non c’era altra soluzione.
Ad aver sempre paura di qualcosa, come si fa a restare uomini?
Innokentij smise di pensarci: stavano percorrendo la Mochovaja, proprio
accanto all’ambasciata. Dunque, era destino. Si avvicinò al vetro e allungò il
collo: voleva vedere quali finestre erano accese. Non fece in tempo.
Superarono l’università; Innokentij indicò a destra. Come per fare un giro
sul suo siluro e assestarsi meglio.
Balzarono verso l’Arbat, dove Innokentij consegnò due banconote e si
incamminò per la piazza, cercando di moderare il passo.
Aveva la gola secca e la bocca talmente asciutta che anche bere non gli
sarebbe servito a nulla.
L’Arbat era già tutto illuminato. Davanti al cinema Chudožestvennyj si era
formata una lunga coda per L’amore della ballerina. Una foschia grigio-
azzurrognola aveva quasi inghiottito la M rossa sopra la stazione della
metropolitana. Una donna del sud, con la pelle scura, vendeva fiorellini gialli.
Il condannato a morte ora non scorgeva più la sua corazzata, eppure una
lucida disperazione gli gonfiava il petto.
Doveva tenere a mente una cosa soltanto: non una parola in inglese. Men
che meno in francese. Non poteva lasciare né piume né code ai segugi. Dire
tutto il più in fretta possibile, e riappendere.
Innokentij camminava deciso e senza affrettarsi. Incrociò una ragazza, lei gli
lanciò uno sguardo.
Poi un’altra. Molto carina. Augurami di sopravvivere.
Com’è grande il mondo e quante possibilità offre! A te invece non è rimasto
altro che questo stretto burrone.
Una delle cabine di legno esterne era vuota, ma sembrava avere il vetro
rotto. Innokentij proseguì fino alla metropolitana.
Lì c’erano quattro cabine ricavate nel muro, nessuna libera. Nell’ultima a
sinistra un tizio qualunque, un po’ alticcio, stava riappendendo la cornetta.
Sorrise a Innokentij, sembrava quasi sul punto di dirgli qualcosa. Entrato al
suo posto, Innokentij richiuse con cura la porta di vetro spesso, che poi tenne
ferma con una mano; con l’altra, a causa dei guanti di camoscio, infilò a fatica
una moneta e compose il numero.
Dopo alcuni lunghi squilli, all’altro capo alzarono il ricevitore.
– È la segreteria? – domandò, sforzandosi di camuffare la voce.
– Sì.
– La prego di passarmi in fretta l’ambasciatore.
– Non posso farla parlare con l’ambasciatore – gli rispose qualcuno in un
russo perfetto. – Motivo della telefonata?
– Allora mi passi l’incaricato d’affari! O l’addetto militare! La prego di non
farmi attendere!
All’altro capo ci rifletterono per un attimo. Innokentij si ripromise una cosa:
se si fossero rifiutati, non ci avrebbe riprovato una seconda volta.
– Va bene, la faccio parlare con l’addetto militare.
Gli passarono la linea.
Dietro il vetro a specchio, poco più in là della fila di cabine, le persone
correvano, si affaccendavano, si superavano l’un l’altra. Qualcuno si era
avvicinato e aspettava il suo turno con impazienza di fronte alla cabina di
Innokentij.
Gli rispose una voce sazia, indolente, con un forte accento:
– Pronto. Desidera?
– Parlo con l’addetto militare? – domandò Innokentij in tono brusco.
– Yes, aviation – dissero all’altro capo.
Che altro doveva fare? Schermando la cornetta con la mano, in tono più
basso ma deciso, con autorità Innokentij annunciò:
– Signor addetto militare! La prego di trascrivere quanto sto per dirle e di
passare la notizia all’ambasciatore...
– Aspetti un momento – gli rispose quello senza fretta. – Vado a chiamare
un interprete.
– Non posso aspettare! – ribatté Innokentij, sempre più sulle spine. (Ormai
non si curava più nemmeno di alterare la voce!) – E non intendo parlarne con
un sovietico! Non riattacchi! È in gioco il futuro della vostra nazione! E non
solo! Ascolti, in questi giorni l’agente segreto Georgij Koval’ riceverà in un
negozio di apparecchiature radio all’indirizzo...
– Io non capisco molto bene – ribatté con calma l’addetto militare. Se ne
stava di sicuro comodo su un divano morbido, senza nessuno alle calcagna.
Nella stanza, in sottofondo, si sentiva il ciarlare vivace di una donna. – Telefoni
all’ambasciata of Canada, là capiscono meglio in russo.
Il pavimento della cabina gli scottava sotto i piedi e la cornetta nera con il
pesante filo d’acciaio gli si stava quasi fondendo nella mano. Ma anche una sola
parola straniera poteva rovinarlo!
– Ascolti! Mi ascolti! – esclamò, disperato. – Fra pochi giorni, in un negozio
di apparecchiature radio, l’agente sovietico Koval’ riceverà importanti dettagli
tecnici per fabbricare la bomba atomica...
– Come? In quale strada? – si stupì l’addetto militare, titubante. – Come
faccio a sapere che dice la verità?
– Non si rende conto di cosa rischio? – rispose Innokentij, in tono secco.
Qualcuno bussò al vetro.
L’addetto militare taceva: forse aspirava una boccata dalla sua sigaretta.
– La bomba atomica? – ripeté con diffidenza. – E l-lei chi è? Mi dica suo
cognome.
Nel ricevitore si udì un suono secco, seguito da un silenzio ovattato, senza
né fruscii né squilli.
Avevano staccato la linea.
2
COLPO FALLITO

Ci sono luoghi istituzionali dove, accanto a una porta con la scritta “Ingresso
riservato al personale”, puoi imbatterti in una lucina rosso scuro. Oppure dove,
come usa di questi tempi, un’autorevole targhetta a specchio recita: “Ingresso
assolutamente vietato ai non addetti.” Lì si trova anche un custode dall’aria
minacciosa che, seduto a un tavolino, controlla i lasciapassare. E dietro quella
porta inaccessibile, come per tutto ciò che è proibito, uno finisce per
immaginarsi chissà che.
Là, invece, c’è sempre il solito banale corridoio, forse un po’ più pulito. Al
centro una passatoia di grezza tela rossa statale. Con parsimonia, hanno
lucidato il parquet. Con parsimonia, hanno piazzato un buon numero di
sputacchiere.
Solo che è sempre deserto. Nessuno passa mai da una porta all’altra.
Le porte poi, sono tutte di pelle nera imbottita, con ribattini bianchi e il
numero su un piccolo ovale a specchio.
Chi lavora in una di queste stanze conosce meno i fatti della stanza accanto
che le notizie di mercato dell’isola del Madagascar.
Così in quella sera non troppo fredda e un po’ cupa di dicembre due tenenti
si trovavano in servizio presso l’edificio della stazione telefonica automatica
centrale di Mosca, in uno di quei corridoi proibiti, dentro una di quelle stanze
inaccessibili che il capo del servizio amministrativo militare identificava come
la n. 194, ma che all’XI sezione della Sesta Direzione dell’MGB, il Ministero della
Sicurezza di Stato, figurava come “Postazione A1”. A dire il vero, i due non
indossavano l’uniforme, ma abiti civili: così per loro era più facile entrare e
uscire dall’edificio della stazione telefonica.
Una parete era occupata da quadri elettrici e da un pannello di segnalazione
sul quale prevaleva il nero della plastica e scintillava il metallo delle
apparecchiature acustico-telefoniche. Su un’altra parete, era appeso un foglio
grigio, con l’elenco di numerose istruzioni.
In base a quell’elenco, in cui si prevedevano e si scongiuravano tutti i
possibili casi di violazione e deviazione riscontrabili intercettando e
trascrivendo le conversazioni telefoniche dell’ambasciata americana, era
obbligatorio stare di turno in due: uno doveva ascoltare ininterrottamente,
senza togliersi mai le cuffie, l’altro non poteva mai lasciare la stanza, se non per
recarsi al gabinetto, e si dovevano dare il cambio ogni mezz’ora.
Seguendo le istruzioni alla lettera era impossibile commettere errori.
Tuttavia, a causa della tragica discrepanza fra la perfezione ideale degli
ordinamenti statali e la miserabile imperfezione umana, quella volta le
istruzioni furono violate. Non perché gli agenti di turno fossero dei nuovi
arrivati, ma proprio perché avevano esperienza ed erano convinti che non
potesse accadere nulla di particolare. Soprattutto la Vigilia del Natale della
Chiesa occidentale.
Uno dei due, Tjukin, un tenente dal naso largo, il lunedì successivo, a lezione
di Educazione politica, doveva essere interrogato su Chi sono gli “amici del popolo”
e come lottano contro i socialdemocratici1, sulla ragione per cui al II Congresso
bisognava dividersi, e fosse giusto farlo, e al V riunirsi, e fosse di nuovo giusto,
ma al VI si era reso necessario tornare ognuno per conto proprio, e anche
quello fosse giusto. Non sarebbe stato difficile se Tjukin non avesse cominciato
a leggere solo da sabato e la domenica dopo il turno non si fosse fatto una bella
bevuta con il marito di sua sorella; e lunedì mattina quella roba tanto semplice
non gli stava in testa con i postumi della sbornia, e il segretario di partito già si
lamentava di lui e minacciava di convocarlo nel suo ufficio. L’essenziale poi
non era rispondere alle domande quanto presentare un riassunto. Per tutta la
settimana Tjukin non aveva trovato il tempo e quel giorno non aveva fatto
altro che rimandare; così dopo aver chiesto al compagno di svolgere il turno
senza cambi, si era sistemato in un cantuccio davanti a una lampada da tavolo,
dove stava ricopiando sul quaderno ora un brano, ora un altro dal Breve corso2.
Siccome non avevano ancora acceso la luce in alto, a illuminare la stanza era
solo una lampada vicino ai magnetofoni. Il tenente Kulešov, riccioluto, mento
grassoccio, sedeva con le cuffie in testa e si annoiava. All’ambasciata avevano
fatto acquisti per telefono fin dal mattino, ma dopo pranzo quel luogo si era
come appisolato: nemmeno una chiamata.
Rimasto seduto a lungo, Kulešov pensò di controllarsi gli ascessi che aveva
sulla gamba sinistra. Per ragioni sconosciute ne spuntavano sempre di nuovi, su
cui spalmava una pomata streptocida verdina allo zinco; ma quelli non si
rimarginavano, continuando ad ampliarsi sotto le croste. Dal dolore faceva
fatica a camminare. Alla clinica dell’MGB gli avevano già fissato un consulto da
uno specialista. Kulešov aveva ottenuto da poco un nuovo appartamento e sua
moglie aspettava un bambino: gli ascessi gli stavano rovinando quella vita tanto
bella.
Levatosi le pesanti cuffie che gli premevano sulle orecchie, Kulešov si piazzò
comodo sotto la luce, si rimboccò il pantalone sinistro e la gamba dei
mutandoni e cominciò a tastarsi la pelle e a staccarsi i bordi delle crosticine.
Sotto la loro pressione si accumulava un icore grigio-marrone. Gli facevano
talmente male che il dolore pulsava in testa, togliendogli lucidità. Per la prima
volta fu colpito dal pensiero che non si trattasse di semplici ascessi, ma... ma...
Gli tornò alla mente una parola orribile sentita chissà dove: cancrena, forse?
Oppure...
Così Kulešov non si accorse subito che le bobine del magnetofono erano
entrate in funzione in automatico e stavano girando in silenzio. Con la gamba
nuda sempre lì dove l’aveva appoggiata, si allungò fino alle cuffie, ne accostò
una all’orecchio e sentì:
– Come faccio a sapere che dice la verità?
– Non si rende conto di cosa sto rischiando?
– La bomba atomica? E l-lei chi è? Mi dica suo cognome.
LA BOMBA ATOMICA!!! Spinto da uno slancio istintivo, come uno che per non
cadere si aggrappa al primo sostegno che gli capita, Kulešov staccò lo spinotto
del centralino, scollegando i telefoni. Solo allora si rese conto che, nonostante
le istruzioni, non aveva rilevato il numero dell’utente.
Per prima cosa, si voltò. Tjukin scriveva il suo riassunto e non aveva visto
nulla. Era un amico, ma se a Kulešov avevano assegnato il compito di
controllarlo, il collega doveva aver ricevuto lo stesso ordine nei suoi confronti.
Dopo aver pigiato con dita tremanti il tasto per riavvolgere il nastro e
ricollegato all’ambasciata il magnetofono di fabbricazione occidentale, Kulešov
pensò dapprima di cancellare la registrazione, per coprire la propria
sbadataggine. Gli tornarono però subito in mente le parole del loro capo che,
in più di un’occasione, aveva spiegato come il lavoro di guardia alla postazione
venisse registrato in automatico anche in altro luogo, e accantonò l’idea
assurda. Naturale che facessero un duplicato, e per aver occultato una
conversazione del genere ti fucilavano all’istante!
Il nastro si era riavvolto. Kulešov pigiò il tasto per riascoltare. Il criminale
aveva fretta, era agitato. Da dove stava chiamando? Di certo non da un
appartamento privato. E men che meno dal lavoro. Avevano sempre
l’accortezza di chiamare le ambasciate dalle cabine pubbliche.
Sfogliando l’elenco delle cabine, Kulešov identificò subito un telefono
accanto alla scala d’ingresso della metro Sokol’niki.
– Genka! Genka! – chiamò il collega con voce roca, tirandosi giù la gamba
del pantalone. – Missione urgente! Telefona al gruppo operativo! Forse fanno
ancora in tempo a prenderlo!
1 Articolo del 1894 in cui Lenin criticava aspramente le posizioni dei populisti.
2 Storia del Partito comunista-bolscevico dell’U.R.S.S. Breve corso, pubblicato sulla “Pravda” dal 1938 al 1956, anno
in cui fu criticato al XX Congresso. Rimase lettura obbligatoria per i cittadini sovietici e base ideologica nel
culto della personalità di Stalin.
3
LA ŠARAŠKA

– I nuovi!
– C’è gente fresca!
– Da dove venite, compagni?
– Amici, da dove arrivate?
– E cos’è quella cosa che avete sul petto e sul cappello, quella specie di
macchia?
– C’erano attaccati i nostri numeri. Li avevamo anche sulla schiena e sul
ginocchio. Ce li hanno scuciti prima di spedirci qui dal campo di lavoro.
– Cioè, erano... numeri?!
– Signori, permettetemi di dirlo, ma in quale secolo viviamo? Numeri cuciti
sulle persone? Lev Grigor’ič, mi faccia capire bene, per lei questo è progressista?
– Valentulja, non si scervelli, vada a cena.
– Ma non posso cenare se da qualche parte ci sono persone che girano con
dei numeri sulla fronte!
– Amici! Distribuiscono le Belomor per la seconda metà di dicembre, nove
pacchetti. Avete una possibilità! Fate i bravi!
– Belomor Java o Belomor Dukat?
– Metà e metà.
– Quelle carogne ci soffocano con le Dukat! Mi lamenterò con il ministro,
maledetti.
– E la tuta che portate voi, cos’è? Perché siete tutti vestiti da paracadutisti?
– Hanno introdotto la divisa. Prima ci davano indumenti di lana, cappotti di
panno; ora risparmiano, i vigliacchi.
– Guarda, dei nuovi arrivati!
– C’è gente nuova!
– Ehi, ragazzi! Insomma, non avete mai visto uno zek in carne e ossa? Avete
bloccato tutto il corridoio!
– Oh! Ma guarda chi c’è! Dof-Donskoj!? Dov’è stato, Dof? Nel 1945 l’ho
cercata per tutta Vienna, tutta Vienna!
– Come siete messi male, non vi hanno nemmeno rasati! Da quale campo di
lavoro venite, amici?
– Da diversi. Rečlag...
– ...Dubrovlag...
– Io sono dentro da nove anni ma questi nomi non li ho mai sentiti.
– Sono nuovi, sono campi speciali. Li hanno introdotti nel ’48.
– Mi hanno acciuffato proprio all’entrata del Prater a Vienna e sbattuto su
un corvo.
– Aspetta, Mitëk, fammi sentire i nuovi arrivati...
– Cammina, forza! Fuori all’aria fresca! Ci penserà Lev a fare il terzo grado
ai nuovi, non preoccuparti.
– Secondo turno! A cena!
– Ozërlag, Luglag, Steplag, Kamyšlag3...
– A quanto pare all’MVD c’è un poeta incompreso. Con un poema non si
cimenta, per una composizione non ha le forze, ma dà nomi poetici ai campi di
lavoro.
– Ah, ah, ah! Assurdo, signori, davvero assurdo! Ma in che secolo viviamo?
– Ehi, stai buono, Valentulja!
– Chiedo scusa, lei come si chiama?
– Lev Grigor’ič.
– Anche lei ingegnere?
– No, io sono filologo.
– Filologo? Ci tengono anche i filologi, qui?
– Meglio sarebbe chiedere chi non ci tengono. Abbiamo matematici, fisici,
chimici, ingegneri radio, ingegneri specializzati in telefonia, progettisti,
scenografi, traduttori, rilegatori... ci hanno mandato per sbaglio anche un
geologo.
– E quello che fa?
– Niente, si è sistemato nel laboratorio fotografico. C’è anche un architetto.
E che architetto! Quello personale di Stalin. Gli costruiva tutte le dacie. Ora è
qui con noi.
– Lev! Tu ti spacci per materialista, ma poi rimpinzi la gente di cibo
spirituale. Attenzione, amici! Quando vi condurranno alla mensa, là, sull’ultimo
tavolo, vicino alla finestra, abbiamo tenuto da parte per voi una trentina di
piatti. Mangiate a sazietà, ma senza farvi scoppiare la pancia!
– Grazie mille, ma perché privarvene voi?
– Non ci costa niente. Chi mangia più aringa salata alla Mezen’ e kaša di
miglio! È roba dozzinale.
– Cosa ha detto? Kaša di miglio, dozzinale? Sono cinque anni che non ne
vedo!
– Non sarà stato miglio, più probabile magarà!
– È impazzito, magarà! Che ci provino a darci magarà! Gliela tiriamo dietro!
– E come si mangia adesso nelle prigioni di transito?

Č
– In quella di Čeljabinsk...
– Čeljabinsk nuova o vecchia?
– Dalla sua domanda è chiaro che lei se ne intende. Alla nuova...
– Risparmiano ancora sui gabinetti costringendo gli zek a fare i bisogni nei
buglioli e a portarli giù dal terzo piano?
– Sì, succede ancora.
– Ha detto šaraška. Che significa?
– E quanto pane danno a testa, qui?
– Chi non ha ancora cenato? Secondo turno!
– Quattrocento grammi di pane bianco. Quello nero è sui tavoli.
– Cosa? Come ‘sui tavoli’?
– Sta lì, tagliato. Se vuoi lo prendi, altrimenti lo lasci dove sta.
– Scusate, ma dove siamo qui, in Europa?
– Perché in Europa? Là sui tavoli c’è il pane bianco, mica quello nero.
– Sì, ma per un po’ di burro e di Belomor ci spezziamo la schiena dodici,
quattordici ore al giorno.
– Spezzarvi la schiena? Dietro una scrivania non ci si spezza la schiena!
Quello succede a chi lavora col piccone!
– Porca miseria, stare in questa šaraška è come finire in una palude: si perde
il contatto con la realtà. Avete sentito, signori? Si dice che hanno messo alle
strette la mala: non ti spolpano nemmeno a Krasnaja Presnja4.
– Ai professori danno quaranta grammi di burro, agli ingegneri venti. Da
ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue possibilità.
– Dunque lei lavorava al Dneprostroj5?
– Sì, lavoravo con Vinter. È per la Dneproges che sono dentro.
– Cioè, in che senso?
– Be’, io, vedete, l’ho venduta ai tedeschi.
– La centrale idroelettrica sul Dnepr? Ma se l’hanno fatta saltare!
– E allora? Io gliel’ho venduta quando era già saltata.
– Lo giuro, sento soffiare come un vento di libertà! Prigioni di transito!
Traduzioni di detenuti! Campi di lavoro! Movimento! Eh, quasi quasi mi farei
un giretto fino a Sov-Gavan’6.
– E ritorno, Valentulja, e ritorno!
– Sì! Indietro di corsa, naturalmente!
– Sa, Lev Grigor’ič, mi gira la testa per questa valanga di impressioni, questo
cambio di situazioni. Ho cinquantadue anni, sono guarito da una malattia
mortale, mi sono sposato due volte con due donne graziose, ho avuto figli,
pubblicato in sette lingue, ricevuto premi accademici, eppure non mi sono mai
sentito così beatamente felice come oggi! Dove sono finito? Domani non mi
cacceranno nell’acqua gelata! Quaranta grammi di burro!! Pane nero sui tavoli!
Non ti vietano i libri! Ci si può radere da soli! I secondini non pestano gli zek!
Che giornata grandiosa! Che vetta luminosa! Non sarò mica morto? Non starò
sognando? Mi sembra di essere in paradiso!!
– No, mio caro, lei si trova all’inferno come prima, è soltanto salito nel suo
girone più alto, il migliore: nel primo cerchio. Domandava che cos’è la šaraška?
La šaraška l’ha inventata Dante. Si scervellava su dove mettere i sapienti del
mondo classico. Il suo dovere di cristiano gli imponeva di gettare quei pagani
all’inferno. La sua coscienza di uomo del Rinascimento invece non poteva
rassegnarsi a mischiare uomini dalle menti brillanti con altri peccatori e
condannarli a torture fisiche. E Dante ha trovato per loro un posto particolare
all’inferno. Se permette... suona più o meno così:
Venimmo al piè d’un nobile castello...

Guardi che antiche arcate ci sono qui!

Sette volte cerchiato d’alte mura...


...per sette porte intrai con questi savi...
Voi siete arrivati su un corvo, perciò di porte non ne avete viste...

Genti v’eran con occhi tardi e gravi


di grande autorità ne’ lor sembianti
parlavan rado, con voci soavi...
questi chi son c’hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?...7

– Eh, Lev Grigor’ič, mi lasci spiegare a Herr Professor cos’è la šaraška in modo
molto più semplice. Basta leggere gli editoriali della ‘Pravda’: ‘...è comprovato
che la resa di lana tosata dalle pecore dipende dal loro nutrimento e dalla loro
cura.’

3 Da ozero (lago), lug (prato), step’ (steppa) e kamyš (giunco).


4 Quartiere di Mosca dove ha sede anche una prigione di transito.
5 Grandioso progetto architettonico che prevedeva una centrale idroelettrica (Dneproges), una diga, tre
chiuse per rendere il fiume navigabile dall’Ucraina centrale al Mar Nero e alcuni ponti per lo sviluppo di
una linea ferroviaria. La centrale fu distrutta durante la Seconda guerra mondiale per sottrarla all’avanzata
tedesca e ricostruita dopo il conflitto.
6 Sovetskaja Gavan’, cittadina della Russia siberiana. Sarà la sede del campo di lavoro Stroitel’stvo 508 dal
1950 al 1953, divenuto poi Ul’minlag dal 1953 al 1954.
7 Dante Alighieri, Inferno, Canto IV , in La divina commedia.
4
IL NATALE PROTESTANTE

L’albero di Natale era un rametto di pino conficcato nella fessura di uno


sgabello. Gli girava intorno due volte una treccia di lampadine multicolori a
basso voltaggio, i cui fili elettrici clorovinilici bianco latte penzolavano fino a
una batteria sul pavimento.
Lo sgabello si trovava nel passaggio fra i letti a castello, in un angolo della
stanza, e uno dei materassi superiori faceva ombra su quell’angolino e sul
minuscolo albero di Natale, proteggendolo dalla luce intensa delle lampadine al
soffitto.
Sei uomini in resistenti tute blu da paracadutisti stavano in piedi vicino
all’albero di Natale e ascoltavano a capo chino con attenzione uno di loro,
l’efficiente Max Adam, intento a leggere una preghiera natalizia protestante.
Nella grande stanza, occupata quasi interamente da letti a due piani saldati
fra loro per le gambe, non c’era nessun altro: dopo la cena e una passeggiata di
un’ora, si erano diretti tutti al turno serale.
Max completò la preghiera e i sei si accomodarono. Cinque di loro furono
inondati dalla sensazione dolceamara della patria, la cara Germania, nazione
ordinata e stabile, sotto i cui tetti coperti di tegole la principale festa dell’anno
era così commovente e radiosa. Il sesto, un uomo robusto dalla folta barba
scura, era ebreo e comunista.
Il destino di Lev Rubin si era intrecciato alla Germania con rami di pace e
verghe di guerra.
In tempo di pace, Rubin era stato un filologo germanista, parlava un
impeccabile Hochdeutsch contemporaneo: si rivolgeva all’occorrenza in
medioalto, anticoalto e altotedesco moderno. Ricordava senza sforzo, quasi
fossero suoi conoscenti, tutti i tedeschi che avevano apposto la propria firma su
qualcosa dato alle stampe. Raccontava di piccole cittadine sul Reno come se
avesse percorso più e più volte le loro linde stradine ombreggiate.
Invece era finito soltanto in Prussia, e al fronte.
Era stato maggiore presso la Sezione per la disgregazione delle truppe
nemiche. Pescava dal campo dei prigionieri di guerra quei tedeschi che non
volevano restare dietro il filo spinato e acconsentivano ad aiutarlo. Li toglieva
da lì e li manteneva belli tranquilli in una scuola speciale. Alcuni li spediva
oltre il fronte con trinitrotoluene, marchi del Reich contraffatti, falsi permessi
di congedo e libretti militari. Potevano far saltare in aria ponti, oppure farsi
una gitarella a casa e andarsene a spasso, finché non li prendevano. Con altri
parlava di Goethe e Schiller, si confrontava sui discorsi da pronunciare alle
“macchine-altoparlanti” per convincere i fratelli belligeranti a rivolgere le armi
contro Hitler. Quelli poi più inclini all’ideologia, più ricettivi al comunismo e
ostili al nazismo, venivano spediti in diversi “comitati liberi” tedeschi e là si
preparavano alla futura Germania socialista; mentre con quelli più semplici,
dall’indole più soldatesca, verso la fine della guerra Rubin aveva attraversato di
persona un paio di volte la linea del fronte a brandelli e con la forza della
persuasione aveva conquistato vari punti fortificati, risparmiando i battaglioni
sovietici.
Tuttavia, non era possibile convincere i tedeschi senza immedesimarsi in
loro, senza amarli, e dal giorno in cui la Germania era stata sconfitta,
dispiacersi per loro. Proprio per questo anche Rubin era finito in carcere: i suoi
nemici alla Direzione lo avevano accusato di aver svolto, dopo l’offensiva del
gennaio 1945, propaganda contro lo slogan “sangue per sangue, morte per
morte”.
C’era stato anche quello, Rubin non lo negava, solo che era tutto
immensamente più complicato di quanto potesse riportare il giornale o
avessero scritto sul suo atto d’accusa.
Accanto allo sgabello dove brillava il rametto di pino, due comodini erano
stati accostati a formare una specie di tavolo. Cominciarono a servirsi:
scatolette di pesce (agli zek della šaraška era permesso acquistare nei negozi
della capitale utilizzando i loro conti personali), caffè quasi freddo e una torta
fatta in casa. Si diede il via a una pacata conversazione. Max la guidava verso
argomenti pacifici: antiche usanze popolari e piacevoli storie sulla notte di
Natale. Alfred, l’occhialuto studente viennese che non era riuscito a finire la
facoltà di Fisica, si esprimeva con la sua buffa parlata da austriaco. Non osando
quasi intromettersi nel discorso dei più vecchi, il giovane Gustav della
Hitlerjugend, viso tondo e orecchie rosa e diafane come quelle di un maialino
(era stato fatto prigioniero una settimana dopo la fine della guerra),
strabuzzava gli occhi davanti alle lampadine natalizie.
La conversazione, tuttavia, uscì dai binari. Qualcuno ricordò il Natale del
1944, cinque anni prima, e l’offensiva nelle Ardenne, di cui i tedeschi andavano
fieri all’unanimità, alla stregua di quella antica: i vinti che cacciavano i vincitori.
Tornò loro in mente che in quella Vigilia di Natale la Germania ascoltava
Goebbels.
Tirandosi la punta dell’ispida barba nera con una mano, lo confermò anche
Rubin. Ricordava quel discorso: colpiva nel segno. Goebbels parlava con tale
gravità d’animo, come se portasse dentro di sé il peso di tutte le sofferenze cui
la Germania era stata sottoposta. Probabilmente presagiva già la propria fine.
L’Obersturmbannfürher delle SS Reinhold Ziemmel, il cui lungo corpo faticava
a trovare spazio tra il comodino e il letto, non apprezzò la sottile cortesia di
Rubin. Per lui era intollerabile persino il pensiero che quell’ebreo osasse
giudicare Goebbels. Se solo avesse avuto la forza di rinunciare alla serata
natalizia con i connazionali, non si sarebbe mai abbassato a sedere con lui alla
stessa tavola. Tutti gli altri, però, ci tenevano alla presenza di Rubin. Per la
piccola comunità tedesca finita nella gabbia dorata della šaraška, nel cuore della
selvaggia e disordinata Moscovia, quel maggiore dell’esercito nemico, sebbene
per tutta la guerra avesse seminato in loro divisione e rovina, era l’unica
persona vicina e comprensibile. Solo lui poteva spiegare gli usi e i costumi della
gente di quel luogo, consigliarli su come agire o tradurre dal russo le ultime
notizie internazionali.
Cercando di esprimersi nel modo più irritante possibile per Rubin, Ziemmel
disse che nel Reich c’erano centinaia di oratori fenomenali; chissà perché i
bolscevichi, invece, stabilivano di concordare i testi in anticipo e di leggere i
discorsi sulla carta.
L’accusa risultò tanto offensiva quanto legittima. Non aveva senso spiegare a
un nemico, un assassino, che una simile oratoria era esistita anche da noi, ma
l’avevano distrutta i comitati di partito. Rubin, nei confronti di Ziemmel,
provava disgusto, niente di più. Ricordò il momento in cui, dopo molti anni di
reclusione alla Butyrka, Ziemmel era stato trasferito alla šaraška, nella stessa
scricchiolante giacca di pelle sulla cui manica erano ancora visibili i segni dei
galloni scuciti, simbolo di una SS civile, la peggiore specie di SS. Nemmeno il
carcere era riuscito ad ammorbidire l’espressione di perenne spietatezza sul suo
viso. Proprio per colpa di Ziemmel, Rubin avrebbe preferito non andare a
quella cena. Ma gli altri avevano insistito tanto, e a lui dispiaceva per quegli
uomini rimasti laggiù soli e sperduti: non poteva rovinare loro la festa con un
rifiuto.
Cercando di non perdere la calma, Rubin tradusse in tedesco un consiglio di
Puškin: “Non giudicare, amico, più su dello stivale!”8
Il sempre premuroso Max si affrettò a interrompere l’incombente scontro:
lui, Max, sotto la guida di Lev, già leggeva Puškin compitando in russo. E come
mai Reinhold si era servito una fetta di torta senza la crema? E dov’era Lev la
sera di quel Natale?
Reinhold aggiunse un po’ di crema. Lev ricordò che allora si trovava alla
testa di ponte sul Narew, nei pressi di Różan, nel suo rifugio sotterraneo.
Così, quei cinque tedeschi intenti a rievocare la loro Germania calpestata e
lacera tingendola dei colori più belli dell’anima, fecero riemergere
all’improvviso anche in Rubin prima i ricordi della testa di ponte sul Narew,
poi degli umidi boschi lungo il lago Il’men’.
Le lampadine multicolori si riverberavano in occhi umani infervorati.
Anche quella sera il gruppo chiese a Rubin se c’erano novità. Ma fare il
resoconto di dicembre era per lui imbarazzante: non poteva concedersi il lusso
di apparire un informatore apartitico, frustrare la propria speranza di rieducare
quelle persone; e non poteva nemmeno convincerli che, in un secolo
complicato come il nostro, la verità del socialismo, a volte, poteva prendere una
strada tortuosa e perversa. Così doveva scegliere per loro, e per la Storia (e
senza rendersene conto anche per sé stesso), solo gli avvenimenti che
confermavano la strada maestra prestabilita ed evitare gli argomenti che si
torcevano su sé stessi come in un pantano.
A dicembre, a parte le trattative fra Cina e Unione Sovietica che stavano
andando per le lunghe, e i festeggiamenti per i settant’anni del Padrone, non era
avvenuto nulla di positivo. Il processo a Trajčo Kostov9, la cui messa in scena
giudiziaria appariva così confusamente rozza, con quel falso pentimento che
sarebbe stato scritto da Kostov nella cella dei condannati a morte e presentato
ai giornalisti solo in un secondo tempo, era una cosa di cui vergognarsi, e
raccontarlo a quei tedeschi non avrebbe avuto nessuno scopo educativo.
Così quella sera Rubin si soffermò a lungo sulla storica vittoria mondiale dei
comunisti cinesi.
Il benevolo Max ascoltava Rubin e assentiva. Lo osservava con sguardo
innocente, gli era affezionato, ma dall’assedio di Berlino qualcosa aveva iniziato
a farlo dubitare e nel suo laboratorio delle onde decimetriche, rischiando la
testa – Rubin di quello non era al corrente – ogni tanto montava, ascoltava e
rismontava una piccola radio in miniatura, che a tutto assomigliava tranne che
a una radio. Ed era già riuscito a captare Colonia e a sentire in tedesco dalla
BBC notizie non solo su Kostov e sul modo in cui aveva rinnegato al processo
la propria autoaccusa, estorta durante l’istruttoria, ma anche sul Patto Atlantico
e sullo sviluppo della Germania Occidentale. Naturalmente aveva riportato
tutto agli altri tedeschi, che vivevano ormai con la sola speranza che Adenauer
li salvasse da lì.
Eppure davanti a Rubin annuivano.
Peraltro Rubin avrebbe dovuto andarsene già da un pezzo, non essendo,
quel giorno, dispensato dal lavoro serale. Si complimentò per la torta (il
meccanico Hildmut, lusingato, fece un inchino) e provò a congedarsi.
Trattennero l’ospite ancora un po’, lo ringraziarono per la compagnia e lui
ringraziò loro. Poi i tedeschi si prepararono a cimentarsi a bassa voce nei canti
della notte di Natale.
Così com’era arrivato, tenendo fra le mani un dizionario mongolo-finnico e
un volumetto di Hemingway in inglese, Rubin uscì nel corridoio.
Il corridoio stretto, con il pavimento di legno non verniciato e tutto
scheggiato, senza finestre, illuminato artificialmente giorno e notte, era lo
stesso in cui un’ora prima, nell’animato intervallo per la cena, Rubin e gli altri
amanti delle novità avevano fatto il terzo grado ai nuovi zek giunti dai campi di
lavoro. Su quel corridoio si affacciava una porta che conduceva alla scala
interna della prigione e qualche altra porta per le camere-celle. Camere, perché
le porte non avevano serrature, ma anche celle, perché sul davanti era intagliato
uno spioncino, una finestrella di vetro. Quegli spioncini non venivano mai
usati dai secondini del luogo, ma erano previsti dal regolamento come nelle
vere carceri, essendo la šaraška definita sui documenti “Prigione speciale n. 1
del Ministero della Sicurezza di Stato”.
Oltre uno di quegli spioncini, dentro una delle camere, si svolgeva
un’analoga serata natalizia organizzata dal gruppo dei lettoni, che avevano fatto
richiesta anche loro di essere esentati dal turno.
Gli altri zek si trovavano al lavoro e, passando nel corridoio a quell’ora,
Rubin temeva di essere trattenuto e trascinato dall’oper a scrivere una
giustificazione.
Entrambi i lati del corridoio terminavano con due porte a tutta parete: a un
capo, l’uscio di legno a quattro battenti e ad arco semicircolare conduceva a
quella che era stata la parte superiore dell’altare della chiesa del seminario,
divenuta anch’essa camera-cella; all’altro capo c’era una porta a doppio
pannello chiusa a chiave, rivestita di ferro fino in cima (questa, da cui si
raggiungeva la zona di lavoro, era soprannominata dai prigionieri le “porte
regali”).
Rubin si avvicinò alla porta di ferro e bussò alla finestrella. Dall’altra parte,
il viso di una guardia si accostò al vetro.
La chiave girò piano. Gli era capitato un secondino indifferente.
Rubin uscì sulla scala principale dell’antico edificio, con le rampe che si
disgiungevano, e attraversò il pianerottolo di marmo accanto a due antiche
lanterne arabescate che ora non illuminavano più nulla. Sempre al primo piano,
entrò nel corridoio del laboratorio. Lì, spinse una porta con la scritta
“ACUSTICO”.
8 Il riferimento è alla poesia Il ciabattino (1829) di Aleksandr Puškin: un ciabattino in visita all’atelier del
pittore Apelle nota un difetto in uno stivale dipinto su un quadro e già che c’è si mette a criticare anche altri
punti dell’opera, dimostrando grande presunzione.
9 Trajčo Kostov (1897-1949), ex vicepresidente del Consiglio dei Ministri della Bulgaria e leader del Partito
comunista, fu arrestato nel 1949 e costretto a confessare crimini che durante il processo ritrattò. Fu
condannato a morte e impiccato.
5
BOOGIE-WOOGIE

Il Laboratorio Acustico si trovava in una stanza alta, spaziosa, con alcune


finestre, disordinata e stracolma: c’erano strumenti di fisica su scaffali di assi
sottili e su sostegni in alluminio di un bianco intenso, banchi da montaggio,
tavoli nuovi di zecca, armadi di compensato di fabbricazione moscovita e
comodi scrittoi che avevano vissuto giorni migliori alla Lorenz, fabbrica
berlinese di apparecchi radio.
Grosse lampade con sfere opache distribuivano verso il basso una piacevole
luce diffusa per nulla giallastra.
In un angolo in fondo alla stanza, troneggiava una cabina acustica
insonorizzata che arrivava quasi fino al soffitto. Sembrava non del tutto
rifinita: l’esterno era rivestito di tela grezza, sotto la quale era stata infilata della
paglia. La porta, spessa un aršin ma cava come i pesi dei clown al circo, in quel
momento era aperta, la tenda di lana all’ingresso scostata per far passare l’aria.
Vicino alla cabina, luccicava a intermittenza il quadro verniciato di nero del
commutatore centrale, con le sue file di alloggiamenti di spine elettriche.
Una ragazza esile, molto piccola, con il viso severo e pallido, le strette spalle
imbacuccate nello scialle di lanugine di capra, sedeva a una scrivania dando le
spalle alla cabina.
Il resto dei presenti nella stanza, circa una decina, erano uomini, tutti con
indosso la solita tuta blu. Illuminati dalla luce che proveniva dall’alto e da
quella supplementare, a macchie, delle lampade da tavolo flessibili, anche
queste portate dalla Germania, si affaccendavano, camminavano, battevano,
saldavano, sedevano ai banchi da montaggio e alle scrivanie.
In punti diversi, tre apparecchi artigianali senza rivestimento, assemblati alla
meglio con pannelli di alluminio presi a caso, trasmettevano,
indipendentemente uno dall’altro, musica jazz, un brano al pianoforte e
canzoni dei paesi democratici dell’est.
Rubin attraversò lentamente il laboratorio, diretto al proprio tavolo, con il
dizionario mongolo-finnico e Hemingway in mano. Nella barba nera e ricciuta
gli erano rimaste impigliate alcune bianche briciole di torta.
Sebbene le tute dei detenuti fossero confezionate per tutti alla stessa
maniera, ciascuno indossava la propria a modo suo. Rubin aveva un bottone
strappato, la cintura lenta e la stoffa in eccesso gli pendeva sulla pancia. Lungo
il tragitto incrociò un giovane carcerato che portava da elegantone l’identica
tuta, con la cintura blu di stoffa stretta da fibbie intorno alla vita sottile, e sul
petto, dove la tuta era sbottonata, spuntava una camicia di seta azzurra
scolorita dai numerosi lavaggi ma chiusa da una cravatta vivace. Il giovane
occupava il passaggio laterale che Rubin stava percorrendo. Nella mano destra
agitava appena un saldatore acceso e rovente; il piede sinistro posato su una
sedia, il gomito sul ginocchio, scrutava attentamente un circuito radio su una
rivista inglese aperta sopra il tavolo, canticchiando:

Boogie-Woogie, Boogie-Woogie
Samba! Samba!

Non potendo passare, Rubin rimase in piedi per un minuto, con una finta
espressione mite sul viso. Il giovane quasi non si accorse di lui.
– Valentulja, non potrebbe tirare un pochino indietro la gambina posteriore?
Senza sollevare la testa dallo schema, pronunciando la frase con decisione,
Valentulja rispose:
– Lev Grigor’ič! Sparisca! Giù le zampe! Come mai in giro di sera? Che è
venuto a fare? – E gli piantò addosso i suoi stupefatti occhi chiari di ragazzo. –
A che diamine serviranno qui dei filologi! Ah ah ah! – lo apostrofò forte e
chiaro. – Non è mica un ingegnere, lei!! Vergogna!
Con le labbra carnose protese in una buffa trombetta puerile e sgranando gli
occhi, Rubin farfugliò:
– Bimbo mio! Ci sono ingegneri che vendono acqua frizzante.
– Non è il mio caso! Amico, il sottoscritto è un ingegnere di primo livello,
non se lo dimentichi! – scandì Valentulja in tono brusco, e riposto il saldatore
sul sostegno di metallo, raddrizzò la schiena, scostando di lato i soffici,
ondulati capelli del colore del pezzo di colofonia che aveva sul tavolo.
Aveva una freschezza giovanile, la pelle del viso sembrava rimasta immune ai
segni della vita, i movimenti ancora quelli di un ragazzo: nessuno avrebbe detto
che si era diplomato prima della guerra, era stato prigioniero dei tedeschi,
aveva trascorso un periodo in Europa e si trovava in carcere in patria già da
cinque anni.
Rubin sospirò:
– Senza referenze certificate dal suo capo in Belgio la nostra
amministrazione non può...
– Ma quali referenze?! – Valentin giocava a fare l’offeso in modo del tutto
verosimile. – Lei si è proprio rimbecillito! Io, vedi un po’, amo le donne alla
follia!!
La ragazza minuta e severa si concesse un sorriso.
Accanto alla finestra dove Rubin si stava dirigendo un altro detenuto
abbandonò la propria attività per ascoltare Valentulja con approvazione.
– A quanto pare, solo in teoria – rispose Rubin, masticando annoiato.
– E alla follia amo spendere soldi!
– Ma non ne ha...
– Come potrei essere un cattivo ingegnere? Ci pensi: per amare le donne – e
sempre diverse! – devi avere tanti soldi! E per avere tanti soldi devi guadagnare
molto! E per guadagnare molto, se sei un ingegnere, devi essere brillante ed
eccellere nella tua specializzazione! Ah-ah! Fregato!
Il lungo viso di Valentulja si era sollevato baldanzoso verso Rubin.
– Aha! – esclamò lo zek vicino alla finestra, la cui scrivania si trovava di
fronte a quella della ragazza minuta, praticamente attaccate. – Lëvka, ho capito
com’è la voce di Valentulja! Scampanellante! La catalogo così, eh? Una voce del
genere si riconosce da qualsiasi telefono. Con qualsiasi interferenza.
Aprì un grosso foglio, pieno di colonne di nomi, con un grafico quadrettato
e una classificazione a forma di albero.
– Ah, che scemenza! – Valentulja fece un cenno con la mano e, afferrato il
saldatore, prese a far fumare la colofonia.
Il passaggio fu di nuovo libero e Rubin, raggiunto il proprio posto, si chinò
anche lui sulla classificazione di voci.
I due la esaminarono in silenzio.
– Siamo andati avanti bene, Glebka – disse Rubin. – Assieme al linguaggio
visibile è una buona arma. Molto presto io e te capiremo da cosa può dipendere
una voce al telefono... Cosa stanno trasmettendo?
Nel resto della stanza il jazz era predominante, ma accanto al davanzale ad
avere la meglio era il loro apparecchio artigianale, da cui veniva la fluente
musica di un pianoforte. In essa emergeva con insistenza, per poi sottrarsi
subito, e tornare a emergere e a sottrarsi di nuovo, una stessa melodia. Gleb
rispose:
– La Sonata n. 17 di Beethoven. Chissà perché non l’ho mai... Ascoltala anche
tu.
Si piegarono entrambi verso l’apparecchio.
– Valentine! – disse Gleb. – Su, faccia il bravo. Non sia egoista!
– Non lo sono affatto – rispose quello, in tono brusco – vi ho assemblato io
l’apparecchio. Se vi stacco la bobina, non beccate più niente.
Corrugate le sopracciglia in un cipiglio severo, la ragazza intervenne:
– Valentin Martynyč! È vero, non si possono ascoltare tre radio insieme.
Spenga la sua, glielo stanno chiedendo per favore.
(La radio di Valentin stava trasmettendo uno slow-fox, che alla ragazza
piaceva molto...)
– Serafima Vital’evna! È pazzesco! – Valentin urtò una sedia vuota, che
afferrò al volo prima che cadesse, poi si mise a gesticolare come fosse su una
tribuna. – Come fa un uomo sano e normale a non apprezzare il tonificante ed
energico jazz? Con quella robaccia antiquata lei si rovina! Ma davvero non ha
mai ballato Blue Tango? Possibile che non abbia mai visto gli spettacoli di
varietà di Arkadij Rajkin10? E non è mai stata in Europa! Dove poteva
imparare a vivere? Mi ascolti: lei ha bisogno di innamorarsi di qualcuno! –
arringò attraverso lo schienale della sedia, senza notare la piega amara intorno
alle labbra della ragazza. – Uno qualsiasi, ça dépend! Le luci notturne che
scintillano! Il fruscio degli abiti da sera!
– Di nuovo uno sfasamento! – disse Rubin allarmato. – Bisogna usare la forza!
E spense da solo il jazz alle spalle di Valentulja.
Quello si voltò come se l’avessero morso.
– Lev Grigor’ič! Chi le dà il diritto...?
Aggrottò le sopracciglia e lo guardò con fare minaccioso.
La rapida melodia, ora libera, della Sonata n. 17 cominciò a fluire nella sua
purezza, gareggiando solo con la rozza canzone che giungeva dall’altro capo
della stanza.
Il corpo di Rubin si era rilassato, sul suo viso spiccavano gli arrendevoli
occhi castani e la barba cosparsa di briciole di dolce.
– Ingegner Prjančikov11! Ha presente la Carta atlantica? Ha scritto il
testamento? A chi ha lasciato le sue pantofole da notte?
Il viso di Prjančikov si fece serio. Guardò con calma Rubin negli occhi e
chiese piano:
– Senta, ma cosa vuole? Possibile che un uomo non sia libero nemmeno in
prigione? Dove può esserlo, allora?
Chiamato da uno dei montatori, se ne andò avvilito.
Rubin si lasciò cadere in silenzio sulla sua poltrona, schiena a schiena con
Gleb, e si accinse ad ascoltare; la rasserenante e avvolgente melodia, terminò di
colpo, come un discorso interrotto sul più bello: era il finale modesto e poco
solenne della Sonata n. 17.
Rubin lanciò un’imprecazione, che solo Gleb riuscì a sentire.
– Scandisci le parole, non capisco – rispose quello, continuando a dare le
spalle a Rubin.
– Dicevo che sono sempre sfortunato – ribatté con voce roca Rubin,
evitando anche lui di girarsi. – Mi sono lasciato scappare la sonata...
– Succede perché ti organizzi male, quante volte bisogna dirtelo! – brontolò
l’amico. – È una sonata mooolto bella. Hai notato che finale? Nessun fragore
né sussurro. Si interrompe e basta. Come la vita... Ma dov’eri?
– Con i tedeschi. A festeggiare il Natale – ridacchiò Rubin.
Conversavano così, senza guardarsi, rovesciando quasi la nuca l’uno verso le
spalle dell’altro.
– Bravo. – Gleb si fermò a riflettere. – Mi piace il rapporto che hai con loro.
Insegni il russo a Max per ore. Eppure avresti tutte le ragioni per odiarli.
– Odiarli? No, ma l’affetto che provavo per loro si è guastato. Persino il
mite e apartitico Max non condivide forse in qualche modo la responsabilità
coi carnefici? Dopotutto non si è mai opposto, no?
– Be’, come io e te non ci opponiamo né ad Abakumov12 né a Šiškin-
Myškin...
– Ascolta, Gleb, in fin dei conti, io non sono forse più ebreo di quanto sia
russo? Non sono più russo di quanto sia cittadino del mondo?
– Hai detto bene. Cittadini del mondo! Suona tranquillo, pulito.
– Cioè cosmopoliti. Avevano ragione a sbatterci dentro.
– Certo che avevano ragione. Anche se tu fai di tutto per dimostrare alla
Corte Suprema il contrario.
Dal davanzale, l’annunciatore promise che di lì a trenta secondi sarebbe
cominciato Il diario di competizione socialista.
In quel breve intervallo, con calcolata lentezza, Gleb portò la mano
all’apparecchio e, impedendo alla voce del presentatore di farsi roca, quasi gli
stesse torcendo il collo, girò la manopola e spense. Il viso, che poco prima si
era animato, appariva ora stanco e grigiastro.
Prjančikov, invece, era alle prese con un nuovo problema. Stava calcolando
quale gruppo di amplificazione collegare e intanto, ad alta voce, canticchiava
spensierato:
Boogie-Woogie, Boogie-Woogie
Samba! Samba!

10 Arkadij Isaakovič Rajkin (1911-1987), capocomico, leggenda del teatro e del cinema sovietico. Rimase
miracolosamente indenne agli attacchi del potere nonostante, attraverso la sua arte, puntasse i riflettori sulle
inefficienze della burocrazia comunista e della società sovietica.
11 È il cognome di Valentin Martynyč.
12 Viktor Semënovič Abakumov (1894-1954), funzionario di alto livello degli organi di sicurezza sovietici,
qui ministro, uno dei vice di Stalin; finito a sua volta in disgrazia, sarà fucilato nel 1954.
6
UN’ESISTENZA PACIFICA

Gleb Neržin era coetaneo di Prjančikov ma sembrava più vecchio. I capelli


biondi con la larga scriminatura da un lato erano folti, eppure intorno agli
occhi e alle labbra gli si erano formate ghirlande di rughe e la fronte era segnata
da solchi longitudinali. La pelle del viso, sensibile alla mancanza d’aria fresca,
aveva assunto un colore spento. A far apparire Neržin più vecchio, però, era
soprattutto l’avarizia nei movimenti, una saggia ritrosia con la quale la natura
conserva le forze del detenuto che nel campo si consumano. In verità, nelle
condizioni libere della šaraška, con il vitto a base di carne e senza un lavoro
fisico logorante, quel tipo di avarizia non sarebbe stata necessaria, ma Neržin,
pensando alla durata della condanna, si sforzava di assumere quella parsimonia
nei movimenti e di consolidarla per sempre.
Ora pile di libri e fascicoli formavano barricate sulla sua grande scrivania e
lo spazio vivo che restava nel mezzo era occupato da altri fascicoli, testi battuti
a macchina, libri, riviste straniere e russe, tutto aperto. Avvicinandosi, una
persona non sospettosa avrebbe visto in quell’uragano solidificato il suo
pensiero di ricercatore.
Invece si trattava solo di fumo negli occhi: la sera Neržin si nascondeva così da
un’eventuale visita dei capi.
In realtà, i suoi occhi non erano concentrati su quello che aveva davanti.
Scostava la chiara tendina di seta e guardava attraverso i vetri della finestra
buia. Oltre la profondità dello spazio notturno cominciavano le luci grandi e
multicolori di Mosca, e tutta la città, invisibile dietro la collina, splendeva nel
cielo in un’immensa colonna biancastra di luce diffusa, facendolo diventare
marrone-grigio scuro.
La sedia speciale di Neržin, con lo schienale molleggiato che si adattava a
ogni movimento delle spalle, la scrivania speciale con i pannelli scorrevoli a
nervature, di un tipo che da noi non si produce, e il comodo posto vicino alla
finestra rivolta a sud: tutto questo, per chi fosse a conoscenza della storia della
šaraška di Marfino, rivelava in Neržin uno dei suoi fondatori.
La šaraška prendeva il nome da Marfino, il villaggio che un tempo si trovava
in quel luogo ma che da un pezzo era stato incluso nel confine cittadino. Era
stata fondata circa tre anni prima, una sera di luglio. Nel vecchio edificio di un
seminario nei pressi di Mosca, prima recintato con il filo spinato, erano stati
condotti una quindicina di zek prelevati dai campi di lavoro. Quel periodo, alla
šaraška ora definito “kryloviano”13, si ricordava come un’epoca pastorale. A
quei tempi, negli alloggi della prigione si poteva ascoltare la BBC ad alto volume
(a oscurarla non erano ancora riusciti); la sera di propria iniziativa si poteva
passeggiare nella zona, stare sdraiati sull’erba umida di rugiada che, in mancata
ottemperanza del regolamento, nessuno tagliava (si sarebbe dovuta falciare a
zero in modo che gli zek non strisciassero fino al filo spinato); e osservare le
eterne stelle oppure il caduco e sudato Žvakun, un sergente maggiore dell’MVD,
che durante il turno di notte rubava tronchi dal cantiere dell’edificio, li faceva
rotolare sotto il filo spinato e a casa li usava come legna da ardere.
A quell’epoca la šaraška non sapeva ancora di quali ricerche scientifiche si
sarebbe occupata e si prodigava ad aprire le innumerevoli casse che giungevano
dalla Germania su tre convogli ferroviari; conservava per sé comode sedie e
scrivanie tedesche; smistava l’attrezzatura, obsoleta e in ogni caso giunta
danneggiata, per telefonia, onde radio ultracorte, acustica; scopriva che i
tedeschi avevano fatto in tempo a portare via o a distruggere l’attrezzatura
migliore e la documentazione più aggiornata, mentre il capitano dell’MVD,
mandato a ridislocare la fabbrica Lorenz, esperto di arredamento ma non di
strumenti radio e di lingua tedesca, scovava in giro per Berlino mobili per gli
appartamenti dei suoi capi e per il proprio.
Ormai avevano iniziato da un pezzo a falciare l’erba, le porte per andare a
spasso venivano aperte solo su autorizzazione, la šaraška era passata dalla
direzione di Berija a quella di Abakumov e ci si occupava di telefonia segreta.
Si era sperato di risolvere la questione in sei mesi, ma la cosa si trascinava
ormai da due anni, si espandeva, si ingarbugliava, abbracciava sempre nuovi
problemi collegati, e lì, sulle scrivanie di Rubin e di Neržin, erano arrivati a
identificare le voci al telefono, ad accertare cosa rendesse unica quella di
ciascuno.
A quanto pareva, nessuno prima aveva mai condotto una simile ricerca. In
ogni caso, non si erano mai imbattuti in un’opera che trattasse l’argomento. Per
quel lavoro avevano concesso loro prima sei mesi, poi altri sei, ma non erano
stati fatti molti passi avanti e le scadenze adesso incalzavano.
Sentendosi addosso quella spiacevole pressione, Rubin si lamentò oltre la
spalla:
– Oggi non ho proprio nessuna voglia di lavorare...
– Ma guarda – mormorò Neržin. – Se non sbaglio, hai combattuto quattro
anni, sei dentro già da cinque pieni, e ti senti stanco? Chiedi un buono-vacanze
per la Crimea, allora.
Rimasero in silenzio.
– Stai facendo cose tue? – domandò Rubin, a bassa voce.
– E già.
– E chi si occupa delle voci?
– Io, francamente, contavo su di te.
– Che coincidenza. Io contavo su di te.
– Sei un incosciente. Quanti libri hai preso in prestito dalla biblioteca Lenin
con questa scusa? Discorsi di celebri avvocati. Le memorie di Koni14. Il lavoro
dell’attore su sé stesso15. E alla fine, senza un briciolo di vergogna, uno studio
sulla principessa Turandot. Quale altro zek in un GULAG può vantare una
simile collezione di libri?
Rubin protese le grosse labbra a trombetta, cosa che ogni volta dava al suo
viso un’espressione di ridicola stupidità. – Strano. Tutti questi libri, persino
quello sulla Turandot, con chi li ho letti io durante le ore di lavoro? Non eri
tu?
– Io lavorerei. Avrei lavorato con totale abnegazione, oggi. Ma ci sono due
circostanze che mi portano fuori dai binari. Primo, la storia di un pavimento di
parquet.
– Quale pavimento?
– Alla barriera di Kaluga, l’edificio dell’MVD, quello semicircolare, con la
torretta. L’ha costruito nel 1945 il nostro campo di lavoro, dov’ero parchettista
alle prime armi. Oggi ho saputo che Rojtman, a quanto pare, abita proprio in
quell’edificio. A tormentarmi è la scrupolosità del costruttore o, se preferisci,
una questione di prestigio: scricchioleranno o no i miei pavimenti? Perché se
scricchiolano significa che la posa è stata fatta con i piedi, giusto? E io non ho
possibilità di rimediare!
– Ma, guarda un po’, che bel soggetto drammatico!
– Da realismo socialista. Secondo: non fa proprio schifo lavorare di sabato
sera, sapendo che la domenica è un giorno di festa solo per i liberi?
Rubin sospirò. – E i liberi, già adesso saranno tutti in giro per i vari luoghi
di divertimento. Sì, fa proprio schifo.
– Ma i luoghi di divertimento se li scelgono da soli? Ricevono davvero più
soddisfazione di noi dalla vita? Anche questa è una bella domanda.
Seguendo l’abitudine forzata dei reclusi, chiacchieravano a bassa voce, al
punto che persino Serafima Vital’evna, seduta di fronte a Neržin, non riusciva
a sentirli. Ora si erano girati entrambi per metà, con le spalle al resto della
stanza, il viso rivolto verso la finestra, i lampioni della zona, la torretta di
guardia che si intuiva nel buio, le luci isolate delle lontane serre del Giardino
botanico poco lontano e la colonna di luce biancastra che da Mosca si
innalzava nel cielo.
Sebbene fosse un matematico, Neržin non era poi troppo estraneo alla
linguistica e, dal momento in cui per l’Istituto di Ricerca scientifica di Marfino
la fonetica della lingua russa era diventata oggetto di lavoro, lo avevano messo
in coppia con Rubin, unico filologo del posto. Da due anni sedevano dodici
ore al giorno schiena contro schiena. Dal primo minuto si erano confidati l’un
l’altro di essere ex combattenti, capitati entrambi sia sul fronte nord-
occidentale sia su quello bielorusso, e di avere la medesima “piccola collezione
da gentlemen” di decorazioni; entrambi erano stati arrestati al fronte, lo stesso
mese e dallo stesso SMERŠ, entrambi per lo stesso comma dieci “buono per tutti”,
ed entrambi avevano avuto la stessa decina (la condanna che del resto
prendevano tutti). Tra loro, poi, correvano solo sei anni, mentre in ambito
militare li separava soltanto un grado: Neržin era capitano.
Ad attirare Rubin era il fatto che Neržin non si trovava in carcere dopo un
periodo di prigionia e dunque non era stato contagiato dallo spirito
antisovietico straniero: Neržin era uno dei nostri, un uomo sovietico, ma per
tutta la giovinezza aveva divorato libri fino a rincretinirsi e da quelli
presumibilmente aveva intuito che Stalin stava travisando il leninismo. Non
aveva nemmeno fatto in tempo a scrivere quella conclusione su un pezzetto di
carta, che lo avevano arrestato. Tuttavia, benché stordito dal carcere e dal
campo, rimaneva uno dei nostri, e per questa ragione Rubin aveva la pazienza di
ascoltare le sue assurde e intricate idee momentanee.
Fissarono ancora lontano, nell’oscurità.
Rubin schioccò le labbra. – Comunque, sei intellettualmente limitato. E
questo mi preoccupa.
– Non è la cosa cui aspiro: al mondo le cose intelligenti sono molte, quelle
buone poche.
– Eccoti un buon libro, leggilo.
– Altri poveri tori tormentati?
– No.
– Allora, leoni oppressi?
– Ma no!
– Ascolta, già non riesco a vederci chiaro con le persone, che me ne faccio
dei tori?
– Devi leggerlo!
– Io non devo niente a nessuno, ricordatelo! Come dice Spiridon, ho già
saldato tutti i miei debiti.
– Patetico. Questo è uno dei migliori libri del xx secolo!
– E mi svelerà davvero ciò che tutti dovremmo comprendere? In che cosa si
sono smarriti gli uomini?
– È uno scrittore intelligente, buono e infinitamente onesto, un soldato, un
cacciatore, un pescatore, un ubriacone e un donnaiolo, uno che disprezza
palesemente ogni menzogna, che cerca la semplicità, molto umano, di una
genialità ingenua...
– Ma fammi il piacere – si mise a ridere Neržin. – Stordisci tutti con i tuoi
discorsi. Ho vissuto trent’anni senza Hemingway, posso pure continuare. La
vita me l’hanno già rovinata. Lasciami andare un po’ dove mi pare! Fammi
trovare la mia strada...
Tornò a voltarsi verso la scrivania.
Rubin sospirò. La voglia di lavorare non gli era ancora tornata.
Prese a osservare la mappa della Cina appoggiata a una mensola sulla
scrivania di fronte. Qualche tempo prima l’aveva ritagliata da un giornale e
incollata a un cartone. Per tutto l’anno precedente vi aveva segnato con la
matita rossa l’avanzata dell’esercito comunista e ora, dopo un’indiscutibile
vittoria, se l’era messa davanti per risollevarsi l’umore nei momenti di
depressione e stanchezza.
Oggi, tuttavia, a tormentarlo era una tristezza tenace, e nemmeno la grande
estensione rossa della Cina vittoriosa avrebbe potuto farla sloggiare.
Neržin invece, che di tanto in tanto succhiava pensieroso il retro puntuto
della penna di plastica, con una calligrafia microscopica, come se non scrivesse
a penna ma con la punta di un ago, vergava un minuscolo foglietto che in
mezzo a quell’ufficio mimetizzato non si scorgeva nemmeno.
“Dal punto di vista matematico, nella storia dell’anno 1917 non c’è nulla di
inaspettato. Come una tangente che intorno ai novanta gradi schizza verso
l’infinito, per poi crollare nell’abisso dell’infinito al negativo, così anche la
Russia, decollata per la prima volta verso una libertà senza precedenti, ora è
precipitata nella peggiore delle tirannie. Nessuno ci è mai riuscito al primo
tentativo.”
La grande stanza del Laboratorio Acustico, intanto, portava avanti la sua
pacifica esistenza quotidiana. Il motorino del tornio elettrico ronzava. Si
udivano i comandi: “Accendi!”, “Spegni!”. Alla radio trasmettevano l’ennesima
sciocchezza sentimentale. Qualcuno chiedeva ad alta voce una valvola 6K7.
Sfruttando il momento in cui nessuno la guardava, Serafima Vital’evna stava
osservando attentamente Neržin impegnato a riempire con la sua scrittura ad
ago il pezzetto di carta.
L’oper, maggiore Šikin, l’aveva incaricata di tenere d’occhio quel detenuto.
13 Ivan Andreevič Krylov (1768-1844), celebre favolista russo.
14 Anatolij Fedorovič Koni (1844-1927), avvocato, statista, scrittore.
15 Opera di Konstantin Sergeevič Stanislavskij.
7
UN CUORE DI DONNA

Serafima Vital’evna, il tenente dell’MGB con la camicetta arancione, a tal punto


minuta che era impossibile non chiamarla Simočka, si avvolgeva nel caldo
scialle.
I collaboratori liberi di quell’edificio erano tutti ufficiali dell’MGB.
I collaboratori liberi, in base alla Costituzione, godevano di molteplici
diritti, compreso quello al lavoro. Tuttavia, era un diritto che si limitava alle
otto ore giornaliere e non produceva beni, ma si riduceva alla sorveglianza
degli zek. Privati dei diritti fondamentali, questi ultimi godevano in compenso
del più ampio diritto al lavoro: dodici ore al giorno. Quella differenza andava
compensata dai collaboratori liberi di ciascun laboratorio con turni di
sorveglianza al lavoro degli zek dalle sei del pomeriggio fino alle undici della
sera, compreso l’intervallo per la cena.
Oggi era il turno di Simočka. Nel Laboratorio Acustico la ragazza, minuta
come un uccellino, rappresentava in quel momento l’unica autorità e l’unico
capo.
In base alle disposizioni doveva assicurarsi che i detenuti si dessero da fare e
non oziassero, che non usassero il locale di lavoro per fabbricare armi o per
qualche cospirazione, che non riparassero trasmettitori a onde corte
approfittando dell’abbondanza delle componenti radio. Alle undici meno dieci
doveva farsi riconsegnare tutta la documentazione segreta, riporla in una grossa
cassaforte e sigillare la porta del laboratorio.
Non erano trascorsi neanche sei mesi da quando, completati gli studi
all’Istituto universitario di Ingegneria delle comunicazioni, Simočka era stata,
per via del suo questionario personale cristallino, designata a quel particolare
istituto di ricerca che veniva indicato solo con un numero e che i suoi detenuti,
nel loro gergo irriverente, chiamavano šaraška. I liberi assunti lì erano subito
promossi ufficiali, ricevevano uno stipendio due volte superiore rispetto a
quello di un normale ingegnere (per titolo e come equipaggiamento militare), e
da loro si pretendeva soltanto dedizione e vigilanza; istruzione e competenze
venivano dopo.
Questo andava a tutto vantaggio di Simočka. Non era stata l’unica del suo
istituto a ricevere una preparazione scarsa, era accaduto anche a molte sue
compagne. Le cause erano molteplici. Le ragazze arrivavano dalla scuola senza
possedere nozioni né di fisica né di matematica (già quando frequentavano le
ultime classi avevano capito che al consiglio degli insegnanti il direttore
redarguiva i professori quando assegnavano voti bassi e, anche se non studiavi
per niente, il diploma te lo davano lo stesso). All’università poi, quando
giungeva il momento di mettersi a studiare, le ragazze si addentravano nella
matematica e nella radiotecnica come in una foresta di pini oscura e
impenetrabile, del tutto estranea alla loro indole. Il più delle volte però
mancava proprio il tempo. Ogni autunno, per un mese e più, gli studenti
venivano condotti ai kolchoz a raccogliere le patate, motivo per cui il resto
dell’anno avevano lezione per otto o nove ore al giorno e mancava il tempo per
analizzare gli appunti. Tutti i lunedì c’era Educazione politica; almeno una
volta la settimana, inoltre, era obbligatorio andare a qualche riunione; e di
tanto in tanto era necessario svolgere lavoro sociale, pubblicare giornali murali,
dare concerti patrocinati; ma bisognava anche aiutare in casa, andare a fare
compere, lavarsi e vestirsi. E il cinema? Il teatro? Il club? Se non andavi in giro,
non ballavi un po’ durante gli anni della scuola, quando avresti avuto il tempo
di farlo, poi? La gioventù non ci è data per ammazzarci di fatica! E così, in
occasione delle verifiche, Simočka e le sue compagne si preparavano una gran
quantità di bigliettini, li nascondevano in capi di abbigliamento femminili
preclusi agli uomini e all’esame estraevano quello adatto e, lisciato per benino,
lo presentavano come foglio di brutta. Naturalmente gli esaminatori avrebbero
potuto scoprire senza fatica con domande supplementari l’inconsistenza della
preparazione delle ragazze, ma erano anche loro sovraccarichi di riunioni,
assemblee, molteplici programmi e modelli di rendiconto da presentare alla
presidenza, al rettorato, e far ripetere un esame era faticoso, tanto più che poi,
avvalendosi di una citazione, a quanto pare di Krupskaja, che non esistono
cattivi allievi ma solo cattivi insegnanti, venivano denigrati per il basso profitto,
neanche si trattasse di un difetto di produzione. E dunque gli esaminatori non
cercavano di cogliere in fallo le studentesse, al contrario le aiutavano a
concludere l’esame nel modo più felice e veloce possibile.
Durante gli ultimi anni degli studi universitari Simočka e le sue compagne si
erano rese conto con tristezza di non amare la specializzazione scelta, di non
poterne più, ma ormai era tardi. Simočka tremava all’idea di doverla applicare
alla produzione.
Ed era capitata a Marfino. Qui le era piaciuto subito molto che non le
venissero affidati lavori autonomi. Tuttavia varcare la soglia di quel castello
isolato nei pressi di Mosca, dove guardie scelte e personale di sorveglianza
custodivano eminenti criminali di Stato, faceva paura persino a chi non era
piccolo come lei.
Le avevano addestrate tutte insieme: dieci neolaureate dell’Istituto
universitario di Ingegneria delle comunicazioni. Avevano spiegato loro che era
peggio che in guerra: erano finite nella fossa dei serpenti, dove una sola mossa
incauta si traduceva in una minaccia di morte. Erano state informate che
avrebbero incontrato la feccia del genere umano, individui indegni persino
della lingua russa che purtroppo parlavano. Erano state avvertite che si trattava
di individui pericolosi, soprattutto perché non mostravano apertamente i loro
denti da lupi, ma indossavano di continuo la falsa maschera della cortesia e
della buona educazione; se si facevano domande sui loro crimini (cosa
categoricamente proibita!), quelli si sforzavano con una menzogna contorta di
spacciarsi per innocenti accusati ingiustamente. Alle ragazze era stato ordinato
di non mostrare odio a quei farabutti, ma palesare a loro volta una cortesia
esteriore, senza partecipare a discorsi privi di valore costruttivo, senza accettare
di fare nessuna commissione fuori del campo, e alla prima infrazione, al primo
sospetto di infrazione o possibilità di sospetto di infrazione, rivolgersi di corsa
all’oper, il maggiore Šikin.
Il maggiore Šikin, un uomo borioso, scuro, basso, dalla testa grossa con
capelli a spazzola che incanutivano e piedi piccoli che calzavano scarpe di un
numero da bambini, aveva esternato in proposito il seguente pensiero: che
sebbene a lui e alle altre persone navigate fosse perfettamente chiaro l’istinto da
serpente di quei malfattori, tra le ragazze inesperte arrivate da poco magari ce
n’era qualcuna il cui cuore umano avrebbe potuto vacillare, finendo per
ammettere qualche infrazione, per esempio dare loro in lettura un libro della
biblioteca dei liberi (per non parlare di spedire una lettera, perché una lettera
indirizzata a una qualunque Marija Ivanovna era sicuramente rivolta a un
centro di spionaggio americano). In tono edificante il maggiore Šikin aveva
chiesto alle altre ragazze, nel caso si fossero rese conto del peccato di un’amica,
di dimostrarle il loro sostegno da compagne, comunicando apertamente
l’accaduto a lui.
Alla fine del colloquio poi il maggiore non aveva tenuto nascosto che avere
rapporti con i detenuti era punito dal codice penale, e il codice penale, come
ben si sa, è elastico, e può prevedere persino venticinque anni di lavori forzati.
Impossibile immaginarsi il futuro squallore che le attendeva senza avere un
brivido. Ad alcune di loro erano persino venute le lacrime agli occhi. La
diffidenza nelle compagne comunque era ormai instillata. E uscite dall’incontro
di addestramento non avevano parlato di quanto udito, ma di altro.
Più morta che viva, Simočka aveva seguito l’ingegnere Rojtman nel
Laboratorio Acustico, dove fin dal primo istante avrebbe voluto strizzare forte
gli occhi.
Da allora erano trascorsi sei mesi e in Simočka era accaduto qualcosa di
strano. No, la fermezza delle sue convinzioni riguardo agli oscuri intrighi del
capitalismo non era stata minata. Si era persuasa facilmente che i detenuti al
lavoro in tutte le altre stanze erano malfattori sanguinari. Ma, incontrando ogni
giorno una decina di zek del Laboratorio Acustico, si sforzava invano di vedere
in quelle persone cupamente indifferenti alla libertà, al proprio destino, alla
propria condanna di dieci anni o di un quarto di secolo, in quel candidato in
scienze, negli ingegneri e nei montatori – ogni giorno assillati da un unico
lavoro, un lavoro altrui, di cui non avevano bisogno, che non portava loro né
un soldo di guadagno né un briciolo di gloria – dei furfanti matricolati, come
quelli che al cinema lo spettatore individuava con tanta facilità e il nostro
controspionaggio pescava in modo così abile.
Davanti a loro Simočka non provava terrore. E non riusciva a trovare
dentro di sé nemmeno odio. Quegli uomini, con le loro molteplici conoscenze
e la loro resistenza a una sventura che si protraeva, suscitavano in lei soltanto
un gran rispetto. E sebbene il suo dovere di giovane comunista la richiamasse
all’ordine, sebbene il suo amore per la patria la esortasse a riferire in modo
scrupoloso all’oper tutte le mancanze e le azioni dei detenuti, per qualche
inspiegabile ragione la cosa le appariva vile e impossibile.
E ancora più impossibile nei confronti del suo vicino più prossimo e
compagno di lavoro, Gleb Neržin, seduto di fronte a lei a due scrivanie di
distanza.
Per tutto il tempo Simočka aveva lavorato a stretto contatto con Neržin, cui
era stata assegnata quasi fin dall’inizio per svolgere i test di articolazione. Alla
šaraška di Marfino si doveva valutare il livello di ricezione nei diversi tratti
telefonici. Nonostante la perfezione degli strumenti, non ne era ancora stato
inventato uno che misurasse questa caratteristica con una lancetta. Solo la voce
di uno speaker che leggeva singole sillabe, parole o frasi, e le orecchie di
ascoltatori specializzati che ricevevano il testo alla fine del tratto esaminato
potevano fornire una valutazione entro una determinata percentuale di errore.
Esperimenti di questo genere erano chiamati “di articolazione”.
Neržin si occupava – o secondo le intenzioni dei superiori avrebbe dovuto
occuparsi – di impostare matematicamente nel modo migliore gli esperimenti.
Questi si erano conclusi con successo, e al metodo usato Neržin aveva persino
dedicato una monografia in tre volumi. Quando per lui e Simočka si
accumulava troppo lavoro tutto insieme, Neržin indicava con precisione
l’ordine delle azioni che andavano eseguite subito e quelle che potevano essere
rimandate, impartiva disposizioni con sicurezza, e in quel momento il suo viso
ringiovaniva, allora Simočka, che si raffigurava la guerra grazie al cinema,
immaginava Neržin in uniforme da capitano, in mezzo al fumo delle
esplosioni, i capelli biondi mossi dal vento, che gridava alla sua batteria:
“Fuoco!” (Era la scena che al cinema mostravano più spesso.)
Ma una simile solerzia era necessaria a Neržin per rimanere, una volta
eseguito il lavoro esterno, più a lungo possibile senza doverlo ripetere di
nuovo. Una volta l’aveva persino detto a Simočka: “Sono attivo perché detesto
l’attività.” “E cosa le piace?” gli aveva domandato lei, con timidezza.
“Riflettere” aveva risposto lui. E in effetti, quando il carico di lavoro
rallentava, Neržin sedeva per ore senza quasi cambiare posizione, la pelle del
viso che gli si ingrigiva, invecchiava, si solcava di rughe. Dove finiva allora la
sua sicurezza? Neržin diventava lento e indeciso. Stava lì a riflettere a lungo
prima di trascrivere una frase in quegli appunti minuscoli che anche quel
giorno Simočka aveva notato sulla sua scrivania in mezzo a mucchi di articoli e
manuali tecnici. Si era accorta che lui li nascondeva in uno scomparto di
sinistra della sua scrivania, non nel cassetto. Simočka moriva dalla curiosità di
scoprire che cosa scrivesse e per chi lo facesse. Neržin, senza saperlo, era
diventato per lei il fulcro della sua compassione e della sua ammirazione.
Fino ad allora, la vita di Simočka era stata molto infelice. La giovane non era
bella: le rovinava il viso un naso troppo lungo, e i capelli che erano radi, e
crescevano male, si concentravano sulla nuca in un nodo misero. Simočka non
era solo bassa, era bassa oltremisura, e aveva forme sbrigative come quelle di
una ragazzetta di settima classe piuttosto che quelle di una donna adulta.
Inoltre era rigida, poco incline agli scherzi, al futile divertimento, e anche
questo non attirava i ragazzi. Così, all’età di ventitré anni nessuno l’aveva
ancora corteggiata, nessuno l’aveva né abbracciata né baciata.
Poco tempo prima, non era passato neanche un mese, qualcosa non aveva
funzionato a dovere con il microfono della cabina e Neržin aveva chiesto a
Sima di ripararlo. Lei era entrata con il cacciavite in mano; nel silenzioso buio
soffocante della cabina, dove si stava a fatica in due, si era chinata sul
microfono che Neržin stava già esaminando e senza farlo apposta aveva
sfiorato con la guancia quella di lui. L’aveva sfiorata ed era impietrita dal
terrore – cosa sarebbe successo? Doveva allontanarsi subito – e senza riflettere
aveva continuato a esaminare il microfono. Il minuto più spaventoso della sua
vita si era dilatato: le loro guance unite, ardenti, e lui non si muoveva! Poi
all’improvviso Neržin le aveva preso la testa fra le mani e l’aveva baciata sulle
labbra. Tutto il corpo di Simočka si era lasciato andare a una debolezza gioiosa.
In quell’istante la ragazza non aveva detto nulla né sul Komsomol né sulla
patria, ma solo:
– La porta è aperta...
Una sottile tendina azzurra, ondeggiando, li separava dalla giornata
rumorosa, dalle persone che si muovevano avanti e indietro e chiacchieravano,
che sarebbero potute entrare, scostandola. Il detenuto Neržin non rischiava
nulla, a parte dieci giorni in cella di rigore, mentre la ragazza si stava giocando
la valutazione di servizio, la carriera, forse persino la libertà; eppure, lei non
aveva la forza di strapparsi da quelle mani che le tenevano la testa rovesciata
indietro.
Era la prima volta in vita sua che un uomo la baciava!
Così la catena d’acciaio forgiata con saggezza di serpente si era spezzata
all’altezza dell’anello formato da un cuore di donna.
8
FERMATI, ATTIMO!

– Di chi è la pelata che si strofina qui dietro?


– Figlio mio, sono proprio di umore lirico. Chiacchieriamo un po’?
– In realtà sarei occupato.
– Ma dài, occupato... io, invece, mi sento sottosopra, Glebka. Ero lì davanti
al piccolo abete improvvisato dai tedeschi a parlare del mio rifugio sotterraneo
presso la testa di ponte a nord di Pułtusk, quando eccolo lì, il fronte! Mi ha
preso alla sprovvista! Così reale, così dolce... Anche in guerra si possono
trovare tante cose belle, vero?
– Non sei il primo a dirlo, ho letto la stessa cosa sulle riviste militari
tedesche che ogni tanto ci capitano per le mani: è la purificazione dell’anima, la
Soldatentreue16...
– Che bastardo. Devi ammettere però che un germe di razionalità ce l’ha...
– Non ce lo possiamo permettere. L’etica taoista afferma: ‘Le armi sono
strumenti di sciagura e non di nobiltà. Il saggio vince a malincuore.’
– Cosa sento? Hai già lasciato gli scettici per unirti ai taoisti?
– Non ho ancora deciso.
– Prima mi sono tornati in mente i miei Fritz migliori, il modo in cui
insieme decidevamo cosa mettere sui volantini: una madre che abbracciava i
figli, poi una biondissima Margherita in lacrime... il nostro volantino più
riuscito, con il testo in versi.
– Me lo ricordo, ne ho raccolto uno anch’io.
– È stato allora che mi ha preso alla sprovvista... ti ho mai raccontato di
Milka? Era una studentessa dell’Istituto di Lingue straniere, si era diplomata nel
1941 e l’avevano mandata nel nostro reparto come interprete. Il naso un po’
all’insù, brusca nei movimenti.
– Aspetta, è quella che è venuta con te a negoziare la capitolazione di
Graudenz?
– Sì, sì, lei! Una ragazzetta straordinariamente vanitosa, amava ricevere
complimenti per il suo lavoro (quanto a criticarla, Dio ce ne scampi!), farsi
proporre per una decorazione. Te lo ricordi il bosco sul fronte nord-
occidentale, oltre il Lovat’, tra Rachlicy e Novo-Svinuchovo, a sud di
Podcepoch’e?
– Là di boschi ce ne sono molti. Su questa riva della Red’ja o sull’altra?
– Su questa.
– Sì, me lo ricordo.
– Be’, io e lei vagammo per quel bosco tutto il giorno. Era primavera... O
meglio, marzo: cammini con i piedi nell’acqua, nelle pozzanghere, gli stivali in
similpelle, ma sotto il cappello di pelliccia hai la testa sudata per il caldo, e hai
presente, quell’odore! quell’aria! Vagavamo come ragazzi al primo amore, come
novelli sposi. Perché se una donna per te è nuova, rivivi tutto con lei come se
fosse la prima volta, ti gonfi come un giovanotto... Vero? Era un bosco
sterminato! Di tanto in tanto solo il fumo leggero di un rifugio sotterraneo,
una piccola batteria di cannoni 76 sulla radura. Li evitavamo. Vagabondammo
così fino a sera, una serata umida, rosa. Per tutto il giorno Milka mi aveva fatto
penare. Sopra il punto in cui ci trovavamo iniziò a volare in tondo un bimotore
tedesco. Milka se n’era uscita: non voglio che lo abbattano, non fa alcun male.
Se non lo abbattono, va bene, rimaniamo a dormire nel bosco.
– Ma era per finta! Mai visto un nostro addetto alla contraerea centrare un
bimotore.
– Già... Gli addetti alla contraerea, fino al Lovat’ e oltre, per un’ora buona gli
spararono contro senza beccarlo. Così... trovammo un piccolo rifugio vuoto...
– Di quelli non interrati.
– Te li ricordi? Proprio uno così. Ne avevano costruiti tanti in un anno, da
usare come baracche per le bestie.
– La terra di laggiù è umida, non vanno interrati.
– Esatto. Dentro c’erano rami accatastati, si sentiva odore di resina dei
tronchi d’albero e di fumo dei precedenti falò: niente stufe, si riscaldavano così.
Nel tetto c’era un buco. Di luce, comunque, non ne arrivava... Una volta acceso
il fuoco, danzavano ombre sulle travi... Glebka! Eh, la vita!
– Ho notato una cosa: se nei racconti dei detenuti c’è una ragazza, tutti
quelli che ascoltano, compreso il sottoscritto, desiderano ardentemente che alla
fine della storia la ragazza in questione non sia più tale. E la cosa diventa per
gli zek il principale interesse della narrazione. Che dici? Si tratta forse della
ricerca di una giustizia universale, che ne pensi? Il cieco deve accertarsi presso
chi vede che il cielo continui a essere azzurro e l’erba verde. Lo zek deve
credere, almeno in teoria, che al mondo ci siano ancora ragazze dolci e allegre
pronte a concedersi ai fortunati... Ma guarda un po’ che serata ti è tornata in
mente! Con un’amante in un rifugio che odorava di resina, senza che vi
sparassero. Proprio una bella guerra ti sei trovato! Mentre magari tua moglie,
quella sera, aveva rimediato i buoni-zucchero per un dolcetto ripieno,
schiacciato, tutto appiccicato alla carta, e faceva il conto su come dividerlo tra
le vostre figlie per trenta giorni...
– Be’, rimproverami pure, ma un uomo, Glebka, non può conoscere una
donna soltanto, sarebbe come non conoscerne nessuna. Impoverirebbe il
nostro spirito.
– Addirittura lo spirito? Qualcuno invece ha detto che se conosci bene una
sola donna...
– Sciocchezze.
– E se fossero due?
– Anche due non danno niente. Solo facendo molti confronti si può capire
qualcosa. Non è un nostro vizio e non è un peccato: è il disegno della natura.
– Lo stesso vale per la guerra! Alla Butyrka, nella cella n. 73...
– ...al secondo piano, in un corridoio stretto...
– ...esatto! Il professor Razvodovskij, un giovane storico moscovita da poco
finito in prigione, che ovviamente al fronte non c’era mai stato, ha saputo
dimostrare in modo brillante, preciso e persuasivo, attraverso considerazioni
sociali, storiche ed etiche, che anche nella guerra c’è qualcosa di buono. Nella
cella però erano presenti una decina di ex combattenti, uomini nostri e di
Vlasov17, tutti ragazzi disperati, distrutti, che avevano combattuto un po’
ovunque. Per poco non se lo mangiano vivo, erano inviperiti: nella guerra non
c’è un cavolo di buono! Io li ascoltavo e stavo zitto. Razvodovskij portava
argomenti convincenti, di tanto in tanto mi sembrava avesse ragione, e anche i
ricordi mi suggerivano che qualche volta non era stato male; ma con quei
soldati non ebbi il coraggio di confrontarmi: la cosa che mi spingeva a dare
ragione al professore era la stessa che distingueva me, artigliere addetto a
grandi cannoni, dai fanti. Lev, cerchiamo di capirci: al fronte, a parte nella
conquista di quella fortezza, eri un balordo, ragion per cui non avevi un tuo
ordine di combattimento dal quale non potevi tirarti indietro, pena la testa! Io
sono stato un mezzo balordo, dal momento che non andavo all’attacco e non
stanavo le persone. Così, nella nostra memoria ingannevole, quello che è stato
orribile sprofonda...
– Ma io non sto dicendo che...
– ...mentre emerge solo quello che è stato piacevole. Della giornataccia in cui
gli Junkers in picchiata presso Orël per poco non mi fecero a pezzi, però, non
posso rievocare nulla di piacevole. No, Lëvka, la guerra è bella quando se ne sta
lontana!
– Ma io non dico che è bella, dico che a volte è bello ricordarla.
– Allora anche i campi di lavoro un giorno li ricorderemo con piacere. E le
prigioni di transito.
– Le prigioni di transito? Quella di Gor’kij? Quella di Kirov? No, quelle
no...
– Solo perché l’amministrazione laggiù ti ha confiscato la valigia, e non
riesci a essere obiettivo. Ma ci sarà di sicuro anche là qualcuno, un addetto al
magazzino viveri o un inserviente, che avrà vissuto nella legge con una detenuta
puttana, e magari starà raccontando a tutti che non esiste luogo migliore di una
prigione di transito. In generale il concetto di felicità è una convenzione, una
menzogna.
– La saggia etimologia ha impresso nella parola stessa la transitorietà e
l’irrealtà del concetto. La parola russa sčast’e, felicità, deriva da ‘se-čas’e’, vale a
dire ‘in quest’ora’, ‘in questo momento’!
– No, magister, mi perdoni! Si legga il dizionario di Vladimir Dal’18. Sčast’e
deriva da ‘so-čast’e’, vale a dire quale parte, čast’, quale porzione ci tocca, quale
quota si ottiene dalla vita. La saggia etimologia ci fornisce un’interpretazione
meschina della felicità.
– Aspetta, anche la mia spiegazione si basa sul Dal’.
– Com’è possibile? Anche la mia.
– Sarà il caso di analizzarla in tutte le lingue. Me lo segno!
– Che maniaco!
– Ha parlato il genio! Facciamo un po’ di linguistica comparata.
– Non deriverà tutto da ‘mano’? Come dice Marr19?
– Ma figurati! Senti, hai letto la seconda parte del Faust?
– Perché non mi chiedi se ho letto la prima? Dicono tutti che è geniale, ma
non la legge nessuno. Oppure magari hanno visto a teatro il Faust di Gounod.
– No, la prima parte è accessibile, che c’è di difficile?
Non so dir nulla di soli e di mondi;
vedo soltanto come gli uomini si affannano.20

– Ecco, questa cosa mi tocca!


– Oppure:

Quello che non si sa ci servirebbe


e non ci serve quello che si sa.21
– Fantastico!
– La seconda parte, a dire il vero, è un po’ pesante. Tuttavia, che idee
profonde! Conosci il patto di Faust con Mefistofele. Quest’ultimo potrà
ottenere l’anima di Faust solo quando questi esclamerà: ‘Fermati, attimo! Sei
così bello!’ E non importa cosa Mefistofele gli proponga – il ritorno alla
giovinezza, l’amore di Margherita, una facile vittoria sul rivale, una ricchezza
sconfinata, la conoscenza assoluta dei segreti della vita – nulla strappa dal petto
di Faust quell’esclamazione recondita. Trascorrono lunghi anni, Mefistofele è
sfinito a furia di provare a stare dietro a quell’essere incontentabile, vede che
rendere felice quell’uomo è impossibile e vuole abbandonare l’impresa
infruttuosa. Invecchiato due volte e cieco, Faust ordina di convocare migliaia di
operai e iniziare a scavare canali per prosciugare le paludi. Nel cervello di
Faust, due volte invecchiato, che il cinico Mefistofele ritiene ottenebrato e folle,
comincia a brillare una grande idea: rendere felice l’umanità. A un cenno di
Mefistofole compaiono i lemuri, servitori dell’inferno, che si mettono a scavare
una tomba a Faust. Mefistofele lo vuole sotterrare per sbarazzarsene, avendo
perso ogni speranza riguardo alla sua anima. Faust sente il rumore di numerose
vanghe. ‘Che cos’è?’ domanda. Mefistofele continua a prendersi gioco di lui.
Dipinge a Faust un’immagine ingannevole, dice che stanno prosciugando la
palude. La nostra critica ama interpretare questo momento in senso ottimistico
dal punto di vista sociale; ritiene che Faust, pensando di aver portato vantaggio
all’umanità, provi per questo un’immensa gioia ed esclami:
Fermati attimo, sei così bello!

Ma vediamo di chiarire: Goethe non si è forse preso gioco della felicità umana?
Perché in realtà non c’è nessun vantaggio per nessuna umanità. Dunque,
l’attesissima frase rituale Faust la pronuncia a un passo dalla tomba, ingannato
e, forse, davvero folle? E i lemuri lo spingono subito nella fossa. Cos’è allora,
un inno alla felicità o una beffa nei suoi confronti?
– Ah, Lëvočka, ti adoro quando sei così, quando ragioni col cuore, parlando
con saggezza, senza appiccicare etichette ingiuriose.
– Che patetico seguace di Pirrone! Lo sapevo che ti sarebbe andato a genio.
Senti anche questa. In una delle mie lezioni prima della guerra – e quelle di
allora erano straordinariamente coraggiose! – a proposito di questo brano del
Faust sviluppai l’idea elegiaca che la felicità non esiste, che è o irraggiungibile o
illusoria... All’improvviso mi passarono un foglietto a quadretti strappato da un
minuscolo taccuino, c’era scritto: ‘Eppure, io amo e sono felice! Che cosa ne
dice di questo?’
– E tu cosa dicesti?...
– E cosa si può mai dire?...
16 “La lealtà dei soldati”, in tedesco.
17 Andrej Vlasov (1900-1946), generale sovietico che, caduto prigioniero dei tedeschi durante la Seconda
guerra mondiale, organizzò in funzione anticomunista il cosiddetto Esercito russo di Liberazione. Alla fine
della guerra, lui e i suoi uomini furono catturati, riportati a Mosca, processati per alto tradimento e
giustiziati.
18 Autore di un celebre dizionario della lingua russa viva pubblicato in sette volumi nella seconda metà
dell’Ottocento.
19 Nikolaj Jakovlevič Marr, linguista padre della controversa teoria iafetica sull’origine della lingua.
Secondo lui, la parola russa reč’, “discorso”, derivava da ruka, “mano”.
20 Johann Wolfgang Goethe, Faust, cura di Franco Fortini, Milano, Oscar Mondadori, 1994, vol. I, p. 23.
21 Ivi, p. 83.
9
IL QUINTO ANNO DI RECLUSIONE

Si erano lasciati trascinare al punto da non sentire più i suoni del laboratorio e
la fastidiosa radio nell’angolo opposto. Sulla sua sedia girevole Neržin dava di
nuovo la schiena al laboratorio, Rubin era piegato su un fianco, con la barba
posata sulle braccia incrociate sopra lo schienale della poltrona.
Neržin parlava come quando si confidano pensieri sui quali si è meditato a
lungo.
– Prima, da libero, quando leggevo nei libri l’opinione dei sapienti sul senso
della vita o su cosa fosse la felicità, capivo poco quei brani. Mi fidavo: pensare è
compito dei sapienti. Ma il senso della vita? Viviamo, è questo il senso. La
felicità? Stare davvero bene, è questa la felicità, è risaputo... Sia benedetta la
prigione!!! Mi ha dato il tempo di riflettere. Per capire la natura della felicità,
proviamo prima a comprendere la natura della sazietà. Pensa alla Lubjanka o al
controspionaggio. Pensa a quella poltiglia d’orzo o d’avena poco sostanziosa,
fatta a metà di acqua, senza nemmeno una stellina di grasso! La mangi davvero?
Ti ci nutri sul serio? Ci fai la comunione! Ti ci avvicini con sacra trepidazione,
come al prāna degli yoghin! La mangi lentamente, la mangi con la punta del
cucchiaio di legno, la mangi, immedesimandoti nel processo del mangiare, nel
pensiero del cibo, e come nettare ti scivola nel corpo, fremi per la sua dolcezza
che si rivela in quei chicchi lessati e nel torbido umido che li tiene insieme.
Così, tutto sommato, nutrendoti di niente, vivi sei mesi, poi dodici! È forse
come il rozzo divorare di una braciola?
Rubin non sapeva e non amava ascoltare a lungo. Concepiva ogni
conversazione (e il più delle volte accadeva così) come un modo per
condividere con gli amici il bottino spirituale procurato dalla sua ricettività.
Adesso moriva dalla voglia di interrompere Neržin, ma questi lo aveva
afferrato per la tuta all’altezza del petto con tutte e cinque le dita, lo scuoteva e
non lo lasciava parlare.
– Dunque è sulla nostra povera pellaccia e su quella dei nostri infelici
compagni che abbiamo scoperto la natura della sazietà. La sazietà non dipende
affatto da quanto mangiamo, ma da come mangiamo! Lo stesso vale anche per
la felicità: la felicità, Lëvuška, non dipende affatto dalla quantità di beni
esteriori che abbiamo ottenuto nella vita. Dipende solo dal rapporto che
abbiamo con lei! L’etica taoista dice: ‘Chi sa accontentarsi sarà sempre
contento.’
Rubin ridacchiò:
– Sei eclettico. Strappi una piuma colorata qua e una là e te le infili nella
coda.
Neržin scosse la testa e la mano bruscamente. I capelli gli si arruffarono
sulla fronte. Questa discussione si stava rivelando davvero interessante e lui era
di nuovo un ragazzo di diciotto anni.
– Non ti confondere, Lëvka, non è affatto così! Non traggo conclusioni dalle
filosofie di cui ho letto ma dalle biografie che le persone mi raccontano in
prigione. Quando poi sento il bisogno di formulare conclusioni mie, perché
dovrei scoprire l’America un’altra volta? Sul pianeta della filosofia tutti i
territori sono stati scoperti da tempo! Sfoglio le pagine degli antichi sapienti e
ci trovo già i miei concetti più nuovi. Non mi interrompere! Volevo farti un
esempio: nel campo, e a maggior ragione qui alla šaraška, se avviene un
miracolo – una tranquilla domenica senza lavoro, ecco che l’anima sembra
trovare un po’ di calore e si eleva, e pure se nulla è migliorato nella mia
condizione esteriore, non avverto l’oppressione del giogo del carcere, capita
una conversazione fatta con il cuore o leggi una pagina sincera – e io mi sento
sulla cresta dell’onda! Non ho una vera vita da molti anni ma me lo sono
dimenticato! Non ho un peso, sono sospeso, sono immateriale!!! Sto lì sdraiato
sulla panca superiore, nella mia cella, fisso il vicino soffitto, nudo, intonacato
male, e mi colpisce l’assoluta felicità dell’esistenza! Mi addormento sulle ali
della beatitudine! Non c’è presidente né primo ministro che potrebbe
addormentarsi così contento della domenica appena trascorsa!
Rubin gli rivolse un ghigno bonario. Quel ghigno esprimeva in parte
assenso, in parte indulgenza verso un amico più giovane che aveva perso la
retta via.
– E cosa dicono in proposito i grandi libri dei Veda? – domandò,
protendendo le labbra in una trombetta scherzosa.
– I libri dei Veda, non lo so, – parò il colpo Neržin con convinzione – ma i
libri del Sāmkhya dicono questo: ‘Coloro che sanno discernere associano la
felicità umana alla sofferenza.’
– Te la sei imparata proprio bene – brontolò Rubin nella barba.
– Idealismo? Metafisica? Esiste qualcosa su cui non appiccichi delle
etichette?
– Ti ha traviato Mitjaj?
– No, Mitjaj va in tutt’altra direzione. Barba arruffata, ascoltami! La felicità
per le continue vittorie, per la trionfale realizzazione dei propri desideri e
perché si è totalmente sazi è sofferenza! È la morte spirituale, è una sorta di
reflusso morale continuo! Non i filosofi dei Veda o il Sāmkhya, ma io, io in
persona, Gleb Neržin, detenuto al quinto anno di reclusione, sono giunto al
livello di sviluppo in cui si comincia a considerare il male anche come bene; mi
sono convinto che le persone non sanno a cosa aspirare. Puntano al vuoto
raggiungimento di una manciata di beni materiali e muoiono senza scoprire la
propria ricchezza d’animo. Quando Lev Tolstoj sognava di essere rinchiuso in
prigione, ragionava come un uomo vero, lungimirante, con una vita spirituale
perfetta.
Rubin scoppiò in una risata fragorosa. Nelle discussioni rideva in quel modo
tutte le volte che voleva respingere completamente le idee di un avversario (e
proprio così gli succedeva anche in prigione).
– Ascolta, figliolo! A influenzarti è l’immaturità di una giovane coscienza.
Preferisci la tua esperienza personale a quella collettiva dell’umanità. Sei
intossicato dagli umori del bugliolo della prigione e attraverso quelle esalazioni
vuoi vedere il mondo. Per aver vissuto un disastro, per aver avuto un destino
personale sciagurato, può forse un uomo cambiare, deviare dalle proprie
convinzioni anche solo di poco?
– Mentre tu, sei fiero della tua fermezza?
– Sì! Hier stehe ich und kann nicht anders22.
– Che testone! Questa è metafisica! Invece di imparare, di crearti una nuova
vita qui in prigione...
– Quale vita? La bile velenosa dei falliti?
– ...tu di proposito hai chiuso gli occhi, ti sei tappato le orecchie e hai
assunto una bella posa. Dài prova così della tua intelligenza? Rifiutare lo
sviluppo è una cosa intelligente? Ti sforzi di avere fede nel trionfo del vostro
maledetto comunismo, ma la fede non ce l’hai!
– Non si tratta di fede, ma di sapere scientifico, zuccone! E di imparzialità.
– Tu?! Tu saresti imparziale?
– Certamente! – pronunciò Rubin, con dignità.
– Mai conosciuto in vita mia uomo più parziale di te!
– Sollevati dal tuo ‘monte di vista’23! Dài uno sguardo allo spaccato storico!
Le-git-ti-mi-tà! La conosci questa parola? Una legittimità inevitabilmente
condizionata! Tutto va come deve andare! Il materialismo storico non poteva
smettere di essere verità per il solo fatto che noi due siamo in prigione. E non
c’è niente in cui frugare con il naso, tirare fuori uno scetticismo putrefatto!
– Lev, vedi di capirmi! Non mi sono separato con gioia da questa teoria, ma
con il dolore nel cuore. È stata suono e passione della mia giovinezza, per lei
avevo dimenticato e mandato alla malora tutto il resto! Ora sono come un
picciolo, cresco in una buca dove una bomba ha sradicato l’albero della fede.
Ma da allora, da quando nelle liti in prigione continuavano a picchiarmi...
– Perché non ci arrivavi, scemo!
– ...ho dovuto rigettare per onestà le vostre fragili costruzioni. E cercarne
altre. Ma non è facile. Il mio scetticismo, in fondo, è come una baracca lungo il
tragitto, in cui proteggermi dal maltempo.
– Ah, quante chiacchiere! Scetticismo! Pensi davvero di poterti trasformare
in uno scettico come si deve? Per uno scettico è d’obbligo la sospensione del
giudizio, tu invece sputi sentenze su tutto. Per uno scettico è d’obbligo
l’atarassia, l’imperturbabilità spirituale, tu invece ti scaldi per un nonnulla!
– Sì! Hai ragione! – Gleb si prese la testa fra le mani. – Sogno di essere
calmo, coltivo in me... il proposito di mantenere un certo distacco, ma poi mi
faccio prendere dal vortice delle circostanze e turbino, digrigno i denti e mi
indigno...
– Un certo distacco... Però saresti pronto ad afferrarmi per la gola perché a
Džezkazgan manca l’acqua potabile!
– Dovrebbero mandarti laggiù, vigliacco! Sei l’unico fra tutti noi che
consideri necessari i metodi dell’MGB...
– Sì! Senza un sistema penitenziario duro lo Stato non potrebbe esistere...
– ...Dovrebbero proprio mandarti a Džezkazgan! Chissà se laggiù
continueresti con questa tiritera!
– Idiota patentato! Avrai pur letto che di scetticismo hanno parlato grandi
uomini. Per esempio, Lenin!
– Ah, sì? E cosa avrebbe detto Lenin?
– Lenin diceva: ‘Tra i paladini del vaniloquio liberale russo lo scetticismo è
una forma di transizione dalla democrazia al lurido e servile liberalismo.’
– Come come come? Sei certo di non aver travisato?
– È scritto così. Sta nell’articolo In memoria di Herzen e riguarda...
Neržin, affranto, si prese la testa fra le mani.
– Eh? – addolcì il tono Rubin. – Hai capito?
– Sì. – Neržin cominciò a dondolare con il busto. – Era meglio se non lo
dicevi. E pensare che un tempo lo adoravo...
– Perché?
– Perché?? È questa la lingua del grande filosofo? Quando non hanno
argomenti sproloquiano così. ‘Paladini del vaniloquio’ è una cosa orribile da
dire. Il liberalismo è l’amore per la libertà, così diventa lurido e servile. Mentre
applaudire a comando è un balzo nel regno della libertà, vero?
Nel fervore della discussione i due amici erano stati poco prudenti e le loro
esclamazioni erano giunte fino a Simočka, che da un po’ fissava Neržin con
severa disapprovazione. Era offesa all’idea che il suo turno stesse finendo senza
che lui nemmeno accennasse in qualche modo di voler sfruttare quella serata
favorevole, e non si fosse degnato di voltarsi dalla sua parte.
– No, tu hai un cervello troppo contorto – si rassegnò Rubin. – Su, spiegati
meglio.
– Per esempio, avrebbe un qualche senso dire che lo scetticismo è un modo
per soffocare il fanatismo. Lo scetticismo è un modo per liberare le menti
dogmatiche.
– E qui chi sarebbe il dogmatico? Io, giusto? Sarei io il dogmatico? – I
grandi occhi di Rubin lo fissavano con rimprovero. – Io, un detenuto della leva
del ’45. Quattro anni al fronte, che mi stanno in un fianco come una scheggia, e
cinque di prigione sulla schiena. So vedere le cose quanto te. E se mi
convincessi che è tutto marcio fino in fondo, sarei il primo a dire che
bisognerebbe pubblicare un’altra ‘Kolokol’24! E quella campana andrebbe
suonata a martello! Per mandare tutto all’aria! Non mi nasconderei sotto il
cespuglio di chi sospende il giudizio! Non mi coprirei con la foglia di fico dello
scetticismo... Ma io so che il marcio è in superficie, solo all’esterno, mentre la
radice è sana, il fusto è sano, e quindi vanno salvati, non estirpati.
Sulla scrivania vuota dell’ingegner maggiore Rojtman, il capo dell’Acustico,
suonò il telefono interno. Simočka si alzò e andò a rispondere.
– Mettitelo in testa, devi capire la ferrea legge del nostro secolo: ci sono due
mondi, due sistemi! Non ce n’è un terzo! Non può esistere nessun’altra ‘Kolokol’:
non si può lasciare che il vento ne diffonda il suono! Inammissibile! È
obbligatorio scegliere: con quale delle due forze mondiali stai?
– Ma smettila! Ragionare così va a vantaggio del Capobanda25! Con questa
storia dei ‘due mondi’ ha schiacciato tutti.
– Gleb Vikent’ič!
– Senti un po’ – ora Rubin aveva afferrato con foga Neržin per la tuta. – Lui
è un grandissimo uomo!
– Che sciocco! Sei un pecorone!
– Prima o poi lo capirai che Lui è al contempo il Robespierre e il Napoleone
della nostra Rivoluzione? È saggio! Lo è per davvero! Vede lontano, fin dove il
nostro sguardo limitato non può arrivare...
– E intanto ci considera degli stupidi! E ci rifila la sua solita minestra...
– Gleb Vikent’ič!
– Che c’è? – rispose Neržin, staccandosi da Rubin.
– Non ha sentito? Hanno telefonato! – gli si rivolse Simočka per la terza
volta, in tono molto severo, le sopracciglia aggrottate. Se ne stava in piedi
davanti alla scrivania, con le braccia incrociate, stretta nello scialle marrone di
lanugine di capra. – Anton Nikolaevič la vuole nel suo ufficio.
– Ah sì? – l’impeto della discussione sparì subito dal volto di Neržin, le
rughe scomparse tornarono al proprio posto. – Va bene, grazie, Serafima
Vital’evna. Hai sentito, Lëvka, è Anton. Cosa vorrà?
Una chiamata nell’ufficio del direttore dell’istituto alle dieci della sera di
sabato era un avvenimento fuori dell’ordinario. Sebbene Simočka si sforzasse
di mostrarsi indifferente e fredda, dal suo sguardo Neržin l’aveva capito: era
preoccupata.
L’acceso scambio di vedute fu immediatamente dimenticato. Rubin guardava
l’amico con premura. Quando non erano alterati dalla passione della disputa, i
suoi occhi apparivano di una mitezza quasi femminile.
– Non mi piace quando i capi si interessano a noi – disse.
– E poi perché? – si strinse nelle spalle Neržin. – Il nostro è un lavoruccio
insignificante, figuriamoci, solo delle voci...
– Anton vorrà farci una bella lavata di testa. Finiremo nei guai per i ricordi
di Stanislavskij26 e i discorsi di avvocati famosi – si mise a ridere Rubin. – E se
fosse per le articolazioni del Sette?
– Hanno già messo la firma ai risultati, non c’è nessuna possibilità di tirarsi
indietro. In ogni caso, se non dovessi tornare...
– Non dire idiozie!
– In che senso idiozie? Con la vita che facciamo? Brucia quelle cose, sai dove
sono. – Gleb tirò giù la serrandina della scrivania, mise con calma le chiavi in
mano a Rubin e si incamminò con l’andatura tranquilla di un carcerato al
quinto anno di detenzione, che non va mai di fretta da nessuna parte, perché
dal futuro si attende sempre il peggio.

22 Celebre frase di Lutero: “Qui sto e non posso fare altrimenti.”


23 In un articolo del 1933 intitolato O kočke i o točke (Sul monte e sul punto), Maksim Gor’kij spiega ai
giovani scrittori la differenza fra točka zrenija (punto di vista) e kočka zrenija (monte di vista) per evitare che
descrivessero le cose guardando “dall’alto”, come da una montagna, dove tutto appare lontano e sfocato.
24 “Kolokol” (La campana), rivista politica dell’emigrazione russa, fondata a Londra nel 1857 da A.I.
Herzen.
25 Stalin.
26 Registrati alle prove del Tartuffe di Molière nel 1938.
10
I ROSACROCIANI

Con quell’andatura noncurante, all’ombra delle lampade a parete di rame e


sotto l’alto soffitto di stucchi, Neržin percorse la passatoia rossa dell’ampia
scala, deserta a quell’ora tarda, salì al secondo piano e, superata la scrivania del
sorvegliante di turno libero addetto ai telefoni cittadini, bussò alla porta del
capo dell’istituto, l’ingegner colonnello della Sicurezza di Stato Anton
Nikolaevič Jakonov.
L’ufficio era spazioso, profondo, coperto di tappeti, arredato con poltrone,
divani; nel mezzo spiccava l’azzurro della tovaglia che copriva il lungo tavolo
delle riunioni e nell’angolo in fondo il marrone delle forme tondeggianti della
scrivania e della poltrona di Jakonov. Neržin era capitato in quella
magnificenza solo poche volte, e la maggior parte più per una riunione che da
solo.
L’ingegner colonnello Jakonov, sui cinquant’anni ma nel pieno del vigore,
un’altezza considerevole, sul viso ancora tracce di talco dopo la rasatura, il
pince-nez d’oro, la morbida corpulenza di un Obolenskij o di un Dolgorukov e
i movimenti solenni e sicuri, si distingueva fra tutti gli alti funzionari del suo
ministero.
Con un ampio gesto invitò Neržin:
– Si accomodi, Gleb Vikent’ič! – disse, seduto con un’aria un po’ cupa sulla
poltrona da un posto e mezzo, e intanto giocherellava con una grossa matita
colorata sulla superficie marrone della scrivania.
Chiamare Neržin per nome e patronimico era segno di cortesia e di
benevolenza, che tuttavia non gli costava alcuna fatica, avendo sotto il vetro
della scrivania l’elenco di tutti i detenuti (chi non era a conoscenza di questa
circostanza si stupiva della memoria di Jakonov). Neržin si inchinò in silenzio,
senza tenere le braccia immobili lungo i fianchi, ma nemmeno agitandole
troppo, e si sedette in attesa accanto a un elegante tavolinetto laccato.
La voce di Jakonov risuonava senza sforzo. Sembrava sempre strano che un
gran signore come lui non avesse il vezzo ricercato di una “erre” alla francese.
– Sa, Gleb Vikent’evič, mezz’ora fa, per un’associazione di idee, mi sono
ricordato di lei e ho pensato: qual buon vento, in sostanza, lo avrà portato
all’Acustico fino a... Rojtman?
Jakonov aveva pronunciato quel cognome con palese noncuranza, persino
senza aggiungervi – in presenza di un sottoposto di Rojtman! – il grado di
maggiore. I cattivi rapporti fra il capo dell’istituto e il suo primo vice si erano
spinti talmente in là che non c’era bisogno di tenerli nascosti.
Neržin si irrigidì. La conversazione, intuì, era cominciata male. Con la stessa
ironia sprezzante sulla grossa bocca dalle labbra né sottili né carnose, qualche
giorno prima Jakonov aveva detto a Neržin che lui, Neržin, magari era pure
obiettivo riguardo ai risultati delle articolazioni, tuttavia trattava il Sette non
come un caro estinto, bensì come il cadavere sconosciuto di un ubriacone
trovato sotto il muro di cinta di Marfino. Il Sette era il cavallo su cui aveva
puntato Jakonov, ma stava andando male.
– Io, ovviamente, apprezzo molto i suoi meriti nella scienza delle
articolazioni...
(Prende in giro!)
– ...è davvero un peccato che la sua monografia così originale sia stata
pubblicata in tiratura limitata e in segreto, privandola della fama di un George
Fletcher russo...
(E lo fa in modo sfacciato!)
– ...tuttavia, vorrei ricavare dalla sua attività un maggiore... profit, come
dicono gli anglosassoni. Adoro le scienze astratte, ma sono un uomo concreto.
L’ingegner colonnello Jakonov si trovava in una posizione già piuttosto
elevata, ma non ancora così vicina al Capo dei Popoli, per potersi permettere il
lusso di non nascondere la propria intelligenza e non sospendere i giudizi
originali.
– Comunque, voglio rivolgerle una domanda esplicita... che fa lei adesso
all’Acustico?
Impossibile escogitarne una più implacabile! Jakonov non aveva tempo di
stare dietro a tutto e con quella domanda poteva capire molto.
– Cosa diavolo la spinge a occuparsi di quel lavoro da pappagalli... styr, smyr?
Lei, un matematico? Cos’ha studiato all’università? Guardi alle sue spalle.
Neržin si girò e rimase sorpreso: nell’ufficio non erano in due ma in tre! Un
uomo modesto, in borghese, vestito di nero si alzò dal divano per andargli
incontro. Agli occhi gli scintillavano due occhiali rotondi, lucenti. Alla
generosa luce che cadeva dall’alto, Neržin riconobbe Pëtr Trofimovič Verenëv,
docente presso la sua università prima della guerra. Tuttavia, per un’abitudine
acquisita in prigione, rimase in silenzio, senza fare il minimo movimento,
pensando di trovarsi di fronte a un detenuto come lui che avrebbe potuto
danneggiare con un riconoscimento affrettato. Verenëv sorrise, ma sembrò
anche lui confondersi. Con voce rassicurante, Jakonov pronunciò:
– La setta dei matematici ha un rituale di riservatezza davvero invidiabile.
Per tutta la vita ho visto i matematici come una sorta di rosacrociani, e mi è
sempre dispiaciuto non essere venuto a capo dei loro segreti. Non siate in
imbarazzo. Datevi una bella stretta di mano e mettetevi tranquilli senza fare
tante cerimonie. Vi lascerò soli mezz’ora, così potrete rievocare qualche caro
ricordo e il professor Verenëv potrà informarla dei compiti che la Sesta
Direzione ci ha assegnato.
E Jakonov sollevò dall’ampia poltrona il pesante e imponente corpo
insignito da spalline azzurro-argentate e lo condusse senza fatica fino all’uscita.
Quando Verenëv e Neržin si concessero una stretta di mano, erano ormai soli.
Al detenuto Neržin quell’uomo pallido con gli occhiali lucenti sembrò uno
spettro riapparso abusivamente da un mondo dimenticato. Tra quel mondo e
l’attuale c’erano stati i boschi lungo il lago di Il’men’, le colline e i fossati della
provincia di Orël, le sabbie e le paludi della Bielorussia, le sazie folwarki – le
fattorie polacche, le tegole delle cittadine tedesche. In quel periodo di
alienazione novennale si erano inseriti le celle e i “box” terribilmente nudi della
Bol’šaja Lubjanka. Le prigioni di transito grigie e maleodoranti. Gli asfissianti
vagoni per il trasporto detenuti. Il vento tagliente della steppa che sferzava gli
zek affamati e infreddoliti. Dopo tutto questo, era impossibile rinnovare dentro
di sé le sensazioni che provava nel trascrivere le lettere di una funzione di
variabile reale sul cedevole linoleum di una lavagna.
Si accesero entrambi una sigaretta, Neržin era agitato; si accomodarono
separati dal tavolinetto.
Non era la prima volta che Verenëv incontrava uno dei suoi ex studenti,
dell’università di Mosca o di quella di Rostov, dove era stato inviato prima della
guerra perché adottasse la linea dura in una disputa fra scuole teoriche. Ma
anche per lui c’era qualcosa di inusuale nell’incontro di quel giorno:
l’isolamento di quell’impianto nei pressi di Mosca ammantato da un velo di
tripla segretezza e protetto da diversi strati di filo spinato; la strana tuta blu al
posto del solito abbigliamento civile.
Con chissà quale diritto, accentuando duramente le rughe intorno alle
labbra, il più giovane dei due, il perdente, faceva le domande e il più anziano
rispondeva, timidamente, come se si vergognasse della propria semplice
biografia di studioso: evacuazione, rievacuazione, tre anni di lavoro da K..., tesi
di dottorato in topologia... Distratto fino alla scortesia, Neržin non gli
domandò neppure l’argomento della tesi in quella scienza arida che un tempo
lui stesso aveva scelto per un progetto annuale. D’un tratto gli dispiacque per
Verenëv... Insiemi ordinati, insiemi parzialmente ordinati, insiemi chiusi... La
topologia! Stratosfera del pensiero umano! Nel XXIV secolo, forse, sarebbe
servita a qualcuno, ma adesso... Adesso...
Non so dir nulla di soli e di mondi;
vedo soltanto come gli uomini si affannano...27

Com’era capitato in quel dicastero? Perché aveva lasciato l’università? Ah, lo


avevano destinato lì... E non poteva rifiutarsi? Be’, avrebbe anche potuto, ma...
là gli stipendi erano il doppio... Aveva dei figli? Quattro...
Senza un vero motivo iniziarono a rammentare gli studenti dello stesso
anno di Neržin, l’ultimo esame lo avevano dato il giorno in cui era iniziata la
guerra. I migliori erano stati feriti, oppure erano morti. Sono sempre loro a
gettarsi in avanti, a non risparmiarsi. Quelli da cui non ci si aspettava granché,
invece, o stavano finendo il dottorato di ricerca o erano diventati assistenti. Be’,
e il nostro orgoglio, Dmitrij Dmitrevič!? Gorjainov-Šachovskoj!?
Gorjainov-Šachovskoj! Era un vecchietto ormai trasandato per avanzata
vetustà, o si imbrattava con il gesso la giacca di velluto nero, o si infilava in
tasca, al posto del fazzoletto, lo straccetto della lavagna. Barzelletta vivente in
numerosi aneddoti “sui professori”, anima dell’università imperiale di Varsavia,
nel 1915 era passato, come se andasse al patibolo, nella commerciale Rostov.
Mezzo secolo di lavoro scientifico, un vassoio di telegrammi di congratulazioni
da Milwaukee, Capetown, Yokohama. E negli anni Trenta, quando avevano
trasformato l’università in “Istituto industriale pedagogico” era stato epurato
dalla commissione proletaria come elemento borghese ostile. Se non fosse stato
per l’amicizia personale con Kalinin, non si sarebbe salvato: si diceva che il
padre del professore avesse avuto un tempo il padre di Kalinin come servo
della gleba. Vero o non vero che fosse, Gorjainov si recò a Mosca e tornò con
una disposizione: lui non si tocca!
E non lo toccarono. Non lo toccarono al punto che gli altri cominciarono
ad avere terrore di lui. Ora scriveva uno studio con la prova matematica
dell’esistenza di Dio, ora durante una lezione pubblica sul suo mito Newton
sotto i baffi gialli tuonava:
– Ho ricevuto questo biglietto: ‘Marx ha scritto che Newton era un
materialista e lei dice che è un idealista.’ Ecco la mia risposta: Marx si è
sbagliato. Come ogni eminente scienziato, Newton credeva in Dio.
Trascrivere le sue lezioni era terribile! Le stenografiste erano disperate! Per
via delle gambe deboli, si sedeva proprio accanto alla lavagna, il viso girato
verso di essa e le spalle all’aula, con la mano destra scriveva mentre con la
sinistra subito cancellava; e per tutto il tempo non faceva altro che borbottare
qualcosa tra sé. Assolutamente impossibile capire le sue idee durante la lezione.
Ma quando Neržin e un compagno riuscivano a trascrivere in due, dividendosi
il lavoro, e la sera lo decifravano, l’anima era folgorata come davanti allo
scintillio di un cielo stellato.
E dunque, che fine aveva fatto?... Il vecchio era stato ferito durante un
bombardamento della città, lo avevano portato in Kirgizija mezzo morto. Che
cosa fosse successo durante la guerra ai suoi figli, entrambi docenti, Verenëv
non lo sapeva, ma doveva essere avvenuto qualcosa di losco, un tradimento. Il
più giovane, Stivka, a quanto dicevano, ora faceva lo scaricatore al porto di
New York.
Neržin guardò attentamente Verenëv. Menti erudite che vi lanciate negli
spazi pluridimensionali, perché osservate la vita da angusti corridoi? Un
pensatore sbeffeggiato da porci e cani era una piccola pecca, una deviazione
temporanea. I figli che non perdonavano l’umiliazione di un padre, un losco
tradimento. Chi poteva saperlo se era diventato davvero uno scaricatore di
porto! Erano gli oper a formare l’opinione pubblica...
Ma per cosa... stava in prigione Neržin?
Gleb scoppiò a ridere.
No, davvero, per cosa?
– Per le mie idee, Pëtr Trofimovič. In Giappone esiste una legge che
permette di processare una persona per delle idee inespresse.
– In Giappone! Ma da noi una legge così non c’è, eh?
– Da noi c’è eccome, si chiama Cinquantotto-dieci.
E Neržin si trovò ad ascoltare distrattamente la questione principale, il
motivo per cui Jakonov aveva fatto rincontrare lui e Verenëv. La Sesta
Direzione aveva mandato lì Verenëv ad approfondire e sistematizzare il lavoro
crittografico e di codificazione. Servivano matematici, molti matematici, ed era
contento di vedere tra loro un suo studente, sul quale un tempo si nutrivano
così grandi speranze.
Neržin, attento solo in parte, faceva domande volte a precisare;
accendendosi via via di fervore matematico Pëtr Trofimovič cominciò a
spiegargli il loro compito, a raccontare quali prove avrebbero dovuto eseguire,
quali formule riesaminare. Ma Neržin pensava a quei foglietti che poteva
riempire fitti fitti tanto pacatamente, protetto da oggetti di facciata, sotto lo
sguardo furtivo e amorevole di Simočka e con il bonario borbottio di Lev. Quei
foglietti erano la sua prima maturità a trent’anni.
Naturalmente sarebbe stato preferibile raggiungere la maturità nella propria
materia. A che scopo doveva infilare la testa in fauci dalle quali gli stessi storici
erano scappati a gambe levate per affrontare secoli molto meno pericolosi? Che
cosa lo spingeva a tentare di decifrare quel gigante opprimente ed esagerato cui
sarebbe bastato muovere un ciglio, e la testa di Neržin sarebbe volata via?
Come si suol dire: “di cosa hai bisogno tu più di tutti gli altri?” Più di tutti gli altri,
di cosa hai bisogno tu?
Concedersi dunque ai tentacoli da piovra della crittografia? Quattordici ore
al giorno, senza sosta, anche negli intervalli, la sua testa sarebbe stata occupata
dalla teoria delle probabilità, la teoria dei numeri, la teoria degli errori... Un
cervello morto. Un’anima inaridita. Quanto tempo gli sarebbe rimasto per
meditare? Quanto, per conoscere la vita?
In compenso, la šaraška. Non il campo di lavoro. Carne a pranzo. Burro la
mattina. La pelle delle mani che non si taglia, che non si riempie di solchi. Le
dita che non si congelano. Non cadi sul pancaccio esanime come un tronco
morto nei luridi lapti invernali: ti corichi con piacere in un letto, sotto un
lenzuolo bianco.
Per cosa vivere, allora, tutta la vita? Per sopravvivere? Per mantenere il
benessere del corpo?
Dolce benessere! Che senso hai, se a parte te non c’è nient’altro?
Tutti gli argomenti della ragione dicevano: Sì, sono d’accordo, cittadino
capo!
Tutti gli argomenti del cuore: Vade retro, Satana!
– Pëtr Trofimovič! Ma lei... è in grado di fare un paio di scarpe?
– Come, scusi?
– Dicevo: mi insegnerebbe come si fanno delle scarpe? Potrei averne
bisogno.
– Mi scusi ma non la capisco...
– Pëtr Trofimovič! Lei vive proprio dentro un guscio! Una volta scontata qui
la mia pena, mi manderanno nella taiga deserta, in esilio eterno. Non so fare
nulla con le mani: come riuscirò a sopravvivere? Laggiù ci sono gli orsi bruni.
Laggiù le funzioni di Eulero non serviranno a nessuno prima di tre ere
mesozoiche.
– Ma cosa sta dicendo, Neržin?! Se il suo lavoro come crittografo avrà
successo la libereranno prima dei termini, cancelleranno i suoi precedenti
penali, le assegneranno un appartamento a Mosca...
– Eh, Pëtr Trofimovič, le risponderò con il motto di un bravo ragazzo, mio
amico al campo: ‘Che gli porti un pesce o un gambero, avrai solo un grazie.’ Da
loro, non mi aspetto ringraziamenti, non chiederò scusa, e i pesci da me non li
avranno!
La porta si spalancò. Entrò l’imponente dignitario con il pince-nez d’oro sul
naso carnoso.
– Allora, come va, rosacrociani? Vi siete messi d’accordo?
Senza alzarsi, sostenendo con fermezza lo sguardo di Jakonov, Neržin
rispose:
– A sua disposizione, Anton Nikolaevič, ma io ritengo che il mio compito al
Laboratorio Acustico non sia ancora terminato.
Jakonov, già in piedi dietro la sua scrivania, si appoggiò al vetro con le
nocche dei pugni grassocci. Solo chi lo conosceva bene avrebbe potuto
percepire ira nelle sue parole:
– Matematica! E articolazione... ha rinunciato al nettare degli dèi per un
piatto di lenticchie. Vada pure.
E con la punta a due colori della grossa matita tracciò sul blocco da tavolo:
“Cancellare Neržin.”

27 Faust cit.
11
IL CASTELLO INCANTATO

Già da molti anni, nel corso della guerra e dopo, Jakonov occupava la sicura
carica di ingegnere capo della Sezione di Tecnica speciale dell’MGB. Portava con
dignità le spalline argentate dalla bordatura celeste, con le tre grosse stelle da
ingegnere colonnello che si era meritato grazie alle sue competenze. La carica
che ricopriva era tale da permettergli di svolgere le sue funzioni direttive da
lontano e in termini generali, a volte di presentare una relazione erudita a un
auditorio di funzionari di alto grado, altre volte di parlare in modo intelligente
e forbito con un ingegnere riguardo a un modello già pronto, insomma farsi
passare per un intenditore senza dover rispondere di nulla e percependo
diverse migliaia di rubli al mese. La carica che ricopriva era tale per cui Jakonov
illuminava con la propria eloquenza la nascita di tutte le imprese tecniche della
Sezione; vi si sottraeva nei periodi di difficile maturazione e crisi di crescita e
onorava di nuovo con la propria presenza sia le vasche incavate delle loro bare
nere che l’incoronazione dorata degli eroi.
Anton Nikolaevič non era così giovane e presuntuoso da aspirare
all’illusorio luccichio di una Stella d’Oro o al distintivo del premio Stalin, da
afferrare con le proprie mani ogni obiettivo del ministero o del Padrone stesso.
Anton Nikolaevič era già abbastanza esperto e avanti con gli anni da rifuggire i
voli e le cadute, queste emozioni così strettamente legate.
Attenendosi a simili regole, aveva vissuto senza problemi fino al gennaio del
1948. In quel gennaio qualcuno aveva suggerito al Padre dei popoli d’Oriente e
d’Occidente l’idea di creare uno speciale sistema di telefonia segreta, tale da
non permettere a nessuno di capire le sue conversazioni telefoniche, persino
nel caso che fossero intercettate. Un sistema che gli permettesse di parlare dalla
sua dacia di Kuncevo con Molotov a New York. Puntando l’augusto dito con
una macchia gialla di nicotina accanto all’unghia, il Generalissimo aveva scelto
sulla carta l’impianto di Marfino, sino ad allora occupato a creare trasmettitori
radio portatili per la polizia. Le storiche parole, pronunciate con il solito
accento georgiano, a tal proposito erano state:
– Che me ne faccio io di questi trasmettitori? Ci pesco qualche ladro
d’appartamento?
E aveva fissato una scadenza: 1° gennaio 1949. Poi ci aveva ripensato e aveva
aggiunto:
– D’accordo, il Primo Maggio.
Il compito era impegnativo ed eccezionale, dato il poco tempo a
disposizione. Nel ministero ci avevano riflettuto, poi avevano dato a Jakonov
l’incarico di cavarsela lui a Marfino. Inutile ogni sforzo di dimostrare quanto
fosse occupato, di non poter sovrapporre gli incarichi. Foma Gur’janovič
Oskolupov, il capo della Sezione, lo aveva fissato con i suoi verdognoli occhi
da gatto: Jakonov si era ricordato del proprio questionario personale non più
immacolato (era finito in prigione per sei anni) e aveva taciuto.
Da allora erano trascorsi quasi due anni, e l’ufficio dell’ingegnere capo della
Sezione nella sede del ministero rimaneva spesso vuoto. L’ingegnere capo
passava giorni e notti fuori città, nell’edificio dell’ex seminario coronato da una
torre esagonale sopra la cupola di un altare soppresso.
All’inizio dirigerlo era stato per lui persino gradevole: chiudere stancamente
la portiera della sua “Pobeda” personale, raggiungere Marfino
semiaddormentato; oltrepassare il portone difeso dal filo spinato, e la guardia
che gli faceva il saluto; camminare con maggiori e capitani al seguito sotto i
tigli centenari del boschetto di Marfino. I superiori non pretendevano ancora
niente da Jakonov: solo progetti, progetti, progetti e obblighi socialisti. Come
contropartita sull’istituto si era rovesciato il corno dell’abbondanza dell’MGB:
apparecchiature inglesi e americane acquistate; quelle tedesche sottratte al
nemico; zek nostrani fatti venire dai campi di lavoro; una biblioteca tecnica con
ventimila volumi nuovi; i migliori oper e archivisti, grandi esperti di attività
segreta; infine, guardie dell’alta scuola della Lubjanka. Avevano dovuto
ristrutturare il vecchio edificio del seminario, costruire nuovi fabbricati – per la
direzione della prigione speciale, per i laboratori sperimentali – e, durante il
periodo della fioritura gialla dei tigli, quando addolcivano l’aria con il loro
profumo, all’ombra di quei giganti, si sentivano i discorsi tristi degli indolenti
prigionieri di guerra tedeschi nelle malconce giacche militari color lucertola.
Quei pigri fascisti al quarto anno di prigionia postbellica non avevano proprio
voglia di lavorare. Per un russo era insopportabile vedere in che modo
scaricavano i mattoni dai camion: si passavano ogni mattoncino di mano in
mano, lentamente, con cautela, quasi fosse di cristallo, fino a posarlo e
formarne una pila. Mentre installavano i termosifoni sotto le finestre e
rifacevano i pavimenti marci, i tedeschi si aggiravano per quelle stanze
ultrasegrete e leggevano di sottecchi le scritte sulle apparecchiature ora nella
loro lingua ora in inglese: anche uno scolaretto tedesco avrebbe potuto
indovinare a cosa erano destinati quei laboratori! Il detenuto Rubin lo aveva
denunciato in un rapporto per l’ingegner colonnello, ed erano tutte cose
giustissime, ma per gli oper Šikin e Myšin (nel gergo dei carcerati Šiškin-
Myškin)28 si trattava di un rapporto assai scomodo; come dovevano agire a
quel punto? Il loro errore andava segnalato più in alto? Nel frattempo però
l’attimo era fuggito, i prigionieri di guerra erano già stati rispediti in patria e
chi era andato nella Germania Ovest avrebbe potuto riferire la posizione
dell’intero istituto e dei singoli laboratori, sempre che a qualcuno interessasse.
E quando gli ufficiali di altre direzioni dell’MGB cercavano l’ingegner
colonnello per faccende di servizio, lui non aveva il diritto di indicare
l’indirizzo della sede e, nel rispetto di una segretezza mai scalfita, si recava a
parlare con loro alla Lubjanka.
Avevano lasciato andare i tedeschi e al loro posto, per ristrutturare e
costruire, avevano preso gli zek, uguali a quelli della šaraška, solo in abiti
sporchi e laceri, e non ricevevano pane bianco. Ora, per necessità e senza
alcuna necessità, sotto i tigli risuonavano le sane imprecazioni del campo, che
ricordavano agli zek della šaraška la loro solida patria e il loro ineluttabile
destino; i mattoni venivano strappati dal camion veloci come il vento, al punto
che di intatti quasi non ne rimanevano, finivano tutti spaccati a metà; al grido
“uno-due-su!” gli zek rovesciavano sul cassone del camion una calotta di legno
compensato e poi, per fare meglio la guardia ai mattoni, vi si infilavano sotto,
abbracciando allegramente le ragazze che li ingiuriavano, restavano chiusi lì e
venivano trasportati per le vie di Mosca fino al campo, dove trascorrevano la
notte.
Così, in quel castello magico che un’incantata zona di fuoco separava dalla
capitale e dai suoi abitanti poco informati, lemuri in giubbe nere da marinaio
creavano trasformazioni da fiaba: tubazioni, canalizzazione, riscaldamento
centrale e aiuole.
Intanto la struttura ben organizzata cresceva e si ampliava. Era entrato a far
parte a tutti gli effetti del complesso di Marfino anche un altro istituto di
ricerca, che conduceva un’attività simile. Quell’istituto era arrivato con tavoli,
sedie, armadi, cartelle-raccoglitori, una strumentazione che invecchiava non di
anno in anno ma di mese in mese e con il proprio capo, ingegnere maggiore
Rojtman, che era diventato il vice di Jakonov. Purtroppo il colonnello Jakov
Ivanovič Mamurin, capo delle Comunicazioni Particolari e Speciali dell’MVD,
uno dei più eminenti uomini dello Stato nonché fondatore dell’istituto appena
inglobato, suo ispiratore e protettore, era scomparso in circostanze tragiche
prima di tutto questo.
Una volta il Capo di tutta l’Umanità Progressista conversava con la
provincia cinese di Yunnan ed era rimasto scontento dei rumori e delle
interferenze nella cornetta. Aveva telefonato a Berija e gli aveva detto in
georgiano:
– Lavrentij! Chi è l’idiota a capo delle Comunicazioni? Levalo di mezzo.
Così avevano “levato di mezzo” Mamurin, cioè lo avevano portato alla
Lubjanka. Lo avevano tolto di mezzo, però non sapevano cosa farsene. Non
avevano ricevuto le solite direttive: per cosa processarlo e quanti anni dargli.
Fosse stato un estraneo gli avrebbero affibbiato un quartino e lo avrebbero
sbattuto a Norilsk. Ma conoscendo bene la sacrosanta verità dell’“oggi a te,
domani a me”, i dirigenti dell’MVD avevano prima trattenuto Mamurin e poi,
non appena convinti che Stalin si era dimenticato di lui, lo avevano mandato
senza istruttoria né durata della pena nella dacia fuori città.
Così, una sera d’estate del 1948, alla šaraška di Marfino era stato condotto un
nuovo zek. In quell’arrivo ogni cosa era fuori dell’ordinario: il fatto che non lo
avessero portato su un corvo, ma su un’automobile; che non fosse accompagnato
da un comune secondino ma dal capo della Sezione delle Prigioni dell’MGB; e
infine che gli avessero servito la sua prima cena coperta da un velo di garza
nell’ufficio del capo della prigione speciale.
Si era sentito (gli zek non sono autorizzati a sentire, eppure sentono sempre
tutto) che il nuovo arrivato diceva “non voglio il salame” (?!), e che il capo
della Sezione carceraria lo aveva esortato con un “mangi”. A origliare
attraverso un tramezzo era stato uno zek che si trovava dal medico a farsi dare
un rimedio. Esaminate le inaudite novità, la popolazione originaria della
šaraška era giunta alla conclusione che il nuovo arrivato fosse comunque un
detenuto e, soddisfatta, se n’era andata a dormire.
Dove il nuovo arrivato avesse trascorso la notte, gli storici della šaraška non
lo avevano accertato. Ma il mattino seguente, molto presto, nel grande atrio di
marmo (dove poi ai detenuti non fu più permesso accedere) uno zek rozzo, un
goffo meccanico, si era imbattuto faccia a faccia con il nuovo.
– Allora, fratello, – gli aveva dato una pacca sul petto – da dove vieni? Con
cosa ti sei bruciato? Siediti qui, fumiamo un po’.
Ma il nuovo arrivato si era scostato dal meccanico con orrore e ripugnanza.
Il viso limone pallido si era contorto in una smorfia. Il meccanico aveva fissato
gli occhi bianchi, i radi capelli chiari sul cranio spelacchiato e aveva detto
stizzito:
– Ehi, tu, rettile uscito da una boccia di vetro! Per la miseria, alla ritirata ti
chiuderanno insieme a noi e allora vedrai se parli!
Ma “il rettile uscito da una boccia di vetro” in prigione con gli altri non era
mai stato chiuso. Gli avevano trovato una stanzetta al secondo piano, nel
corridoio del laboratorio, l’ex camera oscura dei fotografi, vi avevano infilato
un letto, un tavolo, un armadio, un vaso di fiori, un fornello elettrico e avevano
strappato il cartone da una finestrella con le inferriate, che non affacciava
nemmeno alla luce del sole, ma su un pianerottolo della scala posteriore, quella
esposta a nord, tanto che la camera del detenuto privilegiato era scarsamente
illuminata anche di giorno. Naturalmente si sarebbe potuta togliere anche la
grata dalla finestra, ma i capi della prigione, dopo qualche titubanza, avevano
deciso di lasciarla. Neppure loro capivano bene quella storia misteriosa e non
riuscivano a stabilire una linea di condotta sicura.
Fu allora che il nuovo arrivato venne battezzato Maschera di Ferro. Per
lungo tempo nessuno aveva saputo il suo nome. Nessuno poteva neppure
parlarci: lo vedevano attraverso la finestra, mentre se ne stava seduto nella sua
cella a testa china, oppure vagava come un’ombra pallida sotto i tigli in ore in
cui ai normali zek non era consentito passeggiare. Maschera di Ferro era giallo
ed emaciato come solo il cadavere ambulante di uno zek dopo una bella
istruttoria di due anni poteva essere, e tuttavia, lo sconsiderato rifiuto del
salame contrastava con quella versione.
Parecchio tempo dopo, quando Maschera di Ferro aveva ormai cominciato a
lavorare al Sette, gli zek avevano scoperto dai liberi che si trattava proprio di
quel colonnello Mamurin che alla Sezione delle Comunicazioni speciali
dell’MVD ordinava di camminare per il corridoio solo in punta di piedi, senza
battere i tacchi, altrimenti furibondo attraversava di corsa la stanza della
segretaria, gridando:
– Vicino all’ufficio di chi pesti i piedi, insolente?? Come fai di cognome?
Parecchio tempo dopo si chiarì pure che la sofferenza di Mamurin era di
origine morale. Il mondo dei liberi lo aveva respinto, mentre a lui quello degli
zek ripugnava. Dapprincipio, in solitudine, aveva letto molti libri – La lotta per
la pace, Il cavaliere della Stella d’oro, I gloriosi figli della Russia, poi i versi di Prokof’ev,
di Gribačëv29, e in lui – uh! – era avvenuta una trasformazione miracolosa:
aveva cominciato a comporre versi! È noto che la disgrazia e i tormenti
dell’anima generano poeti, ma i tormenti di Mamurin erano più acuti di quelli
di qualsiasi altro detenuto. In prigione ormai da due anni senza istruttoria né
processo, viveva come prima in attesa delle ultime direttive del Partito e come
prima adorava il Saggio Capo. Così Mamurin aveva confessato a Rubin di non
soffrire né per la brodaglia della prigione (comunque per lui cucinavano a
parte) né per il distacco dalla famiglia (del resto, una volta al mese veniva
accompagnato di nascosto nel suo appartamento per trascorrervi la notte), e in
generale per nessun animalesco bisogno primario, ma per l’essere stato privato
della fiducia di Iosif Vissarionovič; era un dolore non sentirsi più un
colonnello, ma degradato e disonorato. Ecco perché per i comunisti come lui
sopportare la reclusione era immensamente più gravoso che per le canaglie
senza principi di quel luogo.
Rubin era comunista. Ma dopo aver ascoltato le confessioni di un presunto
compagno di idee e aver letto i suoi versi, ne aveva preso le distanze, aveva
cominciato a evitarlo, si nascondeva persino: passava tutto il suo tempo in
mezzo a persone che lo attaccavano ingiustamente ma con cui almeno
condivideva la medesima sorte.
In Mamurin invece pulsava un’aspirazione inquieta, come un dolore a un
dente: discolparsi davanti al partito e al governo. Purtroppo per lui però, tutta
la sua conoscenza nel campo delle comunicazioni, come ex capo delle
comunicazioni stesse, si esauriva nella capacità di tenere in mano una cornetta
del telefono. Per questo, in sostanza, di lavorare non era in grado: poteva solo
dirigere. Ma anche dirigere un’impresa ritenuta inutile da tutti non gli avrebbe
restituito le simpatie del Miglior Amico degli Addetti alle Comunicazioni.
Bisognava essere a capo di un’impresa considerata promettente.
In quel periodo all’istituto di Marfino erano venute fuori due imprese
promettenti: il Vocoder e il Sette.
Per qualche profondo impulso in grado di annullare tutti gli argomenti
logici, le persone si sentono affini o no a un primo sguardo. Jakonov e il suo
vice Rojtman non si erano trovati. Di mese in mese, erano diventati sempre più
insopportabili l’uno all’altro: attaccati da una mano più pesante allo stesso
carro, non potevano liberarsene, ma soltanto tirare in direzioni opposte.
Quando, dopo studi e prove parallele, aveva cominciato a prendere forma una
telefonia segreta, Rojtman aveva riunito tutti quelli che poteva all’Acustico per
il progetto di un sistema “vocoder”, in inglese voice coder (“codificatore di
voce”), che in russo era stato ribattezzato “apparecchio del linguaggio
artificiale”, nome che però non aveva preso piede. In risposta, Jakonov aveva
eliminato tutti gli altri gruppi e fatto confluire gli ingegneri più svegli e le
apparecchiature importate più costose nel Sette, il laboratorio n. 7. I gracili
germogli dei restanti progetti erano morti in quella lotta impari.
Mamurin aveva optato per il Sette, sia perché non poteva finire subordinato
al suo ex subordinato Rojtman, sia perché anche al ministero ritenevano
ragionevole che alle spalle del corrotto senza partito Jakonov brillasse un
occhio vigile e appassionato.
Da quel momento, fosse Jakonov di notte presente o meno all’istituto, il
colonnello degradato dell’MVD, soffocato in sé l’amore per i versi in favore del
progresso tecnico della patria, prigioniero solitario dai febbrili occhi bianchi e
dalla scandalosa magrezza delle guance incavate poiché rifiutava di mangiare e
di dormire, si consumava a dirigere fino alle due di notte, trasformando il Sette
in una giornata lavorativa di quindici ore. Una giornata lavorativa così
favorevole si poteva avere solo al Sette, dal momento che per Mamurin non
serviva il controllo da parte dei liberi né particolari turni di notte.
Proprio al Sette si era diretto Jakonov quando aveva lasciato Verenëv e
Neržin soli nel suo ufficio.

28 Il soprannome irriverente dei due oper nasce dall’assonanza dei loro cognomi con šiška, “bernoccolo”,
ma anche “pezzo grosso”, e myška, “topolino”.
29 Autori celebri in quell’epoca sovietica.
12
IL SETTE

Come i soldati semplici che, sebbene nessuno comunichi loro le disposizioni


dei generali, hanno sempre la consapevolezza di essere diretti o meno verso un
attacco importante, così anche tra i trecento zek della šaraška di Marfino si era
consolidata la chiara idea che il Sette si trovasse in una fase decisiva.
All’istituto conoscevano tutti la sua vera denominazione, “laboratorio di
linguaggio clippato”, ma si presupponeva che nessuno ne fosse al corrente. La
parola clippato derivava dall’inglese clipping e significava accorciato. A sapere
che quell’impianto si basava sull’utilizzo di modelli americani non erano solo
tutti gli ingegneri e i traduttori dell’istituto, ma anche i montatori, i tornitori, i
fresatori, e forse persino un falegname duro d’orecchi e di cervello, eppure si
dava per accettato che i modelli fossero solo nazionali. E per questo le riviste
radiotecniche con gli schemi e gli articoli teorici sul clipping, che a New York si
vendevano sulle bancarelle, erano qui numerate, legate insieme con un
cordoncino, dichiarate segrete e sigillate in casseforti per sottrarle alle spie
americane.
Clipping, smorzamento, compressione d’ampiezza, differenziazione
elettronica e integrazione del libero linguaggio umano erano modi da ingegneri
per maltrattare quest’ultimo: come se qualcuno frantumasse Novyj Afon o
Gurzuf in blocchetti di materia, li ficcasse in miliardi di scatolette di
fiammiferi, li mischiasse, li trasferisse in aereo a Nerčinsk30, e nel nuovo sito li
rimettesse in ordine, li riassemblasse perfettamente, riproducesse il clima
subtropicale, il rumore della risacca, l’aria del sud e la luce della luna.
La stessa cosa si voleva fare tramite pacchetti-impulsi anche con il
linguaggio, e per di più andava riprodotto non solo in modo che tutto
risultasse comprensibile, ma che il Padrone riconoscesse dalla voce la persona
con cui stava parlando.
Nelle šaraški, questi istituti semivellutati dove il digrignare dei denti nella
lotta per la sopravvivenza nei campi di lavoro non si insinuava, da tempo
immemore era stato lodevolmente stabilito dai capi che, in caso di riuscita del
progetto, gli zek che se n’erano occupati avrebbero ottenuto tutto: libertà,
documenti immacolati, un appartamento a Mosca, mentre gli altri non ne
avrebbero ricavato niente, né un giorno di pena in meno né cento grammi di
vodka in onore dei vincitori.
Non c’erano vie di mezzo.
Per questo i detenuti più tenaci, quelli che maggiormente avevano
introiettato la particolare fermezza con cui gli zek sembrano in grado di tenersi
aggrappati con le unghie a uno specchio verticale, cercavano di finire al Sette,
in modo che da lì potessero spiccare un balzo verso la libertà.
Così ci era finito il brutale ingegner Markušev, il cui viso pustoloso rivelava
di essere pronto a morire per le idee dell’ingegner colonnello Jakonov. E altri
con le medesime aspirazioni.
Ma il sagace Jakonov andava a pescare per il Sette anche fra coloro che non
si proponevano. Come l’ingegner Amantaj Bulatov, un tataro di Kazan’ con
grossi occhiali dalla montatura di corno, schietto, dalla risata fragorosa,
condannato a dieci anni per essere stato prigioniero di guerra e per aver avuto
contatti con il nemico del popolo Musa Džalil’31. (Amantaj veniva considerato
per scherzo il lavoratore più anziano della ditta giacché, diplomatosi all’Istituto
radiotecnico nel giugno del 1941 e finito nel fango della linea di Smolensk, in
quanto tataro era stato tirato fuori dai tedeschi dal campo dei prigionieri di
guerra per iniziare un tirocinio produttivo nei reparti di quella stessa ditta
Lorenz fin dai tempi in cui nelle lettere i suoi dirigenti scrivevano mit Heil
Hitler!) Come pure Andrej Andreevič Potapov, specialista non in correnti a
basso voltaggio ma ad altissimo voltaggio e nella costruzione di centrali
elettriche. Era finito alla šaraška di Marfino per l’errore di un funzionario male
informato, che selezionava le schede nell’archivio del GULAG. Tuttavia, essendo
davvero un ingegnere e un lavoratore indefesso, Potapov si era fatto notare in
fretta a Marfino, rivelandosi indispensabile per le apparecchiature di
misurazione radio più precise e complesse.
Era là anche l’ingegner Chorobrov, grande esperto di radio, assegnato al
gruppo n. 7 fin dall’inizio, quando ancora si trattava di un gruppo come un
altro. Negli ultimi tempi Chorobrov si era stufato del Sette, non riusciva a stare
dietro al suo ritmo pazzesco, e Mamurin si era stufato di lui.
Infine, con un avido e fulmineo ordine speciale, da una squadra a regime
intensificato del campo nei pressi di Salechard era stato portato al Sette il cupo
detenuto Aleksandr Bobynin, un ingegnere geniale, subito piazzato al di sopra
di tutti. Lo avevano strappato direttamente dalle fauci della morte. Bobynin era
il primo candidato alla libertà in caso di successo. Per questo lavorava tirando
anche fin dopo mezzanotte, ma con una dignità talmente sprezzante che
Mamurin lo temeva e solo a lui non osava fare osservazioni.
Il Sette era in una stanza uguale a quella dell’Acustico, solo un piano sopra,
anch’essa ingombra di apparecchiature e mobilio di vario genere, le mancava
solo quel mastodonte della cabina acustica in un angolo.
Jakonov si recava al Sette diverse volte al giorno, per questo il suo arrivo
non veniva considerato come l’arrivo di un vero capo. Si mettevano in mostra e
si affaccendavano ancora più allegri e rapidi solo Markušev e altri ruffiani,
mentre Potapov, per passare inosservato, infilava un altro frequenzimetro nello
spazio libero sullo scaffale degli strumenti a più ripiani e si isolava dal resto del
laboratorio. Svolgeva il proprio lavoro senza slancio, non doveva niente a
nessuno, e ora stava fabbricando in santa pace un portasigarette di plastica
rossa trasparente, che aveva l’intenzione di regalare il mattino successivo.
Mamurin si alzò per andare incontro a Jakonov, da pari a pari. Non
indossava la tuta blu di un normale zek ma un completo di costosa lana, ma
nemmeno l’abito elegante gli abbelliva il viso emaciato e la figura ossuta.
Quanto esprimevano ora la fronte color limone e le labbra esangui da
cadavere vivente era percepito convenzionalmente come gioia, e così fu
percepita da Jakonov.
– Anton Nikolaič! Lo abbiamo reimpostato ogni sedici impulsi e ora va
molto molto meglio. Ecco, ascolti, leggo io.
“Leggere” e “ascoltare” erano la prova necessaria per stabilire la qualità del
segmento telefonico: il segmento veniva modificato più volte al giorno con
l’aggiunta, la rimozione o la sostituzione di qualche elemento, e reimpostare
ogni volta l’articolazione era un lavoro enorme, si faceva fatica a stare dietro
alle idee propositive degli ingegneri, né lo scopo era quello di ottenere risultati
approssimativi da questa scienza ostile che il pupillo di Rojtman, Neržin, aveva
fatto propria.
Condizionati come sempre da un unico pensiero, senza domandare né
spiegare nulla, Mamurin andò nell’angolo in fondo alla stanza, si girò e,
appoggiata la cornetta allo zigomo, cominciò a leggere il giornale al telefono
mentre Jakonov, vicino al quadro con i pannelli, indossò le cuffie collegate
all’altro capo del segmento e si mise in ascolto. Nelle cuffie si produsse
qualcosa di terribile: i suoni venivano interrotti da scoppiettii, fragori, stridii.
Ma come una madre esamina con amore la deformità della propria creatura,
così Jakonov non solo non si strappava il telefono dalle orecchie sofferenti, ma
ascoltava con più attenzione e trovava che quell’orrore fosse già meglio
dell’altro orrore che aveva sentito prima di pranzo. Quella di Mamurin non era
una conversazione da tutti i giorni ma una lettura cadenzata e precisa, e inoltre
Mamurin leggeva un articolo sull’insolenza delle guardie di frontiera jugoslave
e sulla sfrontatezza di Ranković, boia sanguinario della Jugoslavia, che aveva
trasformato una nazione libera in una immensa camera di tortura, ragion per
cui Jakonov intuiva facilmente anche ciò che non sentiva per intero; capiva di
intuire, e poi si dimenticava di avere intuito, e si convinceva sempre più che
rispetto all’ora di pranzo adesso si sentiva meglio.
Gli venne voglia di condividere le proprie impressioni con Bobynin.
Corpulento, spalle larghe e testa provocatoriamente rapata a zero nonostante
alla šaraška fosse permesso di portare i capelli come si voleva, Bobynin era
seduto poco distante. All’arrivo di Jakonov nel laboratorio non si era voltato e,
chino sul lungo nastro del foto-oscillogramma, continuava a misurare con le
punte del suo strumento.
Quel Bobynin era un moscerino nell’universo, uno zek insignificante, un
membro del ceto più basso, con meno diritti di un kolchoziano. Jakonov era un
dignitario.
Eppure, anche se ne aveva una gran voglia, Jakonov non si decideva a
disturbarlo!
Si può costruire l’Empire State Building. Addestrare l’esercito prussiano.
Innalzare la gerarchia di uno Stato totalitario sopra il trono dell’Altissimo.
Ma non si può vincere lo strano senso di inferiorità che alcune persone
hanno nei confronti di altre.
Ci sono soldati temuti dai loro stessi comandanti di compagnia. Manovali
davanti ai quali i capicantiere si intimidiscono. Inquisiti che incutono terrore
agli inquirenti.
Bobynin lo sapeva e si poneva di proposito in questo modo nei confronti dei
capi. Ogni volta che conversava con lui, Jakonov si ritrovava con il vile
desiderio di accontentare quello zek, di non irritarlo; si indignava per il proprio
sentimento, ma aveva notato che anche tutti gli altri parlavano con Bobynin
allo stesso modo.
Jakonov si tolse le cuffie e interruppe Mamurin:
– Meglio, Jakov Ivanyč, decisamente meglio! Vorrei farlo sentire a Rubin, lui
ha un ottimo orecchio.
Una volta qualcuno, soddisfatto di un giudizio di Rubin, aveva detto di lui
che aveva un “ottimo orecchio”. Senza volerlo la cosa si era diffusa, ci avevano
creduto. Rubin era capitato alla šaraška per caso, dove vivacchiava con le
traduzioni. Dall’orecchio sinistro ci sentiva come tutti gli altri, mentre dal
destro l’udito si era affievolito a causa di una ferita al fronte, che dopo l’elogio
aveva dovuto tenere nascosta. Grazie alla fama del suo “ottimo orecchio” era
rimasto ben saldo alla šaraška, finché non ci si era trincerato ancor più
saldamente con la sua opera fondamentale: La lingua russa nella percezione uditivo-
sintetica ed elettro-acustica.
Telefonarono all’Acustico chiedendo di Rubin. Mentre lo aspettavano, si
misero in ascolto per la decima volta. Con le sopracciglia aggrottate con forza e
lo sguardo teso, Markušev prese a malapena in mano la cornetta e dichiarò in
tono brusco che andava meglio, molto meglio (l’idea di reimpostare ogni sedici
impulsi era sua, sapeva che sarebbe andato meglio ancora prima di attuare la
modifica). Bulatov attaccò a strillare per tutto il laboratorio che bisognava
coordinarsi con i decifratori e reimpostare a trentadue impulsi. Ljubimičev e
Siromacha, due elettromontatori servizievoli, dividendosi una cuffia, si misero
ad ascoltare ognuno da un orecchio e subito, con gioia ardente, confermarono
che era davvero più decifrabile.
Bobynin continuava a misurare l’oscillogramma senza alzare la testa.
La lancetta nera del grande orologio elettrico alla parete segnò le dieci e
mezzo. Presto in tutti i laboratori, a parte il Sette, si sarebbe interrotto il
lavoro, le riviste segrete da chiudere in cassaforte sarebbero state riconsegnate,
gli zek se ne sarebbero andati a dormire e i liberi sarebbero corsi alle fermate
degli autobus, sempre meno frequenti a quell’ora tarda.
Con passo pesante, senza farsi vedere dal capo, Il’ja Terent’evič Chorobrov
raggiunse Potapov dietro lo scaffale in fondo al laboratorio. Chorobrov
proveniva dalla regione di Vjatka, dai suoi angoli più sperduti, i dintorni di
Kaj, dove la Terra dei GULAG si estendeva in un regno ininterrotto di migliaia
di verste di paludi e boschi più grande della Francia. Aveva visto tante cose e
capiva molto più di tanti altri, al punto che per lui, a volte, quella condizione
diventava così insopportabile che avrebbe voluto sbattere la testa contro la
colonna di ghisa dell’altoparlante esterno. La necessità di nascondere di
continuo i propri pensieri, di reprimere il proprio senso di giustizia lo
schiacciava, gli conferiva un aspetto sgradevole, gli incideva penose rughe
intorno alle labbra. Finché, alle prime elezioni del dopoguerra, il desiderio
represso di esprimere il proprio parere aveva avuto la meglio e sulla scheda
elettorale, accanto al candidato da lui depennato, Chorobrov aveva scritto
un’imprecazione da contadino. Era il periodo in cui, a causa della scarsità di
manodopera, le abitazioni non venivano ricostruite, i campi non venivano
seminati. Eppure, alcuni geniacci di sbirri avevano analizzato per un mese la
grafia di tutti gli elettori della zona e Chorobrov era stato arrestato. Era partito
per il campo di lavoro con ingenua gioia, sperando di poter parlare
apertamente almeno lì. Ma neanche il campo si era rivelato una repubblica
libera! A causa delle denunce dei delatori gli era toccato stare zitto pure in quel
luogo.
Ora il buonsenso suggeriva che si desse da fare nel lavoro comune al Sette
per assicurarsi, se non la liberazione, almeno una vita comoda. Ma il disgusto
verso le ingiustizie, anche quando non lo riguardavano direttamente, montava
in lui a un livello che raggiunge solo chi non ha più voglia di vivere.
Superato lo scaffale di Potapov, Chorobrov si piegò verso la scrivania del
compagno e gli propose piano:
– Andreič! È ora di svignarcela. È sabato.
Potapov stava attaccando un gancino rosa chiaro al portasigarette rosso
trasparente. Inclinata la testa, lo osservò e chiese:
– Che gliene sembra, Teren’tič? Si abbinano i colori?
Non ottenendo né una risposta di approvazione né di critica, Potapov
guardò Chorobrov, come fanno le vecchine, da sopra gli occhiali con la
semplice montatura di metallo e disse:
– Che senso ha irritare il drago? Si legga l’editoriale sulla ‘Pravda’: il tempo
lavora a nostro favore. Non-ap-pe-na Anton se ne andrà, ce la fileremo anche
noi.
Aveva un suo modo particolare di dividere in sillabe le parole in una frase e
di usare la mimica.
Intanto Rubin era arrivato nel laboratorio. Erano quasi le undici e Rubin,
che per tutta la sera aveva avuto poca voglia di lavorare, avrebbe desiderato
solo tornarsene in fretta nella sua cella a divorarsi ancora un po’ di Hemingway.
Tuttavia assunse un’aria di grande interesse per la nuova qualità del segmento
al Sette e chiese che a leggere fosse Markušev, il quale aveva una voce alta, con
una tonalità di base di 160 Hertz che non si trasmetteva molto bene (un simile
approccio alla questione lo fece apparire subito uno specialista). Indossate le
cuffie, ordinò un paio di volte a Markušev di leggere, ora a un volume più alto
ora più basso, e di ripetere le frasi “Le carpe guizzanti sono scappate sotto
coperta” e “Celebrò, slanciò, stravinse”, due frasi che alla šaraška conoscevano
tutti e che Rubin aveva escogitato per controllare singole combinazioni di
suoni. Alla fine sentenziò una generale tendenza al miglioramento: i suoni
vocalici passavano in modo esemplare, peggioravano un po’ le dentali sorde, la
formante “izz” continuava a disturbare e non andava affatto l’accorpamento di
più consonanti, tanto caratteristico delle lingue slave e sul quale bisognava
ancora lavorare.
Si sollevò subito un coro di voci felici che il segmento, dunque, fosse
migliorato. Bobynin alzò la testa dall’oscillogramma e con voce di basso
profonda, in tono beffardo, espresse il proprio parere:
– Sciocchezze! Sono circondato da ignoranti. Non si può andare a casaccio,
bisogna trovare un metodo.
Davanti al suo sguardo severo e deciso ammutolirono tutti, imbarazzati.
Dietro lo scaffale, intanto, Potapov stava incollando il gancino rosa al
portasigarette con l’acetato di amile. Nei tre anni di prigionia in Germania
Potapov era stato nei campi di lavoro e se l’era cavata soprattutto grazie alla
capacità di fabbricare dagli scarti, senza nessun attrezzo, gradevoli accendini,
portasigarette e filtri.
Nessuno aveva premura di andare via dal lavoro! Ed era pure la vigilia di
una domenica rubata!
Chorobrov raddrizzò la schiena. Appoggiate le carte segrete sulla scrivania
di Potapov perché le riponesse lui nella cassaforte, si diresse verso l’uscita
evitando l’assembramento presso il quadro del clipper.
Mamurin, pallido, gli avvampò alle spalle:
– Il’ja Teren’ič! E lei, come mai non ascolta? E dov’è diretto?
Sempre senza alcuna fretta, Chorobrov si girò e, con un ghigno contorto, in
tono distaccato rispose:
– Preferirei non parlarne ad alta voce. Ma se insiste, la accontenterò: in
questo preciso istante sono diretto alla latrina, vale a dire al cesso. Se là andrà
tutto come si deve, proseguirò fino alla prigione e me ne andrò a dormire.
Nel vile silenzio che ne seguì, Bobynin, la cui risata non si sentiva quasi mai,
scoppiò a ridere di gusto.
Un ammutinamento su una nave da guerra! Mamurin fece un passo verso
Chorobrov, come per prepararsi a colpirlo, e con voce stridula gli domandò:
– Be’, ma come a dormire? Tutti lavorano e lei se ne va a dormire?
Già aggrappato alla maniglia della porta, quasi al limite dell’autocontrollo,
Chorobrov rispose:
– Sì, me ne vado a dormire! Ho lavorato le mie dodici ore come da
Costituzione, ne ho abbastanza! – E, sul punto di esplodere, stava per
aggiungere qualcosa di irreparabile quando si spalancò la porta e il sorvegliante
di turno annunciò:
– Anton Nikolaič! La chiamano subito al telefono, dalla città.
Jakonov si alzò in fretta e uscì dietro a Chorobrov.
Poco dopo anche Potapov spense la lampada da tavolo, mise le sue carte
segrete insieme a quelle di Chorobrov sulla scrivania di Bulatov e, a passo
normale, del tutto innocuo, si diresse zoppicando verso l’uscita. La gamba
destra gli cedeva da quando, prima della guerra, aveva avuto un incidente in
motocicletta.
Al telefono era il viceministro Selivanovskij. Dava appuntamento a Jakonov
al ministero, alla Lubjanka, a mezzanotte.
Che vita la sua!
Jakonov tornò nel suo ufficio da Verenëv e Neržin, congedò il secondo, al
primo propose di aspettarlo in macchina, si vestì, con i guanti già infilati si
avvicinò di nuovo alla scrivania e sotto la scritta “Cancellare Neržin” aggiunse:
“E Chorobrov.”
30 Novyj Afon (Abcasia) e Gurzuf (Crimea), entrambe sulla costa del Mar Nero, sono due famose località
turistiche sovietiche; Nerčinsk, è un centro minerario della Siberia.
31 Musa Džalil’ (1906-1944), poeta tataro morto per mano dei nazisti nel carcere di Berlino. Sotto Stalin fu
considerato un traditore; venne riabilitato in seguito, fino a essere trasformato in un eroe.
13
E BISOGNAVA MENTIRE...

Quando Neržin, conscio che fosse successo l’irreparabile ma senza rendersene


conto fino in fondo, fece ritorno all’Acustico, Rubin non c’era più. Gli altri
erano gli stessi e Valentulja, trafficando in mezzo al passaggio su un pannello a
cui erano fissate decine di valvole, alzò su di lui gli occhi vispi.
– Calma, amico! – bloccò Neržin con le cinque dita spalancate, come davanti
a un’automobile. – Sa dirmi perché da me al terzo componente non c’è
tensione?? – E gli tornò in mente: – Ah, è vero! Per cosa l’hanno chiamata?
Qu’est-ce qui s’est passé?
– Valentine, badi a come parla – si sottrasse Neržin, incupito. Non poteva
confessare, e soprattutto a uno dedito solo alla propria scienza, di aver
rinnegato, appena rinnegato la matematica.
– Se ha qualche problema, le do un consiglio: metta su un po’ di musica da
ballo! Perché dovremmo rattristarci? L’ha mai letto quello... come si chiama...?
Sigaretta fra le labbra, ne fuma un metro, due ne butta32... il badile non sa
maneggiare, agli altri lo fa fare... Ed ecco questa:

Qui la milizia
la guardia mi fa!
Nella zona vietata
tanto bene si sta!33

Ma preso all’improvviso da un nuovo pensiero, Valentulja ordinò:


– Vad’ka! Accendi l’oscillografo!
Neržin si avvicinò alla propria scrivania; non fece nemmeno in tempo a
sedersi che si accorse dell’ansia di Simočka. Lo guardava dritto in faccia, con le
sopracciglia sottili aggrottate.
– Dov’è Barba, Serafima Vital’evna?
– Anton Nikolaič ha chiamato anche lui al Sette – rispose Simočka a voce
alta. E, passando vicino al quadro del commutatore, chiese ancora più forte, in
modo che tutti la sentissero:
– Gleb Vikent’ič! Venga a controllare come leggo le nuove tabelle. C’è
ancora mezz’ora.
Simočka era uno degli speaker dell’articolazione. Bisognava assicurarsi che la
lettura di tutti gli speaker fosse standardizzata al medesimo livello di chiarezza.
– Come faccio a controllare con questo baccano?
– Be’... andiamo nella cabina. – Guardò Neržin con aria significativa, prese le
tabelle scritte a china sulla carta da disegno ed entrò nella cabina.
Neržin la seguì. Prima chiuse alle proprie spalle con il chiavistello la porta
cava spessa un aršin, poi si infilò attraverso la seconda porticina e non fece in
tempo a sganciare le tendine che Simočka gli si gettò al collo e in punta di piedi
lo baciò sulle labbra.
Lui la prese in braccio, era leggera: dentro si stava così stretti che le punte
delle scarpe di lei urtarono contro la parete; si accomodò sull’unico sedile
davanti al microfono da concerto e se la posò sulle ginocchia.
– Perché Anton l’ha mandata a chiamare? Che problemi ci sono?
– L’amplificatore non è acceso, vero? Non ci siamo messi d’accordo di
trasmettere in diretta con l’altoparlante?
– ...che problemi ci sono?
– Perché pensi ci fossero problemi?
– Ho avuto subito questa sensazione appena hanno telefonato. E lei ce l’ha
scritto in faccia.
– Ma quando comincerai a darmi del tu?
– Ora non è il momento... Cos’è successo?
Il calore del corpo sconosciuto di Simočka gli si trasmetteva alle ginocchia,
alle mani e poi per tutta l’altezza. Sconosciuto al punto da apparirgli un
mistero, poiché molte erano le cose sconosciute per quel soldato-detenuto
dopo tanti anni. Anche i ricordi di gioventù non sono abbondanti per tutti allo
stesso modo.
Simočka era incredibilmente leggera: che avesse le ossa riempite d’aria o
fosse fatta di cera, sembrava lieve come un uccellino ingrossato dalle piume.
– Eh sì, piccola quaglia... A quanto pare... me ne andrò presto.
Simočka gli si agitò in grembo e lasciando scivolare lo scialle dalle spalle lo
abbracciò più forte che poteva:
– Do-ve?
– Come dove? Siamo gente degli abissi. Scompariamo là dove siamo risaliti a
galla, nel campo di lavoro – spiegò con prudenza.
– Ma co-o-o-me?! – a Simočka non uscirono parole, ma un lamento.
Gleb guardava da vicino, quasi perplesso, gli occhi di quella ragazza
bruttina, il cui amore aveva ottenuto per caso, senza sforzo. Era più
preoccupata lei per la sua sorte di quanto lo fosse lui stesso.
– Potevo anche rimanere, ma in un altro laboratorio. In ogni caso non
saremmo più stati insieme.
(Lo aveva detto come se fosse quella la ragione per cui nell’ufficio di Anton
aveva rifiutato. Ma aveva pronunciato una combinazione meccanica di suoni,
quasi fosse il vocoder. In effetti, la condizione da detenuto era talmente
estrema che se pure lo avessero spostato in un altro laboratorio, Gleb avrebbe
cercato le medesime cose nella donna accanto alla quale avrebbe lavorato e, se
fosse rimasto all’Acustico, da qualsiasi altra, di qualsiasi aspetto, incaricata di
lavorare al tavolo attiguo al posto di Simočka.)
Lei invece con il suo corpicino si stringeva tutta a lui e lo baciava.
Erano trascorse diverse settimane dal loro primo bacio: perché avrebbe
dovuto risparmiare Simočka, dispiacersi della sua illusoria felicità futura?
Impossibile che trovasse un fidanzato vero, sarebbe comunque andata a
qualcuno, così, senza impegno. Gli si sarebbe gettata fra le braccia, e con la
stessa paura avrebbe battuto forte il cuore a entrambi... Prima di sparire nel
campo, dove tutto quello non ci sarebbe stato più...
– Mi dispiacerà andarmene... perciò... vorrei portare con me il ricordo di...
del tuo... del tuo...
Lei chinò il viso turbato e resistette alle dita di Neržin che tentavano di
rialzarle la testa.
– Piccola quaglia... su, non ti nascondere... solleva la testa. Perché non dici
niente? Non lo vuoi anche tu?
Lei alzò di colpo la testa e con grande intensità disse:
– La aspetterò! Ne mancano solo cinque, vero? La aspetterò per cinque anni!
Quando sarà di nuovo libero, lei tornerà da me?
Questo lui non l’aveva mai detto. Simočka parlava come se lui non avesse
una moglie. Voleva per forza sposarsi, la nasona!
La moglie di Gleb si trovava da quelle parti, chissà dove a Mosca. A Mosca,
ma era come se si trovasse su Marte.
A parte Simočka sulle sue ginocchia e la moglie su Marte, sepolti nella sua
scrivania c’erano gli studi sulla rivoluzione russa cui aveva dedicato tanta fatica,
che contenevano le sue idee migliori. Le prime formulazioni da lui elaborate.
Non gli avrebbero permesso di far uscire dalla šaraška nemmeno un
brandello di appunto. E perquisendolo alla prigione di transito, gli avrebbero
affibbiato una nuova pena.
Doveva mentire subito! Mentire, promettere, come si promette sempre. E
andando via lasciare senza alcun rischio a Simočka quanto aveva scritto.
Ma nemmeno per un simile scopo aveva la forza di mentire a quegli occhi
che lo guardavano colmi di speranza.
Per sfuggire a quegli occhi, a quella domanda, prese a baciarle le piccole
spalle non tornite che le sue mani avevano denudato abbassando la camicetta.
– Una volta mi hai chiesto cosa continuo a scrivere su quei foglietti – disse
lui, a disagio.
– Allora? Cosa scrivi? – domandò Simočka, incuriosita.
Se lei non lo avesse interrotto, non gli avesse fatto quella domanda con tale
bramosia, lui forse, in quel momento, le avrebbe raccontato qualcosa. Ma lei
glielo aveva chiesto con impazienza e lui si era messo sulla difensiva. Viveva da
anni in un mondo in cui erano stesi ovunque fili di mine attaccati a detonatori.
Quegli amorevoli occhi fiduciosi potevano essere al servizio dell’oper.
In effetti, com’era cominciata fra loro? Non era stato lui a cercare un
contatto fra le loro guance, ma lei. Dunque poteva essere tutto combinato!
– Così, roba di storia – rispose lui. – In generale, robe storiche sui tempi di
Pietro il Grande... Però ci tengo. Finché Anton non me le farà buttare via,
continuerò a scriverle. Ma che fine faranno quando dovrò andarmene?
La guardò negli occhi intensamente, in modo quasi provocatorio.
Simočka sorrise tranquilla:
– Ma come dove? Le darai a me. Te le tengo io. Scrivi pure, caro. – E
continuando a guardarlo negli occhi: – Dimmi una cosa, tua moglie è molto
bella?
Squillò il telefono da campo a induzione che collegava la cabina al
laboratorio. Sima afferrò la cornetta, premette il pulsante della comunicazione
in modo che all’altro capo della linea potessero sentirla, ma non si portò la
cornetta alla bocca: rossa in viso, gli abiti in disordine, cominciò a leggere una
tabella d’articolazione con voce imperturbabile e cadenzata:
– d’er... fskop... štap... Sì, vi sento... Che c’è, Valentin Martynyč? Il doppio
diodo-triodo? Il 6G7 non c’è, ma sembra esserci il 6G2. Ora finisco la tabella ed
esco... gven... žan... – Rilasciò il pulsante. E strusciò la testa contro il petto di
Gleb. – Dobbiamo uscire, la cosa comincia a notarsi. Mi lasci andare...
Ma nella voce mancava qualsiasi determinazione.
Lui l’abbracciò ancora più forte e la strinse a sé in alto, in basso, tutta.
– No! Ti ho lasciata andare e non è servito. Adesso, non lo farò!
– Non faccia il pazzo, mi stanno aspettando! Bisogna chiudere il laboratorio!
– Facciamolo adesso! Qui! – pretendeva lui.
E la baciava.
– Non oggi! – ribatté lei, arrendevole.
– E quando?
– Lunedì... Sarò di nuovo io di turno, al posto di Lara... Venga durante
l’intervallo della cena... avremo un’intera ora per noi... sempre che non arrivi
quel matto di Valentulja...
Nel tempo che Gleb aveva aperto e chiuso prima una porta poi l’altra, Sima
si era già riabbottonata, riordinata i capelli, ed era uscita per prima,
imperscrutabile e fredda.

32 Si allude a un detto sulla mancanza cronica di sigarette nei luoghi di reclusione: “Fumiamo papirosy
lunghe un metro, ma gettiamo mozziconi lunghi due.” Nel gergo dei detenuti alla domanda “Come ve la
passate?” si usava rispondere ironicamente: “Alla grande: c’è da fumare quanto vuoi!”
33 Parodia di alcuni versi del poema di Majakovskij, Bene! (1927).
14
LA LUCE BLU

– Un giorno di questi lancio uno stivale e spacco quella lampadina blu, così la
smette di rompere.
– Non la becchi.
– Saranno cinque metri, la prendo di sicuro. Scommettiamo la frutta cotta di
domani?
– Lo stivale te lo togli nella branda di sotto, ci devi aggiungere un metro.
– Va bene, sei metri. Vedi un po’ quelle canaglie cosa si inventano per
mandare in bestia gli zek.
– La luce blu, intendi?
– Eh certo! Pressione luminosa. L’ha scoperta Lebedev. Aristipp Ivanyč, sta
dormendo? Mi faccia un favore, mi passi quassù uno dei miei stivali.
– Lo stivale, Vjačeslav Petrovič, glielo posso anche passare, prima però mi
risponda: cos’è che non le aggrada di quella luce blu?
– Già solo la lunghezza delle onde è troppo corta e i quanti troppo grandi.
Danno fastidio agli occhi.
– Ha una luce soffusa, mi ricorda il lume blu che la mamma mi accendeva di
notte.
– Proprio una mamma! Ma con le spalline celesti! Ehi, pensate sul serio che
alla gente si possa concedere una vera democrazia? Mi sono accorto che in ogni
cella, per ogni minima questione, dal lavare le scodelle al pulire il pavimento,
escono fuori le opinioni più disparate. È la libertà a rovinare le persone.
Purtroppo, solo il bastone può indicarci la verità.
– Be’, un lume qui ci sta anche bene. Un tempo c’era un altare.
– Non un altare, ma la cupola dell’altare. Hanno diviso in due lo spazio
mettendoci un pavimento.
– Dmitrij Aleksandrovič! Che cosa sta facendo? Apre la finestra a dicembre?!
Che le viene in mente?
– Signori! È l’ossigeno a rendere lo zek immortale. Nella stanza siamo in
ventiquattro, in cortile non c’è né gelo né vento. La apro un Erenburg.
– Anche uno e mezzo! Sulle brande superiori non si respira!
– Un Erenburg come lo misura, in larghezza?
– No, signori, per il lungo, il libro si appoggia molto bene al telaio.
– Roba da matti, dov’è la mia giubba da campo?
– Io tutti questi amanti dell’ossigeno li manderei a Ojmjakon ai lavori comuni.
Dopo aver sgobbato dodici ore a sessanta gradi sotto zero, pur di sentire un
po’ di caldo striscerebbero anche in un caprile!
– In linea di principio io non sono contrario all’ossigeno, ma perché
l’ossigeno deve essere sempre freddo? Lo vorrei riscaldato.
– Ma che roba! Perché la stanza è buia? Perché spengono la luce bianca così
presto?
– Valentulja, lei è un vero nottambulo! Fosse per lei, se ne andrebbe in giro
fino all’una! A che le serve la luce a mezzanotte?
– E lei è uno zerbinotto!
Lo zerbinotto in tuta blu
Proprio sopra me è già.
Nella zona del campo
tanto bene si sta!

Avete riempito un’altra volta di fumo? Cosa continuate a fumare? Uffa, che
schifo... Oh, anche la teiera è fredda.
– Valentulja, dov’è Lev?
– Perché, non è sulla sua branda?
– Ci sono due dozzine di libri, ma lui non c’è.
– Sarà accanto al gabinetto.
– A fare che?
– Lì ci hanno messo una lampadina bianca e la parete vicino alla cucina è
calda. Starà a leggere un libro. Io vado a lavarmi. Devo dirgli qualcosa?
– Eh già-à... Quella mi fa dormire sul pavimento, mentre lei si tiene il letto.
Che donna appetitosa, proprio appetitosa...
– Amici, ve lo chiedo per favore, parlate di tutto ma non di donne. Alla
šaraška, con il pasto a base di carne, è un discorso socialmente pericoloso.
– Su, ragazzi, piantatela! Hanno suonato la ritirata.
– Altro che ritirata, si sente suonare l’inno da qualche parte34.
– Quando hai sonno, dormi lo stesso.
– Sono totalmente privi di senso dell’umorismo: suonano tutto l’inno per
intero, dura cinque minuti. Ti fanno attorcigliare le budella: ma quando finisce?
Possibile che non si possa ridurre a una strofa sola?
– E la sigla iniziale35? Una strofa sola in un paese come la Russia?!...
Figuriamoci.
– Ho prestato servizio in Africa. Ai tempi di Rommel. Cosa c’è di brutto
laggiù? Fa molto caldo e manca l’acqua...
– Nel Mar Glaciale Artico c’è un’isola che si chiama Machotkina. Eppure
Machotkin, il pilota polare, è finito in prigione per propaganda antisovietica.
– Michail Kuz’mič, cosa continua a rigirarsi?
– Perché, non posso neanche rigirarmi da un fianco all’altro?
– Può, ma si ricordi che ogni suo giretto lì sotto arriva quassù assai
amplificato.
– Lei, Ivan Ivanyč, in un campo di lavoro non c’è mai stato. Lì le cuccette sono
quadruple: quando uno si gira, ne scuote altri tre. Può anche succedere che in
basso qualcuno appenda uno straccio colorato, ci porti una donna e si dia da
fare. E parte il beccheggio forza dodici! Eppure si dorme lo stesso.
– Grigorij Borisyč, quando è finito lei per la prima volta alla šaraška?
– Pensavo di fissarci il pentodo e un piccolo reostato.
– Era una persona indipendente, precisa. Quando la sera si levava gli stivali,
non li metteva sul pavimento, se li piazzava sotto la testa.
– In quegli anni non potevi lasciare nulla per terra!
– Io sono stato a Oświęcim. Lì era orribile: dalla stazione la gente veniva
mandata dritta ai crematori, con la musica di sottofondo.
– Laggiù innanzitutto la pesca era incredibile, e poi c’era la caccia. In
autunno se camminavi per un’ora, vedevi fagiani ovunque. Entravi in un
canneto, cinghiali, in un campo, lepri...
– Tutte queste šaraški sono sorte dal 1930 in avanti, quando si sono messi a
prendersela con gli ingegneri. La prima fu istituita al vicolo Furkasovskij36:
nacque lì il progetto del canale sul Mar Bianco. Poi ci fu quella di Leonid
Ramzin. L’esperimento piacque. In libertà è impossibile mettere nello stesso
gruppo di progettazione due grandi ingegneri o due grandi scienziati:
cominciano subito a competere per il nome, la gloria, il premio Stalin, e
immancabilmente uno fa fuori l’altro. Per questo in libertà tutti gli uffici
progettazione finiscono per trasformarsi in circoli scialbi attorno a una mente
brillante. In una šaraška invece su nessuno incombe né la gloria né il denaro. A
Nikolaj Nikolaič un mezzo bicchiere di panna acida e a Pëtr Petrovič un altro
mezzo. Una dozzina di orsi vive pacificamente nella stessa tana, perché non ha
altro posto dove rifugiarsi. Giocano un po’ a scacchi, fumano: che noia! E se ci
inventassimo qualcosa? Dài! Nella nostra scienza molte cose sono state
inventate così! È su questo che si basa la šaraška.
– Amici! Una notizia! Hanno portato via Bobynin, non si sa dove.
– Val’ka, non guaire a quel modo o ti do una cuscinata!
– Dove, Valentulja?
– Come lo hanno portato via?
– È venuto il tenente minore e gli ha detto di mettersi il cappotto e il
cappello.
– Con la roba?
– Senza roba.
– Lo avranno portato di sicuro da un pezzo grosso.
– Da Foma?
– Foma sarebbe venuto qui lui, da uno più in alto!
– Il tè si è freddato, fa schifo!...
– Valentulja, dopo che hanno suonato la ritirata lei batte sempre nel
bicchiere con quel cucchiaino, mi dà sui nervi!
– Si calmi, come faccio a mescolare lo zucchero?
– In silenzio.
– In silenzio avvengono solo le catastrofi spaziali, perché nello spazio
cosmico il suono non si propaga. Se alle nostre spalle esplodesse una Stella
Nova, non ce ne accorgeremmo nemmeno. Rus’ka, ti sta cadendo la coperta,
cosa la tieni a fare a penzoloni? Non dormi? Lo sai che il nostro Sole è una
Stella Nova e la Terra è destinata a perire molto presto?
– Non ci voglio pensare. Sono giovane, voglio vivere ancora!
– Ah-ah! Che ingenuo! Com’è freddo questo tè... C’est le mot! Lui vuole
vivere!
– Val’ka! Dove hanno portato Bobynin?
– E come faccio a saperlo? Magari... da Stalin.
– E cosa farebbe lei, Valentulja, se la convocassero da Stalin?
– Io? O-ho! Ragazzi miei! Protesterei punto per punto!
– Be’ per cosa, ad esempio?
– Be’, per ogni cosa. Par exemple, perché ci fanno vivere senza donne? Questa
cosa inibisce le possibilità creative.
– Prjančikov! Chiudi il becco! Dormono tutti da un pezzo, cosa sbraiti!
– E se io non avessi sonno?
– Amici, chi sta fumando metta via, arriva il tenente minore.
– Che vuole quella carogna? Cittadino sottotenente, faccia attenzione a non
inciampare, altrimenti una volta o l’altra si spaccherà il naso.
– Prjančikov!
– Che c’è?
– Dov’è? Ancora non dorme?
– Dormo, dormo.
– Si vesta in fretta.
– Per andare dove? Ho sonno.
– Si vesta, forza, infili cappotto e cappello.
– Con la roba?
– Senza. L’aspetta una macchina, svelto.
– Che succede, vado con Bobynin?
– Lui è già partito, per lei ce n’è un’altra.
– Quale macchina, sottotenente, un corvo?
– Su, svelto, forza. È una Pobeda.
– Chi mi ha mandato a chiamare?
– Be’, Prjančikov, mi devo mettere a spiegarle tutto? Non lo so nemmeno io,
forza.
– Val’ka! Diglielo quando sei là!
– Di’ delle visite! Possibile che quei farabutti concedano ai Cinquantotto una
visita all’anno?
– Racconta delle passeggiate!
– Delle lettere!
– Del corredo!
– Rot front, ragazzi! Ah-ah! Adieu!
– Compagno sottotenente! Allora, dov’è Prjančikov?
– Arriva, arriva, compagno maggiore! Eccolo!
– Racconta tutto, Val’ka, distruggili, non fare complimenti!
– Ma pensa un po’, i cani da guardia che corrono nel cuore della notte!
– Cos’è successo?
– Mai successa una cosa simile...
– Non sarà scoppiata la guerra? Li portano alla fucilazione?
– Ma smettila, scemo! Per fucilarci secondo te ci prendono uno per volta?
Quando scoppierà la guerra, ci ammazzeranno tutti insieme o ci infetteranno di
peste con la kaša, come i tedeschi nei campi di sterminio nel ’45...
– Be’, d’accordo, dormiamo, fratelli! Lo scopriremo domani.
– Succedeva proprio così nel ’39-’40, Berija mandava a chiamare Boris
Sergeevič Stečkin alla šaraška e quello non tornava mai a mani vuote: o
sostituivano il capo della prigione o aumentavano le passeggiate... Stečkin non
tollerava questo sistema di corruzione, i pasti per categorie: panna acida e uova
agli accademici, quaranta grammi di burro ai professori, venti ai detenuti
semplici... Boris Sergeevič era un brav’uomo, che Dio lo abbia in gloria...
– È morto?
– No, lo hanno liberato... ha preso il premio Stalin.
34 Alla šaraška la ritirata era prevista alle dieci di sera. L’inno era trasmesso per radio a mezzanotte, subito
dopo che batteva l’ora alla torre Spasskaja del Cremlino.
35 La sigla iniziale delle trasmissioni radio suonava prima delle sei del mattino ed era un brano del celebre
film Cyrk.
36 Vicolo dove si trova la Lubjanka.
15
UNA RAGAZZA! UNA RAGAZZA!

Poi si spense anche la voce stanca e cadenzata del recidivo Abramson, finito nelle
šaraški già alla prima condanna. Ai due lati opposti andava a morire il sussurro
di storie già iniziate. Qualcuno russava così forte e in modo così orripilante che
in certi momenti pareva sul punto di esplodere.
La pallida lampadina blu sopra la larga porta a quattro battenti incastrati
nell’arco d’ingresso illuminava una dozzina di brande a due piani saldate,
disposte a ventaglio nella grande stanza semicircolare. Quella stanza, forse
l’unica del genere a Mosca, misurava un diametro di dodici ampi passi maschili;
in alto, una spaziosa cupola a vela poggiata alla base di una torre esagonale e,
lungo l’arco, cinque finestre regolari tondeggianti nella parte superiore. Queste
ultime avevano le inferriate ma non le museruole; di giorno, guardandovi
attraverso, dall’altra parte del viale si scorgeva un parco così trascurato da
sembrare un bosco, e nelle sere d’estate giungevano canzoni toccanti di ragazze
da marito del sobborgo di Mosca.
Neržin, sulla branda superiore accanto alla finestra centrale, non dormiva e
nemmeno ci provava. Sotto di lui l’ingegner Potapov si era addormentato da
un pezzo e si godeva il tranquillo sonno del lavoratore. Sulle brande vicine, a
sinistra, oltre il passaggio, se ne stava disteso “Zemelja”37, l’esperto degli
apparati a vuoto spinto, il faccione tondo rilassato che sbuffava con il naso,
(sotto di lui il letto di Prjančikov, al momento libero) mentre a destra, sulla
branda a filo, si agitava insonne Rus’ka Doronin, uno dei più giovani zek della
šaraška.
Ora che poteva ricordare con distacco la conversazione nell’ufficio di
Jakonov, Neržin capiva tutto con maggior chiarezza: rifiutarsi di entrare nel
gruppo criptografico non era stato un incidente di percorso, ma il punto di
svolta di tutta una vita. Avrebbe implicato per lui – e forse molto presto – una
traduzione lunga e pesante da qualche parte in Siberia o sull’Artico. Verso la
morte oppure verso il trionfo sulla morte.
Rifletteva anche su quello stacco nella sua vita. Cosa era riuscito a ottenere
nei tre anni di tregua alla šaraška? Aveva temprato il carattere a sufficienza
prima di ripiombare di nuovo nella voragine del campo di lavoro?
Il giorno successivo, guarda caso, Gleb avrebbe compiuto trentun anni
(ovviamente non si sentiva in vena di ricordare agli amici quella ricorrenza).
Era a metà della sua vita? Quasi alla fine? Solo all’inizio?
I pensieri gli si confondevano. Non riusciva ad avere uno sguardo
sull’eternità. Ora si insinuava la debolezza: forse non era troppo tardi per
rimediare, per acconsentire a dedicarsi alla crittografia. Ora gli tornava in
mente l’offesa subita, che da undici mesi continuavano a negargli un colloquio
con la moglie... chissà se adesso, prima della partenza, glielo avrebbero
concesso?
Infine gli si risvegliava dentro, e si agitava, lo sfacciato, il furbacchione che
non era lui, non era Neržin, ma il tizio saltato fuori per forza di cose da quel
ragazzino indeciso in fila davanti ai negozi del pane durante il primo piano
quinquennale, poi consolidatosi in tutte le situazioni della vita e in particolare
nel campo di lavoro. Quest’altro lui, interiore, tenace, valutava già con lucidità
quali perquisizioni lo aspettavano: alla partenza da Marfino, all’arrivo alla
Butyrka, alla Krasnaja Presnja; e come nascondere nella giubba imbottita i
pezzetti di lapis spezzato; come riuscire a portare fuori dalla šaraška la vecchia
tuta da lavoro (per lo sgobbone ogni pellaccia personale è preziosa); come
dimostrare che il cucchiaio da tè d’alluminio che aveva con sé da tutta la durata
della pena era suo, non l’aveva rubato alla šaraška, dove ce n’erano di molto
simili.
Gli venne la smania, in quel preciso istante, alla luce blu, di alzarsi e iniziare
tutti i preparativi, le cose da portar via, gli annunci di morte.
Nel frattempo di tanto in tanto Rus’ka Doronin cambiava bruscamente
posizione: cadeva bocconi, affondando nel cuscino con tutte le spalle, si tirava
la coperta fin sopra la testa e la rubava ai piedi; poi si girava di schiena,
allontanava la coperta e svelava il lenzuolo superiore bianco e quello inferiore
più scuro (a ogni bagno cambiavano uno dei due lenzuoli, ma adesso, a
dicembre, la prigione speciale aveva esaurito il quantitativo di sapone
disponibile per un anno e il bagno era stato sospeso). All’improvviso si mise a
sedere sul letto e si appoggiò alla spalliera in ferro con il cuscino, scoprendo
all’angolo del materasso il volumetto Storia di Roma Antica di Mommsen.
Accorgendosi che Neržin aveva gli occhi fissi sulla lampadina blu e non
dormiva, in un sussurro roco gli chiese:
– Gleb! Hai a portata di mano le sigarette? Dammene una.
Rus’ka di solito non fumava. Neržin si allungò fino alla tasca della tuta
appesa alla spalliera e vi estrasse due papirosy. Le accesero.
Rus’ka fumava concentrato, senza voltarsi verso Neržin. Il suo viso sempre
mutevole, che assomigliava ora a quello di un ragazzetto ingenuo, ora a quello
di un imbroglione patentato, sotto la massa dei capelli fluenti di un biondo
scuro aveva un aspetto attraente persino alla luce della lampadina blu.
– Tieni. – Neržin gli porse il pacchetto vuoto di Belomor come posacenere.
Cominciarono a scrollare lì la cenere.
Rus’ka si trovava alla šaraška da quell’estate. A Neržin era piaciuto fin dal
primo sguardo e aveva ispirato un desiderio di protezione.
Ma nonostante i suoi ventitré anni (nel campo gliene avevano affibbiati
venticinque), Rus’ka di protezione non sembrava proprio aver bisogno: il
carattere e la concezione del mondo se li era pienamente formati nel corso della
sua vita breve ma burrascosa, nella varietà degli avvenimenti e delle
impressioni: non tanto durante le due settimane di studi all’università di Mosca
e le altre due a quella di Leningrado, quanto nei due anni trascorsi con i
documenti falsi, inseguito dalla polizia investigativa pansovietica (l’aveva
riferito a Neržin in gran segreto) e adesso nei due anni di reclusione. Avendo
appreso con ricettività istantanea, come si suol dire “al volo”, le leggi da lupi
del GULAG, era sempre diffidente, davvero sincero solo con pochi, mentre alla
maggior parte delle persone si mostrava soltanto puerilmente sincero. Inoltre,
era spumeggiante, cercava di incastrare molte cose in poco tempo, e fra le sue
varie occupazioni c’era anche la lettura.
Adesso Gleb, nella stanza avvolta nel silenzio, scontento dei propri pensieri
confusi e meschini, poco incline al sonno, e supponendone ancor meno in
Rus’ka, gli domandò in un sussurro:
– Allora? Come va la teoria dei cicli?
Esaminavano questa teoria da qualche tempo e Rus’ka si era messo a
cercarne conferme in Mommsen.
A quel sussurro Rus’ka si era voltato ma lo guardava come se non capisse.
La pelle del viso, in particolare della fronte, fremeva nello sforzo di
comprendere che cosa gli fosse stato domandato.
– Dicevo, come va con la teoria della ciclicità?
Rus’ka sospirò e dal suo viso scomparvero sia la tensione sia quel pensiero
inquieto. Si accasciò, scivolando sul gomito, gettò nel pacchetto vuoto che
Neržin gli aveva avvicinato la sigaretta ancora accesa che non aveva finito di
fumare, poi disse in tono fiacco:
– Sono stufo di tutto. Dei libri, delle teorie.
Ripiombarono nel silenzio. Neržin stava già per girarsi sull’altro fianco,
quando Rus’ka ridacchiò e si mise a bisbigliare in tono sempre più
appassionato e veloce:
– La storia è così monotona che leggerla fa repulsione. Un po’ come la
‘Pravda’. Più è nobile e sincero l’uomo, più i suoi compatrioti agiranno da
mascalzoni nei suoi confronti. Spurio Cassio voleva ottenere la terra per i
popolani e i popolani gli diedero la morte. Spurio Melio voleva nutrire con il
pane il popolo affamato ed è stato giustiziato come se volesse conquistare il
potere imperiale. Marco Manlio, che si svegliò per lo starnazzare delle celebri
oche e salvò il Campidoglio, fu giustiziato come un traditore dello Stato! Eh?
– Ma che dici!
– A leggere la storia, ti vien voglia di diventare anche tu un mascalzone, è
più conveniente! Senza il grande Annibale non avremmo mai nemmeno
conosciuto Cartagine... e quella stessa miserabile Cartagine lo cacciò, gli
confiscò i beni, gli rase al suolo la casa! Tutto è già accaduto... A quei tempi
misero i ceppi a Gneo Nevio perché smettesse di scrivere opere audaci. Già gli
etoli, molto prima di noi, annunciarono una falsa amnistia per attirare gli
emigrati di nuovo in patria e ucciderli. Già a Roma scoprirono quella verità che
il GULAG dimentica: non conviene lasciare lo schiavo affamato, bisogna
nutrirlo. La storia è tutta un unico perenne... inferno! Chi arraffa, mangia. Non
esiste verità, errore, sviluppo. E non c’è nessuno cui rivolgersi.
In quell’illuminazione senza vita, labbra così giovani che si contraevano
sfiduciate avevano un’aria particolarmente aspra!
Si trattava di pensieri che in Rus’ka erano stati in parte ispirati dallo stesso
Neržin, ma ora che glieli sentiva uscire di bocca suscitavano in Gleb il
desiderio di ribattere. Con i suoi compagni più anziani Neržin aveva preso
l’abitudine di demolire qualsiasi cosa, ma davanti a un detenuto tanto giovane
sentiva una certa responsabilità.
– Voglio metterti in guardia, Rostislav – gli mormorò Neržin, avvicinandosi
quasi all’orecchio del vicino. – Sebbene lo scetticismo, l’agnosticismo o il
pessimismo siano sistemi ingegnosi e implacabili, ricordati che per la loro
stessa natura sono condannati all’abulia. Alla fin fine non possono guidare
l’azione umana perché la gente non può fermarsi, dunque non si può rinunciare
a sistemi che affermino qualcosa, che li esortano a puntare in qualche
direzione.
– Magari verso una palude? Pur di andare da qualche parte? – obiettò
Rus’ka, con rabbia.
– Forse... Chissà! – cominciò a esitare Gleb. – Cerca di capirmi, considero
anch’io lo scetticismo necessario all’umanità. Serve a incrinare le nostre fronti
di pietra, a strozzare le gole dei nostri fanatici. In terra russa è particolarmente
necessario, anche se fa molta fatica ad attecchire. Tuttavia non può diventare
terreno stabile sotto il piede umano. E di un terreno abbiamo bisogno, no?
– Dammi un’altra sigaretta – chiese Rostislav. L’accese, nervoso. – Senti,
meno male che l’MGB mi ha impedito di studiare! Di diventare uno storico! –
mormorò, scandendo le parole a un volume appena più alto. – Se avessi finito
l’università o persino il dottorato, ora sarei un bell’idiota. Uno studioso, magari
uno di quelli incorruttibili, anche se fatico a immaginarmelo. Avrei scritto un
bel tomo. Analizzato dall’ottocentotreesimo punto di vista i Quinti
novgorodesi o la guerra di Cesare contro gli Elvezi. Quanta cultura c’è nel
mondo! Quante lingue! Quante nazioni! E in ogni nazione, quanti uomini
intelligenti, e ancora di più sono i libri intelligenti... quale scemo potrebbe
leggersi tutto?! Come rispondi a questo? ‘Ciò che i maestri hanno inventato
con enorme fatica, ad altri maestri ben più grandi si rivela illusorio’, non è forse
così?
– Eccolo lì – lo rimproverò Neržin. – Stai perdendo ogni sostegno e ogni
obiettivo. Dubitare si può ed è necessario. Ma non è forse necessario anche
amare qualcosa?
– Sì, sì, amare! – intervenne Rus’ka, con un roco bisbiglio trionfante. –
Amare! Ma non la storia, e neppure una teoria: bisogna amare una ra-gaz-za! –
Si sporse dal letto e afferrò Neržin per il gomito. – Cos’è che ci hanno tolto,
eh? Il diritto di andare alle riunioni? Alle lezioni di Educazione politica? Di
sottoscrivere un prestito di Stato? Il Capobanda poteva nuocerci solo in un
modo: levandoci le donne! E lo ha fatto. Per venticinque anni! Quei cani!! Chi
se lo immaginava – si batté il petto con il pugno – cosa può significare una
donna per un detenuto!
– Rus’ka... non diventarci matto! – provò a sottrarsi Neržin, ma al pensiero
di Simočka, della sua promessa per quel lunedì sera fu lui stesso invaso da
un’improvvisa ondata calda... – Togliti quell’idea dalla testa! Ti ottenebra solo il
cervello. – (Oh, lunedì! Quello che le persone felicemente sposate non
apprezzano abbastanza nel tormentato detenuto si solleva con agghiacciante
ferocia!) – Complesso freudiano, o simplesso, come cavolo si chiama... – stava
usando un tono sempre più fiacco, titubante. – Insomma: sublimalo! Sposta le
energie verso altri campi! Occupati di filosofia, lì non servono né il pane né
l’acqua, e nemmeno le carezze di una donna.
(Ma lui stesso fremette nell’immaginarsi nei dettagli come sarebbe andata di
lì a due giorni, e a quel pensiero, per quel dolce terrore, la conversazione aveva
perso senso, e lui non aveva più voglia di continuare.)
– Il mio cervello è già ottenebrato! Mi addormento solo quando è ormai
mattino! Una ragazza! Tutti hanno bisogno di una ragazza! Averla fra le
braccia... per... Uhm, porca miseria! – Senza neanche accorgersene Rus’ka lasciò
cadere la sigaretta ancora accesa, si voltò di scatto e, buttatosi a pancia in giù, si
tirò con uno strattone la coperta fin sopra la testa, sottraendola di nuovo ai
piedi.
Neržin acchiappò per un soffio la sigaretta che stava già rotolando giù in
mezzo ai loro letti su Potapov, e la spense.
Proponeva a Rus’ka di rifugiarsi nella filosofia, ma in quel rifugio lui c’era
già da un pezzo. La polizia investigativa pansovietica aveva dato la caccia a
Rus’ka, che ora si trovava nelle grinfie della prigione. Ma cosa bloccava Gleb a
diciassette o diciannove anni, quando lo sommergevano quelle ardenti folate
che gli ottenebravano la mente, privandolo della ragione? Si attorcigliava in
quella dialettica, ci soffocava, ci ficcava il naso da porcellino, lo ficcava lì
dentro, grugnendo e annusando, con la paura di non fare in tempo. Tutti
quegli anni fino al matrimonio, la gioventù non vissuta a pieno e persa per
sempre, adesso, nella cella di una prigione, li ricordava con maggiore amarezza.
Smarrito, non aveva saputo concedersi quegli istanti di ottenebramento: non
conosceva le parole che portano all’intimità, il tono per far cedere l’altro.
Inoltre, era legato ai secoli passati dal pensiero ben radicato dell’onore
femminile. E nessuna donna più esperta e più saggia gli aveva mai posato una
mano indulgente sulla spalla. No, una l’aveva anche invitato, ma lui allora non
aveva capito! Ci aveva riflettuto e se n’era reso conto soltanto sul pavimento
della prigione, e quell’occasione sfuggita, anni interi sfuggiti, un intero mondo,
lo consumavano dentro.
Be’, adesso non importava, doveva aspettare solo meno di quarantotto ore,
fino alla sera di lunedì.
Gleb si piegò verso l’orecchio del vicino:
– Rus’ka! Ma tu, ce l’hai una ragazza?
– Sì! Ce l’ho! – sussurrò con sofferenza Rostislav, che sdraiato bocconi
stringeva il cuscino. Vi respirava contro e il calore che il guanciale gli restituiva,
insieme a tutto il calore della gioventù che si avvizziva in carcere in modo così
malignamente infruttuoso, arroventava il suo giovane corpo imprigionato, che
chiedeva sfogo e sfogo non conosceva. Aveva detto “ce l’ho”, e voleva credere
di avere sul serio una ragazza, ma tra loro c’era stato solo qualcosa di
impalpabile: non un bacio, e nemmeno una promessa, soltanto il fatto che
quella sera una ragazza lo aveva ascoltato, con sguardo di simpatia e
ammirazione, mentre lui raccontava di sé; e nello sguardo di quella giovane, per
la prima volta, Rus’ka aveva visto sé stesso come un eroe e la propria storia
come fuori del comune. Fra loro non era successo nient’altro, eppure era
successo qualcosa che gli faceva dire di avere una ragazza.
– Ma, senti un po’, chi è? – cercò di strappargli Gleb.
Nel buio, abbassata leggermente la coperta, Rostislav rispose:
– Tsss... è Klara...
– Klara?? La figlia del procuratore?!!
37 Compaesano.
16
UNA TROJKA DI MENTITORI

Il capo della Sezione Incarichi speciali stava completando la sua relazione al


ministro Abakumov. (Riguardava le condanne a morte all’estero per l’anno a
venire, il 1950, con i relativi esecutori materiali; l’implacabile piano degli
omicidi politici era stato approvato da Stalin in persona ancora prima delle
vacanze.)
Alto (ancor di più per via dei tacchi considerevoli), i capelli neri pettinati
all’indietro, le spalline da commissario generale di secondo rango, Abakumov
appoggiava trionfalmente i gomiti sulla sua enorme scrivania. Era robusto ma
non grasso (conosceva l’importanza di un bel fisico e giocava persino un po’ a
tennis). Occhi piuttosto intelligenti, di una vivacità sospettosa e con prontezza
d’ingegno. Dove necessario, correggeva il capo della Sezione, e questi si
affrettava a prendere nota.
L’ufficio di Abakumov non era un salone, ma nemmeno una semplice
stanza. Vi si trovavano anche un camino non funzionante di marmo e un
enorme specchio da parete; dal soffitto alto, ricoperto di stucchi, pendeva un
lampadario e c’erano dipinti putti e ninfe che si rincorrevano (il ministro aveva
deciso di lasciare tutto com’era, aveva soltanto fatto ridipingere di un altro
colore il verde, perché lo detestava). C’era una porta-finestra che dava su un
balcone, bloccata ermeticamente sia d’inverno sia d’estate, e grandi finestre
sulla piazza che non venivano spalancate mai. Inoltre alcuni orologi: uno a
pendolo, con una cassa stupenda; uno da camino, con una figurina e a carica;
uno elettrico, da stazione, a parete. Ogni orologio segnava un orario
abbastanza diverso, eppure Abakumov non sbagliava mai l’ora giacché se ne
portava addosso altri due d’oro: uno sul polso peloso, l’altro (con la suoneria)
in tasca.
In quel palazzo la dimensione degli uffici aumentava con l’aumentare del
grado dei loro occupanti. Aumentava la dimensione delle scrivanie e quella dei
tavoli delle riunioni sotto le tovaglie di panno blu, vermiglio e lampone. Ma ad
aumentare con maggiore scrupolosità era la dimensione dei ritratti
dell’Ispiratore e Regista della Vittoria. Se già negli uffici dei semplici inquirenti
era raffigurato molto più grande della sua altezza naturale, in quello di
Abakumov il Capo dell’Umanità era stato dipinto da un pittore realista del
Cremlino su una tela di cinque metri, a figura intera dagli stivali fino al
berretto da maresciallo, splendente con tutte le sue onorificenze (che lui non
indossava mai), per la maggior parte ricevute da sé stesso, un buon numero da
altri re e presidenti, e solo quelle jugoslave erano state fatte poi diligentemente
sparire dal panno della giacca militare con una mano di colore.
Tuttavia, come rendendosi conto dell’insufficienza di quella immagine di
cinque metri e sentendo la necessità di trarre ispirazione dall’effige del Miglior
Amico degli agenti del Controspionaggio ogni minuto, persino quando gli
occhi non si staccavano dalla scrivania, Abakumov teneva anche sul tavolo un
bassorilievo di Stalin su una piastra di rodonite.
Su una parete poi uno spazio consistente lo occupava un ritratto quadrato
del mellifluo uomo con il pince-nez38 sotto il cui comando diretto si trovava
Abakumov.
Quando il capo della Sezione della morte se ne fu andato, sulla porta
apparvero in fila, e in fila si mossero lungo il disegno del tappeto, il
viceministro Selivanovskij, il generale di divisione Oskolupov, capo della
Sezione di Tecnica speciale, e l’ingegner colonnello Jakonov, ingegnere capo di
quella stessa sezione. Mantenendo il servilismo gerarchico esistente fra loro e
dimostrando particolare ossequio per l’occupante di quell’ufficio,
camminavano in fila indiana, senza allontanarsi dalla striscia centrale del
tappeto, posando il piede dove l’aveva posato chi lo precedeva, in modo che gli
unici passi fossero quelli di Selivanovskij.
Vecchio, magro, con i capelli a spazzola in parte canuti e in parte grigi, in un
completo grigio dal taglio non militare, fra i dieci viceministri Selivanovskij si
trovava in una situazione per così dire non ufficiale: gestiva una direzione
operativa che non era né di controspionaggio né di istruttoria; il suo nucleo
operativo si occupava di comunicazione e di una tecnologia segreta delicata.
Siccome alle riunioni e nelle direttive subiva meno l’ira del ministro, si
muoveva in quell’ufficio in modo più disinvolto e ora si era accomodato sulla
grossa poltrona di pelle davanti alla scrivania.
Con Selivanovskij seduto, era apparso alla vista Oskolupov. Jakonov
rimaneva in piedi dietro di lui, come a nascondere la propria corpulenza.
Abakumov guardò Oskolupov, appena spuntatogli davanti, in vita sua
l’aveva visto sì e no tre volte, e notò in lui un non so che di simpatico.
Oskolupov tendeva alla pinguedine, il collo gli strizzava il colletto della giubba
e il mento, ora servilmente tenuto basso, gli sporgeva un po’ all’infuori. Il viso
di legno, anche più butterato dal vaiolo di quello del Capo, era la faccia
semplice e onesta di un esecutore, non il volto astruso dell’intellettuale che si
crede chissà chi.
Strizzando gli occhi oltre la spalla di Jakonov, Abakumov chiese:
– E tu chi sei?
– Io? – si fece avanti Oskolupov, avvilito di non essere stato riconosciuto.
– Io? – spuntò Jakonov leggermente di lato. Tirò in dentro il più possibile
l’addome molle e prominente che aumentava nonostante i suoi sforzi, e nel
presentarsi impedì a qualsivoglia pensiero di trapelare dai grandi occhi blu.
– Tu, tu – confermò il ministro, sbuffando. – Non è forse tuo l’impianto di
Marfino? Bene, sedetevi.
Si sedettero.
Il ministro afferrò il tagliacarte di plexiglas color rubino, si grattò con quello
dietro l’orecchio e disse:
– E allora... Da quanto tempo mi menate per il naso? Due anni? Il progetto
non prevedeva quindici mesi? Quando saranno pronti i due apparecchi? – E in
tono minaccioso li avvertì: – Non mentite! Detesto le menzogne!
Proprio a quella domanda si erano preparati i tre grandi mentitori, una volta
saputo di essere stati convocati tutti assieme. Come si erano accordati, iniziò
Oskolupov. Quasi balzando in avanti rispetto alle spalle trattenute indietro,
guardò con entusiasmo dritto negli occhi l’onnipotente ministro e annunciò:
– Compagno ministro! Compagno colonnello generale! – (Abakumov
preferiva così piuttosto che “commissario generale”.) – Mi permetta di
assicurarle che il personale della sezione non sta lesinando gli sforzi...
Il viso di Abakumov espresse stupore:
– Dove credete che siamo, a un’assemblea? Che me ne faccio dei vostri
sforzi? Mi ci avvolgo il culo? Allora ce l’avete o no una data?
E afferrò una penna stilografica col pennino d’oro e si approssimò alla
rubrica-calendario.
A quel punto, come deciso, intervenne Jakonov, con il solito tono e la voce
calma, per sottolineare che a parlare non era l’amministratore ma lo specialista.
– Compagno ministro! Con la banda di frequenze fino a 2400 Hertz, con un
livello medio di trasmissione di 0,9 neper...
– Hertz, Hertz! Zero, virgola, Hertz! Solo questo si riesce a ottenere da voi!
Che cacchio me ne faccio del tuo zero? Dammi quegli apparecchi, ne voglio
due! E completi! Allora, quando?! – E avvinghiò tutti e tre con lo sguardo.
A quel punto intervenne Selivanovskij, lentamente, passandosi una mano tra
i capelli a spazzola in parte canuti e in parte grigi:
– Mi permetta di chiederle cosa intende, Viktor Semënovič. Le
conversazioni bilaterali sono ancora prive di codifiche assolute...
– Mi prendi per scemo? Come fanno a essere prive di codifiche? – Il
ministro gli lanciò una rapida occhiata.
Quindici anni prima, quando Abakumov non solo non era ancora ministro,
ma né lui né gli altri avrebbero mai potuto presupporre che lo sarebbe
diventato (era un corriere dell’NKVD, un ragazzo alto, robusto, con gambe e
braccia lunghe), i suoi quattro anni di scuola primaria erano stati più che
sufficienti. Alzava il proprio livello solo grazie al ju-jitsu, disciplina in cui si
allenava esclusivamente nelle palestre della Dinamo.
Quando poi, negli anni di ampliamento e rinnovo dei quadri inquirenti, era
venuto fuori che Abakumov conduceva bene le inchieste raggiungendo
agilmente e in scioltezza il muso altrui con le lunghe braccia, aveva preso il via
la sua grande carriera: di lì a sette anni era diventato il capo del
controspionaggio SMERŠ e adesso era ministro: nemmeno una volta in quella
lunga scalata aveva percepito la propria istruzione come insufficiente. Anche lì,
nelle alte sfere, riusciva a orientarsi abbastanza da non farsi abbindolare dai
sottoposti.
Ora Abakumov iniziava ad arrabbiarsi e aveva sollevato il pugno stretto e
grosso come un sasso sopra il tavolo, quando l’alta porta si spalancò e nella
stanza entrò senza bussare Michail Dmitrievič Rjumin, un cherubino tondo e
piccoletto, con le guance di un bel colore rubizzo, che al ministero tutti
chiamavano Min’ka, ma quasi nessuno in faccia.
Camminava come un gattino, senza far rumore. Avvicinandosi, abbracciò
con lo sguardo di un candore innocente gli uomini seduti, salutò Selivanovskij
stringendogli la mano (quello si alzò in piedi), si accostò a un capo della
scrivania del ministro e, accarezzandone quasi il bordo scanalato con i piccoli
palmi grassocci, la testa di lato, la voce vellutata, pensieroso disse:
– Vede, Viktor Semënyč, secondo me questo sarebbe compito di
Selivanovskij. La Sezione di Tecnica speciale se lo guadagna o no, il pane? Non
sono in grado di riconoscere le voci da un nastro magnetico? Allora cacciamoli.
E fece un sorriso molto dolce, come stesse offrendo la cioccolata a una
bambina. E poi guardò con affetto tutti e tre i rappresentanti della sezione.
Contabile in una cooperativa di consumo nella regione di Archangel’sk,
Rjumin aveva vissuto per molti anni da omuncolo insignificante. Roseo,
paffuto, le labbra perennemente imbronciate, assillava i computisti il più
possibile con osservazioni beffarde, succhiava di continuo caramelle, le offriva
agli addetti alle spedizioni, si rivolgeva agli autisti con diplomazia, ai cocchieri
con superiorità e posava le pratiche sulla scrivania del presidente con cura
meticolosa.
Ma durante la guerra lo avevano chiamato nella flotta e trasformato in un
inquirente della Sezione speciale. Lì Rjumin aveva trovato sé stesso! Aveva
imparato con successo e zelo (si era forse preparato a quel salto per tutta la
vita?) come montare i casi. Uno zelo fin troppo eccessivo, il suo: aveva
abborracciato in modo così grossolano un caso contro un corrispondente della
flotta del Nord che l’ufficio del procuratore, da sempre incline a non
immischiarsi con gli Organi, era dovuto per forza intervenire e... no, non aveva
sospeso l’istruttoria! Tuttavia aveva avuto l’ardire di segnalarlo ad Abakumov.
Il piccolo inquirente dello SMERŠ presso la flotta del Nord era stato chiamato a
rapporto da Abakumov. Era entrato timoroso nell’ufficio, sicuro di rimetterci
la testa. La porta si era chiusa. Quando si era riaperta un’ora dopo Rjumin ne
era uscito baldanzoso: era diventato nuovo capo inquirente per gli affari
speciali presso l’apparato centrale dello SMERŠ. Da allora la sua stella non aveva
fatto che brillare (in modo nefasto per Abakumov, ma nessuno dei due lo
sapeva ancora).
– Li caccio comunque, Michail Dmitrič, puoi starne certo. Li caccio, ne
usciranno con le ossa rotte! – rispose Abakumov e fissò i tre con aria
minacciosa.
I tre abbassarono lo sguardo, colpevoli.
– Però non capisco cosa pretendi. Come si può riconoscere una voce per
telefono? Quella di uno sconosciuto, per esempio, come si fa? Dove va cercata?
– Hanno il nastro, la conversazione è registrata. La ascoltino, la confrontino.
– Perché, hai già arrestato qualcuno?
– E certo! – Gli rivolse un sorriso bonario. – Ne abbiamo presi quattro
davanti alla fermata della metropolitana Sokol’niki.
Ma sul suo viso calò un’ombra. Sapeva che erano stati presi troppo tardi,
non potevano essere loro. Una volta fermati però non era possibile rilasciarli.
Forse qualcuno di loro si poteva accusare comunque, in modo da non lasciare
il caso irrisolto. La voce allusiva di Rjumin stridette di irritazione:
– Potrei anche far registrare sul magnetofono le voci di mezzo Ministero
degli Affari esteri, ma sarebbe superfluo: basterà scegliere fra cinque, sette, che
al ministero potevano sapere.
– Allora arrestali tutti, quei cani, inutile diventar matti! – si innervosì
Abakumov. – Sono solo sette! Il paese è grande, ne faremo a meno!
– Non si può, Viktor Semënyč – obiettò Rjumin, con prudenza. – Non è
mica il Ministero dell’Industria alimentare, così perderemmo tutti i
collegamenti, e ci sarebbero defezioni in altre ambasciate. Bisogna trovare il
vero responsabile. E il più presto possibile.
– Uhm... – rifletté Abakumov. – Però non capisco, con cosa possiamo
confrontare cosa?
– Nastro con nastro.
– Nastro con nastro? Sì, prima o poi dovremo pure perfezionare questa
tecnica. Selivanovskij, pensa di farcela?
– Io, Viktor Semënyč, non capisco ancora di cosa stiamo parlando.
– Cosa c’è da capire? Non c’è niente da capire. Una canaglia, una serpe,
probabilmente un diplomatico, sennò come lo avrebbe saputo?, questa sera ha
chiamato l’ambasciata americana da un telefono pubblico, e ha rivelato i nomi
di tutti gli agenti segreti che abbiamo là. Ha parlato della bomba atomica. Ecco,
trovalo e avrai un bel premio.
Superando Oskolupov, Selivanovskij guardò Jakonov. Questi incrociò il suo
sguardo e sollevò un po’ le sopracciglia, fin quasi a unirle. Con quello voleva
dire che si trattava di una faccenda nuova, per la quale mancavano metodologie
ed esperienza, e che comunque avevano già abbastanza cose cui dare retta, non
era il caso di impegnarsi. Selivanovskij era abbastanza intelligente da capire sia
il movimento delle sopracciglia che tutta la situazione. E si preparò a
trasformare una questione chiara in qualcosa di ingarbugliato.
Ma intanto Foma Gur’janovič Oskolupov ragionava a modo suo. Lui non
voleva affatto essere il cretino messo a capo della sezione. Da quando era stato
promosso a quella carica, traboccava di dignità ed era più che convinto di saper
gestire ogni problema e di cavarsela meglio di tutti. Altrimenti perché avrebbe
avuto la nomina? E sebbene a suo tempo non avesse nemmeno concluso i
primi sette anni di scuola, ora non ammetteva che uno dei suoi sottoposti
potesse capirne di più di lui, a meno che non si parlasse di dettagli o di schemi
dove era proprio necessario mettere le mani. Poco tempo prima, trovandosi in
borghese senza uniforme, in una stazione termale di prim’ordine, si era fatto
passare per professore di elettronica. Là aveva conosciuto il celeberrimo
scrittore Kazakevič, il quale non gli aveva più staccato gli occhi di dosso e
annotava tutto nel suo taccuino, dicendo che voleva ispirarsi a lui per il
personaggio di uno scienziato contemporaneo. Dopo quel periodo alla stazione
termale Foma si era finalmente sentito uno scienziato.
Anche ora comprese subito il problema e mollò il branco:
– Compagno ministro! Noi possiamo di certo!
Selivanovskij si voltò e lo guardò stupito:
– In quale impianto? In quale laboratorio?
– Quello telefonico, a Marfino. Hanno parlato al telefono, perciò...
– No, a Marfino hanno un compito più importante da svolgere.
– Non importa! Troveremo le persone! Là ce ne sono trecento, e non
scoviamo quelle adatte?
E piantò in faccia al ministro lo sguardo di uno pronto a tutto.
Abakumov non sorrise, ma sul viso gli si palesò di nuovo un’espressione di
simpatia verso il generale. Era così anche lui, Abakumov, quando voleva farsi
strada: pronto a ridurre a pezzetti chiunque gli indicassero, senza riserve. Trovi
sempre simpatico uno più giovane che ti assomiglia.
– Bravo! – approvò. – È così che bisogna ragionare! Prima di tutto gli
interessi dello Stato, e poi il resto. Giusto?
– Proprio così, compagno ministro! Proprio così, compagno colonnello
generale!
Rjumin non sembrò né stupirsi né apprezzare in modo particolare
l’abnegazione di quel generale di divisione butterato. Guardò distrattamente
Selivanovskij e disse:
– Allora domani mattina verrò da voi.
Si scambiò un’occhiata con Abakumov e se ne andò con passo silenzioso.
Il ministro si stuzzicò i denti nel punto in cui un pezzetto di carne gli era
rimasto incastrato dalla cena.
– Bene, allora quando? Avete continuato a blandirmi: all’inizio il 1° agosto,
poi le feste d’ottobre, infine l’anno nuovo... quindi?
Inchiodò lo sguardo su Jakonov, obbligando quest’ultimo a rispondere.
Qualcosa nella posizione del collo sembrava impacciare Jakonov. Lui lo
piegò appena a destra, poi appena a sinistra, sollevò sul ministro i suoi gelidi
occhi blu per riabbassarli subito.
Jakonov sapeva di avere un grande talento. Ma sapeva anche che persone di
talento superiore al suo, con il cervello impegnato totalmente nel lavoro,
stavano su quel maledetto impianto quattordici ore su ventiquattro, senza
nemmeno un giorno di riposo in tutto l’anno. Gli sconsiderati e generosi
americani, che pubblicavano le loro invenzioni su riviste accessibili a tutti,
partecipavano a loro volta alla realizzazione di quell’impianto, sia pure
indirettamente. Jakonov conosceva le mille difficoltà, già superate e appena
sorte, in mezzo alle quali i suoi ingegneri si facevano largo come nuotatori in
mezzo al mare. Sì, di lì a sei giorni sarebbe scaduto l’ultimo degli ultimi termini
da loro elemosinati a quell’ammasso di carne stretto nella giacca militare. Ma
avevano dovuto elemosinare e fissare termini assurdi perché fin dall’inizio, per
quel lavoro decennale, il Corifeo delle Scienze aveva concesso loro solo un
anno.
Nell’ufficio di Selivanovskij si erano accordati di chiedere una proroga di
dieci giorni. Promettere due prototipi di impianti telefonici entro il 10 gennaio.
Così aveva insistito il viceministro. Così aveva voluto Oskolupov. Calcolavano
di riuscire a consegnare almeno qualcosa di non finito, purché verniciato di
fresco. Nessuno avrebbe potuto o saputo verificare nell’immediato
l’assolutezza o meno della codifica, e nel tempo che ci voleva a collaudarne la
qualità, a produrli in serie e a dotare di quegli apparecchi le nostre ambasciate
all’estero, sarebbero trascorsi altri sei mesi e loro avrebbero sistemato sia la
codifica sia la qualità del suono.
Ma Jakonov sapeva che gli oggetti inanimati non obbediscono alle scadenze
degli uomini, e che per il 10 gennaio dagli apparecchi non sarebbe uscita una
parlata umana ma un pastone. E inevitabilmente si sarebbe ripetuto con lui
quanto accaduto a Mamurin: il Padrone avrebbe chiamato Berija a rapporto e
gli avrebbe chiesto: chi è l’imbecille che ha creato questa macchina? Toglilo di
mezzo. E anche Jakonov sarebbe diventato nel migliore dei casi una Maschera
di Ferro o, con più probabilità un semplice zek.
E sotto lo sguardo del ministro, sentendo stringere intorno al collo un
cappio impossibile da sciogliere, Jakonov superò il proprio misero terrore e,
senza rendersene conto, come aspirando ossigeno nei polmoni, esclamò:
– Ancora un mese! Ancora uno! Fino al 1° febbraio!
Con aria supplichevole, quasi come un cane, guardò Abakumov.
A volte le persone di talento sono ingiuste verso i meno dotati. Abakumov
era più intelligente di quanto Jakonov non pensasse, solo che a furia di usarlo
poco il cervello al ministro era diventato inutile: per tutta la carriera era
successo che a riflettere ci aveva perduto, mentre a servire con zelo ci aveva
sempre guadagnato. E Abakumov si sforzava di usare la testa il meno possibile.
In cuor suo sapeva che se due anni non erano stati sufficienti, non potevano
essere d’aiuto altri dieci giorni, e nemmeno un mese. Ai suoi occhi, tuttavia, la
colpa era di quella trojka di mentitori, erano loro i colpevoli: Selivanovskij,
Oskolupov e Jakonov. Se era così difficile, perché ventitré mesi prima avevano
accettato quel compito accordandosi per un anno? Perché non esigerne tre? (Si
era già dimenticato che li aveva sollecitati lui stesso senza pietà.) Se si fossero
impuntati allora davanti ad Abakumov, lui si sarebbe impuntato davanti a
Stalin, avrebbero ottenuto due anni, e il terzo lo avrebbero strappato tirando
per le lunghe.
Ma la paura sorta in lunghi anni di subordinazione era così enorme che
nessuno di loro, né prima né dopo, aveva avuto abbastanza coraggio da farsi
valere davanti ai superiori.
Lo stesso Abakumov seguiva il famoso detto volgare secondo cui a tenersi
un po’ di tempo di riserva non la pigli mai in quel posto, e con Stalin
aggiungeva sempre un paio di mesi in più. Anche adesso: aveva promesso a
Iosif Vissarionovič di fargli avere uno degli apparecchi il 1° marzo. Così, nella
peggiore delle ipotesi poteva autorizzare ancora un mese, ma che fosse davvero
un mese.
Prese di nuovo la penna stilografica e, con assoluta semplicità, Abakumov
domandò:
– Un mese come? Un mese vero o tornerete qui a contar balle?
– Un mese! Un mese! – disse Oskolupov, raggiante, rallegrato da quella
svolta fortunata, neanche fosse pronto a precipitarsi direttamente da lì,
dall’ufficio, a Marfino, e imbracciare lui stesso il saldatore.
Così, scarabocchiando con la penna, Abakumov annotò la data sulla rubrica-
calendario.
– D’accordo. Per l’anniversario della morte di Lenin. Riceverete tutti il
premio Stalin. Selivanovskij, sarete pronti?
– Saremo pronti! Certamente!
– Oskolupov! Vi stacco la testa! Sarete pronti?
– Sì, compagno ministro, c’è rimasto solo...
– E tu? Lo sai che cosa stai rischiando? Sarete pronti?
Continuando a farsi coraggio, Jakonov insisté:
– Un mese! Fino al 1° febbraio.
– E se il 1° febbraio non sarete pronti? Colonnello! Valuta bene! Stai
mentendo.
Certo, Jakonov mentiva. E certo, avrebbe dovuto chiedere due mesi. Ma
ormai era fatta.
– Saremo pronti, compagno ministro – promise, in tono mesto.
– Be’, stai attento, non ti ho costretto io a dirlo! Chiedo tanto ma non voglio
bugie! Andate.
Sempre in fila, sollevati, se ne andarono un passo dietro l’altro, chinando lo
sguardo davanti all’immagine di Stalin alta cinque metri.
Ma si erano rallegrati troppo presto. Non sapevano che il ministro aveva
teso loro una trappola.
Si erano appena fatti congedare, che nell’ufficio fu annunciato:
– L’ingegner Prjančikov!

38 Berija.
17
A PROPOSITO DELL’ACQUA CALDA

Quella notte, su ordine di Abakumov, prima era stato chiamato Jakonov


attraverso Selivanovskij e quindi, all’oscuro di tutti loro, con un intervallo di
quindici minuti l’uno dall’altro erano stati inviati all’impianto di Marfino due
fonogrammi: avevano convocato al ministero lo zek Bobynin, e poi lo zek
Prjančikov. Bobynin e Prjančikov erano stati accompagnati in macchine
separate e costretti ad attendere in stanze diverse perché non avessero modo di
mettersi d’accordo.
Ma difficilmente Prjančikov sarebbe riuscito ad accordarsi per via della sua
innaturale sincerità, che molti disincantati figli del secolo consideravano
un’anomalia spirituale. Alla šaraška la chiamavano proprio così: “lo sfasamento
di Valentulja.”
Tanto più adesso non sarebbe stato in grado di giungere a un accordo o a
qualsivoglia premeditazione. Tutta la sua anima era scossa dalle luminose
visioni di Mosca che scorrevano oltre il finestrino della Pobeda. Dopo gli strati
di periferica oscurità che circondavano la zona di Marfino, era stato ancora più
sbalorditivo sbucare sul grande stradone splendente, verso l’allegro viavai della
piazza della stazione, poi verso le vetrine con le luci al neon della Sretenka. Per
Prjančikov non esistevano più né l’autista né i due accompagnatori in abiti
civili, e quella che gli entrava e gli usciva dai polmoni non sembrava più aria
ma fuoco. Impossibile staccarsi dal finestrino. Non lo avevano portato mai a
Mosca di giorno, e in tutta la storia della šaraška nessun detenuto aveva mai
visto nemmeno la città di sera!
Nei pressi della piazza Sretenkie Vorota l’automobile rallentò per la folla che
usciva dal cinema, poi attese al semaforo.
A milioni di detenuti pareva che la vita in libertà senza di loro si fosse
fermata, che non ci fossero più uomini, e le donne si tormentassero per eccesso
di amore non condiviso con nessuno, e che a nessuno servisse quell’amore. Lì,
invece, si muoveva la sazia ed eccitata folla della capitale, balenavano cappelli,
velette, volpi argentate, e attraverso il gelo, attraverso la carrozzeria
impenetrabile dell’automobile, i vibranti sensi di Valentin percepivano folate,
folate e folate di profumi di donne a passeggio. Valentin udiva le risate, il
parlottare inquieto, le frasi solo in parte decifrabili: non desiderava altro che
frantumare il resistente finestrino in vetroresina e gridare a quelle donne che
lui era giovane, sentiva la loro mancanza, si trovava in prigione per una
quisquilia! Dopo l’isolamento monastico della šaraška, quel pezzetto di vita
elegante che non gli era capitato in nessun modo di vivere, a causa prima delle
ristrettezze da studente, poi della prigionia e infine del carcere, gli pareva uno
spettacolo meraviglioso.
Poi, mentre aspettava in una stanza, Prjančikov non distingueva nemmeno
più i tavoli e le sedie lì dentro: i sentimenti e le impressioni che si erano
impossessati di lui faticavano ad abbandonarlo.
Un giovane tenente colonnello tirato a lucido gli chiese di seguirlo. Con il
collo delicato, i polsi sottili, le spalle strette, le gambe magre, Prjančikov non
aveva mai avuto un aspetto tanto esile come nel momento in cui metteva piede
in quel salone-ufficio, sulla soglia del quale il suo accompagnatore lo aveva
lasciato.
Prjančikov non indovinò nemmeno che si trattava di un ufficio (tanto era
spazioso) e che il paio di spalline dorate in fondo al salone erano il suo
occupante. Non notò neppure lo Stalin di cinque metri alle sue spalle. Davanti
agli occhi continuavano a scorrergli le donne della notte e la Mosca notturna.
Valentin si sentiva come ubriaco. Per lui era difficile capire perché si trovasse lì
e cosa fosse quel salone. Non si sarebbe affatto meravigliato se fossero entrate
delle donne in ghingheri per dare inizio alle danze. Gli sembrava folle che, con
la guerra finita cinque anni prima, il suo bicchiere di tè freddo bevuto per metà
fosse rimasto in una stanza semicircolare illuminata da una lampadina blu,
dove un gruppo di uomini girava in mutande.
I piedi avanzavano sul tappeto disteso con prodigalità sul pavimento. Era
morbido, a pelo lungo, veniva voglia di rotolarcisi dentro. Sul lato destro del
salone si disponeva una fila di grandi finestre, e sul sinistro era appeso uno
specchio che arrivava fino al pavimento.
I liberi non conoscono il valore delle cose! Per uno zek, che poteva disporre,
e non sempre, solo di uno specchietto economico più piccolo di un palmo,
guardarsi in uno grande era una festa!
Prjančikov si fermò di fronte allo specchio, come incantato. Si accostò
vicinissimo e si osservò con soddisfazione il viso fresco e pulito. Si aggiustò un
po’ la cravatta e il colletto della camicia azzurra. Poi cominciò ad allontanarsi,
lentamente, continuando a guardarsi di fronte, di tre quarti e di profilo. Si
mosse a quel modo per qualche istante, cimentandosi quasi in un passo di
danza. Poi si accostò di nuovo e si guardò ancora da vicino. Trovandosi,
nonostante la tuta blu, bello asciutto ed elegante, e sentendosi nella miglior
disposizione di spirito, andò avanti, non perché lo attendesse una questione di
lavoro (di questo Prjančikov si era del tutto dimenticato), ma perché voleva
continuare a perlustrare la stanza.
L’uomo che in una metà del mondo poteva far finire in prigione chiunque, e
nell’altra farlo uccidere, un ministro onnipotente davanti al quale generali e
marescialli impallidivano, ora guardava con curiosità quel gracile zek blu. Dopo
aver fatto arrestare e condannare milioni di persone, lui non ne vedeva uno così
da vicino ormai da lungo tempo.
Con l’andatura di un bellimbusto a passeggio, Prjančikov si avvicinò e
guardò con aria interrogativa il ministro, come se non si aspettasse di trovarlo
lì.
– Lei è l’ingegner... – Abakumov controllò su un foglio – ...Prjančikov?
– Sì – confermò distrattamente Valentin. – Sì.
– È l’ingegnere che dirige il gruppo... – consultò di nuovo gli appunti –
...dell’apparecchio del linguaggio artificiale?
– Ma quale apparecchio del linguaggio artificiale! – disse Prjančikov, con un
cenno indispettito. – Che sciocchezze! Da noi nessuno lo chiama più così. Quel
nome gliel’hanno dato durante la campagna per la lotta contro il servilismo
verso l’Occidente. Si chiama vo-co-der. Voice coder.
– Ma lei è l’ingegnere capo?
– In linea di massima, sì. Perché? – si insospettì Prjančikov.
– Si accomodi.
Prjančikov sedette volentieri, tenendosi con eleganza le gambe ben stirate
dei pantaloni della tuta.
– Le chiedo di parlare con assoluta franchezza, senza il timore di
qualsivoglia repressione da parte del suo diretto superiore. Il vocoder, quando
sarà pronto? Sinceramente! Fra un mese? O ne serviranno due? Parli pure, non
abbia paura.
– Il vocoder? Pronto? Ah-ah-ah-ah! – Prjančikov si lasciò andare a una
sonora risata fanciullesca, di un genere mai riecheggiato sotto quelle volte, si
appoggiò al morbido schienale di pelle e agitò le mani. – Ma cosa sta dicendo??!
Che dice?! Lei, a quanto pare, non sa che cos’è il vocoder. Ora glielo spiego.
Balzò in piedi dalla poltrona molleggiata e si lanciò verso la scrivania di
Abakumov.
– Non ha un pezzetto di carta? Ah, eccolo! – Strappò un foglio dal bloc-
notes intonso sulla scrivania del ministro, afferrò la sua penna color della carne
rossa e si mise a disegnare in fretta e con tratto tondeggiante una serie di
sinusoidi.
Abakumov non si spaventò: c’era talmente tanta sincerità e spontaneità
infantile nella voce e nei movimenti di quello strano ingegnere che il ministro
tollerò una simile irruenza e guardò Prjančikov con curiosità, senza ascoltarlo.
– Deve sapere che la voce di una persona è formata da molti armonici. –
Prjančikov si mangiava quasi le parole per il desiderio impellente di esprimere
tutto il più in fretta possibile. – L’idea del vocoder, dunque, si basa sulla
riproduzione artificiale della voce umana... per la miseria! come cavolo fa a
scrivere con questa penna tremenda? ...la riproduzione ottenuta dalla somma se
non di tutti, almeno degli armonici fondamentali, ciascuno dei quali può essere
inviato tramite un singolo sensore di impulsi. Be’, conoscerà di sicuro il sistema
di coordinate ortogonali cartesiane, quello lo conosce ogni scolaro, ma le serie
di Fourier, le conosce?
– Aspetti un attimo – si riebbe Abakumov. – Mi dica solo una cosa: quando
sarà pronto? Quando?
– Pronto? Uhm... Non ci ho mai pensato. – In Prjančikov la forza d’inerzia
della capitale notturna aveva lasciato il posto alla forza d’inerzia del suo amato
lavoro, e ancora una volta gli era difficile fermarsi. – La cosa più interessante è
che il compito sarà più facile se punteremo sulla semplificazione del timbro
vocale. Allora il numero dei fattori...
– Dunque, per quale data? Quale? Il 1° marzo? Il 1° aprile?
– No, ma che dice! Aprile?... Senza crittografi saremmo pronti... be’, in
quattro, cinque mesi, non prima. E cosa mostreranno la codifica e poi la
decodifica degli impulsi? Che la qualità si sarà ulteriormente ridotta! Ma non
tiriamo a indovinare! – Prjančikov si affannava a persuadere Abakumov,
strattonandolo per la manica. – Ora le spiego tutto. Capirà anche lei, e
concorderà con me, che nell’interesse della questione non bisogna avere
fretta!...
Abakumov però, lo sguardo fisso sulle linee curve e senza senso del disegno,
stava già premendo un pulsante sulla scrivania.
Rispuntò il tenente colonnello di prima, quello tirato a lucido, che invitò
Prjančikov verso l’uscita.
Prjančikov obbedì con un’espressione smarrita, la bocca mezza aperta. La
cosa che gli dispiaceva maggiormente era di non aver esposto fino in fondo il
proprio pensiero. Poi, mentre camminava, si irrigidì, rendendosi conto della
persona con cui aveva parlato. Ormai quasi giunto alla porta, si ricordò che i
ragazzi gli avevano chiesto di presentare delle lamentele, di cercare di ottenere
che... Si voltò di scatto e fece per tornare indietro:
– Ehi!! Senta, mi sono dimenticato di chiederle...
Ma il tenente colonnello gli sbarrò la strada, incalzandolo verso la porta, e il
superiore dietro la scrivania non ascoltava: in quel breve momento
imbarazzante tutte le cose illegali, tutte le violazioni subite in carcere
sfuggirono a Prjančikov dalla memoria, da tempo ormai invasa soltanto da
schemi radiotecnici. Gli venne in mente soltanto una cosa, che gridò sulla
porta.
– Per esempio, l’acqua calda! Arrivi la sera tardi dal lavoro e non ce n’è! Non
riesci neanche a berti un tè come si deve...
– L’acqua calda? – si accertò di aver capito bene quel superiore tanto simile
a un generale. – D’accordo. Provvederemo.
18
LA FIABA DEL CAVALLINO MAGICO

Con la stessa tuta blu, ma robusto, un pezzo d’uomo, la testa rasata da galeotto,
entrò Bobynin.
Manifestò per l’arredamento dell’ufficio l’interesse che avrebbe avuto se ci
fosse capitato cento volte al giorno, procedé senza soffermarsi e prese posto
senza salutare. Si sedette su una delle comode poltrone poco distanti dalla
scrivania del ministro e si soffiò accuratamente il naso con un fazzoletto non
troppo bianco che lui stesso aveva lavato durante l’ultimo bagno.
Un po’ disorientato da Prjančikov, ma incapace di prendere sul serio quel
giovane spensierato, Abakumov era contento che ora Bobynin fosse più posato.
Così non gli gridò: “In piedi!” ma, ritenendo che quello non se ne intendesse di
spalline e a furia di passare porte non si fosse reso conto di dov’era capitato,
quasi in tono pacato gli domandò:
– Perché si siede senza permesso?
Sbirciando a malapena il ministro e finendo di pulirsi il naso con il
fazzoletto, Bobynin rispose senza tante cerimonie:
– Be’, guardi, esiste un detto cinese: stare in piedi è meglio che camminare,
essere seduti è meglio che stare in piedi, e ancora meglio è stare distesi.
– Ma ha una vaga idea di chi sono io?
Con i gomiti appoggiati comodamente sulla poltrona che si era scelto,
Bobynin osservò Abakumov ed espose la propria ipotesi con indolenza.
– Chi potrebbe essere? Be’, qualcuno di simile al maresciallo Goering?
– Simile a CHI??...
– Al maresciallo Goering. Una volta ha visitato la fabbrica aeronautica nei
dintorni di Halle dove mi è capitato di lavorare all’ufficio progettazione. I
generali di là camminavano in punta di piedi, ma io non mi sono nemmeno
voltato dalla sua parte. Lui ha dato una bella occhiata in giro, poi se n’è andato
in un’altra stanza.
Sul volto di Abakumov passò quello che ricordava vagamente un sorriso, ma
davanti a un detenuto di un’insolenza così inaudita lo sguardo si accigliò
subito. Sbatté le palpebre per la tensione e domandò:
– E allora? Fra noi non vede nessuna differenza?
– Fra voi due? O fra noi due? – La voce di Bobynin rombava come ghisa
maltrattata. – Fra noi due la vedo perfettamente: io le servo, mentre lei a me
non serve!
Anche Abakumov aveva una voce che rombava come un tuono e sapeva
come intimidire. Ma ora si rendeva conto che gridare sarebbe stato inutile,
indecoroso. Aveva capito che quello era un detenuto difficile.
Si limitò a metterlo in guardia:
– Senta, detenuto. Anche se la sto trattando con le buone, non si dimentichi
che...
– Se mi avesse trattato con le cattive, cittadino ministro, non mi sarei
nemmeno messo a parlare con lei. Gridi pure contro i suoi tenenti e generali,
quelli nella vita hanno fin troppo, e fin troppo da perdere.
– Se serve, sapremo convincere anche lei.
– Si sbaglia, cittadino ministro! – E gli intensi occhi di Bobynin si accesero
di un odio sincero. – Io non ho niente, le è chiaro? NIENTE DI NIENTE! Moglie e
figlio non me li può più togliere, se li è presi una bomba. I miei genitori sono
già morti. L’unica cosa che mi appartiene su questa terra è un fazzoletto da
naso; la tuta e la biancheria che c’è sotto, senza bottoni (scoprì il petto e la
mostrò), sono dello Stato. La libertà me l’avete tolta da un pezzo e ridarmela
non è nelle sue possibilità, perché manca pure a lei. Ho quarantadue anni, mi
avete affibbiato una condanna a venticinque, ai lavori forzati ci sono già stato,
sono andato in giro con i numeri cuciti addosso, in manette, con i cani da
guardia, e sono stato anche nella squadra a regime intensificato. In quale altro
modo pensa di minacciarmi? Di cos’altro potrebbe privarmi? Del lavoro di
ingegnere? Ci perderebbe lei. Ora vorrei fumare.
Abakumov aprì un pacchetto di Trojka, produzione del Cremlino, e lo
allungò a Bobynin:
– Ecco, prenda queste.
– Grazie. Non cambio marca. Ho la tosse. – Ed estrasse una Belomor da un
portasigarette di sua fabbricazione. – In generale, cerchi di capire, e lo
comunichi anche a chi di dovere sopra di lei, siete forti solo quando non
togliete tutto alle persone. Se togliete tutto a un uomo, quello non è più in
vostro potere, ma di nuovo libero.
Bobynin tacque e si concentrò sulla sua sigaretta. Era bello starsene mezzo
sdraiato su quella poltrona così comoda a stuzzicare il ministro. Gli spiaceva
solo di aver rifiutato sigarette tanto lussuose per fare colpo.
Il ministro controllò sul suo foglio.
– Ingegner Bobynin! Lei è l’ingegnere capo dell’impianto di ‘linguaggio
clippato’?
– Sì.
– Le chiedo di dirmi con assoluta precisione quando sarà pronto per
l’utilizzo?
Bobynin inarcò le folte sopracciglia scure.
– Che novità è questa? Non ha trovato nessuno sopra di me in grado di
rispondere a una domanda del genere?
– Voglio saperlo da lei. Sarà pronto entro febbraio?
– Entro febbraio? Mi prende in giro? Se è per scriverlo sul rapporto... chi si
marita in fretta, stenta adagio... Comunque, diciamo... fra sei mesi. E una
codifica assoluta? Non ne ho la minima idea. Forse un anno.
Abakumov era sconvolto. Gli tornò in mente il movimento astioso e
impaziente dei baffi del Padrone e tremò al pensiero delle promesse che,
basandosi su Selivanovskij, aveva fatto. Dentro gli crollò tutto, come per un
uomo che va a curarsi un raffreddore e scopre di avere un cancro nasofaringeo.
Il ministro si afferrò la testa con entrambe le mani e con voce soffocata
disse:
– Bobynin! La prego di pesare bene le sue parole. Se esiste la possibilità di
fare più in fretta, mi dica, di cosa avreste bisogno?
– Più in fretta? Impossibile.
– E le cause? Quali sono le cause? Di chi è la colpa? Me lo dica, non abbia
timore! Faccia i nomi dei colpevoli, quali che siano le spalline che portano!
Gliele strappo, le spalline!
Bobynin rovesciò indietro la testa e si mise a osservare il soffitto, dove
giocavano le ninfe della compagnia di assicurazioni Rossija.
– Sono passati due anni e mezzo, quasi tre! – si indignò il ministro. – E vi
era stato dato il termine di un anno!
Bobynin scattò:
– Che significa che ci era stato dato un termine? Cosa crede che sia la
scienza? La fiaba del cavallino magico? Costruiscimi un bel palazzo entro
domani mattina, e quello il giorno dopo è fatto? E se il problema viene
impostato male? Se saltano fuori elementi nuovi? Dato un termine! E lei non
pensa che, oltre a un ordine impartito, debbano anche esserci uomini sereni,
ben nutriti e liberi? E senza questa atmosfera di sospetto. Per esempio,
abbiamo spostato un piccolo tornio e, non so se mentre ci lavoravamo noi o
chi dopo di noi, insomma, il basamento si è incrinato. Lo sa il diavolo perché è
successo! Ma ripararlo è costato a un saldatore un’ora di lavoro. E quel tornio è
già una merda, ha centocinquant’anni, è senza motore, con la puleggia a cinghia
scoperta. E per questa incrinatura sono già due settimane che il maggiore oper
Šikin tormenta tutti, ci fa l’interrogatorio, cerca a chi affibbiare una seconda
condanna per sabotaggio! Lui sul lavoro è un oper, un parassita, e in prigione c’è
un altro oper, parassita pure lui, e ti fanno saltare i nervi, fra protocolli e cavilli...
ma che diamine ve ne fate di tutta questa attività operistica? Continuano a dirci
che stiamo progettando un sistema di telefonia segreta per Stalin, che è lui in
persona a volerlo, e nemmeno in un settore come questo siete in grado di
assicurare le condizioni tecniche necessarie: prima mancano i condensatori, poi
le valvole non sono del tipo giusto, oppure non bastano gli oscillografi
elettronici. Per la miseria! È una vergogna! Di chi è la colpa39! Ma agli uomini ci
avete pensato? Lavorano per voi dodici, alcuni anche sedici ore al giorno, ma la
carne è fornita solo agli ingegneri capo, mentre agli altri cosa resta? Le ossa?
Perché ai Cinquantotto non concedete le visite parentali? È stabilito che siano
una volta al mese, ma le permettete solo una volta all’anno. Questo può
sollevare il loro morale? Mancano forse i corvi per trasportare i carcerati? O i
soldi per pagare gli straordinari ai sorveglianti? Regime carcerario!! Il regime vi
annebbia la mente, presto vi farà uscire di senno! Prima, la domenica si poteva
passeggiare tutto il giorno, adesso lo hanno proibito. Ma perché? Per farci
lavorare di più? Volete cavare sangue dalle rape? Tenendoci chiusi dentro a
soffocare senza un po’ di aria fresca, non ci impiegheremo certo di meno. Ma
che parlo a fare! Non mi ha forse chiamato in piena notte? Il giorno non le
basta? Io domani devo lavorare. Ho bisogno di dormire.
Bobynin raddrizzò la schiena, sdegnato, grande.
Schiacciato contro il bordo della scrivania, Abakumov ansava pesantemente.
Era l’una e venticinque di notte. Di lì a un’ora, alle due e mezzo, Abakumov
si sarebbe dovuto presentare da Stalin con una relazione, alla dacia di Kuncevo.
Se quell’ingegnere aveva ragione, come trovare adesso una via d’uscita?
Stalin non perdonava...
Mentre congedava Bobynin, gli tornò in mente la trojka di mentitori della
Sezione di Tecnica speciale. E negli occhi gli si accese un’oscura rabbia.
Li convocò per telefono.

39 Celebre romanzo di Aleksandr Herzen (1812-1870), il cui protagonista è un campione d’abulia,


incapace di risolvere le situazioni dovute ai cambiamenti dell’epoca.
19
IL FESTEGGIATO

La stanza non era né grande né alta. Aveva due porte, e la finestra, se anche
c’era, aveva le tende ben serrate e si fondeva nella parete. Eppure l’aria risultava
fresca, piacevole (c’era una persona precisa che si preoccupava dell’entrata e
dell’uscita dell’aria, e della sua innocuità chimica).
Un’ottomana stretta con i cuscini a fiori occupava molto spazio. Sopra a
questa, sulla parete, erano accese delle lampade abbinate, coperte da piccoli
paralumi.
Sull’ottomana era sdraiato un uomo, la cui immagine tante volte era stata
scolpita, dipinta a olio, ad acquarello, a guazzo, a seppia, disegnata a
carboncino, a gessetto, con polvere di mattone, formata da sassolini, da
conchiglie di mare, su piastrella smaltata, con chicchi di grano e di soia,
intagliata nell’avorio, composta con l’erba, intessuta nei tappeti, tracciata dagli
aerei, filmata nelle pellicole cinematografiche, come mai nessun altro nei tre
miliardi di anni di esistenza della crosta terrestre.
Se ne stava lì sdraiato, le gambe leggermente raccolte, nei morbidi stivali
caucasici simili a calze spesse. Indossava una giubba con quattro grandi tasche,
due sul petto, due laterali, che era vecchia, vissuta, una delle tante grigie, grigio-
verdi, nere e bianche che (un po’ imitando Napoleone) aveva imparato a
portare dalla Guerra civile e sostituito con l’uniforme da maresciallo solo dopo
Stalingrado.
Il nome di quell’uomo veniva menzionato spesso sui giornali di tutto il
globo terrestre, mormorato da migliaia di annunciatori in centinaia di lingue,
gridato dai relatori all’inizio e alla fine dei discorsi, cantato dalle voci sottili dei
pionieri, pronunciato con solennità dagli alti dignitari della Chiesa ortodossa,
che brindavano alla sua salute. Il nome di quell’uomo si seccava sulle labbra
morenti dei prigionieri di guerra, sulle gengive gonfie dei detenuti. Con quel
nome era stato ribattezzato un gran numero di città e piazze, strade e viali,
palazzi, università, scuole, stazioni termali, catene montuose, canali marittimi,
fabbriche, miniere, sovchoz, kolchoz, navi di linea, rompighiaccio, pescherecci,
laboratori di calzoleria, nidi d’infanzia, e un gruppo di giornalisti di Mosca
aveva proposto di ribattezzarci pure il Volga e la Luna.
Lui era soltanto un piccolo vecchio dagli occhi gialli, con i capelli biondicci
(nei ritratti li raffiguravano corvini) che si stavano già diradando (li
raffiguravano folti), il viso grigio butterato qua e là dai segni del vaiolo, una
sacca di pelle flaccida sotto il mento (quella non la disegnavano affatto), i denti
scuri e irregolari, una parte dei quali ripiegata all’interno della bocca che
puzzava di tabacco in foglie, le umide dita unte che lasciavano tracce sulle carte
e sui libri.
Inoltre quel giorno non si sentiva bene: era stanco e aveva esagerato con il
cibo durante i festeggiamenti per il suo compleanno, si sentiva nella pancia una
pesantezza di pietra e gli si ripresentava un sapore di marcio; salolo e
belladonna non erano stati di alcun aiuto, ma detestava prendere dei purganti.
Non aveva neanche mangiato e si era coricato presto, verso mezzanotte. In
quell’aria calda sentiva uno strano freddo alla schiena e alle spalle, che teneva
coperte con uno scialle di cammello marroncino.
Un silenzio sordo aveva avvolto la casa, il cortile, tutto il mondo.
In quel silenzio il tempo scorreva a malapena, strisciava piano, andava subìto
come una malattia, un acciacco, escogitando ogni notte un’attività o uno svago.
Non gli era costato granché fatica separarsi dallo spazio del mondo, non
muoversi più al suo interno. Ma dal tempo era impossibile separarsi.
Ora stava sfogliando un libretto dalla copertina rigida marrone. Guardava
con piacere le fotografie e leggeva qua e là il testo che ormai conosceva quasi a
memoria, per poi rimettersi a sfogliare. Quel libretto era così maneggevole da
entrare senza piegarlo nella tasca del cappotto, poteva accompagnare la gente
ovunque nella vita. Le pagine erano circa duecentocinquanta, ma stampate con
un carattere grande e nitido, in modo che anche le persone poco istruite e gli
anziani potessero leggerlo senza affaticarsi. Sulla copertina c’era impresso in
oro: Iosif Vissarionovič Stalin. Breve biografia.
Le parole oneste e semplici di quel libro si posavano sul cuore umano in
modo tranquillo e inevitabile. Genio strategico. La sua saggia perspicacia. La
sua poderosa volontà. La sua ferrea volontà. Era diventato di fatto il vice di
Lenin dal 1918. (Sì, sì, era andata proprio così.) Il condottiero della rivoluzione
aveva trovato al fronte grande confusione, smarrimento. Alla base del piano
operativo di Frunze c’erano le istruzioni di Stalin. (Esatto. Esatto.) È stata una
fortuna per noi che durante i difficili anni della Guerra patriottica40 ci guidasse
il saggio ed esperto Capo, il Grande Stalin. (Sì, il popolo ha avuto fortuna.)
Tutti conoscono la forza devastante della logica staliniana, la chiarezza
cristallina della sua mente. (Senza falsa modestia, è tutto vero.) Il suo amore
per il popolo. La sua sensibilità verso le persone. La sua insofferenza verso le
solennità chiassose. La sua sorprendente modestia. (La modestia, è proprio
vero.)
Una conoscenza infallibile dell’animo umano aveva permesso al festeggiato
di radunare per quella biografia un buon collettivo di autori. Ma per quanto
fossero accurati, o si facessero in quattro, nessuno avrebbe scritto in modo così
intelligente, sentito, attinente ai fatti come lui stesso. Così Stalin aveva dovuto
chiamare a sé uno dopo l’altro gli uomini di quel collettivo, ci aveva conversato
con calma, aveva dato un’occhiata ai loro manoscritti, indicato con indulgenza
le mancanze, suggerito formulazioni.
E il libro aveva avuto un enorme successo. Quella seconda edizione era
uscita con una tiratura di cinque milioni di copie. Per una nazione come
quella? Un po’ pochino. Bisognava che la terza uscisse almeno in dieci, venti
milioni di copie. Che fosse venduto nelle fabbriche, nelle scuole, nei kolchoz. Si
poteva distribuire usando direttamente l’elenco degli impiegati.
Nessuno meglio dello stesso Stalin sapeva fino a che punto era necessario
quel libro al suo popolo. Il popolo non poteva restare senza risposte giuste e
continue. Il popolo non poteva reggere senza certezze. La rivoluzione aveva
trasformato il popolo in un orfano, in un senzadio, cosa davvero pericolosa.
Già da vent’anni Stalin, per quanto in suo potere, correggeva la situazione. A
quello erano serviti milioni di ritratti in tutto il paese (non di certo a Stalin, lui
era modesto), il continuo ripetersi altisonante del suo glorioso nome, il
continuo accenno in ogni articolo. Non era assolutamente il Capo ad averne
bisogno – non ci gioiva affatto, gli era già venuto a noia – serviva ai sudditi,
alla semplice gente sovietica. Il maggior numero possibile di ritratti, il maggior
numero possibile di menzioni, e comparire di rado in carne e ossa, parlare
poco, come se non stesse sempre con loro sulla terra, ma anche da qualche altra
parte. Allora non ci sarebbe stato più limite al culto e alla venerazione.
Non aveva la nausea, ma gli gravava sullo stomaco una sensazione di
pesantezza. Prese un frutto di feijoa da una ciotola con della frutta già
sbucciata.
Tre giorni prima erano stati festeggiati i suoi gloriosi settant’anni.
Per le usanze del Caucaso, raggiunti i settanta, un uomo è ancora un džigit,
un valoroso! Sui monti, a cavallo, con le donne. E anche Stalin era in piena
salute, sarebbe vissuto per forza di cose fino a novant’anni: questo aveva
deciso, questo esigevano i fatti. Anche se un medico lo aveva avvertito che...
(del resto, se non ricordava male, poi l’avevano fucilato). Una vera malattia,
seria, non ce l’aveva. Nessuna iniezione, nessuna cura, conosceva bene la
medicina, sapeva scegliere da sé. “Più frutta!” Dire di mangiare più frutta a un
uomo del Caucaso!
Succhiava la polpa, strizzando gli occhi. Sulla lingua gli restava un leggero
retrogusto di iodio.
Era in piena salute, ma qualcosa con gli anni stava cambiando. Mangiare non
gli dava più la fresca soddisfazione di un tempo, come se tutti i sapori gli
fossero venuti a noia, si fossero attenuati. Non provava più una sensazione
intensa a eccedere con i vini e a mischiarli. L’ebbrezza si trasformava in un
dolore alla testa. E se a un pranzo Stalin restava ancora seduto come prima
fino a notte fonda con i suoi dirigenti non era perché godesse del cibo, ma
perché quel tempo lungo e vuoto si doveva pur trascorrere in qualche modo.
Nemmeno le donne con le quali faceva baldoria, dalla morte di sua moglie
Nadja, gli servivano granché, per loro provava di rado un brivido, restava tutto
abbastanza sul torbido. Ormai anche il sonno non era riposante come da
giovane: si svegliava già debole, con un cerchio alla testa, e non aveva voglia di
alzarsi.
Stabilito che ebbe di vivere fino ai novanta, Stalin pensava con angoscia a
quegli anni che non gli avrebbero portato nessuna gioia personale: doveva
semplicemente resistere altri due decenni perché l’umanità godesse di un
migliore ordine generale.
I settanta li aveva festeggiati così. La sera del 20 era stato torturato a morte
Trajčo Kostov. Solo quando i suoi occhi si erano fatti vitrei come quelli di un
cane, la festa aveva davvero avuto inizio. Il 21 si era tenuta la celebrazione
solenne al teatro Bol’šoj. Erano intervenuti Mao Tse-tung, Dolores41 e altri
compagni. Poi c’era stato un banchetto allargato, subito dopo uno per pochi
intimi. Avevano bevuto vecchi vini di cantine spagnole, ricevuti un tempo in
cambio di armi. Infine, lui e Lavrentij, rimasti soli, si erano bevuti un vino di
Kachezia e avevano intonato canzoni georgiane. Il 22 si era tenuto un grande
ricevimento diplomatico. Il 23 aveva visto la seconda parte della Battaglia di
Stalingrado e L’indimenticabile 1919, che parlavano di lui.
Benché stanchissimo, quelle opere gli erano piaciute molto. Adesso veniva
tratteggiato in modo sempre più veritiero il suo ruolo non solo nella Guerra
patriottica, ma anche in quella civile. Evidentemente era un grand’uomo fin da
allora. Lo schermo e il palcoscenico adesso dimostravano quanto spesso aveva
messo in guardia e corretto un Lenin fin troppo imprudente e superficiale.
Nobilmente il drammaturgo gli aveva messo sulle labbra la frase: “Ogni
lavoratore ha il diritto di manifestare i propri pensieri!” E allo sceneggiatore
era venuta bene quella scena di notte con l’Amico. Sebbene a Stalin non fosse
rimasto nessun grande Amico, per la perenne mancanza di sincerità e la
perfidia degli uomini. Non che avesse mai avuto un Amico così! Era andata in
quel modo: mai avuto! Ma vederlo sullo schermo aveva fatto venire a Stalin un
nodo alla gola (quello è un artista, un grande artista!): come avrebbe voluto
avere un Amico così sincero e disinteressato, dirgli ad alta voce quanto per
notti intere gli passava per la mente.
Tuttavia non gli era possibile avere un Amico del genere, perché avrebbe
dovuto essere grande quanto lui. E dove poteva vivere uno così? Di cosa si
sarebbe occupato?
Tutti quanti, da Vjaceslav “Sedere di pietra” a Nikita il Ballerino42, erano
forse uomini? A tavola con loro crepavi di noia, nessuno che proponesse mai
per primo qualcosa di intelligente, e quando lo faceva lui erano subito
d’accordo. Un tempo Stalin apprezzava abbastanza Vorošilov, per la difesa di
Caricyn, la guerra in Polonia e i fatti della grotta di Kislovodsk (aveva riferito
della riunione dei traditori Kamenev-Zinov’ev con Frunze)43, ma era pure lui
un manichino su cui appendere il cappello e le decorazioni; era forse un uomo
quello?
Non c’era nessuno che potesse menzionare come amico. Nessuno del quale
ricordare più cose positive che negative.
Un amico per lui non c’era e non ci sarebbe mai stato, tuttavia il popolo
semplice amava il suo Capo, era pronto a dare la vita e l’anima per lui. Lo si
vedeva dai giornali, al cinema, con la mostra dei suoi doni. Il compleanno del
Capo si era trasformato nella festa di tutto il popolo, era una gioia rendersene
conto. Quanti auguri erano arrivati! Auguri dalle istituzioni, auguri dalle
organizzazioni, auguri dalle fabbriche, auguri dai singoli cittadini! La “Pravda”
aveva chiesto l’autorizzazione di non pubblicarli tutti insieme, ma su due
colonne per ogni numero. Be’, la cosa sarebbe andata avanti per qualche anno,
non importava, non era un male.
E per i doni, al Museo della Rivoluzione non erano bastate dieci sale44. Per
dare la possibilità ai moscoviti di ammirare quei regali di giorno, Stalin era
andato a vederli di notte. Il lavoro di migliaia e migliaia di artisti, i migliori
doni della terra, ritti, appoggiati, appesi; eppure anche qui era subentrata
l’indifferenza, dentro di lui si era spento ogni interesse. Cosa se ne faceva di
tutti quei regali?... L’avevano annoiato in fretta. E al museo si era affacciato in
lui anche un ricordo negativo, ma come accadeva spesso negli ultimi tempi non
era riuscito a focalizzarlo chiaramente e gli era rimasta solo una sensazione
sgradevole. Stalin aveva percorso tre sale senza scegliere nulla, poi si era
fermato vicino a un enorme televisore con la scritta “Al grande Stalin dagli
agenti della Čeka” (era il più voluminoso televisore sovietico esistente,
fabbricato in un unico esemplare a Marfino), si era voltato ed era uscito.
Comunque era stato un bel compleanno – nessun politico al mondo poteva
vantare un simile orgoglio, simili vittorie e successo! – eppure non poteva dirsi
un pieno trionfo.
Qualcosa gli stringeva il petto, gli si era bloccato lì e bruciava.
Addentò un’altra volta il frutto e lo succhiò.
Il popolo lo amava, questo era certo, ma quello stesso popolo brulicava di
difetti e non andava bene per niente. Bastava ricordare il 1941: per colpa di chi
era avvenuta la ritirata? Chi si era ritirato, se non il popolo?
Ecco perché non poteva festeggiare, starsene lì sdraiato, ma doveva mettersi
al lavoro. Pensare.
Pensare era suo dovere. La sua amara sorte, e anche il suo tormento. Doveva
vivere ancora due decenni alla stregua di un detenuto con una condanna della
medesima durata, e non poteva dormire più di otto ore al giorno, mai più del
necessario. E per le restanti ore, muoversi lentamente, come se camminasse su
pietre appuntite, fare affidamento su un corpo non più giovane, ormai
vulnerabile.
I momenti della giornata più insopportabili per Stalin erano il mattino e il
mezzogiorno: mentre il sole sorgeva, scintillava, si sollevava fino a raggiungere
il culmine, Stalin dormiva al buio, con le tende serrate, chiuso, sbarrato dentro.
Si svegliava quando il sole stava già calando, stemperandosi, portandosi verso il
termine della sua breve vita di un giorno. Intorno alle tre del pomeriggio Stalin
faceva colazione e solo verso sera, al tramonto, cominciava a riprendersi. In
quelle ore il suo cervello funzionava con diffidenza, cupo, tutte le decisioni gli
apparivano proibitive, negative. Dalle dieci della sera iniziava il pranzo, al quale
di solito erano invitati gli uomini a lui più vicini nel Politbjuro e tra i
comunisti stranieri. Fra un gran numero di pietanze, calici, storielle e discorsi si
ammazzavano bene quattro, cinque ore, e intanto si prendeva la rincorsa, si
raccoglievano le idee creative in ambito legislativo per la seconda metà della
notte. Tutti i Decreti più importanti destinati al grande Stato trovavano forma
nella testa di Stalin dopo le due del mattino e solo fino all’alba.
E adesso quel tempo stava proprio per iniziare. E c’era un decreto già
maturato che di fatto ancora mancava fra le leggi. Nel paese erano stati in
grado di fissare in eterno quasi tutto, fermare tutti i movimenti, far ristagnare
tutte le correnti; duecento milioni di persone sapevano stare al proprio posto,
solo i giovani dei kolchoz sfuggivano. Era alquanto strano, dunque, che le
attività dei kolchoz, nel concreto, andassero bene, come risultava dai film e dai
romanzi, e lo stesso Stalin se ne rendeva conto parlando con i kolchoziani ai
presidium di riunioni e congressi. Tuttavia, statista sagace e sempre autocritico,
Stalin si costringeva a guardare ancora più a fondo. Uno dei segretari dei
comitati regionali (in seguito dovevano averlo fucilato) gli aveva rivelato che
c’era una pecca: nei kolchoz a lavorare con sollecitudine erano i vecchi e le
vecchie iscritti dal 1930, mentre una parte irresponsabile di giovani, non appena
terminata la scuola, cercava di ottenere con l’inganno i documenti per
svignarsela in città. Stalin aveva sentito quella cosa e un tarlo aveva cominciato
a rodergli dentro.
L’istruzione!... Che pasticcio era venuto fuori con quelle scuole obbligatorie
di sette anni e dieci anni, con i figli delle cuoche che andavano all’università! Lo
aveva combinato Lenin, che aveva fatto promesse senza la dovuta cautela, e ora
quelle pesavano sulla schiena di Stalin come una gobba storta e incurabile.
Ogni cuoca doveva essere in grado di dirigere lo Stato!... Ma come si
immaginava la cosa in concreto? Il venerdì poteva non cucinare per recarsi alla
riunione del Comitato esecutivo regionale? Una cuoca, in quanto tale, quello fa,
cucina il pranzo. Per dirigere la gente ci vuole grande abilità, è un compito che
si può affidare soltanto a quadri speciali, quadri selezionati con cura, temprati,
disciplinati. E la direzione di quei quadri può essere solamente nelle mani di
una persona, le mani esperte del Capo.
Era necessario stabilire nello statuto delle cooperative agricole che, come la
terra apparteneva loro in eterno, così anche chiunque fosse nato in un dato
villaggio sarebbe stato iscritto automaticamente al kolchoz dal giorno della sua
nascita. Bisognava formalizzarlo come un privilegio. Subito una campagna di
propaganda: “Un nuovo passo verso il comunismo”, “I giovani eredi del
granaio dei kolchoz”... Insomma, gli scrittori avrebbero trovato le frasi giuste.
E i nostri sostenitori in Occidente?
E chi bisognava far lavorare nei kolchoz?
No, qualcosa non andava nelle idee sul lavoro. Non venivano come
dovevano.
Si udirono quattro leggeri colpi alla porta, non dei veri colpi, dei morbidi
sfioramenti, come se un cane vi si stesse grattando contro.
Stalin girò la manopola per l’apertura a distanza che si trovava vicino
all’ottomana, la sicura scattò e la porta si socchiuse. Non essendo protetta da
un tendaggio (a Stalin non piacevano cortine, pieghe, tutto ciò dietro cui ci si
potesse nascondere), si vide la porta nuda aperta quel tanto che bastava a far
passare un cane. Ma ad affacciarsi non nella parte inferiore bensì in quella
superiore fu la testa di Poskrëbyšev, che ancora giovane era già calvo, con una
perenne espressione di sincera fedeltà e piena disponibilità sul viso.
In ansia per il Padrone, Poskrëbyšev lo vide sdraiato e coperto per metà
dallo scialle di cammello, eppure non chiese notizie sulla sua salute (Stalin
detestava simili domande), e quasi in un bisbiglio disse:
– Ës’ Sarionyč45! Oggi ha convocato Abakumov per le due e mezzo.
Pensava di riceverlo? Sì o no?
Iosif Vissarionovič sganciò la patta della tasca superiore della giubba ed
estrasse l’orologio tirandolo fuori per la catenina (come tutte le persone dei
tempi passati detestava gli orologi da polso).
Non erano ancora le due del mattino.
Un grumo pesante gli si era piazzato sullo stomaco. Non aveva voglia di
alzarsi e di cambiarsi. Ma non poteva nemmeno lasciare libero qualcuno:
appena allenti la presa, quelli se ne accorgono.
– Ve-edremo– rispose stancamente Stalin, battendo le palpebre. – Non so.
– Ma sì, che venga pure. Aspetterà! – confermò Poskrëbyšev, e annuì in
modo esagerato almeno tre volte. Poi si bloccò di nuovo, guardando con
attenzione il Padrone: – Altre disposizioni, Ë-Sarionyč?
Stalin fissò Poskrëbyšev con sguardo apatico, abulico, e non gli venne in
mente nessuna disposizione da dargli. Tuttavia alla domanda di Poskrëbyšev
nella sua memoria non più impeccabile si accese all’improvviso una scintilla, e
fece a sua volta una domanda che voleva porgli da tempo e di cui si era
dimenticato:
– Senti, come vanno i cipressi in Crimea? Li tagliano?
– Li tagliano! Li tagliano! – annuì Poskrëbyšev, in tono deciso, quasi si
aspettasse la domanda e avesse appena telefonato in Crimea per averne
conferma. – Intorno a Massandra e a Livadia ne hanno già abbattuti molti, Ë-
Sarionyč!
– Esigi comunque un bollettino. Con le cifre. Nessun sabotaggio? – Gli
occhi gialli malsani dell’Onnipotente erano preoccupati.
Quell’anno un medico gli aveva detto che i cipressi erano dannosi per la sua
salute, era indispensabile che l’aria fosse impregnata di eucalipto. E dunque
Stalin aveva ordinato di abbattere i cipressi della Crimea e inviato qualcuno in
Australia in cerca di giovani eucalipti.
Poskrëbyšev promise con fare sollecito e si offrì di scoprire a che punto
fossero gli eucalipti.
– Va bene – pronunciò Stalin, con soddisfazione. – Ora vai, Saša.
Poskrëbyšev annuì e cominciò a indietreggiare, poi annuì di nuovo, ritrasse
per ultima la testa e chiuse bene la porta. Iosif Vissarionovič usò di nuovo il
comando a distanza e, tenendo fermo lo scialle, si girò sull’altro fianco.
Quindi riprese a sfogliare la sua Biografia.
Ma infiacchito per essere rimasto a lungo sdraiato, per i brividi e per
l’indigestione, senza volerlo si abbandonò a una schiera di pensieri deprimenti.
Non gli si parava dinnanzi l’abbagliante successo finale della sua politica ma
quanto era stato sfortunato nella vita, e quanti ostacoli e nemici, un numero
ingiustamente alto, il destino gli aveva messo davanti.

40 Seconda guerra mondiale.


41 Dolores Ibárruri Gómez (1895-1989), detta la Pasionaria, politica antifascista spagnola.
42 Molotov e Chruščëv.
43 Nel 1923 alcuni membri importanti del Partito, fra cui Zinov’ev, Bucharin e Vorošilov, si riunirono in
una grotta per discutere su come rafforzare la dirigenza. Tutti tranne Vorošilov auspicarono la formazione
di una “segreteria politica” composta da Trockij, Stalin e uno a scelta fra Kamenev, Zinov’ev e Bucharin,
abolendo di fatto la carica di segretario generale. Grazie a una soffiata da parte di Vorošilov, Stalin riuscì a
bloccarli appena in tempo.
44 Servirono tutte le cinquantadue sale.
45 Poskrëbyšev chiama Stalin, invece che Iosif, con il diminutivo Ës’, e trasforma il patronimico
Vissarionovič in Sarionyč, fino a ridurre il tutto al successivo Ë-Sarionyč.
20
SCHIZZO DI UNA VITA GRANDIOSA

Due terzi di secolo: un orizzonte lontano grigio-azzurro, la cui fine all’inizio


nemmeno nei sogni più audaci si sarebbe potuta immaginare, il cui inizio alla
fine era difficile rievocare e considerare vero.
Era una vita nata senza speranza. Figlio illegittimo, ascritto a un ciabattino
ubriaco finito in rovina. Madre incolta. Il sudicio Soso46 non era uscito dalle
pozze accanto alla collina della zarina Tamara47. L’incredibile non era tanto
come fosse diventato il padrone del mondo, ma come aveva fatto quel bambino
a cavarsi da una condizione tanto ignobile, tanto umile.
Tuttavia l’artefice della sua vita si era dato da fare e, aggirando i regolamenti
ecclesiastici, nonostante non provenisse da una famiglia di religiosi, il ragazzo
era stato accettato prima all’istituto religioso, poi in seminario.
Dall’alto dell’iconostasi annerita, il Signore degli eserciti aveva chiamato a sé
il novizio, ben appiattito sulle fredde lastre di pietra. Oh, con quanto zelo il
ragazzo si era messo al servizio di Dio! Come si era affidato a lui! In sei anni di
studi aveva ripetuto all’infinito il Vecchio e Nuovo Testamento, la Vita dei santi e la
storia della Chiesa, durante le liturgie serviva con sollecitudine.
Lì, nella Biografia, c’era quella foto: il diplomando dell’istituto religioso
Džugašvili nella tonaca grigia con il colletto rotondo abbottonato; l’ovale del
viso adolescente spento, come estenuato dalle preghiere; i lunghi capelli
acconciati per la funzione, con la riga in mezzo, spalmati con umiltà di olio da
lampada e appiccicati alle orecchie; solo gli occhi e le sopracciglia inquiete
indicavano che quel novizio avrebbe potuto persino diventare metropolita.
Ma Dio lo aveva ingannato... L’insopportabile cittadina sonnacchiosa in
mezzo alle rotonde colline verdi, fra le anse del Medžuda e del Liachva, era
rimasta indietro: nella rumorosa Tbilisi le persone intelligenti già da tempo
schernivano Dio. E la scala lungo cui Soso si stava arrampicando con tenacia, a
quanto pareva non portava in cielo, ma in soffitta.
L’età esagitata e litigiosa tuttavia reclamava azione! Il tempo fuggiva senza
che lui avesse fatto niente! Non c’erano soldi né per l’università né per un
incarico statale e nemmeno per avviare un commercio; però c’era il socialismo,
che accettava tutti, il socialismo che era avvezzo ai seminaristi. Lui non aveva
attitudine né per le scienze né per le arti, nessuna abilità in un mestiere né
propensione al furto e neppure la possibilità di diventare l’amante di una ricca
signora; però aveva la Rivoluzione, che invitava tutti, che accoglieva a braccia
aperte, a tutti prometteva un posto.
Lì, nella Biografia, Stalin aveva suggerito di inserire anche una foto di quel
periodo, l’immagine che preferiva. Eccolo, di tre quarti. Niente barba, né baffi
né basette (non aveva ancora deciso cosa portare), soltanto non si radeva da un
po’ e gli era cresciuto tutto insieme, in un pittoresco, rigoglioso cespuglio
maschile. Pronto a muoversi, ma non sapeva per andare dove. Che ragazzo
gentile! Il viso aperto, intelligente, deciso, sparita ogni traccia del novizio
fanatico. Liberati dall’olio, i capelli si erano rialzati, gli ornavano la testa di
folte onde che, fluttuando, coprivano la parte in lui forse meno riuscita: la
fronte bassa e sfuggente. Un giovane povero, con la giacchetta comprata già
lisa; un’economica sciarpina a quadretti portata con disinvoltura d’artista gli
copre il collo e gli chiude il petto stretto e malato dove non indossa nemmeno
la camicia. Quel plebeo di Tbilisi non era forse già condannato alla tubercolosi?
Ogni volta che Stalin guardava quella fotografia il cuore gli traboccava di
compassione (poiché non esiste cuore incapace di provarla). Com’è tutto
difficile, com’è tutto avverso per quel caro giovane sistematosi gratis nella
fredda dispensa dell’osservatorio e già espulso dal seminario! (Per scrupolo
aveva provato a far convivere le cose: per quattro anni aveva frequentato i
circoli socialdemocratici e intanto conti