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ALEKSANDR SOLŽENICYN
NEL PRIMO CERCHIO
VOLAND
SÍRIN
Aleksandr Solženicyn
Voland
Titolo originale: V kruge pervom
© 1968, 1978 Aleksandr Solženicyn
© dell’edizione italiana
Voland s.r.l. Roma 2017
ISBN 978-88-6243-386-0
The publication was effected under the auspices
of Mikhail Prokhorov Foundation
TRANSCRIPT Programme to Support Translations of Russian Literature
Published with the support of
the Institute for Literary Translation (Russia)
Per alcuni termini e acronimi meno conosciuti si rimanda al glossario in fondo al volume
Il destino dei libri russi contemporanei: se e quando riescono a salire in
superficie, vengono fuori spennati. Così è successo di recente al Maestro e
Margherita di Bulgakov: le piume sono galleggiate fino a noi in un secondo
tempo. Così è accaduto a questo mio romanzo: perché godesse almeno di una
flebile vita, per osare mostrarlo e portarlo in redazione, l’ho ridotto e
modificato io stesso, o meglio l’ho smontato e ricomposto di nuovo, e in questa
forma è divenuto celebre.
E anche se ormai non si può tornare indietro e rimediare, eccovi l’originale.
Peraltro, nel ricostruirlo qualcosa ho migliorato: allora avevo quarant’anni, ora
ne ho cinquanta.
scritto: 1955-1958
modificato: 1964
ricostruito: 1968
Agli amici della šaraška
1
IL SILURO
Ci sono luoghi istituzionali dove, accanto a una porta con la scritta “Ingresso
riservato al personale”, puoi imbatterti in una lucina rosso scuro. Oppure dove,
come usa di questi tempi, un’autorevole targhetta a specchio recita: “Ingresso
assolutamente vietato ai non addetti.” Lì si trova anche un custode dall’aria
minacciosa che, seduto a un tavolino, controlla i lasciapassare. E dietro quella
porta inaccessibile, come per tutto ciò che è proibito, uno finisce per
immaginarsi chissà che.
Là, invece, c’è sempre il solito banale corridoio, forse un po’ più pulito. Al
centro una passatoia di grezza tela rossa statale. Con parsimonia, hanno
lucidato il parquet. Con parsimonia, hanno piazzato un buon numero di
sputacchiere.
Solo che è sempre deserto. Nessuno passa mai da una porta all’altra.
Le porte poi, sono tutte di pelle nera imbottita, con ribattini bianchi e il
numero su un piccolo ovale a specchio.
Chi lavora in una di queste stanze conosce meno i fatti della stanza accanto
che le notizie di mercato dell’isola del Madagascar.
Così in quella sera non troppo fredda e un po’ cupa di dicembre due tenenti
si trovavano in servizio presso l’edificio della stazione telefonica automatica
centrale di Mosca, in uno di quei corridoi proibiti, dentro una di quelle stanze
inaccessibili che il capo del servizio amministrativo militare identificava come
la n. 194, ma che all’XI sezione della Sesta Direzione dell’MGB, il Ministero della
Sicurezza di Stato, figurava come “Postazione A1”. A dire il vero, i due non
indossavano l’uniforme, ma abiti civili: così per loro era più facile entrare e
uscire dall’edificio della stazione telefonica.
Una parete era occupata da quadri elettrici e da un pannello di segnalazione
sul quale prevaleva il nero della plastica e scintillava il metallo delle
apparecchiature acustico-telefoniche. Su un’altra parete, era appeso un foglio
grigio, con l’elenco di numerose istruzioni.
In base a quell’elenco, in cui si prevedevano e si scongiuravano tutti i
possibili casi di violazione e deviazione riscontrabili intercettando e
trascrivendo le conversazioni telefoniche dell’ambasciata americana, era
obbligatorio stare di turno in due: uno doveva ascoltare ininterrottamente,
senza togliersi mai le cuffie, l’altro non poteva mai lasciare la stanza, se non per
recarsi al gabinetto, e si dovevano dare il cambio ogni mezz’ora.
Seguendo le istruzioni alla lettera era impossibile commettere errori.
Tuttavia, a causa della tragica discrepanza fra la perfezione ideale degli
ordinamenti statali e la miserabile imperfezione umana, quella volta le
istruzioni furono violate. Non perché gli agenti di turno fossero dei nuovi
arrivati, ma proprio perché avevano esperienza ed erano convinti che non
potesse accadere nulla di particolare. Soprattutto la Vigilia del Natale della
Chiesa occidentale.
Uno dei due, Tjukin, un tenente dal naso largo, il lunedì successivo, a lezione
di Educazione politica, doveva essere interrogato su Chi sono gli “amici del popolo”
e come lottano contro i socialdemocratici1, sulla ragione per cui al II Congresso
bisognava dividersi, e fosse giusto farlo, e al V riunirsi, e fosse di nuovo giusto,
ma al VI si era reso necessario tornare ognuno per conto proprio, e anche
quello fosse giusto. Non sarebbe stato difficile se Tjukin non avesse cominciato
a leggere solo da sabato e la domenica dopo il turno non si fosse fatto una bella
bevuta con il marito di sua sorella; e lunedì mattina quella roba tanto semplice
non gli stava in testa con i postumi della sbornia, e il segretario di partito già si
lamentava di lui e minacciava di convocarlo nel suo ufficio. L’essenziale poi
non era rispondere alle domande quanto presentare un riassunto. Per tutta la
settimana Tjukin non aveva trovato il tempo e quel giorno non aveva fatto
altro che rimandare; così dopo aver chiesto al compagno di svolgere il turno
senza cambi, si era sistemato in un cantuccio davanti a una lampada da tavolo,
dove stava ricopiando sul quaderno ora un brano, ora un altro dal Breve corso2.
Siccome non avevano ancora acceso la luce in alto, a illuminare la stanza era
solo una lampada vicino ai magnetofoni. Il tenente Kulešov, riccioluto, mento
grassoccio, sedeva con le cuffie in testa e si annoiava. All’ambasciata avevano
fatto acquisti per telefono fin dal mattino, ma dopo pranzo quel luogo si era
come appisolato: nemmeno una chiamata.
Rimasto seduto a lungo, Kulešov pensò di controllarsi gli ascessi che aveva
sulla gamba sinistra. Per ragioni sconosciute ne spuntavano sempre di nuovi, su
cui spalmava una pomata streptocida verdina allo zinco; ma quelli non si
rimarginavano, continuando ad ampliarsi sotto le croste. Dal dolore faceva
fatica a camminare. Alla clinica dell’MGB gli avevano già fissato un consulto da
uno specialista. Kulešov aveva ottenuto da poco un nuovo appartamento e sua
moglie aspettava un bambino: gli ascessi gli stavano rovinando quella vita tanto
bella.
Levatosi le pesanti cuffie che gli premevano sulle orecchie, Kulešov si piazzò
comodo sotto la luce, si rimboccò il pantalone sinistro e la gamba dei
mutandoni e cominciò a tastarsi la pelle e a staccarsi i bordi delle crosticine.
Sotto la loro pressione si accumulava un icore grigio-marrone. Gli facevano
talmente male che il dolore pulsava in testa, togliendogli lucidità. Per la prima
volta fu colpito dal pensiero che non si trattasse di semplici ascessi, ma... ma...
Gli tornò alla mente una parola orribile sentita chissà dove: cancrena, forse?
Oppure...
Così Kulešov non si accorse subito che le bobine del magnetofono erano
entrate in funzione in automatico e stavano girando in silenzio. Con la gamba
nuda sempre lì dove l’aveva appoggiata, si allungò fino alle cuffie, ne accostò
una all’orecchio e sentì:
– Come faccio a sapere che dice la verità?
– Non si rende conto di cosa sto rischiando?
– La bomba atomica? E l-lei chi è? Mi dica suo cognome.
LA BOMBA ATOMICA!!! Spinto da uno slancio istintivo, come uno che per non
cadere si aggrappa al primo sostegno che gli capita, Kulešov staccò lo spinotto
del centralino, scollegando i telefoni. Solo allora si rese conto che, nonostante
le istruzioni, non aveva rilevato il numero dell’utente.
Per prima cosa, si voltò. Tjukin scriveva il suo riassunto e non aveva visto
nulla. Era un amico, ma se a Kulešov avevano assegnato il compito di
controllarlo, il collega doveva aver ricevuto lo stesso ordine nei suoi confronti.
Dopo aver pigiato con dita tremanti il tasto per riavvolgere il nastro e
ricollegato all’ambasciata il magnetofono di fabbricazione occidentale, Kulešov
pensò dapprima di cancellare la registrazione, per coprire la propria
sbadataggine. Gli tornarono però subito in mente le parole del loro capo che,
in più di un’occasione, aveva spiegato come il lavoro di guardia alla postazione
venisse registrato in automatico anche in altro luogo, e accantonò l’idea
assurda. Naturale che facessero un duplicato, e per aver occultato una
conversazione del genere ti fucilavano all’istante!
Il nastro si era riavvolto. Kulešov pigiò il tasto per riascoltare. Il criminale
aveva fretta, era agitato. Da dove stava chiamando? Di certo non da un
appartamento privato. E men che meno dal lavoro. Avevano sempre
l’accortezza di chiamare le ambasciate dalle cabine pubbliche.
Sfogliando l’elenco delle cabine, Kulešov identificò subito un telefono
accanto alla scala d’ingresso della metro Sokol’niki.
– Genka! Genka! – chiamò il collega con voce roca, tirandosi giù la gamba
del pantalone. – Missione urgente! Telefona al gruppo operativo! Forse fanno
ancora in tempo a prenderlo!
1 Articolo del 1894 in cui Lenin criticava aspramente le posizioni dei populisti.
2 Storia del Partito comunista-bolscevico dell’U.R.S.S. Breve corso, pubblicato sulla “Pravda” dal 1938 al 1956, anno
in cui fu criticato al XX Congresso. Rimase lettura obbligatoria per i cittadini sovietici e base ideologica nel
culto della personalità di Stalin.
3
LA ŠARAŠKA
– I nuovi!
– C’è gente fresca!
– Da dove venite, compagni?
– Amici, da dove arrivate?
– E cos’è quella cosa che avete sul petto e sul cappello, quella specie di
macchia?
– C’erano attaccati i nostri numeri. Li avevamo anche sulla schiena e sul
ginocchio. Ce li hanno scuciti prima di spedirci qui dal campo di lavoro.
– Cioè, erano... numeri?!
– Signori, permettetemi di dirlo, ma in quale secolo viviamo? Numeri cuciti
sulle persone? Lev Grigor’ič, mi faccia capire bene, per lei questo è progressista?
– Valentulja, non si scervelli, vada a cena.
– Ma non posso cenare se da qualche parte ci sono persone che girano con
dei numeri sulla fronte!
– Amici! Distribuiscono le Belomor per la seconda metà di dicembre, nove
pacchetti. Avete una possibilità! Fate i bravi!
– Belomor Java o Belomor Dukat?
– Metà e metà.
– Quelle carogne ci soffocano con le Dukat! Mi lamenterò con il ministro,
maledetti.
– E la tuta che portate voi, cos’è? Perché siete tutti vestiti da paracadutisti?
– Hanno introdotto la divisa. Prima ci davano indumenti di lana, cappotti di
panno; ora risparmiano, i vigliacchi.
– Guarda, dei nuovi arrivati!
– C’è gente nuova!
– Ehi, ragazzi! Insomma, non avete mai visto uno zek in carne e ossa? Avete
bloccato tutto il corridoio!
– Oh! Ma guarda chi c’è! Dof-Donskoj!? Dov’è stato, Dof? Nel 1945 l’ho
cercata per tutta Vienna, tutta Vienna!
– Come siete messi male, non vi hanno nemmeno rasati! Da quale campo di
lavoro venite, amici?
– Da diversi. Rečlag...
– ...Dubrovlag...
– Io sono dentro da nove anni ma questi nomi non li ho mai sentiti.
– Sono nuovi, sono campi speciali. Li hanno introdotti nel ’48.
– Mi hanno acciuffato proprio all’entrata del Prater a Vienna e sbattuto su
un corvo.
– Aspetta, Mitëk, fammi sentire i nuovi arrivati...
– Cammina, forza! Fuori all’aria fresca! Ci penserà Lev a fare il terzo grado
ai nuovi, non preoccuparti.
– Secondo turno! A cena!
– Ozërlag, Luglag, Steplag, Kamyšlag3...
– A quanto pare all’MVD c’è un poeta incompreso. Con un poema non si
cimenta, per una composizione non ha le forze, ma dà nomi poetici ai campi di
lavoro.
– Ah, ah, ah! Assurdo, signori, davvero assurdo! Ma in che secolo viviamo?
– Ehi, stai buono, Valentulja!
– Chiedo scusa, lei come si chiama?
– Lev Grigor’ič.
– Anche lei ingegnere?
– No, io sono filologo.
– Filologo? Ci tengono anche i filologi, qui?
– Meglio sarebbe chiedere chi non ci tengono. Abbiamo matematici, fisici,
chimici, ingegneri radio, ingegneri specializzati in telefonia, progettisti,
scenografi, traduttori, rilegatori... ci hanno mandato per sbaglio anche un
geologo.
– E quello che fa?
– Niente, si è sistemato nel laboratorio fotografico. C’è anche un architetto.
E che architetto! Quello personale di Stalin. Gli costruiva tutte le dacie. Ora è
qui con noi.
– Lev! Tu ti spacci per materialista, ma poi rimpinzi la gente di cibo
spirituale. Attenzione, amici! Quando vi condurranno alla mensa, là, sull’ultimo
tavolo, vicino alla finestra, abbiamo tenuto da parte per voi una trentina di
piatti. Mangiate a sazietà, ma senza farvi scoppiare la pancia!
– Grazie mille, ma perché privarvene voi?
– Non ci costa niente. Chi mangia più aringa salata alla Mezen’ e kaša di
miglio! È roba dozzinale.
– Cosa ha detto? Kaša di miglio, dozzinale? Sono cinque anni che non ne
vedo!
– Non sarà stato miglio, più probabile magarà!
– È impazzito, magarà! Che ci provino a darci magarà! Gliela tiriamo dietro!
– E come si mangia adesso nelle prigioni di transito?
Č
– In quella di Čeljabinsk...
– Čeljabinsk nuova o vecchia?
– Dalla sua domanda è chiaro che lei se ne intende. Alla nuova...
– Risparmiano ancora sui gabinetti costringendo gli zek a fare i bisogni nei
buglioli e a portarli giù dal terzo piano?
– Sì, succede ancora.
– Ha detto šaraška. Che significa?
– E quanto pane danno a testa, qui?
– Chi non ha ancora cenato? Secondo turno!
– Quattrocento grammi di pane bianco. Quello nero è sui tavoli.
– Cosa? Come ‘sui tavoli’?
– Sta lì, tagliato. Se vuoi lo prendi, altrimenti lo lasci dove sta.
– Scusate, ma dove siamo qui, in Europa?
– Perché in Europa? Là sui tavoli c’è il pane bianco, mica quello nero.
– Sì, ma per un po’ di burro e di Belomor ci spezziamo la schiena dodici,
quattordici ore al giorno.
– Spezzarvi la schiena? Dietro una scrivania non ci si spezza la schiena!
Quello succede a chi lavora col piccone!
– Porca miseria, stare in questa šaraška è come finire in una palude: si perde
il contatto con la realtà. Avete sentito, signori? Si dice che hanno messo alle
strette la mala: non ti spolpano nemmeno a Krasnaja Presnja4.
– Ai professori danno quaranta grammi di burro, agli ingegneri venti. Da
ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue possibilità.
– Dunque lei lavorava al Dneprostroj5?
– Sì, lavoravo con Vinter. È per la Dneproges che sono dentro.
– Cioè, in che senso?
– Be’, io, vedete, l’ho venduta ai tedeschi.
– La centrale idroelettrica sul Dnepr? Ma se l’hanno fatta saltare!
– E allora? Io gliel’ho venduta quando era già saltata.
– Lo giuro, sento soffiare come un vento di libertà! Prigioni di transito!
Traduzioni di detenuti! Campi di lavoro! Movimento! Eh, quasi quasi mi farei
un giretto fino a Sov-Gavan’6.
– E ritorno, Valentulja, e ritorno!
– Sì! Indietro di corsa, naturalmente!
– Sa, Lev Grigor’ič, mi gira la testa per questa valanga di impressioni, questo
cambio di situazioni. Ho cinquantadue anni, sono guarito da una malattia
mortale, mi sono sposato due volte con due donne graziose, ho avuto figli,
pubblicato in sette lingue, ricevuto premi accademici, eppure non mi sono mai
sentito così beatamente felice come oggi! Dove sono finito? Domani non mi
cacceranno nell’acqua gelata! Quaranta grammi di burro!! Pane nero sui tavoli!
Non ti vietano i libri! Ci si può radere da soli! I secondini non pestano gli zek!
Che giornata grandiosa! Che vetta luminosa! Non sarò mica morto? Non starò
sognando? Mi sembra di essere in paradiso!!
– No, mio caro, lei si trova all’inferno come prima, è soltanto salito nel suo
girone più alto, il migliore: nel primo cerchio. Domandava che cos’è la šaraška?
La šaraška l’ha inventata Dante. Si scervellava su dove mettere i sapienti del
mondo classico. Il suo dovere di cristiano gli imponeva di gettare quei pagani
all’inferno. La sua coscienza di uomo del Rinascimento invece non poteva
rassegnarsi a mischiare uomini dalle menti brillanti con altri peccatori e
condannarli a torture fisiche. E Dante ha trovato per loro un posto particolare
all’inferno. Se permette... suona più o meno così:
Venimmo al piè d’un nobile castello...
– Eh, Lev Grigor’ič, mi lasci spiegare a Herr Professor cos’è la šaraška in modo
molto più semplice. Basta leggere gli editoriali della ‘Pravda’: ‘...è comprovato
che la resa di lana tosata dalle pecore dipende dal loro nutrimento e dalla loro
cura.’
Boogie-Woogie, Boogie-Woogie
Samba! Samba!
Non potendo passare, Rubin rimase in piedi per un minuto, con una finta
espressione mite sul viso. Il giovane quasi non si accorse di lui.
– Valentulja, non potrebbe tirare un pochino indietro la gambina posteriore?
Senza sollevare la testa dallo schema, pronunciando la frase con decisione,
Valentulja rispose:
– Lev Grigor’ič! Sparisca! Giù le zampe! Come mai in giro di sera? Che è
venuto a fare? – E gli piantò addosso i suoi stupefatti occhi chiari di ragazzo. –
A che diamine serviranno qui dei filologi! Ah ah ah! – lo apostrofò forte e
chiaro. – Non è mica un ingegnere, lei!! Vergogna!
Con le labbra carnose protese in una buffa trombetta puerile e sgranando gli
occhi, Rubin farfugliò:
– Bimbo mio! Ci sono ingegneri che vendono acqua frizzante.
– Non è il mio caso! Amico, il sottoscritto è un ingegnere di primo livello,
non se lo dimentichi! – scandì Valentulja in tono brusco, e riposto il saldatore
sul sostegno di metallo, raddrizzò la schiena, scostando di lato i soffici,
ondulati capelli del colore del pezzo di colofonia che aveva sul tavolo.
Aveva una freschezza giovanile, la pelle del viso sembrava rimasta immune ai
segni della vita, i movimenti ancora quelli di un ragazzo: nessuno avrebbe detto
che si era diplomato prima della guerra, era stato prigioniero dei tedeschi,
aveva trascorso un periodo in Europa e si trovava in carcere in patria già da
cinque anni.
Rubin sospirò:
– Senza referenze certificate dal suo capo in Belgio la nostra
amministrazione non può...
– Ma quali referenze?! – Valentin giocava a fare l’offeso in modo del tutto
verosimile. – Lei si è proprio rimbecillito! Io, vedi un po’, amo le donne alla
follia!!
La ragazza minuta e severa si concesse un sorriso.
Accanto alla finestra dove Rubin si stava dirigendo un altro detenuto
abbandonò la propria attività per ascoltare Valentulja con approvazione.
– A quanto pare, solo in teoria – rispose Rubin, masticando annoiato.
– E alla follia amo spendere soldi!
– Ma non ne ha...
– Come potrei essere un cattivo ingegnere? Ci pensi: per amare le donne – e
sempre diverse! – devi avere tanti soldi! E per avere tanti soldi devi guadagnare
molto! E per guadagnare molto, se sei un ingegnere, devi essere brillante ed
eccellere nella tua specializzazione! Ah-ah! Fregato!
Il lungo viso di Valentulja si era sollevato baldanzoso verso Rubin.
– Aha! – esclamò lo zek vicino alla finestra, la cui scrivania si trovava di
fronte a quella della ragazza minuta, praticamente attaccate. – Lëvka, ho capito
com’è la voce di Valentulja! Scampanellante! La catalogo così, eh? Una voce del
genere si riconosce da qualsiasi telefono. Con qualsiasi interferenza.
Aprì un grosso foglio, pieno di colonne di nomi, con un grafico quadrettato
e una classificazione a forma di albero.
– Ah, che scemenza! – Valentulja fece un cenno con la mano e, afferrato il
saldatore, prese a far fumare la colofonia.
Il passaggio fu di nuovo libero e Rubin, raggiunto il proprio posto, si chinò
anche lui sulla classificazione di voci.
I due la esaminarono in silenzio.
– Siamo andati avanti bene, Glebka – disse Rubin. – Assieme al linguaggio
visibile è una buona arma. Molto presto io e te capiremo da cosa può dipendere
una voce al telefono... Cosa stanno trasmettendo?
Nel resto della stanza il jazz era predominante, ma accanto al davanzale ad
avere la meglio era il loro apparecchio artigianale, da cui veniva la fluente
musica di un pianoforte. In essa emergeva con insistenza, per poi sottrarsi
subito, e tornare a emergere e a sottrarsi di nuovo, una stessa melodia. Gleb
rispose:
– La Sonata n. 17 di Beethoven. Chissà perché non l’ho mai... Ascoltala anche
tu.
Si piegarono entrambi verso l’apparecchio.
– Valentine! – disse Gleb. – Su, faccia il bravo. Non sia egoista!
– Non lo sono affatto – rispose quello, in tono brusco – vi ho assemblato io
l’apparecchio. Se vi stacco la bobina, non beccate più niente.
Corrugate le sopracciglia in un cipiglio severo, la ragazza intervenne:
– Valentin Martynyč! È vero, non si possono ascoltare tre radio insieme.
Spenga la sua, glielo stanno chiedendo per favore.
(La radio di Valentin stava trasmettendo uno slow-fox, che alla ragazza
piaceva molto...)
– Serafima Vital’evna! È pazzesco! – Valentin urtò una sedia vuota, che
afferrò al volo prima che cadesse, poi si mise a gesticolare come fosse su una
tribuna. – Come fa un uomo sano e normale a non apprezzare il tonificante ed
energico jazz? Con quella robaccia antiquata lei si rovina! Ma davvero non ha
mai ballato Blue Tango? Possibile che non abbia mai visto gli spettacoli di
varietà di Arkadij Rajkin10? E non è mai stata in Europa! Dove poteva
imparare a vivere? Mi ascolti: lei ha bisogno di innamorarsi di qualcuno! –
arringò attraverso lo schienale della sedia, senza notare la piega amara intorno
alle labbra della ragazza. – Uno qualsiasi, ça dépend! Le luci notturne che
scintillano! Il fruscio degli abiti da sera!
– Di nuovo uno sfasamento! – disse Rubin allarmato. – Bisogna usare la forza!
E spense da solo il jazz alle spalle di Valentulja.
Quello si voltò come se l’avessero morso.
– Lev Grigor’ič! Chi le dà il diritto...?
Aggrottò le sopracciglia e lo guardò con fare minaccioso.
La rapida melodia, ora libera, della Sonata n. 17 cominciò a fluire nella sua
purezza, gareggiando solo con la rozza canzone che giungeva dall’altro capo
della stanza.
Il corpo di Rubin si era rilassato, sul suo viso spiccavano gli arrendevoli
occhi castani e la barba cosparsa di briciole di dolce.
– Ingegner Prjančikov11! Ha presente la Carta atlantica? Ha scritto il
testamento? A chi ha lasciato le sue pantofole da notte?
Il viso di Prjančikov si fece serio. Guardò con calma Rubin negli occhi e
chiese piano:
– Senta, ma cosa vuole? Possibile che un uomo non sia libero nemmeno in
prigione? Dove può esserlo, allora?
Chiamato da uno dei montatori, se ne andò avvilito.
Rubin si lasciò cadere in silenzio sulla sua poltrona, schiena a schiena con
Gleb, e si accinse ad ascoltare; la rasserenante e avvolgente melodia, terminò di
colpo, come un discorso interrotto sul più bello: era il finale modesto e poco
solenne della Sonata n. 17.
Rubin lanciò un’imprecazione, che solo Gleb riuscì a sentire.
– Scandisci le parole, non capisco – rispose quello, continuando a dare le
spalle a Rubin.
– Dicevo che sono sempre sfortunato – ribatté con voce roca Rubin,
evitando anche lui di girarsi. – Mi sono lasciato scappare la sonata...
– Succede perché ti organizzi male, quante volte bisogna dirtelo! – brontolò
l’amico. – È una sonata mooolto bella. Hai notato che finale? Nessun fragore
né sussurro. Si interrompe e basta. Come la vita... Ma dov’eri?
– Con i tedeschi. A festeggiare il Natale – ridacchiò Rubin.
Conversavano così, senza guardarsi, rovesciando quasi la nuca l’uno verso le
spalle dell’altro.
– Bravo. – Gleb si fermò a riflettere. – Mi piace il rapporto che hai con loro.
Insegni il russo a Max per ore. Eppure avresti tutte le ragioni per odiarli.
– Odiarli? No, ma l’affetto che provavo per loro si è guastato. Persino il
mite e apartitico Max non condivide forse in qualche modo la responsabilità
coi carnefici? Dopotutto non si è mai opposto, no?
– Be’, come io e te non ci opponiamo né ad Abakumov12 né a Šiškin-
Myškin...
– Ascolta, Gleb, in fin dei conti, io non sono forse più ebreo di quanto sia
russo? Non sono più russo di quanto sia cittadino del mondo?
– Hai detto bene. Cittadini del mondo! Suona tranquillo, pulito.
– Cioè cosmopoliti. Avevano ragione a sbatterci dentro.
– Certo che avevano ragione. Anche se tu fai di tutto per dimostrare alla
Corte Suprema il contrario.
Dal davanzale, l’annunciatore promise che di lì a trenta secondi sarebbe
cominciato Il diario di competizione socialista.
In quel breve intervallo, con calcolata lentezza, Gleb portò la mano
all’apparecchio e, impedendo alla voce del presentatore di farsi roca, quasi gli
stesse torcendo il collo, girò la manopola e spense. Il viso, che poco prima si
era animato, appariva ora stanco e grigiastro.
Prjančikov, invece, era alle prese con un nuovo problema. Stava calcolando
quale gruppo di amplificazione collegare e intanto, ad alta voce, canticchiava
spensierato:
Boogie-Woogie, Boogie-Woogie
Samba! Samba!
10 Arkadij Isaakovič Rajkin (1911-1987), capocomico, leggenda del teatro e del cinema sovietico. Rimase
miracolosamente indenne agli attacchi del potere nonostante, attraverso la sua arte, puntasse i riflettori sulle
inefficienze della burocrazia comunista e della società sovietica.
11 È il cognome di Valentin Martynyč.
12 Viktor Semënovič Abakumov (1894-1954), funzionario di alto livello degli organi di sicurezza sovietici,
qui ministro, uno dei vice di Stalin; finito a sua volta in disgrazia, sarà fucilato nel 1954.
6
UN’ESISTENZA PACIFICA
Ma vediamo di chiarire: Goethe non si è forse preso gioco della felicità umana?
Perché in realtà non c’è nessun vantaggio per nessuna umanità. Dunque,
l’attesissima frase rituale Faust la pronuncia a un passo dalla tomba, ingannato
e, forse, davvero folle? E i lemuri lo spingono subito nella fossa. Cos’è allora,
un inno alla felicità o una beffa nei suoi confronti?
– Ah, Lëvočka, ti adoro quando sei così, quando ragioni col cuore, parlando
con saggezza, senza appiccicare etichette ingiuriose.
– Che patetico seguace di Pirrone! Lo sapevo che ti sarebbe andato a genio.
Senti anche questa. In una delle mie lezioni prima della guerra – e quelle di
allora erano straordinariamente coraggiose! – a proposito di questo brano del
Faust sviluppai l’idea elegiaca che la felicità non esiste, che è o irraggiungibile o
illusoria... All’improvviso mi passarono un foglietto a quadretti strappato da un
minuscolo taccuino, c’era scritto: ‘Eppure, io amo e sono felice! Che cosa ne
dice di questo?’
– E tu cosa dicesti?...
– E cosa si può mai dire?...
16 “La lealtà dei soldati”, in tedesco.
17 Andrej Vlasov (1900-1946), generale sovietico che, caduto prigioniero dei tedeschi durante la Seconda
guerra mondiale, organizzò in funzione anticomunista il cosiddetto Esercito russo di Liberazione. Alla fine
della guerra, lui e i suoi uomini furono catturati, riportati a Mosca, processati per alto tradimento e
giustiziati.
18 Autore di un celebre dizionario della lingua russa viva pubblicato in sette volumi nella seconda metà
dell’Ottocento.
19 Nikolaj Jakovlevič Marr, linguista padre della controversa teoria iafetica sull’origine della lingua.
Secondo lui, la parola russa reč’, “discorso”, derivava da ruka, “mano”.
20 Johann Wolfgang Goethe, Faust, cura di Franco Fortini, Milano, Oscar Mondadori, 1994, vol. I, p. 23.
21 Ivi, p. 83.
9
IL QUINTO ANNO DI RECLUSIONE
Si erano lasciati trascinare al punto da non sentire più i suoni del laboratorio e
la fastidiosa radio nell’angolo opposto. Sulla sua sedia girevole Neržin dava di
nuovo la schiena al laboratorio, Rubin era piegato su un fianco, con la barba
posata sulle braccia incrociate sopra lo schienale della poltrona.
Neržin parlava come quando si confidano pensieri sui quali si è meditato a
lungo.
– Prima, da libero, quando leggevo nei libri l’opinione dei sapienti sul senso
della vita o su cosa fosse la felicità, capivo poco quei brani. Mi fidavo: pensare è
compito dei sapienti. Ma il senso della vita? Viviamo, è questo il senso. La
felicità? Stare davvero bene, è questa la felicità, è risaputo... Sia benedetta la
prigione!!! Mi ha dato il tempo di riflettere. Per capire la natura della felicità,
proviamo prima a comprendere la natura della sazietà. Pensa alla Lubjanka o al
controspionaggio. Pensa a quella poltiglia d’orzo o d’avena poco sostanziosa,
fatta a metà di acqua, senza nemmeno una stellina di grasso! La mangi davvero?
Ti ci nutri sul serio? Ci fai la comunione! Ti ci avvicini con sacra trepidazione,
come al prāna degli yoghin! La mangi lentamente, la mangi con la punta del
cucchiaio di legno, la mangi, immedesimandoti nel processo del mangiare, nel
pensiero del cibo, e come nettare ti scivola nel corpo, fremi per la sua dolcezza
che si rivela in quei chicchi lessati e nel torbido umido che li tiene insieme.
Così, tutto sommato, nutrendoti di niente, vivi sei mesi, poi dodici! È forse
come il rozzo divorare di una braciola?
Rubin non sapeva e non amava ascoltare a lungo. Concepiva ogni
conversazione (e il più delle volte accadeva così) come un modo per
condividere con gli amici il bottino spirituale procurato dalla sua ricettività.
Adesso moriva dalla voglia di interrompere Neržin, ma questi lo aveva
afferrato per la tuta all’altezza del petto con tutte e cinque le dita, lo scuoteva e
non lo lasciava parlare.
– Dunque è sulla nostra povera pellaccia e su quella dei nostri infelici
compagni che abbiamo scoperto la natura della sazietà. La sazietà non dipende
affatto da quanto mangiamo, ma da come mangiamo! Lo stesso vale anche per
la felicità: la felicità, Lëvuška, non dipende affatto dalla quantità di beni
esteriori che abbiamo ottenuto nella vita. Dipende solo dal rapporto che
abbiamo con lei! L’etica taoista dice: ‘Chi sa accontentarsi sarà sempre
contento.’
Rubin ridacchiò:
– Sei eclettico. Strappi una piuma colorata qua e una là e te le infili nella
coda.
Neržin scosse la testa e la mano bruscamente. I capelli gli si arruffarono
sulla fronte. Questa discussione si stava rivelando davvero interessante e lui era
di nuovo un ragazzo di diciotto anni.
– Non ti confondere, Lëvka, non è affatto così! Non traggo conclusioni dalle
filosofie di cui ho letto ma dalle biografie che le persone mi raccontano in
prigione. Quando poi sento il bisogno di formulare conclusioni mie, perché
dovrei scoprire l’America un’altra volta? Sul pianeta della filosofia tutti i
territori sono stati scoperti da tempo! Sfoglio le pagine degli antichi sapienti e
ci trovo già i miei concetti più nuovi. Non mi interrompere! Volevo farti un
esempio: nel campo, e a maggior ragione qui alla šaraška, se avviene un
miracolo – una tranquilla domenica senza lavoro, ecco che l’anima sembra
trovare un po’ di calore e si eleva, e pure se nulla è migliorato nella mia
condizione esteriore, non avverto l’oppressione del giogo del carcere, capita
una conversazione fatta con il cuore o leggi una pagina sincera – e io mi sento
sulla cresta dell’onda! Non ho una vera vita da molti anni ma me lo sono
dimenticato! Non ho un peso, sono sospeso, sono immateriale!!! Sto lì sdraiato
sulla panca superiore, nella mia cella, fisso il vicino soffitto, nudo, intonacato
male, e mi colpisce l’assoluta felicità dell’esistenza! Mi addormento sulle ali
della beatitudine! Non c’è presidente né primo ministro che potrebbe
addormentarsi così contento della domenica appena trascorsa!
Rubin gli rivolse un ghigno bonario. Quel ghigno esprimeva in parte
assenso, in parte indulgenza verso un amico più giovane che aveva perso la
retta via.
– E cosa dicono in proposito i grandi libri dei Veda? – domandò,
protendendo le labbra in una trombetta scherzosa.
– I libri dei Veda, non lo so, – parò il colpo Neržin con convinzione – ma i
libri del Sāmkhya dicono questo: ‘Coloro che sanno discernere associano la
felicità umana alla sofferenza.’
– Te la sei imparata proprio bene – brontolò Rubin nella barba.
– Idealismo? Metafisica? Esiste qualcosa su cui non appiccichi delle
etichette?
– Ti ha traviato Mitjaj?
– No, Mitjaj va in tutt’altra direzione. Barba arruffata, ascoltami! La felicità
per le continue vittorie, per la trionfale realizzazione dei propri desideri e
perché si è totalmente sazi è sofferenza! È la morte spirituale, è una sorta di
reflusso morale continuo! Non i filosofi dei Veda o il Sāmkhya, ma io, io in
persona, Gleb Neržin, detenuto al quinto anno di reclusione, sono giunto al
livello di sviluppo in cui si comincia a considerare il male anche come bene; mi
sono convinto che le persone non sanno a cosa aspirare. Puntano al vuoto
raggiungimento di una manciata di beni materiali e muoiono senza scoprire la
propria ricchezza d’animo. Quando Lev Tolstoj sognava di essere rinchiuso in
prigione, ragionava come un uomo vero, lungimirante, con una vita spirituale
perfetta.
Rubin scoppiò in una risata fragorosa. Nelle discussioni rideva in quel modo
tutte le volte che voleva respingere completamente le idee di un avversario (e
proprio così gli succedeva anche in prigione).
– Ascolta, figliolo! A influenzarti è l’immaturità di una giovane coscienza.
Preferisci la tua esperienza personale a quella collettiva dell’umanità. Sei
intossicato dagli umori del bugliolo della prigione e attraverso quelle esalazioni
vuoi vedere il mondo. Per aver vissuto un disastro, per aver avuto un destino
personale sciagurato, può forse un uomo cambiare, deviare dalle proprie
convinzioni anche solo di poco?
– Mentre tu, sei fiero della tua fermezza?
– Sì! Hier stehe ich und kann nicht anders22.
– Che testone! Questa è metafisica! Invece di imparare, di crearti una nuova
vita qui in prigione...
– Quale vita? La bile velenosa dei falliti?
– ...tu di proposito hai chiuso gli occhi, ti sei tappato le orecchie e hai
assunto una bella posa. Dài prova così della tua intelligenza? Rifiutare lo
sviluppo è una cosa intelligente? Ti sforzi di avere fede nel trionfo del vostro
maledetto comunismo, ma la fede non ce l’hai!
– Non si tratta di fede, ma di sapere scientifico, zuccone! E di imparzialità.
– Tu?! Tu saresti imparziale?
– Certamente! – pronunciò Rubin, con dignità.
– Mai conosciuto in vita mia uomo più parziale di te!
– Sollevati dal tuo ‘monte di vista’23! Dài uno sguardo allo spaccato storico!
Le-git-ti-mi-tà! La conosci questa parola? Una legittimità inevitabilmente
condizionata! Tutto va come deve andare! Il materialismo storico non poteva
smettere di essere verità per il solo fatto che noi due siamo in prigione. E non
c’è niente in cui frugare con il naso, tirare fuori uno scetticismo putrefatto!
– Lev, vedi di capirmi! Non mi sono separato con gioia da questa teoria, ma
con il dolore nel cuore. È stata suono e passione della mia giovinezza, per lei
avevo dimenticato e mandato alla malora tutto il resto! Ora sono come un
picciolo, cresco in una buca dove una bomba ha sradicato l’albero della fede.
Ma da allora, da quando nelle liti in prigione continuavano a picchiarmi...
– Perché non ci arrivavi, scemo!
– ...ho dovuto rigettare per onestà le vostre fragili costruzioni. E cercarne
altre. Ma non è facile. Il mio scetticismo, in fondo, è come una baracca lungo il
tragitto, in cui proteggermi dal maltempo.
– Ah, quante chiacchiere! Scetticismo! Pensi davvero di poterti trasformare
in uno scettico come si deve? Per uno scettico è d’obbligo la sospensione del
giudizio, tu invece sputi sentenze su tutto. Per uno scettico è d’obbligo
l’atarassia, l’imperturbabilità spirituale, tu invece ti scaldi per un nonnulla!
– Sì! Hai ragione! – Gleb si prese la testa fra le mani. – Sogno di essere
calmo, coltivo in me... il proposito di mantenere un certo distacco, ma poi mi
faccio prendere dal vortice delle circostanze e turbino, digrigno i denti e mi
indigno...
– Un certo distacco... Però saresti pronto ad afferrarmi per la gola perché a
Džezkazgan manca l’acqua potabile!
– Dovrebbero mandarti laggiù, vigliacco! Sei l’unico fra tutti noi che
consideri necessari i metodi dell’MGB...
– Sì! Senza un sistema penitenziario duro lo Stato non potrebbe esistere...
– ...Dovrebbero proprio mandarti a Džezkazgan! Chissà se laggiù
continueresti con questa tiritera!
– Idiota patentato! Avrai pur letto che di scetticismo hanno parlato grandi
uomini. Per esempio, Lenin!
– Ah, sì? E cosa avrebbe detto Lenin?
– Lenin diceva: ‘Tra i paladini del vaniloquio liberale russo lo scetticismo è
una forma di transizione dalla democrazia al lurido e servile liberalismo.’
– Come come come? Sei certo di non aver travisato?
– È scritto così. Sta nell’articolo In memoria di Herzen e riguarda...
Neržin, affranto, si prese la testa fra le mani.
– Eh? – addolcì il tono Rubin. – Hai capito?
– Sì. – Neržin cominciò a dondolare con il busto. – Era meglio se non lo
dicevi. E pensare che un tempo lo adoravo...
– Perché?
– Perché?? È questa la lingua del grande filosofo? Quando non hanno
argomenti sproloquiano così. ‘Paladini del vaniloquio’ è una cosa orribile da
dire. Il liberalismo è l’amore per la libertà, così diventa lurido e servile. Mentre
applaudire a comando è un balzo nel regno della libertà, vero?
Nel fervore della discussione i due amici erano stati poco prudenti e le loro
esclamazioni erano giunte fino a Simočka, che da un po’ fissava Neržin con
severa disapprovazione. Era offesa all’idea che il suo turno stesse finendo senza
che lui nemmeno accennasse in qualche modo di voler sfruttare quella serata
favorevole, e non si fosse degnato di voltarsi dalla sua parte.
– No, tu hai un cervello troppo contorto – si rassegnò Rubin. – Su, spiegati
meglio.
– Per esempio, avrebbe un qualche senso dire che lo scetticismo è un modo
per soffocare il fanatismo. Lo scetticismo è un modo per liberare le menti
dogmatiche.
– E qui chi sarebbe il dogmatico? Io, giusto? Sarei io il dogmatico? – I
grandi occhi di Rubin lo fissavano con rimprovero. – Io, un detenuto della leva
del ’45. Quattro anni al fronte, che mi stanno in un fianco come una scheggia, e
cinque di prigione sulla schiena. So vedere le cose quanto te. E se mi
convincessi che è tutto marcio fino in fondo, sarei il primo a dire che
bisognerebbe pubblicare un’altra ‘Kolokol’24! E quella campana andrebbe
suonata a martello! Per mandare tutto all’aria! Non mi nasconderei sotto il
cespuglio di chi sospende il giudizio! Non mi coprirei con la foglia di fico dello
scetticismo... Ma io so che il marcio è in superficie, solo all’esterno, mentre la
radice è sana, il fusto è sano, e quindi vanno salvati, non estirpati.
Sulla scrivania vuota dell’ingegner maggiore Rojtman, il capo dell’Acustico,
suonò il telefono interno. Simočka si alzò e andò a rispondere.
– Mettitelo in testa, devi capire la ferrea legge del nostro secolo: ci sono due
mondi, due sistemi! Non ce n’è un terzo! Non può esistere nessun’altra ‘Kolokol’:
non si può lasciare che il vento ne diffonda il suono! Inammissibile! È
obbligatorio scegliere: con quale delle due forze mondiali stai?
– Ma smettila! Ragionare così va a vantaggio del Capobanda25! Con questa
storia dei ‘due mondi’ ha schiacciato tutti.
– Gleb Vikent’ič!
– Senti un po’ – ora Rubin aveva afferrato con foga Neržin per la tuta. – Lui
è un grandissimo uomo!
– Che sciocco! Sei un pecorone!
– Prima o poi lo capirai che Lui è al contempo il Robespierre e il Napoleone
della nostra Rivoluzione? È saggio! Lo è per davvero! Vede lontano, fin dove il
nostro sguardo limitato non può arrivare...
– E intanto ci considera degli stupidi! E ci rifila la sua solita minestra...
– Gleb Vikent’ič!
– Che c’è? – rispose Neržin, staccandosi da Rubin.
– Non ha sentito? Hanno telefonato! – gli si rivolse Simočka per la terza
volta, in tono molto severo, le sopracciglia aggrottate. Se ne stava in piedi
davanti alla scrivania, con le braccia incrociate, stretta nello scialle marrone di
lanugine di capra. – Anton Nikolaevič la vuole nel suo ufficio.
– Ah sì? – l’impeto della discussione sparì subito dal volto di Neržin, le
rughe scomparse tornarono al proprio posto. – Va bene, grazie, Serafima
Vital’evna. Hai sentito, Lëvka, è Anton. Cosa vorrà?
Una chiamata nell’ufficio del direttore dell’istituto alle dieci della sera di
sabato era un avvenimento fuori dell’ordinario. Sebbene Simočka si sforzasse
di mostrarsi indifferente e fredda, dal suo sguardo Neržin l’aveva capito: era
preoccupata.
L’acceso scambio di vedute fu immediatamente dimenticato. Rubin guardava
l’amico con premura. Quando non erano alterati dalla passione della disputa, i
suoi occhi apparivano di una mitezza quasi femminile.
– Non mi piace quando i capi si interessano a noi – disse.
– E poi perché? – si strinse nelle spalle Neržin. – Il nostro è un lavoruccio
insignificante, figuriamoci, solo delle voci...
– Anton vorrà farci una bella lavata di testa. Finiremo nei guai per i ricordi
di Stanislavskij26 e i discorsi di avvocati famosi – si mise a ridere Rubin. – E se
fosse per le articolazioni del Sette?
– Hanno già messo la firma ai risultati, non c’è nessuna possibilità di tirarsi
indietro. In ogni caso, se non dovessi tornare...
– Non dire idiozie!
– In che senso idiozie? Con la vita che facciamo? Brucia quelle cose, sai dove
sono. – Gleb tirò giù la serrandina della scrivania, mise con calma le chiavi in
mano a Rubin e si incamminò con l’andatura tranquilla di un carcerato al
quinto anno di detenzione, che non va mai di fretta da nessuna parte, perché
dal futuro si attende sempre il peggio.
27 Faust cit.
11
IL CASTELLO INCANTATO
Già da molti anni, nel corso della guerra e dopo, Jakonov occupava la sicura
carica di ingegnere capo della Sezione di Tecnica speciale dell’MGB. Portava con
dignità le spalline argentate dalla bordatura celeste, con le tre grosse stelle da
ingegnere colonnello che si era meritato grazie alle sue competenze. La carica
che ricopriva era tale da permettergli di svolgere le sue funzioni direttive da
lontano e in termini generali, a volte di presentare una relazione erudita a un
auditorio di funzionari di alto grado, altre volte di parlare in modo intelligente
e forbito con un ingegnere riguardo a un modello già pronto, insomma farsi
passare per un intenditore senza dover rispondere di nulla e percependo
diverse migliaia di rubli al mese. La carica che ricopriva era tale per cui Jakonov
illuminava con la propria eloquenza la nascita di tutte le imprese tecniche della
Sezione; vi si sottraeva nei periodi di difficile maturazione e crisi di crescita e
onorava di nuovo con la propria presenza sia le vasche incavate delle loro bare
nere che l’incoronazione dorata degli eroi.
Anton Nikolaevič non era così giovane e presuntuoso da aspirare
all’illusorio luccichio di una Stella d’Oro o al distintivo del premio Stalin, da
afferrare con le proprie mani ogni obiettivo del ministero o del Padrone stesso.
Anton Nikolaevič era già abbastanza esperto e avanti con gli anni da rifuggire i
voli e le cadute, queste emozioni così strettamente legate.
Attenendosi a simili regole, aveva vissuto senza problemi fino al gennaio del
1948. In quel gennaio qualcuno aveva suggerito al Padre dei popoli d’Oriente e
d’Occidente l’idea di creare uno speciale sistema di telefonia segreta, tale da
non permettere a nessuno di capire le sue conversazioni telefoniche, persino
nel caso che fossero intercettate. Un sistema che gli permettesse di parlare dalla
sua dacia di Kuncevo con Molotov a New York. Puntando l’augusto dito con
una macchia gialla di nicotina accanto all’unghia, il Generalissimo aveva scelto
sulla carta l’impianto di Marfino, sino ad allora occupato a creare trasmettitori
radio portatili per la polizia. Le storiche parole, pronunciate con il solito
accento georgiano, a tal proposito erano state:
– Che me ne faccio io di questi trasmettitori? Ci pesco qualche ladro
d’appartamento?
E aveva fissato una scadenza: 1° gennaio 1949. Poi ci aveva ripensato e aveva
aggiunto:
– D’accordo, il Primo Maggio.
Il compito era impegnativo ed eccezionale, dato il poco tempo a
disposizione. Nel ministero ci avevano riflettuto, poi avevano dato a Jakonov
l’incarico di cavarsela lui a Marfino. Inutile ogni sforzo di dimostrare quanto
fosse occupato, di non poter sovrapporre gli incarichi. Foma Gur’janovič
Oskolupov, il capo della Sezione, lo aveva fissato con i suoi verdognoli occhi
da gatto: Jakonov si era ricordato del proprio questionario personale non più
immacolato (era finito in prigione per sei anni) e aveva taciuto.
Da allora erano trascorsi quasi due anni, e l’ufficio dell’ingegnere capo della
Sezione nella sede del ministero rimaneva spesso vuoto. L’ingegnere capo
passava giorni e notti fuori città, nell’edificio dell’ex seminario coronato da una
torre esagonale sopra la cupola di un altare soppresso.
All’inizio dirigerlo era stato per lui persino gradevole: chiudere stancamente
la portiera della sua “Pobeda” personale, raggiungere Marfino
semiaddormentato; oltrepassare il portone difeso dal filo spinato, e la guardia
che gli faceva il saluto; camminare con maggiori e capitani al seguito sotto i
tigli centenari del boschetto di Marfino. I superiori non pretendevano ancora
niente da Jakonov: solo progetti, progetti, progetti e obblighi socialisti. Come
contropartita sull’istituto si era rovesciato il corno dell’abbondanza dell’MGB:
apparecchiature inglesi e americane acquistate; quelle tedesche sottratte al
nemico; zek nostrani fatti venire dai campi di lavoro; una biblioteca tecnica con
ventimila volumi nuovi; i migliori oper e archivisti, grandi esperti di attività
segreta; infine, guardie dell’alta scuola della Lubjanka. Avevano dovuto
ristrutturare il vecchio edificio del seminario, costruire nuovi fabbricati – per la
direzione della prigione speciale, per i laboratori sperimentali – e, durante il
periodo della fioritura gialla dei tigli, quando addolcivano l’aria con il loro
profumo, all’ombra di quei giganti, si sentivano i discorsi tristi degli indolenti
prigionieri di guerra tedeschi nelle malconce giacche militari color lucertola.
Quei pigri fascisti al quarto anno di prigionia postbellica non avevano proprio
voglia di lavorare. Per un russo era insopportabile vedere in che modo
scaricavano i mattoni dai camion: si passavano ogni mattoncino di mano in
mano, lentamente, con cautela, quasi fosse di cristallo, fino a posarlo e
formarne una pila. Mentre installavano i termosifoni sotto le finestre e
rifacevano i pavimenti marci, i tedeschi si aggiravano per quelle stanze
ultrasegrete e leggevano di sottecchi le scritte sulle apparecchiature ora nella
loro lingua ora in inglese: anche uno scolaretto tedesco avrebbe potuto
indovinare a cosa erano destinati quei laboratori! Il detenuto Rubin lo aveva
denunciato in un rapporto per l’ingegner colonnello, ed erano tutte cose
giustissime, ma per gli oper Šikin e Myšin (nel gergo dei carcerati Šiškin-
Myškin)28 si trattava di un rapporto assai scomodo; come dovevano agire a
quel punto? Il loro errore andava segnalato più in alto? Nel frattempo però
l’attimo era fuggito, i prigionieri di guerra erano già stati rispediti in patria e
chi era andato nella Germania Ovest avrebbe potuto riferire la posizione
dell’intero istituto e dei singoli laboratori, sempre che a qualcuno interessasse.
E quando gli ufficiali di altre direzioni dell’MGB cercavano l’ingegner
colonnello per faccende di servizio, lui non aveva il diritto di indicare
l’indirizzo della sede e, nel rispetto di una segretezza mai scalfita, si recava a
parlare con loro alla Lubjanka.
Avevano lasciato andare i tedeschi e al loro posto, per ristrutturare e
costruire, avevano preso gli zek, uguali a quelli della šaraška, solo in abiti
sporchi e laceri, e non ricevevano pane bianco. Ora, per necessità e senza
alcuna necessità, sotto i tigli risuonavano le sane imprecazioni del campo, che
ricordavano agli zek della šaraška la loro solida patria e il loro ineluttabile
destino; i mattoni venivano strappati dal camion veloci come il vento, al punto
che di intatti quasi non ne rimanevano, finivano tutti spaccati a metà; al grido
“uno-due-su!” gli zek rovesciavano sul cassone del camion una calotta di legno
compensato e poi, per fare meglio la guardia ai mattoni, vi si infilavano sotto,
abbracciando allegramente le ragazze che li ingiuriavano, restavano chiusi lì e
venivano trasportati per le vie di Mosca fino al campo, dove trascorrevano la
notte.
Così, in quel castello magico che un’incantata zona di fuoco separava dalla
capitale e dai suoi abitanti poco informati, lemuri in giubbe nere da marinaio
creavano trasformazioni da fiaba: tubazioni, canalizzazione, riscaldamento
centrale e aiuole.
Intanto la struttura ben organizzata cresceva e si ampliava. Era entrato a far
parte a tutti gli effetti del complesso di Marfino anche un altro istituto di
ricerca, che conduceva un’attività simile. Quell’istituto era arrivato con tavoli,
sedie, armadi, cartelle-raccoglitori, una strumentazione che invecchiava non di
anno in anno ma di mese in mese e con il proprio capo, ingegnere maggiore
Rojtman, che era diventato il vice di Jakonov. Purtroppo il colonnello Jakov
Ivanovič Mamurin, capo delle Comunicazioni Particolari e Speciali dell’MVD,
uno dei più eminenti uomini dello Stato nonché fondatore dell’istituto appena
inglobato, suo ispiratore e protettore, era scomparso in circostanze tragiche
prima di tutto questo.
Una volta il Capo di tutta l’Umanità Progressista conversava con la
provincia cinese di Yunnan ed era rimasto scontento dei rumori e delle
interferenze nella cornetta. Aveva telefonato a Berija e gli aveva detto in
georgiano:
– Lavrentij! Chi è l’idiota a capo delle Comunicazioni? Levalo di mezzo.
Così avevano “levato di mezzo” Mamurin, cioè lo avevano portato alla
Lubjanka. Lo avevano tolto di mezzo, però non sapevano cosa farsene. Non
avevano ricevuto le solite direttive: per cosa processarlo e quanti anni dargli.
Fosse stato un estraneo gli avrebbero affibbiato un quartino e lo avrebbero
sbattuto a Norilsk. Ma conoscendo bene la sacrosanta verità dell’“oggi a te,
domani a me”, i dirigenti dell’MVD avevano prima trattenuto Mamurin e poi,
non appena convinti che Stalin si era dimenticato di lui, lo avevano mandato
senza istruttoria né durata della pena nella dacia fuori città.
Così, una sera d’estate del 1948, alla šaraška di Marfino era stato condotto un
nuovo zek. In quell’arrivo ogni cosa era fuori dell’ordinario: il fatto che non lo
avessero portato su un corvo, ma su un’automobile; che non fosse accompagnato
da un comune secondino ma dal capo della Sezione delle Prigioni dell’MGB; e
infine che gli avessero servito la sua prima cena coperta da un velo di garza
nell’ufficio del capo della prigione speciale.
Si era sentito (gli zek non sono autorizzati a sentire, eppure sentono sempre
tutto) che il nuovo arrivato diceva “non voglio il salame” (?!), e che il capo
della Sezione carceraria lo aveva esortato con un “mangi”. A origliare
attraverso un tramezzo era stato uno zek che si trovava dal medico a farsi dare
un rimedio. Esaminate le inaudite novità, la popolazione originaria della
šaraška era giunta alla conclusione che il nuovo arrivato fosse comunque un
detenuto e, soddisfatta, se n’era andata a dormire.
Dove il nuovo arrivato avesse trascorso la notte, gli storici della šaraška non
lo avevano accertato. Ma il mattino seguente, molto presto, nel grande atrio di
marmo (dove poi ai detenuti non fu più permesso accedere) uno zek rozzo, un
goffo meccanico, si era imbattuto faccia a faccia con il nuovo.
– Allora, fratello, – gli aveva dato una pacca sul petto – da dove vieni? Con
cosa ti sei bruciato? Siediti qui, fumiamo un po’.
Ma il nuovo arrivato si era scostato dal meccanico con orrore e ripugnanza.
Il viso limone pallido si era contorto in una smorfia. Il meccanico aveva fissato
gli occhi bianchi, i radi capelli chiari sul cranio spelacchiato e aveva detto
stizzito:
– Ehi, tu, rettile uscito da una boccia di vetro! Per la miseria, alla ritirata ti
chiuderanno insieme a noi e allora vedrai se parli!
Ma “il rettile uscito da una boccia di vetro” in prigione con gli altri non era
mai stato chiuso. Gli avevano trovato una stanzetta al secondo piano, nel
corridoio del laboratorio, l’ex camera oscura dei fotografi, vi avevano infilato
un letto, un tavolo, un armadio, un vaso di fiori, un fornello elettrico e avevano
strappato il cartone da una finestrella con le inferriate, che non affacciava
nemmeno alla luce del sole, ma su un pianerottolo della scala posteriore, quella
esposta a nord, tanto che la camera del detenuto privilegiato era scarsamente
illuminata anche di giorno. Naturalmente si sarebbe potuta togliere anche la
grata dalla finestra, ma i capi della prigione, dopo qualche titubanza, avevano
deciso di lasciarla. Neppure loro capivano bene quella storia misteriosa e non
riuscivano a stabilire una linea di condotta sicura.
Fu allora che il nuovo arrivato venne battezzato Maschera di Ferro. Per
lungo tempo nessuno aveva saputo il suo nome. Nessuno poteva neppure
parlarci: lo vedevano attraverso la finestra, mentre se ne stava seduto nella sua
cella a testa china, oppure vagava come un’ombra pallida sotto i tigli in ore in
cui ai normali zek non era consentito passeggiare. Maschera di Ferro era giallo
ed emaciato come solo il cadavere ambulante di uno zek dopo una bella
istruttoria di due anni poteva essere, e tuttavia, lo sconsiderato rifiuto del
salame contrastava con quella versione.
Parecchio tempo dopo, quando Maschera di Ferro aveva ormai cominciato a
lavorare al Sette, gli zek avevano scoperto dai liberi che si trattava proprio di
quel colonnello Mamurin che alla Sezione delle Comunicazioni speciali
dell’MVD ordinava di camminare per il corridoio solo in punta di piedi, senza
battere i tacchi, altrimenti furibondo attraversava di corsa la stanza della
segretaria, gridando:
– Vicino all’ufficio di chi pesti i piedi, insolente?? Come fai di cognome?
Parecchio tempo dopo si chiarì pure che la sofferenza di Mamurin era di
origine morale. Il mondo dei liberi lo aveva respinto, mentre a lui quello degli
zek ripugnava. Dapprincipio, in solitudine, aveva letto molti libri – La lotta per
la pace, Il cavaliere della Stella d’oro, I gloriosi figli della Russia, poi i versi di Prokof’ev,
di Gribačëv29, e in lui – uh! – era avvenuta una trasformazione miracolosa:
aveva cominciato a comporre versi! È noto che la disgrazia e i tormenti
dell’anima generano poeti, ma i tormenti di Mamurin erano più acuti di quelli
di qualsiasi altro detenuto. In prigione ormai da due anni senza istruttoria né
processo, viveva come prima in attesa delle ultime direttive del Partito e come
prima adorava il Saggio Capo. Così Mamurin aveva confessato a Rubin di non
soffrire né per la brodaglia della prigione (comunque per lui cucinavano a
parte) né per il distacco dalla famiglia (del resto, una volta al mese veniva
accompagnato di nascosto nel suo appartamento per trascorrervi la notte), e in
generale per nessun animalesco bisogno primario, ma per l’essere stato privato
della fiducia di Iosif Vissarionovič; era un dolore non sentirsi più un
colonnello, ma degradato e disonorato. Ecco perché per i comunisti come lui
sopportare la reclusione era immensamente più gravoso che per le canaglie
senza principi di quel luogo.
Rubin era comunista. Ma dopo aver ascoltato le confessioni di un presunto
compagno di idee e aver letto i suoi versi, ne aveva preso le distanze, aveva
cominciato a evitarlo, si nascondeva persino: passava tutto il suo tempo in
mezzo a persone che lo attaccavano ingiustamente ma con cui almeno
condivideva la medesima sorte.
In Mamurin invece pulsava un’aspirazione inquieta, come un dolore a un
dente: discolparsi davanti al partito e al governo. Purtroppo per lui però, tutta
la sua conoscenza nel campo delle comunicazioni, come ex capo delle
comunicazioni stesse, si esauriva nella capacità di tenere in mano una cornetta
del telefono. Per questo, in sostanza, di lavorare non era in grado: poteva solo
dirigere. Ma anche dirigere un’impresa ritenuta inutile da tutti non gli avrebbe
restituito le simpatie del Miglior Amico degli Addetti alle Comunicazioni.
Bisognava essere a capo di un’impresa considerata promettente.
In quel periodo all’istituto di Marfino erano venute fuori due imprese
promettenti: il Vocoder e il Sette.
Per qualche profondo impulso in grado di annullare tutti gli argomenti
logici, le persone si sentono affini o no a un primo sguardo. Jakonov e il suo
vice Rojtman non si erano trovati. Di mese in mese, erano diventati sempre più
insopportabili l’uno all’altro: attaccati da una mano più pesante allo stesso
carro, non potevano liberarsene, ma soltanto tirare in direzioni opposte.
Quando, dopo studi e prove parallele, aveva cominciato a prendere forma una
telefonia segreta, Rojtman aveva riunito tutti quelli che poteva all’Acustico per
il progetto di un sistema “vocoder”, in inglese voice coder (“codificatore di
voce”), che in russo era stato ribattezzato “apparecchio del linguaggio
artificiale”, nome che però non aveva preso piede. In risposta, Jakonov aveva
eliminato tutti gli altri gruppi e fatto confluire gli ingegneri più svegli e le
apparecchiature importate più costose nel Sette, il laboratorio n. 7. I gracili
germogli dei restanti progetti erano morti in quella lotta impari.
Mamurin aveva optato per il Sette, sia perché non poteva finire subordinato
al suo ex subordinato Rojtman, sia perché anche al ministero ritenevano
ragionevole che alle spalle del corrotto senza partito Jakonov brillasse un
occhio vigile e appassionato.
Da quel momento, fosse Jakonov di notte presente o meno all’istituto, il
colonnello degradato dell’MVD, soffocato in sé l’amore per i versi in favore del
progresso tecnico della patria, prigioniero solitario dai febbrili occhi bianchi e
dalla scandalosa magrezza delle guance incavate poiché rifiutava di mangiare e
di dormire, si consumava a dirigere fino alle due di notte, trasformando il Sette
in una giornata lavorativa di quindici ore. Una giornata lavorativa così
favorevole si poteva avere solo al Sette, dal momento che per Mamurin non
serviva il controllo da parte dei liberi né particolari turni di notte.
Proprio al Sette si era diretto Jakonov quando aveva lasciato Verenëv e
Neržin soli nel suo ufficio.
28 Il soprannome irriverente dei due oper nasce dall’assonanza dei loro cognomi con šiška, “bernoccolo”,
ma anche “pezzo grosso”, e myška, “topolino”.
29 Autori celebri in quell’epoca sovietica.
12
IL SETTE
Qui la milizia
la guardia mi fa!
Nella zona vietata
tanto bene si sta!33
32 Si allude a un detto sulla mancanza cronica di sigarette nei luoghi di reclusione: “Fumiamo papirosy
lunghe un metro, ma gettiamo mozziconi lunghi due.” Nel gergo dei detenuti alla domanda “Come ve la
passate?” si usava rispondere ironicamente: “Alla grande: c’è da fumare quanto vuoi!”
33 Parodia di alcuni versi del poema di Majakovskij, Bene! (1927).
14
LA LUCE BLU
– Un giorno di questi lancio uno stivale e spacco quella lampadina blu, così la
smette di rompere.
– Non la becchi.
– Saranno cinque metri, la prendo di sicuro. Scommettiamo la frutta cotta di
domani?
– Lo stivale te lo togli nella branda di sotto, ci devi aggiungere un metro.
– Va bene, sei metri. Vedi un po’ quelle canaglie cosa si inventano per
mandare in bestia gli zek.
– La luce blu, intendi?
– Eh certo! Pressione luminosa. L’ha scoperta Lebedev. Aristipp Ivanyč, sta
dormendo? Mi faccia un favore, mi passi quassù uno dei miei stivali.
– Lo stivale, Vjačeslav Petrovič, glielo posso anche passare, prima però mi
risponda: cos’è che non le aggrada di quella luce blu?
– Già solo la lunghezza delle onde è troppo corta e i quanti troppo grandi.
Danno fastidio agli occhi.
– Ha una luce soffusa, mi ricorda il lume blu che la mamma mi accendeva di
notte.
– Proprio una mamma! Ma con le spalline celesti! Ehi, pensate sul serio che
alla gente si possa concedere una vera democrazia? Mi sono accorto che in ogni
cella, per ogni minima questione, dal lavare le scodelle al pulire il pavimento,
escono fuori le opinioni più disparate. È la libertà a rovinare le persone.
Purtroppo, solo il bastone può indicarci la verità.
– Be’, un lume qui ci sta anche bene. Un tempo c’era un altare.
– Non un altare, ma la cupola dell’altare. Hanno diviso in due lo spazio
mettendoci un pavimento.
– Dmitrij Aleksandrovič! Che cosa sta facendo? Apre la finestra a dicembre?!
Che le viene in mente?
– Signori! È l’ossigeno a rendere lo zek immortale. Nella stanza siamo in
ventiquattro, in cortile non c’è né gelo né vento. La apro un Erenburg.
– Anche uno e mezzo! Sulle brande superiori non si respira!
– Un Erenburg come lo misura, in larghezza?
– No, signori, per il lungo, il libro si appoggia molto bene al telaio.
– Roba da matti, dov’è la mia giubba da campo?
– Io tutti questi amanti dell’ossigeno li manderei a Ojmjakon ai lavori comuni.
Dopo aver sgobbato dodici ore a sessanta gradi sotto zero, pur di sentire un
po’ di caldo striscerebbero anche in un caprile!
– In linea di principio io non sono contrario all’ossigeno, ma perché
l’ossigeno deve essere sempre freddo? Lo vorrei riscaldato.
– Ma che roba! Perché la stanza è buia? Perché spengono la luce bianca così
presto?
– Valentulja, lei è un vero nottambulo! Fosse per lei, se ne andrebbe in giro
fino all’una! A che le serve la luce a mezzanotte?
– E lei è uno zerbinotto!
Lo zerbinotto in tuta blu
Proprio sopra me è già.
Nella zona del campo
tanto bene si sta!
Avete riempito un’altra volta di fumo? Cosa continuate a fumare? Uffa, che
schifo... Oh, anche la teiera è fredda.
– Valentulja, dov’è Lev?
– Perché, non è sulla sua branda?
– Ci sono due dozzine di libri, ma lui non c’è.
– Sarà accanto al gabinetto.
– A fare che?
– Lì ci hanno messo una lampadina bianca e la parete vicino alla cucina è
calda. Starà a leggere un libro. Io vado a lavarmi. Devo dirgli qualcosa?
– Eh già-à... Quella mi fa dormire sul pavimento, mentre lei si tiene il letto.
Che donna appetitosa, proprio appetitosa...
– Amici, ve lo chiedo per favore, parlate di tutto ma non di donne. Alla
šaraška, con il pasto a base di carne, è un discorso socialmente pericoloso.
– Su, ragazzi, piantatela! Hanno suonato la ritirata.
– Altro che ritirata, si sente suonare l’inno da qualche parte34.
– Quando hai sonno, dormi lo stesso.
– Sono totalmente privi di senso dell’umorismo: suonano tutto l’inno per
intero, dura cinque minuti. Ti fanno attorcigliare le budella: ma quando finisce?
Possibile che non si possa ridurre a una strofa sola?
– E la sigla iniziale35? Una strofa sola in un paese come la Russia?!...
Figuriamoci.
– Ho prestato servizio in Africa. Ai tempi di Rommel. Cosa c’è di brutto
laggiù? Fa molto caldo e manca l’acqua...
– Nel Mar Glaciale Artico c’è un’isola che si chiama Machotkina. Eppure
Machotkin, il pilota polare, è finito in prigione per propaganda antisovietica.
– Michail Kuz’mič, cosa continua a rigirarsi?
– Perché, non posso neanche rigirarmi da un fianco all’altro?
– Può, ma si ricordi che ogni suo giretto lì sotto arriva quassù assai
amplificato.
– Lei, Ivan Ivanyč, in un campo di lavoro non c’è mai stato. Lì le cuccette sono
quadruple: quando uno si gira, ne scuote altri tre. Può anche succedere che in
basso qualcuno appenda uno straccio colorato, ci porti una donna e si dia da
fare. E parte il beccheggio forza dodici! Eppure si dorme lo stesso.
– Grigorij Borisyč, quando è finito lei per la prima volta alla šaraška?
– Pensavo di fissarci il pentodo e un piccolo reostato.
– Era una persona indipendente, precisa. Quando la sera si levava gli stivali,
non li metteva sul pavimento, se li piazzava sotto la testa.
– In quegli anni non potevi lasciare nulla per terra!
– Io sono stato a Oświęcim. Lì era orribile: dalla stazione la gente veniva
mandata dritta ai crematori, con la musica di sottofondo.
– Laggiù innanzitutto la pesca era incredibile, e poi c’era la caccia. In
autunno se camminavi per un’ora, vedevi fagiani ovunque. Entravi in un
canneto, cinghiali, in un campo, lepri...
– Tutte queste šaraški sono sorte dal 1930 in avanti, quando si sono messi a
prendersela con gli ingegneri. La prima fu istituita al vicolo Furkasovskij36:
nacque lì il progetto del canale sul Mar Bianco. Poi ci fu quella di Leonid
Ramzin. L’esperimento piacque. In libertà è impossibile mettere nello stesso
gruppo di progettazione due grandi ingegneri o due grandi scienziati:
cominciano subito a competere per il nome, la gloria, il premio Stalin, e
immancabilmente uno fa fuori l’altro. Per questo in libertà tutti gli uffici
progettazione finiscono per trasformarsi in circoli scialbi attorno a una mente
brillante. In una šaraška invece su nessuno incombe né la gloria né il denaro. A
Nikolaj Nikolaič un mezzo bicchiere di panna acida e a Pëtr Petrovič un altro
mezzo. Una dozzina di orsi vive pacificamente nella stessa tana, perché non ha
altro posto dove rifugiarsi. Giocano un po’ a scacchi, fumano: che noia! E se ci
inventassimo qualcosa? Dài! Nella nostra scienza molte cose sono state
inventate così! È su questo che si basa la šaraška.
– Amici! Una notizia! Hanno portato via Bobynin, non si sa dove.
– Val’ka, non guaire a quel modo o ti do una cuscinata!
– Dove, Valentulja?
– Come lo hanno portato via?
– È venuto il tenente minore e gli ha detto di mettersi il cappotto e il
cappello.
– Con la roba?
– Senza roba.
– Lo avranno portato di sicuro da un pezzo grosso.
– Da Foma?
– Foma sarebbe venuto qui lui, da uno più in alto!
– Il tè si è freddato, fa schifo!...
– Valentulja, dopo che hanno suonato la ritirata lei batte sempre nel
bicchiere con quel cucchiaino, mi dà sui nervi!
– Si calmi, come faccio a mescolare lo zucchero?
– In silenzio.
– In silenzio avvengono solo le catastrofi spaziali, perché nello spazio
cosmico il suono non si propaga. Se alle nostre spalle esplodesse una Stella
Nova, non ce ne accorgeremmo nemmeno. Rus’ka, ti sta cadendo la coperta,
cosa la tieni a fare a penzoloni? Non dormi? Lo sai che il nostro Sole è una
Stella Nova e la Terra è destinata a perire molto presto?
– Non ci voglio pensare. Sono giovane, voglio vivere ancora!
– Ah-ah! Che ingenuo! Com’è freddo questo tè... C’est le mot! Lui vuole
vivere!
– Val’ka! Dove hanno portato Bobynin?
– E come faccio a saperlo? Magari... da Stalin.
– E cosa farebbe lei, Valentulja, se la convocassero da Stalin?
– Io? O-ho! Ragazzi miei! Protesterei punto per punto!
– Be’ per cosa, ad esempio?
– Be’, per ogni cosa. Par exemple, perché ci fanno vivere senza donne? Questa
cosa inibisce le possibilità creative.
– Prjančikov! Chiudi il becco! Dormono tutti da un pezzo, cosa sbraiti!
– E se io non avessi sonno?
– Amici, chi sta fumando metta via, arriva il tenente minore.
– Che vuole quella carogna? Cittadino sottotenente, faccia attenzione a non
inciampare, altrimenti una volta o l’altra si spaccherà il naso.
– Prjančikov!
– Che c’è?
– Dov’è? Ancora non dorme?
– Dormo, dormo.
– Si vesta in fretta.
– Per andare dove? Ho sonno.
– Si vesta, forza, infili cappotto e cappello.
– Con la roba?
– Senza. L’aspetta una macchina, svelto.
– Che succede, vado con Bobynin?
– Lui è già partito, per lei ce n’è un’altra.
– Quale macchina, sottotenente, un corvo?
– Su, svelto, forza. È una Pobeda.
– Chi mi ha mandato a chiamare?
– Be’, Prjančikov, mi devo mettere a spiegarle tutto? Non lo so nemmeno io,
forza.
– Val’ka! Diglielo quando sei là!
– Di’ delle visite! Possibile che quei farabutti concedano ai Cinquantotto una
visita all’anno?
– Racconta delle passeggiate!
– Delle lettere!
– Del corredo!
– Rot front, ragazzi! Ah-ah! Adieu!
– Compagno sottotenente! Allora, dov’è Prjančikov?
– Arriva, arriva, compagno maggiore! Eccolo!
– Racconta tutto, Val’ka, distruggili, non fare complimenti!
– Ma pensa un po’, i cani da guardia che corrono nel cuore della notte!
– Cos’è successo?
– Mai successa una cosa simile...
– Non sarà scoppiata la guerra? Li portano alla fucilazione?
– Ma smettila, scemo! Per fucilarci secondo te ci prendono uno per volta?
Quando scoppierà la guerra, ci ammazzeranno tutti insieme o ci infetteranno di
peste con la kaša, come i tedeschi nei campi di sterminio nel ’45...
– Be’, d’accordo, dormiamo, fratelli! Lo scopriremo domani.
– Succedeva proprio così nel ’39-’40, Berija mandava a chiamare Boris
Sergeevič Stečkin alla šaraška e quello non tornava mai a mani vuote: o
sostituivano il capo della prigione o aumentavano le passeggiate... Stečkin non
tollerava questo sistema di corruzione, i pasti per categorie: panna acida e uova
agli accademici, quaranta grammi di burro ai professori, venti ai detenuti
semplici... Boris Sergeevič era un brav’uomo, che Dio lo abbia in gloria...
– È morto?
– No, lo hanno liberato... ha preso il premio Stalin.
34 Alla šaraška la ritirata era prevista alle dieci di sera. L’inno era trasmesso per radio a mezzanotte, subito
dopo che batteva l’ora alla torre Spasskaja del Cremlino.
35 La sigla iniziale delle trasmissioni radio suonava prima delle sei del mattino ed era un brano del celebre
film Cyrk.
36 Vicolo dove si trova la Lubjanka.
15
UNA RAGAZZA! UNA RAGAZZA!
Poi si spense anche la voce stanca e cadenzata del recidivo Abramson, finito nelle
šaraški già alla prima condanna. Ai due lati opposti andava a morire il sussurro
di storie già iniziate. Qualcuno russava così forte e in modo così orripilante che
in certi momenti pareva sul punto di esplodere.
La pallida lampadina blu sopra la larga porta a quattro battenti incastrati
nell’arco d’ingresso illuminava una dozzina di brande a due piani saldate,
disposte a ventaglio nella grande stanza semicircolare. Quella stanza, forse
l’unica del genere a Mosca, misurava un diametro di dodici ampi passi maschili;
in alto, una spaziosa cupola a vela poggiata alla base di una torre esagonale e,
lungo l’arco, cinque finestre regolari tondeggianti nella parte superiore. Queste
ultime avevano le inferriate ma non le museruole; di giorno, guardandovi
attraverso, dall’altra parte del viale si scorgeva un parco così trascurato da
sembrare un bosco, e nelle sere d’estate giungevano canzoni toccanti di ragazze
da marito del sobborgo di Mosca.
Neržin, sulla branda superiore accanto alla finestra centrale, non dormiva e
nemmeno ci provava. Sotto di lui l’ingegner Potapov si era addormentato da
un pezzo e si godeva il tranquillo sonno del lavoratore. Sulle brande vicine, a
sinistra, oltre il passaggio, se ne stava disteso “Zemelja”37, l’esperto degli
apparati a vuoto spinto, il faccione tondo rilassato che sbuffava con il naso,
(sotto di lui il letto di Prjančikov, al momento libero) mentre a destra, sulla
branda a filo, si agitava insonne Rus’ka Doronin, uno dei più giovani zek della
šaraška.
Ora che poteva ricordare con distacco la conversazione nell’ufficio di
Jakonov, Neržin capiva tutto con maggior chiarezza: rifiutarsi di entrare nel
gruppo criptografico non era stato un incidente di percorso, ma il punto di
svolta di tutta una vita. Avrebbe implicato per lui – e forse molto presto – una
traduzione lunga e pesante da qualche parte in Siberia o sull’Artico. Verso la
morte oppure verso il trionfo sulla morte.
Rifletteva anche su quello stacco nella sua vita. Cosa era riuscito a ottenere
nei tre anni di tregua alla šaraška? Aveva temprato il carattere a sufficienza
prima di ripiombare di nuovo nella voragine del campo di lavoro?
Il giorno successivo, guarda caso, Gleb avrebbe compiuto trentun anni
(ovviamente non si sentiva in vena di ricordare agli amici quella ricorrenza).
Era a metà della sua vita? Quasi alla fine? Solo all’inizio?
I pensieri gli si confondevano. Non riusciva ad avere uno sguardo
sull’eternità. Ora si insinuava la debolezza: forse non era troppo tardi per
rimediare, per acconsentire a dedicarsi alla crittografia. Ora gli tornava in
mente l’offesa subita, che da undici mesi continuavano a negargli un colloquio
con la moglie... chissà se adesso, prima della partenza, glielo avrebbero
concesso?
Infine gli si risvegliava dentro, e si agitava, lo sfacciato, il furbacchione che
non era lui, non era Neržin, ma il tizio saltato fuori per forza di cose da quel
ragazzino indeciso in fila davanti ai negozi del pane durante il primo piano
quinquennale, poi consolidatosi in tutte le situazioni della vita e in particolare
nel campo di lavoro. Quest’altro lui, interiore, tenace, valutava già con lucidità
quali perquisizioni lo aspettavano: alla partenza da Marfino, all’arrivo alla
Butyrka, alla Krasnaja Presnja; e come nascondere nella giubba imbottita i
pezzetti di lapis spezzato; come riuscire a portare fuori dalla šaraška la vecchia
tuta da lavoro (per lo sgobbone ogni pellaccia personale è preziosa); come
dimostrare che il cucchiaio da tè d’alluminio che aveva con sé da tutta la durata
della pena era suo, non l’aveva rubato alla šaraška, dove ce n’erano di molto
simili.
Gli venne la smania, in quel preciso istante, alla luce blu, di alzarsi e iniziare
tutti i preparativi, le cose da portar via, gli annunci di morte.
Nel frattempo di tanto in tanto Rus’ka Doronin cambiava bruscamente
posizione: cadeva bocconi, affondando nel cuscino con tutte le spalle, si tirava
la coperta fin sopra la testa e la rubava ai piedi; poi si girava di schiena,
allontanava la coperta e svelava il lenzuolo superiore bianco e quello inferiore
più scuro (a ogni bagno cambiavano uno dei due lenzuoli, ma adesso, a
dicembre, la prigione speciale aveva esaurito il quantitativo di sapone
disponibile per un anno e il bagno era stato sospeso). All’improvviso si mise a
sedere sul letto e si appoggiò alla spalliera in ferro con il cuscino, scoprendo
all’angolo del materasso il volumetto Storia di Roma Antica di Mommsen.
Accorgendosi che Neržin aveva gli occhi fissi sulla lampadina blu e non
dormiva, in un sussurro roco gli chiese:
– Gleb! Hai a portata di mano le sigarette? Dammene una.
Rus’ka di solito non fumava. Neržin si allungò fino alla tasca della tuta
appesa alla spalliera e vi estrasse due papirosy. Le accesero.
Rus’ka fumava concentrato, senza voltarsi verso Neržin. Il suo viso sempre
mutevole, che assomigliava ora a quello di un ragazzetto ingenuo, ora a quello
di un imbroglione patentato, sotto la massa dei capelli fluenti di un biondo
scuro aveva un aspetto attraente persino alla luce della lampadina blu.
– Tieni. – Neržin gli porse il pacchetto vuoto di Belomor come posacenere.
Cominciarono a scrollare lì la cenere.
Rus’ka si trovava alla šaraška da quell’estate. A Neržin era piaciuto fin dal
primo sguardo e aveva ispirato un desiderio di protezione.
Ma nonostante i suoi ventitré anni (nel campo gliene avevano affibbiati
venticinque), Rus’ka di protezione non sembrava proprio aver bisogno: il
carattere e la concezione del mondo se li era pienamente formati nel corso della
sua vita breve ma burrascosa, nella varietà degli avvenimenti e delle
impressioni: non tanto durante le due settimane di studi all’università di Mosca
e le altre due a quella di Leningrado, quanto nei due anni trascorsi con i
documenti falsi, inseguito dalla polizia investigativa pansovietica (l’aveva
riferito a Neržin in gran segreto) e adesso nei due anni di reclusione. Avendo
appreso con ricettività istantanea, come si suol dire “al volo”, le leggi da lupi
del GULAG, era sempre diffidente, davvero sincero solo con pochi, mentre alla
maggior parte delle persone si mostrava soltanto puerilmente sincero. Inoltre,
era spumeggiante, cercava di incastrare molte cose in poco tempo, e fra le sue
varie occupazioni c’era anche la lettura.
Adesso Gleb, nella stanza avvolta nel silenzio, scontento dei propri pensieri
confusi e meschini, poco incline al sonno, e supponendone ancor meno in
Rus’ka, gli domandò in un sussurro:
– Allora? Come va la teoria dei cicli?
Esaminavano questa teoria da qualche tempo e Rus’ka si era messo a
cercarne conferme in Mommsen.
A quel sussurro Rus’ka si era voltato ma lo guardava come se non capisse.
La pelle del viso, in particolare della fronte, fremeva nello sforzo di
comprendere che cosa gli fosse stato domandato.
– Dicevo, come va con la teoria della ciclicità?
Rus’ka sospirò e dal suo viso scomparvero sia la tensione sia quel pensiero
inquieto. Si accasciò, scivolando sul gomito, gettò nel pacchetto vuoto che
Neržin gli aveva avvicinato la sigaretta ancora accesa che non aveva finito di
fumare, poi disse in tono fiacco:
– Sono stufo di tutto. Dei libri, delle teorie.
Ripiombarono nel silenzio. Neržin stava già per girarsi sull’altro fianco,
quando Rus’ka ridacchiò e si mise a bisbigliare in tono sempre più
appassionato e veloce:
– La storia è così monotona che leggerla fa repulsione. Un po’ come la
‘Pravda’. Più è nobile e sincero l’uomo, più i suoi compatrioti agiranno da
mascalzoni nei suoi confronti. Spurio Cassio voleva ottenere la terra per i
popolani e i popolani gli diedero la morte. Spurio Melio voleva nutrire con il
pane il popolo affamato ed è stato giustiziato come se volesse conquistare il
potere imperiale. Marco Manlio, che si svegliò per lo starnazzare delle celebri
oche e salvò il Campidoglio, fu giustiziato come un traditore dello Stato! Eh?
– Ma che dici!
– A leggere la storia, ti vien voglia di diventare anche tu un mascalzone, è
più conveniente! Senza il grande Annibale non avremmo mai nemmeno
conosciuto Cartagine... e quella stessa miserabile Cartagine lo cacciò, gli
confiscò i beni, gli rase al suolo la casa! Tutto è già accaduto... A quei tempi
misero i ceppi a Gneo Nevio perché smettesse di scrivere opere audaci. Già gli
etoli, molto prima di noi, annunciarono una falsa amnistia per attirare gli
emigrati di nuovo in patria e ucciderli. Già a Roma scoprirono quella verità che
il GULAG dimentica: non conviene lasciare lo schiavo affamato, bisogna
nutrirlo. La storia è tutta un unico perenne... inferno! Chi arraffa, mangia. Non
esiste verità, errore, sviluppo. E non c’è nessuno cui rivolgersi.
In quell’illuminazione senza vita, labbra così giovani che si contraevano
sfiduciate avevano un’aria particolarmente aspra!
Si trattava di pensieri che in Rus’ka erano stati in parte ispirati dallo stesso
Neržin, ma ora che glieli sentiva uscire di bocca suscitavano in Gleb il
desiderio di ribattere. Con i suoi compagni più anziani Neržin aveva preso
l’abitudine di demolire qualsiasi cosa, ma davanti a un detenuto tanto giovane
sentiva una certa responsabilità.
– Voglio metterti in guardia, Rostislav – gli mormorò Neržin, avvicinandosi
quasi all’orecchio del vicino. – Sebbene lo scetticismo, l’agnosticismo o il
pessimismo siano sistemi ingegnosi e implacabili, ricordati che per la loro
stessa natura sono condannati all’abulia. Alla fin fine non possono guidare
l’azione umana perché la gente non può fermarsi, dunque non si può rinunciare
a sistemi che affermino qualcosa, che li esortano a puntare in qualche
direzione.
– Magari verso una palude? Pur di andare da qualche parte? – obiettò
Rus’ka, con rabbia.
– Forse... Chissà! – cominciò a esitare Gleb. – Cerca di capirmi, considero
anch’io lo scetticismo necessario all’umanità. Serve a incrinare le nostre fronti
di pietra, a strozzare le gole dei nostri fanatici. In terra russa è particolarmente
necessario, anche se fa molta fatica ad attecchire. Tuttavia non può diventare
terreno stabile sotto il piede umano. E di un terreno abbiamo bisogno, no?
– Dammi un’altra sigaretta – chiese Rostislav. L’accese, nervoso. – Senti,
meno male che l’MGB mi ha impedito di studiare! Di diventare uno storico! –
mormorò, scandendo le parole a un volume appena più alto. – Se avessi finito
l’università o persino il dottorato, ora sarei un bell’idiota. Uno studioso, magari
uno di quelli incorruttibili, anche se fatico a immaginarmelo. Avrei scritto un
bel tomo. Analizzato dall’ottocentotreesimo punto di vista i Quinti
novgorodesi o la guerra di Cesare contro gli Elvezi. Quanta cultura c’è nel
mondo! Quante lingue! Quante nazioni! E in ogni nazione, quanti uomini
intelligenti, e ancora di più sono i libri intelligenti... quale scemo potrebbe
leggersi tutto?! Come rispondi a questo? ‘Ciò che i maestri hanno inventato
con enorme fatica, ad altri maestri ben più grandi si rivela illusorio’, non è forse
così?
– Eccolo lì – lo rimproverò Neržin. – Stai perdendo ogni sostegno e ogni
obiettivo. Dubitare si può ed è necessario. Ma non è forse necessario anche
amare qualcosa?
– Sì, sì, amare! – intervenne Rus’ka, con un roco bisbiglio trionfante. –
Amare! Ma non la storia, e neppure una teoria: bisogna amare una ra-gaz-za! –
Si sporse dal letto e afferrò Neržin per il gomito. – Cos’è che ci hanno tolto,
eh? Il diritto di andare alle riunioni? Alle lezioni di Educazione politica? Di
sottoscrivere un prestito di Stato? Il Capobanda poteva nuocerci solo in un
modo: levandoci le donne! E lo ha fatto. Per venticinque anni! Quei cani!! Chi
se lo immaginava – si batté il petto con il pugno – cosa può significare una
donna per un detenuto!
– Rus’ka... non diventarci matto! – provò a sottrarsi Neržin, ma al pensiero
di Simočka, della sua promessa per quel lunedì sera fu lui stesso invaso da
un’improvvisa ondata calda... – Togliti quell’idea dalla testa! Ti ottenebra solo il
cervello. – (Oh, lunedì! Quello che le persone felicemente sposate non
apprezzano abbastanza nel tormentato detenuto si solleva con agghiacciante
ferocia!) – Complesso freudiano, o simplesso, come cavolo si chiama... – stava
usando un tono sempre più fiacco, titubante. – Insomma: sublimalo! Sposta le
energie verso altri campi! Occupati di filosofia, lì non servono né il pane né
l’acqua, e nemmeno le carezze di una donna.
(Ma lui stesso fremette nell’immaginarsi nei dettagli come sarebbe andata di
lì a due giorni, e a quel pensiero, per quel dolce terrore, la conversazione aveva
perso senso, e lui non aveva più voglia di continuare.)
– Il mio cervello è già ottenebrato! Mi addormento solo quando è ormai
mattino! Una ragazza! Tutti hanno bisogno di una ragazza! Averla fra le
braccia... per... Uhm, porca miseria! – Senza neanche accorgersene Rus’ka lasciò
cadere la sigaretta ancora accesa, si voltò di scatto e, buttatosi a pancia in giù, si
tirò con uno strattone la coperta fin sopra la testa, sottraendola di nuovo ai
piedi.
Neržin acchiappò per un soffio la sigaretta che stava già rotolando giù in
mezzo ai loro letti su Potapov, e la spense.
Proponeva a Rus’ka di rifugiarsi nella filosofia, ma in quel rifugio lui c’era
già da un pezzo. La polizia investigativa pansovietica aveva dato la caccia a
Rus’ka, che ora si trovava nelle grinfie della prigione. Ma cosa bloccava Gleb a
diciassette o diciannove anni, quando lo sommergevano quelle ardenti folate
che gli ottenebravano la mente, privandolo della ragione? Si attorcigliava in
quella dialettica, ci soffocava, ci ficcava il naso da porcellino, lo ficcava lì
dentro, grugnendo e annusando, con la paura di non fare in tempo. Tutti
quegli anni fino al matrimonio, la gioventù non vissuta a pieno e persa per
sempre, adesso, nella cella di una prigione, li ricordava con maggiore amarezza.
Smarrito, non aveva saputo concedersi quegli istanti di ottenebramento: non
conosceva le parole che portano all’intimità, il tono per far cedere l’altro.
Inoltre, era legato ai secoli passati dal pensiero ben radicato dell’onore
femminile. E nessuna donna più esperta e più saggia gli aveva mai posato una
mano indulgente sulla spalla. No, una l’aveva anche invitato, ma lui allora non
aveva capito! Ci aveva riflettuto e se n’era reso conto soltanto sul pavimento
della prigione, e quell’occasione sfuggita, anni interi sfuggiti, un intero mondo,
lo consumavano dentro.
Be’, adesso non importava, doveva aspettare solo meno di quarantotto ore,
fino alla sera di lunedì.
Gleb si piegò verso l’orecchio del vicino:
– Rus’ka! Ma tu, ce l’hai una ragazza?
– Sì! Ce l’ho! – sussurrò con sofferenza Rostislav, che sdraiato bocconi
stringeva il cuscino. Vi respirava contro e il calore che il guanciale gli restituiva,
insieme a tutto il calore della gioventù che si avvizziva in carcere in modo così
malignamente infruttuoso, arroventava il suo giovane corpo imprigionato, che
chiedeva sfogo e sfogo non conosceva. Aveva detto “ce l’ho”, e voleva credere
di avere sul serio una ragazza, ma tra loro c’era stato solo qualcosa di
impalpabile: non un bacio, e nemmeno una promessa, soltanto il fatto che
quella sera una ragazza lo aveva ascoltato, con sguardo di simpatia e
ammirazione, mentre lui raccontava di sé; e nello sguardo di quella giovane, per
la prima volta, Rus’ka aveva visto sé stesso come un eroe e la propria storia
come fuori del comune. Fra loro non era successo nient’altro, eppure era
successo qualcosa che gli faceva dire di avere una ragazza.
– Ma, senti un po’, chi è? – cercò di strappargli Gleb.
Nel buio, abbassata leggermente la coperta, Rostislav rispose:
– Tsss... è Klara...
– Klara?? La figlia del procuratore?!!
37 Compaesano.
16
UNA TROJKA DI MENTITORI
38 Berija.
17
A PROPOSITO DELL’ACQUA CALDA
Con la stessa tuta blu, ma robusto, un pezzo d’uomo, la testa rasata da galeotto,
entrò Bobynin.
Manifestò per l’arredamento dell’ufficio l’interesse che avrebbe avuto se ci
fosse capitato cento volte al giorno, procedé senza soffermarsi e prese posto
senza salutare. Si sedette su una delle comode poltrone poco distanti dalla
scrivania del ministro e si soffiò accuratamente il naso con un fazzoletto non
troppo bianco che lui stesso aveva lavato durante l’ultimo bagno.
Un po’ disorientato da Prjančikov, ma incapace di prendere sul serio quel
giovane spensierato, Abakumov era contento che ora Bobynin fosse più posato.
Così non gli gridò: “In piedi!” ma, ritenendo che quello non se ne intendesse di
spalline e a furia di passare porte non si fosse reso conto di dov’era capitato,
quasi in tono pacato gli domandò:
– Perché si siede senza permesso?
Sbirciando a malapena il ministro e finendo di pulirsi il naso con il
fazzoletto, Bobynin rispose senza tante cerimonie:
– Be’, guardi, esiste un detto cinese: stare in piedi è meglio che camminare,
essere seduti è meglio che stare in piedi, e ancora meglio è stare distesi.
– Ma ha una vaga idea di chi sono io?
Con i gomiti appoggiati comodamente sulla poltrona che si era scelto,
Bobynin osservò Abakumov ed espose la propria ipotesi con indolenza.
– Chi potrebbe essere? Be’, qualcuno di simile al maresciallo Goering?
– Simile a CHI??...
– Al maresciallo Goering. Una volta ha visitato la fabbrica aeronautica nei
dintorni di Halle dove mi è capitato di lavorare all’ufficio progettazione. I
generali di là camminavano in punta di piedi, ma io non mi sono nemmeno
voltato dalla sua parte. Lui ha dato una bella occhiata in giro, poi se n’è andato
in un’altra stanza.
Sul volto di Abakumov passò quello che ricordava vagamente un sorriso, ma
davanti a un detenuto di un’insolenza così inaudita lo sguardo si accigliò
subito. Sbatté le palpebre per la tensione e domandò:
– E allora? Fra noi non vede nessuna differenza?
– Fra voi due? O fra noi due? – La voce di Bobynin rombava come ghisa
maltrattata. – Fra noi due la vedo perfettamente: io le servo, mentre lei a me
non serve!
Anche Abakumov aveva una voce che rombava come un tuono e sapeva
come intimidire. Ma ora si rendeva conto che gridare sarebbe stato inutile,
indecoroso. Aveva capito che quello era un detenuto difficile.
Si limitò a metterlo in guardia:
– Senta, detenuto. Anche se la sto trattando con le buone, non si dimentichi
che...
– Se mi avesse trattato con le cattive, cittadino ministro, non mi sarei
nemmeno messo a parlare con lei. Gridi pure contro i suoi tenenti e generali,
quelli nella vita hanno fin troppo, e fin troppo da perdere.
– Se serve, sapremo convincere anche lei.
– Si sbaglia, cittadino ministro! – E gli intensi occhi di Bobynin si accesero
di un odio sincero. – Io non ho niente, le è chiaro? NIENTE DI NIENTE! Moglie e
figlio non me li può più togliere, se li è presi una bomba. I miei genitori sono
già morti. L’unica cosa che mi appartiene su questa terra è un fazzoletto da
naso; la tuta e la biancheria che c’è sotto, senza bottoni (scoprì il petto e la
mostrò), sono dello Stato. La libertà me l’avete tolta da un pezzo e ridarmela
non è nelle sue possibilità, perché manca pure a lei. Ho quarantadue anni, mi
avete affibbiato una condanna a venticinque, ai lavori forzati ci sono già stato,
sono andato in giro con i numeri cuciti addosso, in manette, con i cani da
guardia, e sono stato anche nella squadra a regime intensificato. In quale altro
modo pensa di minacciarmi? Di cos’altro potrebbe privarmi? Del lavoro di
ingegnere? Ci perderebbe lei. Ora vorrei fumare.
Abakumov aprì un pacchetto di Trojka, produzione del Cremlino, e lo
allungò a Bobynin:
– Ecco, prenda queste.
– Grazie. Non cambio marca. Ho la tosse. – Ed estrasse una Belomor da un
portasigarette di sua fabbricazione. – In generale, cerchi di capire, e lo
comunichi anche a chi di dovere sopra di lei, siete forti solo quando non
togliete tutto alle persone. Se togliete tutto a un uomo, quello non è più in
vostro potere, ma di nuovo libero.
Bobynin tacque e si concentrò sulla sua sigaretta. Era bello starsene mezzo
sdraiato su quella poltrona così comoda a stuzzicare il ministro. Gli spiaceva
solo di aver rifiutato sigarette tanto lussuose per fare colpo.
Il ministro controllò sul suo foglio.
– Ingegner Bobynin! Lei è l’ingegnere capo dell’impianto di ‘linguaggio
clippato’?
– Sì.
– Le chiedo di dirmi con assoluta precisione quando sarà pronto per
l’utilizzo?
Bobynin inarcò le folte sopracciglia scure.
– Che novità è questa? Non ha trovato nessuno sopra di me in grado di
rispondere a una domanda del genere?
– Voglio saperlo da lei. Sarà pronto entro febbraio?
– Entro febbraio? Mi prende in giro? Se è per scriverlo sul rapporto... chi si
marita in fretta, stenta adagio... Comunque, diciamo... fra sei mesi. E una
codifica assoluta? Non ne ho la minima idea. Forse un anno.
Abakumov era sconvolto. Gli tornò in mente il movimento astioso e
impaziente dei baffi del Padrone e tremò al pensiero delle promesse che,
basandosi su Selivanovskij, aveva fatto. Dentro gli crollò tutto, come per un
uomo che va a curarsi un raffreddore e scopre di avere un cancro nasofaringeo.
Il ministro si afferrò la testa con entrambe le mani e con voce soffocata
disse:
– Bobynin! La prego di pesare bene le sue parole. Se esiste la possibilità di
fare più in fretta, mi dica, di cosa avreste bisogno?
– Più in fretta? Impossibile.
– E le cause? Quali sono le cause? Di chi è la colpa? Me lo dica, non abbia
timore! Faccia i nomi dei colpevoli, quali che siano le spalline che portano!
Gliele strappo, le spalline!
Bobynin rovesciò indietro la testa e si mise a osservare il soffitto, dove
giocavano le ninfe della compagnia di assicurazioni Rossija.
– Sono passati due anni e mezzo, quasi tre! – si indignò il ministro. – E vi
era stato dato il termine di un anno!
Bobynin scattò:
– Che significa che ci era stato dato un termine? Cosa crede che sia la
scienza? La fiaba del cavallino magico? Costruiscimi un bel palazzo entro
domani mattina, e quello il giorno dopo è fatto? E se il problema viene
impostato male? Se saltano fuori elementi nuovi? Dato un termine! E lei non
pensa che, oltre a un ordine impartito, debbano anche esserci uomini sereni,
ben nutriti e liberi? E senza questa atmosfera di sospetto. Per esempio,
abbiamo spostato un piccolo tornio e, non so se mentre ci lavoravamo noi o
chi dopo di noi, insomma, il basamento si è incrinato. Lo sa il diavolo perché è
successo! Ma ripararlo è costato a un saldatore un’ora di lavoro. E quel tornio è
già una merda, ha centocinquant’anni, è senza motore, con la puleggia a cinghia
scoperta. E per questa incrinatura sono già due settimane che il maggiore oper
Šikin tormenta tutti, ci fa l’interrogatorio, cerca a chi affibbiare una seconda
condanna per sabotaggio! Lui sul lavoro è un oper, un parassita, e in prigione c’è
un altro oper, parassita pure lui, e ti fanno saltare i nervi, fra protocolli e cavilli...
ma che diamine ve ne fate di tutta questa attività operistica? Continuano a dirci
che stiamo progettando un sistema di telefonia segreta per Stalin, che è lui in
persona a volerlo, e nemmeno in un settore come questo siete in grado di
assicurare le condizioni tecniche necessarie: prima mancano i condensatori, poi
le valvole non sono del tipo giusto, oppure non bastano gli oscillografi
elettronici. Per la miseria! È una vergogna! Di chi è la colpa39! Ma agli uomini ci
avete pensato? Lavorano per voi dodici, alcuni anche sedici ore al giorno, ma la
carne è fornita solo agli ingegneri capo, mentre agli altri cosa resta? Le ossa?
Perché ai Cinquantotto non concedete le visite parentali? È stabilito che siano
una volta al mese, ma le permettete solo una volta all’anno. Questo può
sollevare il loro morale? Mancano forse i corvi per trasportare i carcerati? O i
soldi per pagare gli straordinari ai sorveglianti? Regime carcerario!! Il regime vi
annebbia la mente, presto vi farà uscire di senno! Prima, la domenica si poteva
passeggiare tutto il giorno, adesso lo hanno proibito. Ma perché? Per farci
lavorare di più? Volete cavare sangue dalle rape? Tenendoci chiusi dentro a
soffocare senza un po’ di aria fresca, non ci impiegheremo certo di meno. Ma
che parlo a fare! Non mi ha forse chiamato in piena notte? Il giorno non le
basta? Io domani devo lavorare. Ho bisogno di dormire.
Bobynin raddrizzò la schiena, sdegnato, grande.
Schiacciato contro il bordo della scrivania, Abakumov ansava pesantemente.
Era l’una e venticinque di notte. Di lì a un’ora, alle due e mezzo, Abakumov
si sarebbe dovuto presentare da Stalin con una relazione, alla dacia di Kuncevo.
Se quell’ingegnere aveva ragione, come trovare adesso una via d’uscita?
Stalin non perdonava...
Mentre congedava Bobynin, gli tornò in mente la trojka di mentitori della
Sezione di Tecnica speciale. E negli occhi gli si accese un’oscura rabbia.
Li convocò per telefono.
La stanza non era né grande né alta. Aveva due porte, e la finestra, se anche
c’era, aveva le tende ben serrate e si fondeva nella parete. Eppure l’aria risultava
fresca, piacevole (c’era una persona precisa che si preoccupava dell’entrata e
dell’uscita dell’aria, e della sua innocuità chimica).
Un’ottomana stretta con i cuscini a fiori occupava molto spazio. Sopra a
questa, sulla parete, erano accese delle lampade abbinate, coperte da piccoli
paralumi.
Sull’ottomana era sdraiato un uomo, la cui immagine tante volte era stata
scolpita, dipinta a olio, ad acquarello, a guazzo, a seppia, disegnata a
carboncino, a gessetto, con polvere di mattone, formata da sassolini, da
conchiglie di mare, su piastrella smaltata, con chicchi di grano e di soia,
intagliata nell’avorio, composta con l’erba, intessuta nei tappeti, tracciata dagli
aerei, filmata nelle pellicole cinematografiche, come mai nessun altro nei tre
miliardi di anni di esistenza della crosta terrestre.
Se ne stava lì sdraiato, le gambe leggermente raccolte, nei morbidi stivali
caucasici simili a calze spesse. Indossava una giubba con quattro grandi tasche,
due sul petto, due laterali, che era vecchia, vissuta, una delle tante grigie, grigio-
verdi, nere e bianche che (un po’ imitando Napoleone) aveva imparato a
portare dalla Guerra civile e sostituito con l’uniforme da maresciallo solo dopo
Stalingrado.
Il nome di quell’uomo veniva menzionato spesso sui giornali di tutto il
globo terrestre, mormorato da migliaia di annunciatori in centinaia di lingue,
gridato dai relatori all’inizio e alla fine dei discorsi, cantato dalle voci sottili dei
pionieri, pronunciato con solennità dagli alti dignitari della Chiesa ortodossa,
che brindavano alla sua salute. Il nome di quell’uomo si seccava sulle labbra
morenti dei prigionieri di guerra, sulle gengive gonfie dei detenuti. Con quel
nome era stato ribattezzato un gran numero di città e piazze, strade e viali,
palazzi, università, scuole, stazioni termali, catene montuose, canali marittimi,
fabbriche, miniere, sovchoz, kolchoz, navi di linea, rompighiaccio, pescherecci,
laboratori di calzoleria, nidi d’infanzia, e un gruppo di giornalisti di Mosca
aveva proposto di ribattezzarci pure il Volga e la Luna.
Lui era soltanto un piccolo vecchio dagli occhi gialli, con i capelli biondicci
(nei ritratti li raffiguravano corvini) che si stavano già diradando (li
raffiguravano folti), il viso grigio butterato qua e là dai segni del vaiolo, una
sacca di pelle flaccida sotto il mento (quella non la disegnavano affatto), i denti
scuri e irregolari, una parte dei quali ripiegata all’interno della bocca che
puzzava di tabacco in foglie, le umide dita unte che lasciavano tracce sulle carte
e sui libri.
Inoltre quel giorno non si sentiva bene: era stanco e aveva esagerato con il
cibo durante i festeggiamenti per il suo compleanno, si sentiva nella pancia una
pesantezza di pietra e gli si ripresentava un sapore di marcio; salolo e
belladonna non erano stati di alcun aiuto, ma detestava prendere dei purganti.
Non aveva neanche mangiato e si era coricato presto, verso mezzanotte. In
quell’aria calda sentiva uno strano freddo alla schiena e alle spalle, che teneva
coperte con uno scialle di cammello marroncino.
Un silenzio sordo aveva avvolto la casa, il cortile, tutto il mondo.
In quel silenzio il tempo scorreva a malapena, strisciava piano, andava subìto
come una malattia, un acciacco, escogitando ogni notte un’attività o uno svago.
Non gli era costato granché fatica separarsi dallo spazio del mondo, non
muoversi più al suo interno. Ma dal tempo era impossibile separarsi.
Ora stava sfogliando un libretto dalla copertina rigida marrone. Guardava
con piacere le fotografie e leggeva qua e là il testo che ormai conosceva quasi a
memoria, per poi rimettersi a sfogliare. Quel libretto era così maneggevole da
entrare senza piegarlo nella tasca del cappotto, poteva accompagnare la gente
ovunque nella vita. Le pagine erano circa duecentocinquanta, ma stampate con
un carattere grande e nitido, in modo che anche le persone poco istruite e gli
anziani potessero leggerlo senza affaticarsi. Sulla copertina c’era impresso in
oro: Iosif Vissarionovič Stalin. Breve biografia.
Le parole oneste e semplici di quel libro si posavano sul cuore umano in
modo tranquillo e inevitabile. Genio strategico. La sua saggia perspicacia. La
sua poderosa volontà. La sua ferrea volontà. Era diventato di fatto il vice di
Lenin dal 1918. (Sì, sì, era andata proprio così.) Il condottiero della rivoluzione
aveva trovato al fronte grande confusione, smarrimento. Alla base del piano
operativo di Frunze c’erano le istruzioni di Stalin. (Esatto. Esatto.) È stata una
fortuna per noi che durante i difficili anni della Guerra patriottica40 ci guidasse
il saggio ed esperto Capo, il Grande Stalin. (Sì, il popolo ha avuto fortuna.)
Tutti conoscono la forza devastante della logica staliniana, la chiarezza
cristallina della sua mente. (Senza falsa modestia, è tutto vero.) Il suo amore
per il popolo. La sua sensibilità verso le persone. La sua insofferenza verso le
solennità chiassose. La sua sorprendente modestia. (La modestia, è proprio
vero.)
Una conoscenza infallibile dell’animo umano aveva permesso al festeggiato
di radunare per quella biografia un buon collettivo di autori. Ma per quanto
fossero accurati, o si facessero in quattro, nessuno avrebbe scritto in modo così
intelligente, sentito, attinente ai fatti come lui stesso. Così Stalin aveva dovuto
chiamare a sé uno dopo l’altro gli uomini di quel collettivo, ci aveva conversato
con calma, aveva dato un’occhiata ai loro manoscritti, indicato con indulgenza
le mancanze, suggerito formulazioni.
E il libro aveva avuto un enorme successo. Quella seconda edizione era
uscita con una tiratura di cinque milioni di copie. Per una nazione come
quella? Un po’ pochino. Bisognava che la terza uscisse almeno in dieci, venti
milioni di copie. Che fosse venduto nelle fabbriche, nelle scuole, nei kolchoz. Si
poteva distribuire usando direttamente l’elenco degli impiegati.
Nessuno meglio dello stesso Stalin sapeva fino a che punto era necessario
quel libro al suo popolo. Il popolo non poteva restare senza risposte giuste e
continue. Il popolo non poteva reggere senza certezze. La rivoluzione aveva
trasformato il popolo in un orfano, in un senzadio, cosa davvero pericolosa.
Già da vent’anni Stalin, per quanto in suo potere, correggeva la situazione. A
quello erano serviti milioni di ritratti in tutto il paese (non di certo a Stalin, lui
era modesto), il continuo ripetersi altisonante del suo glorioso nome, il
continuo accenno in ogni articolo. Non era assolutamente il Capo ad averne
bisogno – non ci gioiva affatto, gli era già venuto a noia – serviva ai sudditi,
alla semplice gente sovietica. Il maggior numero possibile di ritratti, il maggior
numero possibile di menzioni, e comparire di rado in carne e ossa, parlare
poco, come se non stesse sempre con loro sulla terra, ma anche da qualche altra
parte. Allora non ci sarebbe stato più limite al culto e alla venerazione.
Non aveva la nausea, ma gli gravava sullo stomaco una sensazione di
pesantezza. Prese un frutto di feijoa da una ciotola con della frutta già
sbucciata.
Tre giorni prima erano stati festeggiati i suoi gloriosi settant’anni.
Per le usanze del Caucaso, raggiunti i settanta, un uomo è ancora un džigit,
un valoroso! Sui monti, a cavallo, con le donne. E anche Stalin era in piena
salute, sarebbe vissuto per forza di cose fino a novant’anni: questo aveva
deciso, questo esigevano i fatti. Anche se un medico lo aveva avvertito che...
(del resto, se non ricordava male, poi l’avevano fucilato). Una vera malattia,
seria, non ce l’aveva. Nessuna iniezione, nessuna cura, conosceva bene la
medicina, sapeva scegliere da sé. “Più frutta!” Dire di mangiare più frutta a un
uomo del Caucaso!
Succhiava la polpa, strizzando gli occhi. Sulla lingua gli restava un leggero
retrogusto di iodio.
Era in piena salute, ma qualcosa con gli anni stava cambiando. Mangiare non
gli dava più la fresca soddisfazione di un tempo, come se tutti i sapori gli
fossero venuti a noia, si fossero attenuati. Non provava più una sensazione
intensa a eccedere con i vini e a mischiarli. L’ebbrezza si trasformava in un
dolore alla testa. E se a un pranzo Stalin restava ancora seduto come prima
fino a notte fonda con i suoi dirigenti non era perché godesse del cibo, ma
perché quel tempo lungo e vuoto si doveva pur trascorrere in qualche modo.
Nemmeno le donne con le quali faceva baldoria, dalla morte di sua moglie
Nadja, gli servivano granché, per loro provava di rado un brivido, restava tutto
abbastanza sul torbido. Ormai anche il sonno non era riposante come da
giovane: si svegliava già debole, con un cerchio alla testa, e non aveva voglia di
alzarsi.
Stabilito che ebbe di vivere fino ai novanta, Stalin pensava con angoscia a
quegli anni che non gli avrebbero portato nessuna gioia personale: doveva
semplicemente resistere altri due decenni perché l’umanità godesse di un
migliore ordine generale.
I settanta li aveva festeggiati così. La sera del 20 era stato torturato a morte
Trajčo Kostov. Solo quando i suoi occhi si erano fatti vitrei come quelli di un
cane, la festa aveva davvero avuto inizio. Il 21 si era tenuta la celebrazione
solenne al teatro Bol’šoj. Erano intervenuti Mao Tse-tung, Dolores41 e altri
compagni. Poi c’era stato un banchetto allargato, subito dopo uno per pochi
intimi. Avevano bevuto vecchi vini di cantine spagnole, ricevuti un tempo in
cambio di armi. Infine, lui e Lavrentij, rimasti soli, si erano bevuti un vino di
Kachezia e avevano intonato canzoni georgiane. Il 22 si era tenuto un grande
ricevimento diplomatico. Il 23 aveva visto la seconda parte della Battaglia di
Stalingrado e L’indimenticabile 1919, che parlavano di lui.
Benché stanchissimo, quelle opere gli erano piaciute molto. Adesso veniva
tratteggiato in modo sempre più veritiero il suo ruolo non solo nella Guerra
patriottica, ma anche in quella civile. Evidentemente era un grand’uomo fin da
allora. Lo schermo e il palcoscenico adesso dimostravano quanto spesso aveva
messo in guardia e corretto un Lenin fin troppo imprudente e superficiale.
Nobilmente il drammaturgo gli aveva messo sulle labbra la frase: “Ogni
lavoratore ha il diritto di manifestare i propri pensieri!” E allo sceneggiatore
era venuta bene quella scena di notte con l’Amico. Sebbene a Stalin non fosse
rimasto nessun grande Amico, per la perenne mancanza di sincerità e la
perfidia degli uomini. Non che avesse mai avuto un Amico così! Era andata in
quel modo: mai avuto! Ma vederlo sullo schermo aveva fatto venire a Stalin un
nodo alla gola (quello è un artista, un grande artista!): come avrebbe voluto
avere un Amico così sincero e disinteressato, dirgli ad alta voce quanto per
notti intere gli passava per la mente.
Tuttavia non gli era possibile avere un Amico del genere, perché avrebbe
dovuto essere grande quanto lui. E dove poteva vivere uno così? Di cosa si
sarebbe occupato?
Tutti quanti, da Vjaceslav “Sedere di pietra” a Nikita il Ballerino42, erano
forse uomini? A tavola con loro crepavi di noia, nessuno che proponesse mai
per primo qualcosa di intelligente, e quando lo faceva lui erano subito
d’accordo. Un tempo Stalin apprezzava abbastanza Vorošilov, per la difesa di
Caricyn, la guerra in Polonia e i fatti della grotta di Kislovodsk (aveva riferito
della riunione dei traditori Kamenev-Zinov’ev con Frunze)43, ma era pure lui
un manichino su cui appendere il cappello e le decorazioni; era forse un uomo
quello?
Non c’era nessuno che potesse menzionare come amico. Nessuno del quale
ricordare più cose positive che negative.
Un amico per lui non c’era e non ci sarebbe mai stato, tuttavia il popolo
semplice amava il suo Capo, era pronto a dare la vita e l’anima per lui. Lo si
vedeva dai giornali, al cinema, con la mostra dei suoi doni. Il compleanno del
Capo si era trasformato nella festa di tutto il popolo, era una gioia rendersene
conto. Quanti auguri erano arrivati! Auguri dalle istituzioni, auguri dalle
organizzazioni, auguri dalle fabbriche, auguri dai singoli cittadini! La “Pravda”
aveva chiesto l’autorizzazione di non pubblicarli tutti insieme, ma su due
colonne per ogni numero. Be’, la cosa sarebbe andata avanti per qualche anno,
non importava, non era un male.
E per i doni, al Museo della Rivoluzione non erano bastate dieci sale44. Per
dare la possibilità ai moscoviti di ammirare quei regali di giorno, Stalin era
andato a vederli di notte. Il lavoro di migliaia e migliaia di artisti, i migliori
doni della terra, ritti, appoggiati, appesi; eppure anche qui era subentrata
l’indifferenza, dentro di lui si era spento ogni interesse. Cosa se ne faceva di
tutti quei regali?... L’avevano annoiato in fretta. E al museo si era affacciato in
lui anche un ricordo negativo, ma come accadeva spesso negli ultimi tempi non
era riuscito a focalizzarlo chiaramente e gli era rimasta solo una sensazione
sgradevole. Stalin aveva percorso tre sale senza scegliere nulla, poi si era
fermato vicino a un enorme televisore con la scritta “Al grande Stalin dagli
agenti della Čeka” (era il più voluminoso televisore sovietico esistente,
fabbricato in un unico esemplare a Marfino), si era voltato ed era uscito.
Comunque era stato un bel compleanno – nessun politico al mondo poteva
vantare un simile orgoglio, simili vittorie e successo! – eppure non poteva dirsi
un pieno trionfo.
Qualcosa gli stringeva il petto, gli si era bloccato lì e bruciava.
Addentò un’altra volta il frutto e lo succhiò.
Il popolo lo amava, questo era certo, ma quello stesso popolo brulicava di
difetti e non andava bene per niente. Bastava ricordare il 1941: per colpa di chi
era avvenuta la ritirata? Chi si era ritirato, se non il popolo?
Ecco perché non poteva festeggiare, starsene lì sdraiato, ma doveva mettersi
al lavoro. Pensare.
Pensare era suo dovere. La sua amara sorte, e anche il suo tormento. Doveva
vivere ancora due decenni alla stregua di un detenuto con una condanna della
medesima durata, e non poteva dormire più di otto ore al giorno, mai più del
necessario. E per le restanti ore, muoversi lentamente, come se camminasse su
pietre appuntite, fare affidamento su un corpo non più giovane, ormai
vulnerabile.
I momenti della giornata più insopportabili per Stalin erano il mattino e il
mezzogiorno: mentre il sole sorgeva, scintillava, si sollevava fino a raggiungere
il culmine, Stalin dormiva al buio, con le tende serrate, chiuso, sbarrato dentro.
Si svegliava quando il sole stava già calando, stemperandosi, portandosi verso il
termine della sua breve vita di un giorno. Intorno alle tre del pomeriggio Stalin
faceva colazione e solo verso sera, al tramonto, cominciava a riprendersi. In
quelle ore il suo cervello funzionava con diffidenza, cupo, tutte le decisioni gli
apparivano proibitive, negative. Dalle dieci della sera iniziava il pranzo, al quale
di solito erano invitati gli uomini a lui più vicini nel Politbjuro e tra i
comunisti stranieri. Fra un gran numero di pietanze, calici, storielle e discorsi si
ammazzavano bene quattro, cinque ore, e intanto si prendeva la rincorsa, si
raccoglievano le idee creative in ambito legislativo per la seconda metà della
notte. Tutti i Decreti più importanti destinati al grande Stato trovavano forma
nella testa di Stalin dopo le due del mattino e solo fino all’alba.
E adesso quel tempo stava proprio per iniziare. E c’era un decreto già
maturato che di fatto ancora mancava fra le leggi. Nel paese erano stati in
grado di fissare in eterno quasi tutto, fermare tutti i movimenti, far ristagnare
tutte le correnti; duecento milioni di persone sapevano stare al proprio posto,
solo i giovani dei kolchoz sfuggivano. Era alquanto strano, dunque, che le
attività dei kolchoz, nel concreto, andassero bene, come risultava dai film e dai
romanzi, e lo stesso Stalin se ne rendeva conto parlando con i kolchoziani ai
presidium di riunioni e congressi. Tuttavia, statista sagace e sempre autocritico,
Stalin si costringeva a guardare ancora più a fondo. Uno dei segretari dei
comitati regionali (in seguito dovevano averlo fucilato) gli aveva rivelato che
c’era una pecca: nei kolchoz a lavorare con sollecitudine erano i vecchi e le
vecchie iscritti dal 1930, mentre una parte irresponsabile di giovani, non appena
terminata la scuola, cercava di ottenere con l’inganno i documenti per
svignarsela in città. Stalin aveva sentito quella cosa e un tarlo aveva cominciato
a rodergli dentro.
L’istruzione!... Che pasticcio era venuto fuori con quelle scuole obbligatorie
di sette anni e dieci anni, con i figli delle cuoche che andavano all’università! Lo
aveva combinato Lenin, che aveva fatto promesse senza la dovuta cautela, e ora
quelle pesavano sulla schiena di Stalin come una gobba storta e incurabile.
Ogni cuoca doveva essere in grado di dirigere lo Stato!... Ma come si
immaginava la cosa in concreto? Il venerdì poteva non cucinare per recarsi alla
riunione del Comitato esecutivo regionale? Una cuoca, in quanto tale, quello fa,
cucina il pranzo. Per dirigere la gente ci vuole grande abilità, è un compito che
si può affidare soltanto a quadri speciali, quadri selezionati con cura, temprati,
disciplinati. E la direzione di quei quadri può essere solamente nelle mani di
una persona, le mani esperte del Capo.
Era necessario stabilire nello statuto delle cooperative agricole che, come la
terra apparteneva loro in eterno, così anche chiunque fosse nato in un dato
villaggio sarebbe stato iscritto automaticamente al kolchoz dal giorno della sua
nascita. Bisognava formalizzarlo come un privilegio. Subito una campagna di
propaganda: “Un nuovo passo verso il comunismo”, “I giovani eredi del
granaio dei kolchoz”... Insomma, gli scrittori avrebbero trovato le frasi giuste.
E i nostri sostenitori in Occidente?
E chi bisognava far lavorare nei kolchoz?
No, qualcosa non andava nelle idee sul lavoro. Non venivano come
dovevano.
Si udirono quattro leggeri colpi alla porta, non dei veri colpi, dei morbidi
sfioramenti, come se un cane vi si stesse grattando contro.
Stalin girò la manopola per l’apertura a distanza che si trovava vicino
all’ottomana, la sicura scattò e la porta si socchiuse. Non essendo protetta da
un tendaggio (a Stalin non piacevano cortine, pieghe, tutto ciò dietro cui ci si
potesse nascondere), si vide la porta nuda aperta quel tanto che bastava a far
passare un cane. Ma ad affacciarsi non nella parte inferiore bensì in quella
superiore fu la testa di Poskrëbyšev, che ancora giovane era già calvo, con una
perenne espressione di sincera fedeltà e piena disponibilità sul viso.
In ansia per il Padrone, Poskrëbyšev lo vide sdraiato e coperto per metà
dallo scialle di cammello, eppure non chiese notizie sulla sua salute (Stalin
detestava simili domande), e quasi in un bisbiglio disse:
– Ës’ Sarionyč45! Oggi ha convocato Abakumov per le due e mezzo.
Pensava di riceverlo? Sì o no?
Iosif Vissarionovič sganciò la patta della tasca superiore della giubba ed
estrasse l’orologio tirandolo fuori per la catenina (come tutte le persone dei
tempi passati detestava gli orologi da polso).
Non erano ancora le due del mattino.
Un grumo pesante gli si era piazzato sullo stomaco. Non aveva voglia di
alzarsi e di cambiarsi. Ma non poteva nemmeno lasciare libero qualcuno:
appena allenti la presa, quelli se ne accorgono.
– Ve-edremo– rispose stancamente Stalin, battendo le palpebre. – Non so.
– Ma sì, che venga pure. Aspetterà! – confermò Poskrëbyšev, e annuì in
modo esagerato almeno tre volte. Poi si bloccò di nuovo, guardando con
attenzione il Padrone: – Altre disposizioni, Ë-Sarionyč?
Stalin fissò Poskrëbyšev con sguardo apatico, abulico, e non gli venne in
mente nessuna disposizione da dargli. Tuttavia alla domanda di Poskrëbyšev
nella sua memoria non più impeccabile si accese all’improvviso una scintilla, e
fece a sua volta una domanda che voleva porgli da tempo e di cui si era
dimenticato:
– Senti, come vanno i cipressi in Crimea? Li tagliano?
– Li tagliano! Li tagliano! – annuì Poskrëbyšev, in tono deciso, quasi si
aspettasse la domanda e avesse appena telefonato in Crimea per averne
conferma. – Intorno a Massandra e a Livadia ne hanno già abbattuti molti, Ë-
Sarionyč!
– Esigi comunque un bollettino. Con le cifre. Nessun sabotaggio? – Gli
occhi gialli malsani dell’Onnipotente erano preoccupati.
Quell’anno un medico gli aveva detto che i cipressi erano dannosi per la sua
salute, era indispensabile che l’aria fosse impregnata di eucalipto. E dunque
Stalin aveva ordinato di abbattere i cipressi della Crimea e inviato qualcuno in
Australia in cerca di giovani eucalipti.
Poskrëbyšev promise con fare sollecito e si offrì di scoprire a che punto
fossero gli eucalipti.
– Va bene – pronunciò Stalin, con soddisfazione. – Ora vai, Saša.
Poskrëbyšev annuì e cominciò a indietreggiare, poi annuì di nuovo, ritrasse
per ultima la testa e chiuse bene la porta. Iosif Vissarionovič usò di nuovo il
comando a distanza e, tenendo fermo lo scialle, si girò sull’altro fianco.
Quindi riprese a sfogliare la sua Biografia.
Ma infiacchito per essere rimasto a lungo sdraiato, per i brividi e per
l’indigestione, senza volerlo si abbandonò a una schiera di pensieri deprimenti.
Non gli si parava dinnanzi l’abbagliante successo finale della sua politica ma
quanto era stato sfortunato nella vita, e quanti ostacoli e nemici, un numero
ingiustamente alto, il destino gli aveva messo davanti.