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Anaïs Nin

LA CASA
DELL‟INCESTO
Titolo dell‟opera originale “HOUSE OF INCEST”

Copyright © 1958 By Anaïs Nin


Copyright © 1968 By the Anaïs Nin Trust
All rights reserved by arrangement with Gunther Stuhlmann,
author‟s representative

Traduzione dall‟inglese di Maria Caronia

Copyright © 1986 SE Studio Editoriale


Pubblicato su licenza temporanea di SE Studio Editoriale

Feltrinelli, Milano 1992


LA CASA DELL‟INCESTO

“All that I know is contained in


this book written without witness,
an edifice without dimension, a city
hanging in the sky.”

“Tutto quello che so è contenuto in


questo libro scritto senza testimoni,
un edificio senza dimensioni, una
città appesa al cielo.”
Il mattino che mi alzai per iniziare questo libro, tossii. Qualcosa
veniva fuori dalla mia gola, mi strangolava. Spezzai il filo che la te-
neva e la buttai via. Tornai a letto e dissi: ho sputato il mio cuore.
La quena è uno strumento fatto di ossa umane. Deve la sua origine
al culto di un indio per la sua amante. Quando la donna morì, con le
sue ossa lui costruì un flauto. La quena ha un suono più penetrante,
più ossessionante del flauto comune.
Coloro che scrivono conoscono il procedimento. Pensavo a questo
mentre sputavo il mio cuore.
Solo che io non aspetto che il mio amore muoia.

La prima volta che la vidi, la terra era velata dall‟acqua. Appar-


tengo a quella razza di uomini e di donne che vedono le cose solo at-
traverso il velo del mare, e i miei occhi hanno il colore dell‟acqua.
Guardai con occhi di camaleonte la mutevole faccia del mondo,
con sguardo anonimo guardai dentro il mio io incompleto.
Ricordo la mia prima nascita nell‟acqua. Intorno a me una traspa-
renza sulfurea e le mie ossa si flettono come se fossero di gomma.
Oscillo e ondeggio, su alluci privi di ossa, protesa a cogliere suoni
lontani, suoni che orecchie umane non percepiscono, a vedere cose
che occhi umani non scorgono. Nata con la memoria delle campane
di Atlantide. Sempre in ascolto di suoni perduti e alla ricerca di per-
duti colori, sempre protesa sulla soglia come chi è angosciato dai ri-
cordi, cammino nuotando. Fendo l‟aria con ampie pinne e nuoto at-
traverso stanze senza pareti. Espulsa da un paradiso di silenzio, cat-
tedrali ondeggiano al passaggio di un corpo, come musica senza suo-
no.
Questa Atlantide si può ritrovarla soltanto di notte, lungo la strada
del sogno. Non appena il sonno ricopre la rigida città nuova, la rigi-
dità del nuovo mondo, i più massicci portali si schiudono su gong
bene oliati e si entra nel mutismo del sogno. Il terrore e il godimento
di delitti compiuti in silenzio, nel silenzio di slittamenti e sfioramen-
ti. La distesa dell‟acqua ricopre le cose soffocando ogni voce. Soltan-
to un mostro per caso mi trasportò in alto, alla superficie.
Perduta nei colori di Atlantide, i colori si sciolgono l‟uno dentro
l‟altro senza delimitazioni. Pesci di velluto, di organza, con denti di
merletto, pesci di taffetà luccicanti, di seta e piume e lanugine, fian-
chi di lacca e occhi cristallo di rocca, pesci dalle squame inaridite e
occhi di uvaspina, occhi di albume. Fiori che palpitano sullo stelo
come cuori marini. Non avvertono il proprio peso, il cavalluccio ma-
rino si muove come una piuma...
Una sonnolenza. Amavo la facilità, la cecità e la soavità del viag-
giare sull‟acqua che mi trasportava oltre gli ostacoli. L‟acqua era lì a
trasportarti come un enorme ventre; c‟era sempre acqua su cui ripo-
sare e l‟acqua trasmetteva le vite e gli amori, le parole e i pensieri.
Dormii molto al di sotto del livello della tempesta. Mi muovevo
nel calore e nella musica come dentro a un diamante marino. Nessu-
na corrente di pensieri, solo la carezza del flusso e del desiderio che
si amalgamano, si toccano, si spostano, si ritraggono, vagano - infini-
ti fondi di pace.
Non ricordo di aver avuto freddo o caldo laggiù. Di aver sofferto
il freddo o il caldo. La temperatura del sonno, senza febbre né gelo.
Non ricordo di avere avuto fame. Il cibo filtrava attraverso pori invi-
sibili. Non ricordo di avere pianto.
Sentivo solo la carezza del movimento - movimento nel corpo di
un altro - assorbita e perduta nella carne di un altro, cullata dal ritmo
dell‟acqua, il palpitare lento dei sensi, il muoversi della seta.
Amare senza coscienza, muoversi senza sforzo nello scorrere
morbido dell‟acqua e del desiderio, respirare in un‟estasi di dissol-
vimento.
Mi svegliai all‟alba, riversa su uno scoglio, scheletro di una nave
soffocata dalle sue stesse vele.

La notte mi avvolgeva, una fotografia staccata dalla cornice. La


fodera di un mantello lacerata nel mezzo come le due valve di
un‟ostrica. Il giorno e la notte, scollati, e io cadevo in mezzo, senza
sapere su quale strato riposavo, se fosse l‟alta, fredda e grigia foglia
dell‟alba, o l‟oscuro strato della notte.
Il viso di Sabina era sospeso nell‟oscurità del giardino. Dagli oc-
chi un vento di simun raggrinziva le foglie e sollevava la terra, tutto
ciò che prima aveva avuto un andamento verticale girava ora in ton-
do, attorno al viso, attorno al suo viso. Lei contemplava con uno
sguardo antico i pesanti secoli rigogliosi tremolare in profonde pro-
cessioni. Dalla sua pelle di madreperla si levavano spirali di profu-
mo, come incenso. Ogni suo gesto accelerava il ritmo del sangue e
risvegliava un canto ritmico come il pulsare di un cuore nel deserto,
un canto che era il suono dei suoi piedi che calpestavano, nel sangue,
l‟impronta del suo volto.
Una voce che aveva attraversato i secoli, così profonda da spezza-
re ciò che toccava, così profonda da farmi temere che avrebbe risona-
to eternamente dentro di me, una voce scolorita dal suono delle im-
precazioni e dalle grida rauche che scaturiscono dal delta nel parossi-
smo estremo dell‟orgasmo.
Il mantello nero pendeva come capelli neri dalle sue spalle, per
metà drappeggiato e per metà fluttuante attorno al suo corpo. Il tessu-
to del suo abito si muoveva sempre un momento prima che lei si
muovesse, quasi consapevole dei suoi impulsi, e ondeggiava ancora a
lungo dopo che lei si era arrestata, come onde che rifluiscono verso il
mare. Le maniche scivolavano giù come un sospiro e la bordura della
veste danzava intorno ai suoi piedi.
La collana di acciaio lampeggiava intorno alla sua gola come ba-
gliori estivi e l‟acciaio risuonava come il metallo della spada... “Le
pas d’acier...” L‟acciaio dello scheletro di New York sepolto nel
granito, sepolto ma eretto. “Le pas d’acier...” note martellano sulle
chitarre dalle corde di acciaio delle zingare, sui braccioli di acciaio
delle sedie appannati dal suo respiro, cortine di maglia d‟acciaio pre-
cipitano come fiotti di grandine, sbarre di acciaio e sbarramenti di
acciaio si schiantano. La sua collana stretta intorno al collo del mon-
do, non si fonde. La portava come un trofeo strappato a un macchina-
rio gemente, da accordare al ritmo inumano del suo andare.
Come foglie che cadono le sue parole, come vetri dipinti le grada-
zioni del suo umore, la raucedine nella sua voce, il fumo nella sua
bocca, il suo respiro sul mio sguardo come respiro umano che offu-
schi uno specchio.
Chiacchiere, chiacchiericci, frasi lasciate a mezzo, astrazioni,
campanelli cinesi suonati con bastoncini ricoperti di ovatta, falsi fiori
d‟arancio dipinti su porcellana. I soffocati, segreti chiacchiericci di
donne dal tenero corpo. Gli uomini che ha abbracciato, e le donne, si
confondono nella risonanza della mia memoria. Suono dentro suono,
scena dentro scena, donna dentro donna - come un acido che riveli
una scrittura invisibile. Una donna dentro l‟altra, alla fine, in una
processione che si spinge lontano, che frantuma la mia mente in
quarti di tono che nessun direttore d‟orchestra potrà mai più ricom-
porre.
La maschera luminosa del suo volto, cereo, immobile, dagli occhi
come sentinelle. Fissa il mio incedere sibaritico, e io il sibilare della
sua lingua. Affondate l‟una nell‟altra volgemmo altrove i nostri occhi
da puttana. A Bisanzio era un idolo, un idolo che danzava a gambe
larghe, e io scrivevo con polline e miele. Con parole di bronzo ho in-
ciso nel cervello degli uomini il tenero segreto abbandono di donna,
ho tatuato sui loro occhi quell‟immagine. Li consumava la febbre dei
loro visceri, l‟indissolubile veleno delle leggende. Se il torrente era
incapace di inghiottirli, oppure se riuscivano a trarsi in salvo, io os-
sessionavo la loro memoria con racconti che volevano dimenticare.
Tutto ciò che è rapido o maligno in una donna può essere distrutto
spietatamente, ma chi può distruggere l‟illusione con cui mettevo lei
a giacere ogni notte? Vivevamo a Bisanzio. Sabina e io, fino a che i
nostri cuori sanguinarono dalle pietre preziose che portavamo sulla
fronte, fino a che i nostri corpi furono sopraffatti dal peso dei brocca-
ti e le narici arse dal fumigare dei profumi; e quando fummo passate
in altri secoli, ci racchiusero in cornici di rame. Gli uomini l‟hanno
sempre riconosciuta: lo stesso viso splendente, la stessa voce arrochi-
ta. E noi due ci riconoscemmo l‟un l‟altra: io il suo viso e lei la mia
leggenda.
Mi mise al polso un braccialetto piatto di acciaio e il polso comin-
ciò a battere come lei voleva, perdendo il suo ritmo umano, pulsando
quasi in un selvaggio parossismo orgiastico. Il lamento dei flauti, il
doppio canto del vento attraverso le nostre ossa sottili, lo spezzarsi
delle nostre ossa ci rammentava a distanza quando, su letti di piuma,
il culto che ispiravamo diventava lussuria.
Camminavamo mentre razzi scoppiavano dai lampioni delle stra-
de, inghiottivamo la strada asfaltata con un ruggito da giungla e le
case con i loro occhi chiusi e le ciglia di geranio; inghiottivamo i pali
telegrafici vibranti di messaggi, inghiottivamo gatti randagi, alberi,
colline, siepi, il sorriso labirintico di Sabina sul buco della serratura.
La porta cigolava, si apriva. Il suo sorriso si chiudeva. Un usignolo
sfogliava un caprifoglio di miele. Nutrito di miele. Dita di flauto. La
casa spalancava il cancello verde, la sua bocca, e ci inghiottiva. Il let-
to galleggiava.
Il disco era graffiato, la nenia interrotta. I frammenti ci ferirono i
piedi. Albeggiava e lei era perduta. Rimisi le case sulla strada, alli-
neai i pali telegrafici lungo il fiume e i gatti randagi ripresero a spic-
car balzi sulla strada. Rimisi a posto le colline. La strada sgorgò dalla
mia bocca come un nastro di velluto - era stesa lì come un serpente.
Le case aprirono gli occhi. Il buco della serratura si curvò ironica-
mente, come un punto di domanda. Bocca di donna.
Trasportavo i suoi feticci, le sue marionette, le sue carte da chiro-
mante consunte agli angoli come la cresta di un‟onda. Le finestre
della città erano macchiate e scheggiate di luce di pioggia e del san-
gue che mi spillava con ogni menzogna, con ogni inganno. Sotto la
pelle delle sue gote vedevo ceneri: sarebbe morta prima che ci fossi-
mo congiunte in un perfido connubio? Gli occhi, le mani, i sensi che
le donne soltanto posseggono.
Non ci si schernisce tra donne. Ci si distende tranquillamente co-
me sul proprio stesso seno.
Sabina non abbracciava più uomini e donne. Dentro alla febbre
della sua irrequietezza il mondo perdeva la sua forma umana. Lei an-
dava perdendo la umana capacità di adattare il corpo al corpo in
umana completezza. Delimitava orizzonti, sprofondando in pianeti
senza asse, perdeva la sua polarità e la divina conoscenza
dell‟integrazione, della fusione. Si dispiegava come la notte
sull‟universo e non trovava un dio con cui giacere. L‟altra metà ap-
parteneva al sole, e lei era in guerra con il sole, e con la luce. Non
tollerava strisce di luce sui libri aperti né orchestrazioni di idee tessu-
te su un singolo tema; non si lasciava coprire dal sole, a cui pure ap-
parteneva metà dell‟universo; volgeva la sua schiena serpentina a
quell‟unica cosa che poteva ricoprire d‟ombra la sua alta statura dan-
dole la gioia della fecondazione.
Vieni via con me, Sabina, vieni nella mia isola. Vieni nella mia
isola di peperoni rossi che sfrigolano su lenti braseros, di giare mo-
resche che raccolgono l‟acqua dorata, di palmizi, di gatti selvatici in
lotta, all‟alba l‟asino singhiozza, i piedi su scogliere di corallo e
anemoni di mare, il corpo ricoperto da lunghe alghe, le chiome di
Melisande spioventi sulla balconata dell‟Opera Comique, inesorabile
diamante è la luce del sole e snervate sono le pesanti ore nell‟ombra
violacea, e rocce color cenere e alberi di ulivo, limoni pendono dagli
alberi come le lanterne di una festa in giardino, e germogli di bambù
fremono per sempre, le espadrillas risuonano soffici, i melograni
spandono sangue, il canto moresco degli aratori, come il suono di un
flauto, lungo e persistente, che grida, impreca, grida e maledice, fa-
cendo gocciolare il sudore sulla terra assieme alla semente.
La tua bellezza mi sommerge, sommerge il mio fulcro. Quando la
tua bellezza m‟incendia mi dissolvo come mai mi sono dissolta da-
vanti a un uomo. Ero diversa da tutti gli uomini, e da me stessa, ma
in te vedo quella parte di me che sei tu. Ti sento dentro di me, sento
rapprendersi la mia voce come se ti bevessi, ogni delicato filo di ras-
somiglianza saldato a fuoco così che non se ne possa più scorgere la
fenditura.
Le tue menzogne non sono menzogne, Sabina. Sono frecce sca-
gliate dalla tua orbita con la forza della tua fantasia. Ad alimentare
illusioni. A distruggere realtà. Ti aiuterò: sarò io a inventare menzo-
gne per te e con esse attraverseremo il mondo.
Ma dietro le nostre menzogne lascio srotolare il filo d‟oro
d‟Arianna perché il godimento più grande è quello di ripercorrere le
proprie menzogne, di tornare all‟origine e dormire, una notte
all‟anno, purificati da ogni sovrastruttura.
Sabina, hai segnato il mondo con la tua impronta. Come un fanta-
sma io l‟ho attraversato. Chi si accorge del gufo sull‟albero, di notte,
del pipistrello che sbatte contro i vetri delle finestre mentre gli altri
parlano, degli occhi che rispecchiano come acqua e sono come carta
asciugante, della compassione che tremola quietamente come luce di
candela e della comprensione su cui la gente si distende a dormire?
QUALCUNO SA CHI SONO?

Persino la mia voce proviene da altri mondi. Sono stata imbalsa-


mata nelle mie segrete vertigini. Sono stata sospesa sopra il mondo a
guardare quale strada avrei potuto tracciare senza calpestare argilla e
erba. Il mio passo era attento, persino il crepitio della ghiaia poteva
interrompere il mio andare.
Quando ti ho vista, Sabina, ho scelto il mio corpo.
Lascerò che tu mi porti nella fecondità della distruzione. Scelsi un
corpo allora, un viso, una voce. Io divento te. E tu diventi me. Metti a
tacere lo straordinario corso del tuo corpo e potrai vedere in me, in-
tatte, le tue paure, le tue pene. Potrai vedere l‟amore che era stato
escluso dalle passioni che destava e io potrò vedere le passioni esclu-
se dall‟amore. Distaccati dalla tua immagine e riposati nel centro dei
tuoi veri desideri. Interrompi per un attimo il tuo deviare violento.
Allenta la furiosa indomabile tensione.
Prenderò tutto su di me.
Smetti di tremare e di agitarti e di affannarti e di imprecare e ri-
trova il tuo centro che sono io. Riposati da deviazioni, distorsioni,
deformazioni. Per un‟ora sarai me, cioè l‟altra parte di te. La metà
che hai perduto. Ciò che hai bruciato, spezzato e strappato è ancora
nelle mie mani: io sono la custode di fragili cose e di te ho custodito
ciò che è indissolubile.
Né il mondo né il sole possono mostrare allo stesso tempo le loro
due facce.
Così adesso siamo inestricabilmente allacciate. Ho messo insieme
tutti i frammenti. Te li restituisco. Sei corsa come il vento, ti sei
sparpagliata e disciolta. Io ti sono corsa dietro come la tua ombra
raccogliendo quello che avevi sparso in capaci forzieri.

IO SONO L‟ALTRA FACCIA DI TE

I nostri visi sono stati saldati insieme da capelli soffici e, saldati,


mostrano due profili della stessa anima. Persino quando, come un
soffio, passo attraverso una stanza, metto gli altri a disagio e sanno
così che io sono passata.
Ero la fiamma bianca del tuo respiro, il tuo respiro di simun che
prosciuga il mondo. Mi hai prestato la tua evidenza e grazie a te ho
lasciato la mia impronta sul mondo. In te adoravo la mia stessa
fiamma.

QUESTO È IL LIBRO CHE TU HAI SCRITTO


E TU SEI LA DONNA CHE
IO SONO

I nostri volti soltanto devono risplendere doppiamente - come il


giorno e la notte - separati in eterno dallo spazio e dalle evoluzioni
del tempo.
Il fumo sospinse la mia testa fino al soffitto; lì pendeva guardando
in basso occhi di rana, capelli di paglia, una bocca di cuoio consunto,
specchi di teste calve, mani di pelo di scimmia dalle palme color pro-
sciutto. A frustate la musica spingeva il passato fuori dalla sua tomba
e mummie flagellavano la mia memoria.
Se Sabina fosse adesso soltanto un ricordo, se restassi qui e lei
dovesse non giungere mai! Se potessi immaginarla anche una notte
soltanto grazie alle sottili incisioni della droga che dispone gli strati
del mio corpo su seriche amache persiane e delicatamente sfiora col
cotone i nervi più sottili e insinua le frecce al radio della fantasia
dentro la carne...
Sto gelando e la mia testa precipita attraverso un velo sottile di
fumo. Di nuovo alla ricerca di Sabina con angoscia profonda tra la
folla senza volto.
Mi tormenta la pervicacia delle immagini che si riflettono in spec-
chi spezzati. Sono una donna con occhi da gatto siamese che sorrido-
no sempre dietro alle parole più gravi, beffandosi della mia stessa in-
tensità. Sorrido perché sento l‟ALTRO e credo nell‟ ALTRO. Sono una
marionetta manovrata da dita inesperte, lacerata, dissonante, disarti-
colata; un braccio morto, l‟altro, rapsodico, a mezz‟aria. Rido, non
quando tutto questo si adatta al mio parlare, ma quando si adatta al
fluire nascosto del mio parlare. Voglio conoscere quello che scorre al
di sotto, dove amari trasalimenti segnano la punteggiatura. Le due
correnti non s‟incontrano. Vedo in me due donne bizzarramente uni-
te, come gemelli siamesi. Le vedo strapparsi l‟una dall‟altra. Posso
udire lo strappo, rabbia e amore, passione e pietà. E quando il distac-
co si è improvvisamente compiuto - o quando non ne colgo più il
suono - allora il silenzio è ancora più terribile perché c‟è solo follia
intorno a me, la follia delle cose strappate, che si strappano dal di
dentro, radici che si lacerano a vicenda per crescere separatamente,
lo sforzo compiuto per conseguire l‟unità.
Basta una battuta di musica per acquietare lo strappo per un atti-
mo, ma ecco ritorna il sorriso e so che noi due abbiamo di un balzo
superato la coesione.
Il grigiore non è un grigiore comune, ma un ampio tetto di piombo
che copre il mondo come il coperchio di una pentola. Il respiro degli
uomini somiglia al vapore di una lavanderia. Il fumo delle sigarette è
pioggia di cenere dal Vesuvio. Le luci sanno di zolfo e ogni volto vi
fissa con l‟immensità dei suoi difetti. Una stanza è stretta come una
gabbia di ferro in cui non ci si siede né si giace. Le altre stanze sono
vaste come il pericolo mortale sempre sospeso sulla testa, pronto a
cogliere il momento della gioia per abbattersi. Riso e pianto non sono
esperienze separate da intervalli di pace: prorompono insieme ed è
come camminare con una spada tra le gambe. La pioggia non soltan-
to bagna i capelli ma gocciola nelle cellule cerebrali con la pervicacia
di un‟infiltrazione. La neve non raggela soltanto le mani ma come
l‟etere dilata i polmoni fino a farli scoppiare. Le navi affondano col
fuoco nelle viscere e ci sono fuochi crepitanti nelle cantine di ogni
casa. La carne bianchissima dell‟amata verrà tagliata da vetri rotti e
schiacciata da ruote. I lunghi ululati notturni sono ululati di morte. La
notte collabora con i torturatori. Il giorno è luce su esperienze stra-
zianti. Un cane che abbaia è un uomo che ama essere sfregiato men-
tre salta dalla finestra. La risata precede l‟isteria. Io attendo il tonfo
pesante e la bava alla bocca.
Una stanza con un soffitto che mi minaccia come forbici divarica-
te. Mansarda con finestre. Giaccio su un letto ghiaioso. Tutti i colle-
gamenti sono spezzati.
Lentamente mi separo da ogni essere che amo, lentamente, cauta-
mente, completamente. Dico quel che devo loro e quel che loro de-
vono a me. Colgo i loro ultimi sguardi e l‟ultimo orgasmo. La mia
casa è vuota, vetrificata dal sole, riflessivamente viva, la sua immobi-
lità raccoglie implicazioni, immagini segrete che un giorno mi faran-
no impazzire, quando starò davanti a bianche pareti, ascoltando trop-
po e vedendo più di quanto sia umanamente sopportabile. Mi separo
da tutti loro. Muoio in una stanzuccia dalla volta a forbice, spossessa-
ta dei miei amori e dei miei averi, neppure nominata nel registro
dell‟albergo. Eppure so che se rimanessi in questa stanza pochi giorni
ancora potrebbe iniziare una vita assolutamente nuova, come il ri-
marginarsi della carne dopo un‟operazione. È il terrore di questa
nuova vita, più che il terrore della morte, che mi risveglia. Balzo giù
dal letto e fuggo da questa stanza che si allarga intorno a me come
una ragnatela velenosa, si impadronisce della mia immaginazione e
corrode la mia memoria al punto che in sette attimi avrò dimenticato
chi sono e chi ho amato.
Era la stanza numero 35, dove il mattino seguente avrei potuto
svegliarmi pazza o puttana.
Il desiderio che aveva irrigidito i nervi si spezzò, e ogni nervo
sembrò spezzarsi separatamente, incessantemente, producendo inci-
sioni, e l‟acido fluì al posto del sangue. Avvizzivo dentro la mia stes-
sa vita, in cerca di una strada libera in cui portare il pianto liquefatto,
mescolare la sofferenza in un calderone di parole a cui tutti potevano
attingere, tutti coloro che cercavano parole per dire il loro dolore.
Rimesto adesso un calderone enorme, con enormi bocconi di acido
adesso nutro gli altri, parole così amare da bruciare ogni amarezza.
Spaccate la scura crosta terrestre e tutto il mare si solleverà, ane-
moni di mare galleggeranno sul mio letto e navi morte concluderan-
no il loro viaggio nel mio giardino. Esorcizzate i demoni che battono
le ore sulla mia testa, di notte, quando ogni conteggio dovrebbe esse-
re sospeso; battono perché sanno che in sogno li derubo di secoli. E
questo va conteggiato come un‟ora contro di me.
Ho udito i liuti portati dall‟Arabia e ho sentito nel mio seno cor-
renti di fuoco liquido che scorrono per le stanze dell‟Alhambra e mi
rinfrescano da acque troppo limpide.
Il dolore troppo limpido dell‟amore diviso, amore diviso...
Su una nave di zaffiro veleggiavo per mari di corallo. Stavo a prua
e cantavo. Il mio canto gonfiava le vele e le lacerava; dove erano sta-
te strappate i lembi erano bruciati e la mia voce smembrava persino
le nuvole.
Ho visto una città in cui le case si ergevano su scogli in mezzo a
neri mari colmi di serpenti purpurei che sibilavano allarmi, leccavano
gli scogli e si affacciavano dal muro del giardino con occhi a bulbo.
Ho visto un palmizio di vetro oscillare davanti ai miei occhi; nella
mia isola i palmizi erano immobili e polverosi quando li vedevo mo-
rire di dolore. Le foglie verdi avvizzivano davanti a me e tutti gli al-
beri sembravano vetrosamente insensibili, mentre una foglia nuova
spuntava sulla più alta cima del palmizio di vetro, all‟apice della sua
chioma.
Il sentiero bianco sorgeva dal cuore della casa bianca e lo bordeg-
giavano ispidi cactus dalle lunghe dita pelose, saldi nel vento, senza
età. Sui cactus senza età tremolavano germogli di bambù, stretti
l‟uno all‟altro, perennemente increspati dal vento.
La casa aveva la forma di un uovo, era tappezzata di ovatta e priva
di finestre; si dormiva nella piuma e attraverso il guscio si udivano
l‟organetto e il venditore di mele che non riusciva a trovare il cam-
panello.
Immagini - a portare il dissolvimento dell‟animo nel corpo come
dirompe l‟acido dolce dell‟orgasmo. Immagini a far scorrere il san-
gue avanti e indietro e l‟attenzione della mente a evitare estasi peri-
colose era ormai inutile. Annegata la realtà, le fantasie asfissiavano
ogni ora del giorno.
Niente sembra più vero oggi se non la morte del pesce d‟oro che
nella vasca faceva all‟amore a novanta chilometri orari. La domestica
gli ha dato una sepoltura cristiana. Ai vermi! Ai vermi!

Di nuovo galleggio. Tutti i fatti e le parole, tutte le immagini e i


presagi dilagano sopra di me, facendosi beffe l‟uno dell‟altro. Il so-
gno! Il sogno! Risuona attraverso il mio corpo come un‟enorme
campana di bronzo, il sogno, quando voglio tradirlo. Mi sfiora con
ali di pipistrello quando apro occhi umani e tento di vivere senza so-
gni. Quando l‟umano dolore mi ha colpita con violenza, quando l‟ira
mi ha divorata, mi alzo, sempre mi alzo dopo la crocifissione, e pro-
vo il terrore della mia ascensione. LA CREPA NELLA REALTÀ. La divi-
na partenza. Cado. Cado nel buio dopo lo scontro con il dolore, e do-
po il dolore la divina partenza.
Oh, il peso, il peso tremendo della mia testa spinta in alto dalle
nubi e oscillante nello spazio, il corpo come un fuscello di paglia, le
nuvole trascinano i miei capelli come uno scialle impigliato nelle
ruote di un carro, il corpo fluttuante si scontra con le stelle lanterne, e
le nuvole mi trascinano sopra il mondo.
Non posso fermarmi, né discendere.
Odo il dispiegarsi dell‟acqua, dei cieli, delle cortine. Odo lo stor-
mire delle foglie, il respiro dell‟aria, il gemito di chi non è ancora na-
to, la pressione del vento.
Odo i movimenti delle stelle e dei pianeti, la ruggine lieve scric-
chiola quando mutano posizione. Il passaggio serico delle radiazioni,
il respiro dei cerchi che ruotano.
Odo passare i misteri e respirare i mostri. Sovratoni o sottotoni,
soltanto. Lo scontro con la realtà mi offusca la vista e mi sommerge
nel sogno. Sento la distanza come una ferita. Si srotola davanti a me
come un tappeto sui gradini di una cattedrale il giorno di uno sposa-
lizio o di un funerale. Si srotola come il velo cremisi di una sposa tra
me e gli altri, ma non posso camminarci sopra senza sentirmi a disa-
gio, come durante una cerimonia. La cerimonia del camminare su
una passatoia srotolata fin dentro la cattedrale dove si svolge una
funzione a cui io sono estranea. Non mi sposo né muoio. E sempre
più aumenta la distanza tra la folla, tra gli altri e me.
La distanza. Non ho mai camminato sulla passatoia fin dentro alle
cerimonie. Fin dentro alla pienezza della vita della folla, fin dentro
alla musica autentica e all‟odore degli uomini. Non ho mai partecipa-
to a uno sposalizio né a un funerale. A me è tutto accaduto in un
campanile dove ero sola con l‟assordante suono di campane dalle vo-
ci di metallo o nella cantina dove rosicchiavo candele e incenso sti-
pati in un canto insieme ai topi.
Non sono certa di fatti né di luoghi, soltanto della mia solitudine.
Dimmi cosa dicono le stelle di me. Gli occhi di Saturno sono cipolle
che piangono incessantemente? E Mercurio ha penne di pollo sui tal-
loni, e Marte porta una maschera antigas? E i Gemelli, i gemelli evo-
luti, continuano a evolversi, ruotando su uno sputo, Gemelli “à la
broche”?
C‟è una crepa nella mia visione e la follia l‟attraverserà sempre.
Chinati su di me, al capezzale della mia follia, e lasciami in piedi
senza grucce.
Sono una donna pazza a cui le case ammiccano e spalancano il
ventre. Significati mi fissano da ogni parte come giganteschi fanta-
smi sottesi. Significati emergono da vicoli malsani e da volti cupi, si
affacciano dalle finestre di strane case. Tento continuamente di rico-
struire il modello di qualcosa perduto per sempre e che non posso
dimenticare. Colgo gli odori del passato in ogni angolo di strada e
sono consapevole degli uomini che nasceranno domani. Dietro le fi-
nestre ci sono nemici e fedeli. Né neutralità né passività, mai. Sem-
pre intenzione e premeditazione. Persino le pietre hanno per me
espressioni druidiche.
Cammino davanti a me stessa nell‟eterna attesa del miracolo.
Sono irretita nelle mie menzogne e voglio essere assolta. Non
posso dire la verità perché ho sentito teste di uomini nel mio grembo.
La verità sarebbe uno scambio mortale e io preferisco i racconti di
fate. Sono avviluppata da menzogne che non penetrano nella mia
anima. Come se le mie menzogne fossero abiti fantastici. Il guscio
del mistero può rompersi e ricostruirsi durante la notte. Ma appena
entro nella caverna delle mie menzogne precipito nell‟oscurità. Vedo
un volto che mi fissa con uno sguardo strabico.
Ricordo il freddo sulla gelida ammoniaca di Giove e i cristalli di
ammonio trasformarsi in angeli. Fasce di ammonio e metano circon-
dano Urano. Ricordo le bufere di metano infiammabile su Saturno.
Di Marte ricordo una vegetazione di ciuffi d‟erba, come in Perù o in
Patagonia, rosso ocra, una vegetazione di minerali rugginosi, muschi
e licheni. Il ferro intride argilla e sabbia rossa. La luce lì ha un suono
e la luce del sole è un‟orchestra.

Occhi dilatati, profilo aristocratico, bocca volitiva. Jeanne vestita


di pelliccia, con ciglia di pelliccia, cammina a testa alta, il naso al
vento, gli occhi alle stelle, cammina imperiosa, trascinando la gamba
zoppa. Gli occhi più in alto di quelli degli altri, la gamba storpia die-
tro l‟alta figura, inerte come la palla incatenata di un prigioniero.
Prigioniera sulla terra, contro la sua volontà di morire.
Trascina la gamba per sentirsi attaccata alla terra, una pesante
gamba morta che si porta dietro come un prigioniero le sue catene.
Le sue dita pallide, tese nervosamente, torturano la chitarra, tor-
mentano e torcono le corde, per timidezza, mentre canta con la sua
voce bassa; e dietro al canto la sua sete, la sua fame, le sue paure.
Accorda la chitarra, stringendo la chiave con violenza, una corda si
spezza, gli occhi le si riempiono di terrore come se si fosse spezzato
il suo universo.
Canta e ride: amo mio fratello.
Amo mio fratello. Voglio crociate e martirio. Il mondo è troppo
piccolo.
Lacrime salate di sconfitta si cristallizzano agli angoli dei suoi oc-
chi inquieti.
Ma io non piango mai.
Sollevò uno specchio e si guardò con amore.
Narciso che si contempla in specchi di Lanvin. I Quattro Cavalieri
dell‟Apocalisse cavalcano nel Bois. La tragedia rotola su pneumatici
di velluto.
Il mondo è troppo piccolo. Sono stanca di suonare la chitarra, di
lavorare a maglia, di camminare e allevare bambini. Gli uomini sono
piccoli e le passioni durano poco. Divento furiosa davanti alle scale,
davanti alle porte, davanti alle pareti, furiosa davanti alla vita di ogni
giorno che interferisce con la continuità dell‟estasi.
Ma c‟è un martirio della tensione, della febbre, del vivere conti-
nuamente come il firmamento in totale movimento e splendore.
Nessuno ha mai visto le stelle stancarsi o offuscarsi. Le stelle non
dormono mai.
Sedette guardandosi in uno specchio col manico, alla ricerca di un
ciglio che le era finito in un occhio.
Ho sposato un uomo, Jeanne disse, che non aveva mai visto pian-
gere occhi truccati, e il giorno del mio matrimonio io piansi. Mi
guardò e vide una donna che versava lacrime nere, lacrime nerissime.
Si impaurì a vedermi versare lacrime nere la notte delle mie nozze.
Quando sentii le campane suonare pensai che suonavano troppo for-
te. Mi assordavano. Mi parve di piangere sangue, tanto le orecchie
mi facevano male. Tossii perché i rintocchi erano immensi e terrifi-
canti, come quella volta che mi trovai vicina alle campane di Char-
tres. Lui disse che le campane non suonavano affatto troppo forte, ma
io le sentivo così vicine da non riuscire a udire nemmeno la sua voce,
e il rumore martellava il mio corpo e mi scoppiavano le orecchie.
Una dopo l‟altra tutte le cellule del mio corpo cominciarono a esplo-
dere nell‟immenso rimbombo da cui non trovavo scampo. Tentai di
fuggire lontano dalle campane. Gridai: fermate quelle campane! Ma
non potevo fuggire perché il rumore era intorno a me e dentro di me,
come il mio cuore che martellava in immensi battiti di ferro, come le
mie arterie che risuonavano come cimbali, come la mia testa che bat-
teva contro il granito e un martello che percuoteva le vene delle mie
tempie. Incessanti esplosioni di suoni fanno esplodere le mie cellule
e l‟eco del rompersi e dello spezzarsi dentro di me rotola in altri echi
e mi colpisce ancora e ancora fino a che i nervi cominciano a torcersi
e ad aggrovigliarsi e al rimbombare del gong finalmente si spezzano
e si lacerano e la mia carne si contrae e si raggrinzisce dolorosamente
e il sangue sgorga dalle orecchie e non posso più sopportare... non
posso più sopportare di partecipare al mio matrimonio, non posso più
sopportare di sposare un uomo perché, perché, perché...

AMO MIO FRATELLO

Scrollò i suoi pesanti braccialetti indiani, accarezzò le boccette


orientali blu e tornò a distendersi.
Sono la donna più stanca del mondo. Sono stanca quando mi alzo.
Vivere richiede uno sforzo che non posso affrontare. Per favore,
dammi quel libro. Ho bisogno di mettere sulla testa qualcosa, pesante
come quel libro. Devo sempre sistemare i piedi sotto i cuscini per es-
sere in grado di stare sulla terra. Altrimenti mi sento andar via, andar
via a una tremenda velocità, grazie alla mia levità. So di essere mor-
ta. Non appena pronuncio una frase la mia sincerità muore, diventa
una menzogna così fredda che mi raggela. Non dire niente, so che mi
capisci e la tua comprensione mi fa paura. Ho una grande paura di
trovare un‟altra persona simile a me, eppure desidero trovarla. Sono
assolutamente sola, ma temo che il mio isolamento venga interrotto e
di non poter più governare il mio universo. Mi terrorizza la tua com-
prensione, quella che ti consente di penetrare nel mio mondo, perché
allora sarei manifesta e dovrei dividere il mio regno con te.
Ma Jeanne, la paura della follia, solo la paura della follia potrà
guidarci fuori dal recinto della nostra solitudine, fuori dalla sacralità
della nostra solitudine. La paura della follia brucerà le pareti della
nostra casa segreta e ci spingerà fuori nel mondo alla ricerca del ca-
lore del contatto. A tal punto i mondi che si producono da sé e si nu-
trono di sé rigurgitano di fantasmi e di mostri.
Conosco soltanto la paura, è vero, una paura tale da soffocarmi, da
lasciarmi stupefatta e senza fiato, come se mi mancasse l‟aria, e a
volte non riesco nemmeno a sentire, divento improvvisamente sorda
al mondo. Batto i piedi e non sento niente. Grido e non sento nem-
meno il mio grido. E altre volte, quando giaccio nel mio letto, la pau-
ra mi artiglia di nuovo, un grande terrore del silenzio e di ciò che da
questo silenzio può nascere contro di me e battere alle pareti delle
mie tempie, una paura che aumenta e mi soffoca. Batto sui muri, sul
pavimento per cacciare via il silenzio. Batto e canto e fischio con in-
sistenza fino a cacciare via la paura.
Quando mi siedo davanti allo specchio rido a me stessa. Spazzolo
i miei capelli. Ci sono un paio di occhi, due lunghe trecce, due piedi.
Li guardo come dei dadi in una scatola e mi chiedo se, scuotendoli,
potrebbero balzare fuori e diventare ME. Non posso dire come tutti
questi pezzi separati possano essere ME. IO non esisto. Non sono un
corpo. Quando stringo la mano a qualcuno mi sembra che costui sia
molto lontano, in un‟altra stanza, e che la mia mano sia nell‟altra
stanza. Quando mi soffio il naso temo che possa restare nel fazzolet-
to.
Voce di tordo. L‟ombra della morte rincorre ogni parola e tutte
inaridiscono prima che lei abbia finito di pronunciarle.
Quando mio fratello sedeva al sole e l‟ombra del suo viso si dise-
gnava sullo schienale della sedia, io baciavo quell‟ombra. Baciavo la
sua ombra e quel bacio non lo toccava, quel bacio si perdeva nell‟aria
e si confondeva con l‟ombra. Il nostro reciproco amore è come il ba-
cio di una lunga ombra, senza alcuna speranza di realtà.

Mi condusse nella casa dell‟incesto. Era la sola casa a non essere


compresa nelle dodici case dello zodiaco. Non vi giungeva né la
strada della via lattea né la nave di vetro attraverso il cui fondo tra-
sparente si poteva seguire il profilo dei continenti perduti, non vi si
giungeva seguendo la freccia puntata nella direzione del vento e
nemmeno seguendo la voce degli echi montani.
Le stanze erano incatenate tra loro da gradini - nessuna era allo
stesso livello dell‟altra - e tutti i gradini erano consumati in profondi-
tà. C‟erano finestre tra le stanze, piccole finestre con spioncini, così
che si poteva parlarsi nel buio da una stanza all‟altra, senza vedersi in
volto. Le stanze erano dense del ritmico palpitare del mare che pro-
rompeva dalle tante conchiglie. Le finestre si affacciavano su un ma-
re immobile, dove pesci immobili erano stati incollati su fondali di-
pinti. Ogni cosa era stata fatta per restare immobile nella casa
dell‟incesto, perché tutti avevano una grande paura del movimento e
del calore, una così grande paura che tutto l‟amore e tutta la vita po-
tessero scorrere via e disperdersi.
Ogni cosa doveva restare immobile e ogni cosa andava in rovina.
Il sole era stato inchiodato sul tetto del cielo e la luna era stata im-
mersa profondamente nella sua nicchia orientale.
Nella casa dell‟incesto c‟era una stanza che non si trovava, una
stanza senza finestre, la fortezza del loro amore, una stanza senza fi-
nestre dove la mente e il sangue si fondevano in una unione senza
orgasmo e senza radici come nei pesci. Sguardi e frasi promiscue
come scintille che si coniugano nello spazio. L‟urto tra le loro somi-
glianze, si spande l‟odore della tamerice e della sabbia, di gusci mar-
ci e di alghe morte, il loro amore come inchiostro di seppia, un ban-
chetto di veleni.
Incespicando da una stanza all‟altra giunsi nella stanza dei dipinti,
e lì sedeva Lot con una mano sul seno della figlia e la città in fiamme
alle loro spalle che si squarciava e precipitava nel mare. Là dove sta-
vano seduti lui e la figlia il tappeto orientale era rosso e rigido, ma il
tumulto che li agitava era visibile negli scogli che si spaccavano in-
torno a loro, nella terra che si spalancava ai loro piedi, negli alberi
che fiammeggiavano come torce, nel cielo fumante, combusto di ros-
so, tutto crollava per la gioia e il terrore del loro amore. Gioia della
mano del padre sul seno della figlia, gioia del timore che la tormen-
tava. L‟abito le aderisce così strettamente che il seno si solleva e si
gonfia sotto le dita di lui, mentre la città è squarciata dai lampi e sfa-
villa sotto i denti di fuoco, grandi edifici di una città stupefatta che
sprofonda assieme all‟orrore dell‟oscenità e precipita in mare col si-
bilo dei dannati in eterno. Non gridano di orrore Lot e sua figlia, ma
grida l‟intera città in fiamme, grida l‟inesauribile desiderio di padre e
figlia, di fratello e sorella, di madre e figlio.
Guardai un orologio per leggere la verità. Le ore passavano come
le figure di avorio degli scacchi, battendo note di piano, i minuti si
inseguivano su fili montati come soldatini di latta. Ore come alte
donne d‟ebano con gong tra le gambe che risuonavano di continuo
tanto da non poterne tenere il conto. Sentivo battere le pulsazioni del
cuore, udivo i passi dei miei sogni e il battere del tempo si perdeva
tra loro come il volto della verità.
Giunsi a una foresta di alberi decapitati, donne scolpite nel bam-
bù, carne percossa come quella degli schiavi nella schiavitù senza
gioia, facce tagliate in due dal coltello dello scultore mostravano due
profili separati per sempre, due facce per l‟eternità, e toccava a me
girare intorno per poter contemplare la donna da ogni parte. Figure
mozze di endecagono, undici lati, undici angoli, in legno venato e
vulnerabile, frammenti di corpi, corpi privi di braccia e di testa. Il
torso di una tuberosa, il ginocchio di Achille, tubercoli ed escrescen-
ze, il piede di una mummia in legno marcito, il docile legno venato
modellato in contorsioni umane. La foresta deve piangere e curvarsi
come le spalle di un uomo, figure morte dentro alberi vivi. Una fore-
sta adesso animata da facce intellettuali, contorsioni intellettuali. Gli
alberi diventano uomini e donne, bifronti, nostalgici del fremito delle
foglie. Alberi reclinati, arbusti splendenti e la foresta trema di una ri-
bellione così amara che l‟ho sentita lamentarsi nella sua profonda
consapevolezza di foresta. Lamentava la perdita delle sue foglie e il
fallimento della trasmutazione.
Più oltre, una foresta di gesso bianco, uova di gesso bianco. Gran-
di uova bianche su dischi d‟argento, un‟elegia alla nascita, ogni uovo
una promessa, ognuno una semiformata nascenza di uomo, donna o
animale, non ancora precisata. Ventre e seme e uovo, si comincia a
venerare l‟umore più che la sua fioritura. L‟uovo così bianco, così
compatto, ha generato la speranza senza rottura, ma l‟albero abbattu-
to accanto ha generato un verde vivo ramo che ride allo scultore.

Jeanne aprì tutte le porte e guardò in tutte le stanze. In ognuna gli


ospiti stupiti batterono le palpebre per la sorpresa. Lei disse: «Vi
prego, appendete qualcosa alle finestre. Uno scialle, un fazzoletto co-
lorato, un tappeto. Vado fuori in giardino, voglio vedere quante fine-
stre vi si affacciano. Così potrò trovare la stanza in cui mio fratello si
nasconde. Ho perduto mio fratello. Vi prego di aiutarmi, ognuno di
voi». Tolse dai tavoli gli scialli, strappò una tenda rossa, un coprilet-
to di corallo, un pannello cinese e li appese lei stessa alle finestre.
Poi corse via nel giardino di alberi morti, per i sentieri di lava, su-
gli scisti di mica, e sul sentiero bruciavano tutti i minerali, il musco-
vite come una sposa, la pirite, la silice, il cinabro, l‟azzurrite come un
frammento di Giove benefico, la malachite, tutti frantumati insieme,
schiacciati insieme, gioielli fusi, pianeti fusi, alchemizzati da sole a
aria e tempo e spazio, mischiati nella fissità minerale, la fissità della
paura della morte e della paura della vita.
Seme essiccato nel silenzio di rocce e di minerali. Le parole non
urlate, le lacrime non versate, le imprecazioni inghiottite, le frasi
mozzate, l‟amore che abbiamo ucciso, si trasformavano in minerale
ferroso magnetico, in tormalina, in agata, sangue rappreso in cinabro,
sangue calcinato, impiombato nella galena, ossidato, alluminizzato,
solfato, calcinato lo splendore minerale di meteore morte e soli esau-
sti nelle foreste degli alberi morti e dei morti desideri.
In piedi su una collina di ortoclasio, le mani macchiate di topazio
e argentite, guardava in alto la facciata della casa dell‟incesto, la fac-
ciata di rugginoso minerale della casa dell‟incesto e una finestra ave-
va le persiane serrate e arrugginite, una finestra senza luce come un
occhio morto, soffocato dalle lunghe braccia pelose di una vecchia
edera.
Tremava dal desiderio di non gridare, uno sforzo così grande da
farla restare immobile, il sangue scomparso sotto il pallore dorato del
viso.
Lottava contro la morte che si approssimava: non amo nessuno;
non amo nessuno, nemmeno mio fratello. Amo soltanto
quest‟assenza di dolore, questa fredda neutra assenza di dolore.
Ritta, immobile per molti anni, tra il momento in cui aveva perdu-
to suo fratello e il momento in cui aveva guardato verso la casa
dell‟incesto, ruotando in cerchi senza fine attorno agli angoli dei so-
gni, senza mai giungere al termine del suo viaggio, grazie al suo do-
lore dell‟età della pietra, apprese ogni meraviglia, morendo.
E trovò il fratello addormentato tra i dipinti.
Jeanne, mi sono addormentato tra i quadri dove ho potuto riposare
per molti giorni in adorazione del tuo ritratto. Mi sono innamorato
del tuo ritratto, Jeanne, perché non cambierà mai. Ho una tale paura
di vederti invecchiare, Jeanne. Mi sono innamorato di un immutabile
te che non mi sarà mai sottratto. Desideravo che tu morissi così che
nessuno potesse allontanarti da me e avrei amato il quadro che ti raf-
figura come apparirai in eterno.
Accettavano solo una parte di se stessi - la loro rassomiglianza.
Buona notte, fratello! Buona notte, Jeanne!
Con lei camminavano lunghe ombre, stigmatizzate dalla paura.
Portavano il loro patto come un gioiello sul seno, lo portavano con
orgoglio come uno stemma.

Ho camminato nel mio libro cercando pace.


Era quasi notte e ho fatto un movimento distratto dentro al sogno;
ho svoltato troppo bruscamente l‟angolo e mi sono scontrata con la
mia follia. Era questo troppo vedere, questo vedere una tragedia in un
batter di ciglia, costruire un crimine nella stanza accanto, gli uomini
e le donne che prima di me avevano amato nello stesso letto
d‟albergo.
Porto spugne bianche di conoscenza su fasci di nervi.
Mentre mi muovo nel mio libro mi feriscono vetri aguzzi e botti-
glie rotte che sanno ancora di sperma e profumo.
Altre pagine aggiunte al libro, una pagina come un prigioniero che
cammina avanti e indietro nello spazio che gli è consentito. A me,
che cosa è consentito dire? Soltanto la verità, abbigliata da racconto
di fate dietro cui guardano fissamente tutte le verità come dietro alle
grate di una moschea. Con veli. Appena entrata nella caverna delle
mie menzogne sono caduta nel buio e ho visto una maschera che mi
fissava con uno sguardo strabico, e tuttavia sono avvolta in menzo-
gne che non penetrano la mia anima, come se le menzogne che dico
fossero costumi.

LE MENZOGNE GENERANO SOLITUDINE

Sono uscita dal mio libro per entrare nella stanza del paralitico.
Sedeva circondato da molti oggetti sotto vetro, come in un museo.
Aveva collezionato un barattolo di vernice con cui non aveva mai di-
pinto, un migliaio di libri ancora intonsi e ricoperti di polvere. Il
mantello spagnolo pendeva dalle spalle di un manichino, la chitarra
giaceva con le corde spezzate come lunghi capelli spettinati. Sedeva
davanti a un quaderno di appunti ancora immacolato dicendo: In-
ghiottisco le mie stesse parole. Mastico e mastico di tutto fino a
quando si deteriora. Ogni mio pensiero o impulso viene masticato fi-
no a ridursi in niente. Voglio catturare i miei pensieri, tutti in una so-
la volta, ma essi fuggono da ogni parte. Se vi riuscissi, potrei cattura-
re le menti più pronte come un branco di pesciolini. Potrei rivelare
innocenza e duplicità, generosità e calcolo, paura, viltà e coraggio.
Voglio dire tutta la verità, ma non posso dire tutta la verità perché
per farlo dovrei scrivere quattro pagine allo stesso tempo come quat-
tro lunghe colonne simultanee, quattro pagine rispetto all‟unica scrit-
ta oggi, e così non scrivo affatto. Dovrei scrivere all‟indietro, riper-
correre costantemente i miei passi per cogliere echi e sovratoni.
La sua pelle era trasparente come quella di un neonato, e i suoi
occhi verdi come il muschio. Si inchinò davanti a Sabina, a Jeanne e
a me: salutate il Cristo moderno che è stato crocifisso dai suoi stessi
nervi, per tutti i nostri peccati nevrotici!
Il Cristo moderno si asciugava il sudore che gli gocciolava sul vi-
so, come se fosse seduto lì nell‟agonia di una segreta tortura. Linea-
menti scolpiti nel dolore. Occhi spalancati, come dilatati da scene di
orrore. Palpebre pesanti, di una fatica pesante come il mondo. Seduto
su una sedia, come circondato da fantasmi. Il sorriso come un insul-
to. Labbra affilate e avvizzite dalla nera feccia della droga. Un corpo
teso come un filo metallico.
Nei nostri scritti siamo fratelli, dissi. Identica è la velocità della
nostra vertigine. Giungiamo allo stesso posto nello stesso istante, e
non accade altrettanto con i pensieri degli altri. Il linguaggio dei ner-
vi che usiamo entrambi ci rende fratelli di scrittura.
Il Cristo moderno disse: sono nato senza pelle. Una volta ho so-
gnato di trovarmi nudo in giardino, accuratamente sbucciato come un
frutto. Sul mio corpo non era rimasto nemmeno un centimetro di pel-
le. Mi era stata tolta tutta, gentilmente, proprio tutta, e poi mi fu detto
di camminare, di vivere, di correre. Dapprima camminai adagio e il
giardino era morbido e sentivo la sua morbidezza in modo così acuto
non sulla superficie del corpo ma attraverso di essa, la dolce aria tie-
pida e i profumi mi penetravano come aghi attraverso ogni poro aper-
to e sanguinante. E tutti i pori erano aperti e respiravano la dolcezza,
il calore, i profumi. Il corpo era tutto invaso, penetrato, consenziente.
Ogni più piccola cellula e più piccolo poro era attivo e respirava,
tremava e godeva. Urlai di dolore. Corsi. E mentre correvo il vento
mi sferzava e le voci della gente erano come fruste che mi percuote-
vano. Essere toccato. Sapete che cosa significa essere toccato da un
essere umano!
Si asciugò il viso con il fazzoletto.
Il paralitico sedeva immobile nell‟angolo della stanza.
Sei fortunata, disse, sei fortunata di poter sentire così tanto. Vorrei
poterlo sentire anch‟io. Almeno sei viva al dolore, mentre io...
Poi distolse il viso e in quell‟attimo vidi che le vene della sua
fronte si gonfiavano, si gonfiavano per lo sforzo che faceva, l‟intimo
sforzo a cui né la sua lingua né il suo corpo e nemmeno i suoi pensie-
ri potevano obbedire.
Se soltanto potessimo fuggire tutti da questa casa dell‟incesto, do-
ve negli altri amiamo solo noi stessi, se solo potessi salvarvi tutti da
voi stessi, disse il Cristo moderno.
Ma nessuno di noi poteva sopportare di attraversare il tunnel che
conduce dalla casa al mondo dall‟altra parte dei muri, dove c‟erano
foglie sugli alberi e l‟acqua scorreva lungo i sentieri, dove c‟era la
luce del giorno e la gioia. Non credevamo che il tunnel si aprisse nel-
la luce del giorno: temevamo di restare nuovamente intrappolati nel
buio, temevamo di tornare là da dove eravamo venuti, nel buio e nel-
la notte. Il tunnel sarebbe diventato più stretto e angusto, si sarebbe
chiuso attorno a noi, sempre più stretto, sempre di più, fino a soffo-
carci. Sarebbe diventato più basso e stretto e ci avrebbe soffocato
mentre procedevamo.
E però sapevamo che oltre la casa dell‟incesto c‟era la luce del
giorno e nessuno di noi poteva andare in quella direzione.
Adesso guardavamo tutti la danzatrice che nel centro della stanza
danzava la danza della donna senza braccia. Danzava come se fosse
sorda e non potesse seguire il ritmo della musica. Danzava come se
non udisse il suono delle sue nacchere. La sua danza era isolata e se-
parata dalla musica e da noi e dalla stanza e dalla vita. Le nacchere
avevano il suono dei passi di un fantasma.
Danzava, rideva e sospirava e respirava per se stessa. Danzava le
sue paure, fermandosi nel mezzo di ogni stanza ad ascoltare i rim-
proveri che noi non potevamo sentire, o si inchinava a un applauso
che non facevamo. Ascoltava una musica che non potevamo sentire,
mossa da allucinazioni che non potevamo vedere.
Mi hanno strappato le braccia, cantava. Sono stata punita del mio
avvinghiarmi. Mi avvinghiavo. Mi sono aggrappata a tutti coloro che
ho amato, mi sono aggrappata ai momenti felici della vita, le mie
mani si sono chiuse su ogni ora perfetta. Le mie braccia si sono stret-
te desiderando l‟abbraccio. Volevo abbracciare e possedere la luce, il
vento, il sole, la notte, il mondo intero. Volevo accarezzare, guarire,
vibrare, cullare, circondare, rinchiudere. E stringevo e trattenevo tan-
to da rompere tutto. Ogni cosa mi è sfuggita a quel punto. Fui con-
dannata a non tenere più niente.
Tremando e barcollando fissava le sue braccia ora di nuovo prote-
se in avanti.
Guardava le sue mani serrate e le dischiuse lentamente, le aprì
completamente come Cristo, le aprì in un gesto di abbandono e di
dedizione. Rinunciava e perdonava, allargando le braccia e le mani,
permettendo che le cose scorressero lontano e oltre a lei.
Non tollero le cose effimere. Ciò che scorre, che passa, che si
muove mi soffoca di angoscia.
Lei danzava, danzava con la musica e con il ritmo delle orbite ter-
restri, roteava con il roteare della terra, come un disco, porgendo le
sue facce regolarmente alla luce e al buio, danzando verso la luce del
giorno.
POSTFAZIONE
DI GUNTHER STUHLMANN

«Ho scritto le prime due pagine del mio nuovo libro in uno stile
surrealista». Anais Nin annota nel suo “Diario” nell‟aprile del 1932.
«Sono influenzata da „Transition‟, da Breton e da Rimbaud, che dan-
no alla mia immaginazione l‟opportunità di scorrere liberamente».
Nel giugno del 1932 Anais Nin aveva già scritto «trenta pagine di
prosa poetica, in una forma assolutamente visionaria, una esplosione
lirica».
Questa «esplosione lirica» coincide con un periodo di grandi
sconvolgimenti nella sua vita personale. Per più di dieci anni la Nin
si era dibattuta tra vari progetti, tutti abortiti, di romanzo. Aveva ap-
pena finito di lavorare all‟elogio e alla difesa - i primi scritti da una
donna - del disdegnato D. H. Lawrence, e stava per valicare i confini
di una vita personale «protetta», con il marito e la famiglia nella casa
che avevano preso in affitto a Louvenciennes, nei dintorni di Parigi.
Un posto centrale cominciava a occupare nella sua vita lo scrittore
Henry Miller, allora ancora sconosciuto, e la sua mitomane moglie
June, ed era anche coinvolta dall‟instabile genio di Antonin Artaud.
Anais si era impegnata nella sua prima ardua battaglia con la psicoa-
nalisi, all‟inizio con il dottor René Allendy e con il dottor Otto Rank
in un secondo tempo. Nel personaggio di Alraune - la principale pro-
tagonista di un film tedesco basato sul romanzo di Hans-Heinz Ewers
- aveva individuato il simbolo della donna che «nessun uomo potrà
mai soddisfare», a cui attribuiva una significativa rassomiglianza con
l‟immagine che, in quel periodo, aveva di se stessa.
Henry Miller, a cui mostrò le prime pagine «surrealiste» di “Al-
raune”, ne fu disorientato e le chiese di spiegargli quelle «astrazio-
ni». Anais ricorda di avergli detto: «Vedo il simbolismo della nostra
vita. Io vivo su due livelli, uno umano e uno poetico. Colgo le para-
bole, le allegorie». Secondo Anais Nin, Miller ricorreva a un approc-
cio «realistico» nel tentativo, durato tutta la vita, di comprendere
l‟inafferrabile personalità della moglie June, la «Mara» e la «Mona»
delle sue ultime opere, mentre lei stessa - nel personaggio di «Sabi-
na» o di «Alraune», come si era chiamata all‟inizio, - offriva la pro-
pria percezione multidimensionale di June come una estensione,
l‟aspetto mancante, una specie di “Doppelgaenger” di se stessa.
«Dall‟alto della mia stratosfera posso ispezionare la mitologia di
June. Ho cercato di descrivere i sopratoni. Tutto ciò che concerne
June è senza senso nella mia percezione visionaria del suo inconscio.
È stata una distillazione. Non puro decorativismo, ma una cosa piena
di significati». In effetti, questo smilzo volume, poi intitolato “La ca-
sa dell‟incesto”, fu definito dalla Nin «la mia stagione all‟inferno».
La considerava una distillazione «corrosiva», più che poetica e lirica,
di parte del materiale che aveva elaborato nelle pagine segrete del
suo “Diario”, materiale che pretendeva, esigeva di essere rivelato.
Le parti pubblicate del “Diario” dei primi anni Trenta offrono in
effetti numerose chiavi per la comprensione delle fonti
dell‟ispirazione de “La casa dell‟incesto”, sia per quanto riguarda
personaggi e situazioni sia per la tecnica stilistica impiegata. Ci furo-
no lunghe discussioni con Henry Miller sull‟uso dei sogni nella scrit-
tura, sulla condensazione e l‟incastro delle immagini, come accade in
alcune delle sequenze oniriche del film di Luis Buñuel e Salvador
Dalì, “Un cane andaluso”, quel classico surrealista del 1928 in cui,
come dice la Nin, «nulla è verbalizzato o menzionato». Con Miller
Anais Nin analizza «la sensazione che si prova quando in un sogno si
è fatto un lungo e meraviglioso discorso e nella memoria rimangono
solo poche frasi. È la condizione descritta da coloro che fanno uso di
droghe. Immaginano di parlare molto e circostanziatamente e dicono
invece poche parole. Così avviene in una certa fase del processo
creativo, quando ci portiamo dentro per tutto un giorno un tumultuo-
so mare di idee che possono poi essere racchiuse in una sola pagina».
Sappiamo che, dopo aver letto il famoso “Giardino dei supplizi”
(1898) di Octave Mirbeau, Anais Nin ha voluto trattare «la tortura
psicologica come complementare di quella fisica» per potere comu-
nicare «la reale, concreta sofferenza» dei suoi amici: June Miller,
Antonin Artaud, e «Jeanne», disegnata sul personaggio reale di Loui-
se de Vilmorin. «La tortura fisica è banale e familiare», scrive.
«Sempre, se trasposta sul piano psicologico, può diventare un ro-
manzo». In alcune parti del manoscritto Anais Nin cerca di mettere a
punto la correlazione, di individuare l‟analogia tra il fisico e lo psi-
chico. Scrive: «Lo sbucciare, il togliere la pelle, per esempio, potreb-
bero rappresentare l‟ipersensitività. La morte provocata dal frastuono
delle campane della chiesa potrebbe essere il rumore delle allucina-
zioni». Questa trasposizione «è diventata il tema de “La casa
dell‟incesto” ed è servito a coordinare la descrizione degli stati
d‟ansia». Anais ha incluso nel testo, per poi eliminarli, alcuni pas-
saggi della sua ormai famosa descrizione dei rapporti tra padre e fi-
glia tratti dal “Diario” - in seguito furono inseriti in “Winter of Arti-
fice” -, ma ancora negli anni più recenti non si è smesso di elucubra-
re sul riferimento del termine «incesto» del titolo. Altri «sogni e stati
d‟animo» delle pagine originali del “Diario” sono stati invece traspo-
sti nel manoscritto, e questo metodo Anais Nin ha continuato a usare
fino nelle sue ultime opere narrative. In effetti non è troppo difficile
identificare le persone e le situazioni «reali» delle pagine del “Dia-
rio” nel montaggio/travestimento «surrealista» del poema in prosa.
Trasposta in una nuova e complessa realtà psicologica troviamo
June/Alraune/Sabina; c‟è Jeanne, legata al fratello da «nozze infanti-
li», sotto la campana di vetro delle convenzioni sociali, c‟è Artaud, al
Louvre, prima che dipingesse “Lot e la figlia”, e il ballerino peruvia-
no Helba, al teatro di rue de la Gaieté, mentre si esibisce nella danza
della donna senza braccia.
Nell‟autunno del 1934 Anais Nin va a New York con il mano-
scritto, molte volte corretto, di “Alraune”, come ancora si intitolava
in quel periodo. Ma non riuscì a trovare un editore. Henry Miller
aveva scritto una prefazione che non fu mai usata (fu riscoperta nei
primi anni Settanta e pubblicata in “Anais: An International Journal”,
vol. 3, 1985). Finalmente, nell‟estate del 1935, il manoscritto è pub-
blicato con il titolo “La casa dell‟incesto”, nella serie «18, Villa Seu-
rat» (l‟indirizzo di Henry Miller a Parigi) che inaugura l‟avventura
editoriale della Siana Press (Anais scritto all‟incontrario).
Il primo «grosso pacco di libri dalla tipografia», ricorda Anais nel
“Diario”, le giunse a casa a Parigi, nel maggio del 1936. Erano 249
copie numerate, di una edizione di 94 pagine, stampata nella tipogra-
fia Santa Caterina, a Bruges, e dovevano essere firmate dall‟autrice.
Il giovane Lawrence Durrell, scrivendo da Corfù all‟amico Miller,
dichiarava che «il libro era fresco e dolce e si scioglieva in colori e in
forme improvvise e malleabili». Fu Stuart Gilbert, il traduttore di
James Joyce, a dare in poche righe (di una introduzione mai pubbli-
cata) la chiave più illuminante per comprendere l‟esplosione lirica
della Nin. «Il titolo del libro, “La casa dell‟incesto”, designa
l‟esplorazione di un mondo conosciuto. Secondo la Nin, nel mondo
della passione l‟amante crea l‟essere che ama, l‟amato è la creazione
e la proiezione dell‟amante, un fantasma nato nella sua immagina-
zione: egli ama qualcosa che è parte di sé, si identifica con l‟amato e,
in tal senso, l‟amore per una immagine irreale è un atto incestuoso.
Credo che nulla di simile sia stato mai scritto. Per comprendere
l‟amore bisogna situarsi nel centro della vita stessa, all‟interno
dell‟estasi bisogna essere poeti». Anais Nin riteneva «di avere spinto
la fantasia così lontano da essere incomprensibile agli altri». Nel
1939 scriveva: «Riconosco l‟autenticità metafisica. Scritti come “La
casa dell‟incesto”, e tutte le fantasie per le quali non sono amata,
contengono la più pura essenza di ciò che intendo». Reagendo, dap-
prima, a ciò che credeva essere la fredda, riduttiva domanda
dell‟analisi («credo che sia il poeta in me ad affermarsi a causa della
lotta contro la psicoanalisi»), alla interpretazione «realistica» del
mondo di alcuni scrittori fra cui Henry Miller, al prevalere dei «natu-
ralisti e degli espositori di fatti», Anais Nin si era scavata il proprio
«ordine di scrittura», che definiva: «Formulare senza distruggere in-
tellettualmente, senza alterare, senza uccidere; senza fare inaridire».
Nelle opere seguenti non usò più lo specifico modo «surrealista» de
“La casa dell‟incesto”, ma quell‟«esplosione lirica» costituì la base
delle sue opere narrative, definì il suo metodo e la sua filosofia. E in
realtà fu preveggente e profetica quando, nel 1932, sulla prima pagi-
na de “La casa dell‟incesto”, scrisse: «Tutto quello che so è contenu-
to in questo libro».

Becket, Massachusetts, marzo 1986.

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