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LA CASA
DELL‟INCESTO
Titolo dell‟opera originale “HOUSE OF INCEST”
Sono uscita dal mio libro per entrare nella stanza del paralitico.
Sedeva circondato da molti oggetti sotto vetro, come in un museo.
Aveva collezionato un barattolo di vernice con cui non aveva mai di-
pinto, un migliaio di libri ancora intonsi e ricoperti di polvere. Il
mantello spagnolo pendeva dalle spalle di un manichino, la chitarra
giaceva con le corde spezzate come lunghi capelli spettinati. Sedeva
davanti a un quaderno di appunti ancora immacolato dicendo: In-
ghiottisco le mie stesse parole. Mastico e mastico di tutto fino a
quando si deteriora. Ogni mio pensiero o impulso viene masticato fi-
no a ridursi in niente. Voglio catturare i miei pensieri, tutti in una so-
la volta, ma essi fuggono da ogni parte. Se vi riuscissi, potrei cattura-
re le menti più pronte come un branco di pesciolini. Potrei rivelare
innocenza e duplicità, generosità e calcolo, paura, viltà e coraggio.
Voglio dire tutta la verità, ma non posso dire tutta la verità perché
per farlo dovrei scrivere quattro pagine allo stesso tempo come quat-
tro lunghe colonne simultanee, quattro pagine rispetto all‟unica scrit-
ta oggi, e così non scrivo affatto. Dovrei scrivere all‟indietro, riper-
correre costantemente i miei passi per cogliere echi e sovratoni.
La sua pelle era trasparente come quella di un neonato, e i suoi
occhi verdi come il muschio. Si inchinò davanti a Sabina, a Jeanne e
a me: salutate il Cristo moderno che è stato crocifisso dai suoi stessi
nervi, per tutti i nostri peccati nevrotici!
Il Cristo moderno si asciugava il sudore che gli gocciolava sul vi-
so, come se fosse seduto lì nell‟agonia di una segreta tortura. Linea-
menti scolpiti nel dolore. Occhi spalancati, come dilatati da scene di
orrore. Palpebre pesanti, di una fatica pesante come il mondo. Seduto
su una sedia, come circondato da fantasmi. Il sorriso come un insul-
to. Labbra affilate e avvizzite dalla nera feccia della droga. Un corpo
teso come un filo metallico.
Nei nostri scritti siamo fratelli, dissi. Identica è la velocità della
nostra vertigine. Giungiamo allo stesso posto nello stesso istante, e
non accade altrettanto con i pensieri degli altri. Il linguaggio dei ner-
vi che usiamo entrambi ci rende fratelli di scrittura.
Il Cristo moderno disse: sono nato senza pelle. Una volta ho so-
gnato di trovarmi nudo in giardino, accuratamente sbucciato come un
frutto. Sul mio corpo non era rimasto nemmeno un centimetro di pel-
le. Mi era stata tolta tutta, gentilmente, proprio tutta, e poi mi fu detto
di camminare, di vivere, di correre. Dapprima camminai adagio e il
giardino era morbido e sentivo la sua morbidezza in modo così acuto
non sulla superficie del corpo ma attraverso di essa, la dolce aria tie-
pida e i profumi mi penetravano come aghi attraverso ogni poro aper-
to e sanguinante. E tutti i pori erano aperti e respiravano la dolcezza,
il calore, i profumi. Il corpo era tutto invaso, penetrato, consenziente.
Ogni più piccola cellula e più piccolo poro era attivo e respirava,
tremava e godeva. Urlai di dolore. Corsi. E mentre correvo il vento
mi sferzava e le voci della gente erano come fruste che mi percuote-
vano. Essere toccato. Sapete che cosa significa essere toccato da un
essere umano!
Si asciugò il viso con il fazzoletto.
Il paralitico sedeva immobile nell‟angolo della stanza.
Sei fortunata, disse, sei fortunata di poter sentire così tanto. Vorrei
poterlo sentire anch‟io. Almeno sei viva al dolore, mentre io...
Poi distolse il viso e in quell‟attimo vidi che le vene della sua
fronte si gonfiavano, si gonfiavano per lo sforzo che faceva, l‟intimo
sforzo a cui né la sua lingua né il suo corpo e nemmeno i suoi pensie-
ri potevano obbedire.
Se soltanto potessimo fuggire tutti da questa casa dell‟incesto, do-
ve negli altri amiamo solo noi stessi, se solo potessi salvarvi tutti da
voi stessi, disse il Cristo moderno.
Ma nessuno di noi poteva sopportare di attraversare il tunnel che
conduce dalla casa al mondo dall‟altra parte dei muri, dove c‟erano
foglie sugli alberi e l‟acqua scorreva lungo i sentieri, dove c‟era la
luce del giorno e la gioia. Non credevamo che il tunnel si aprisse nel-
la luce del giorno: temevamo di restare nuovamente intrappolati nel
buio, temevamo di tornare là da dove eravamo venuti, nel buio e nel-
la notte. Il tunnel sarebbe diventato più stretto e angusto, si sarebbe
chiuso attorno a noi, sempre più stretto, sempre di più, fino a soffo-
carci. Sarebbe diventato più basso e stretto e ci avrebbe soffocato
mentre procedevamo.
E però sapevamo che oltre la casa dell‟incesto c‟era la luce del
giorno e nessuno di noi poteva andare in quella direzione.
Adesso guardavamo tutti la danzatrice che nel centro della stanza
danzava la danza della donna senza braccia. Danzava come se fosse
sorda e non potesse seguire il ritmo della musica. Danzava come se
non udisse il suono delle sue nacchere. La sua danza era isolata e se-
parata dalla musica e da noi e dalla stanza e dalla vita. Le nacchere
avevano il suono dei passi di un fantasma.
Danzava, rideva e sospirava e respirava per se stessa. Danzava le
sue paure, fermandosi nel mezzo di ogni stanza ad ascoltare i rim-
proveri che noi non potevamo sentire, o si inchinava a un applauso
che non facevamo. Ascoltava una musica che non potevamo sentire,
mossa da allucinazioni che non potevamo vedere.
Mi hanno strappato le braccia, cantava. Sono stata punita del mio
avvinghiarmi. Mi avvinghiavo. Mi sono aggrappata a tutti coloro che
ho amato, mi sono aggrappata ai momenti felici della vita, le mie
mani si sono chiuse su ogni ora perfetta. Le mie braccia si sono stret-
te desiderando l‟abbraccio. Volevo abbracciare e possedere la luce, il
vento, il sole, la notte, il mondo intero. Volevo accarezzare, guarire,
vibrare, cullare, circondare, rinchiudere. E stringevo e trattenevo tan-
to da rompere tutto. Ogni cosa mi è sfuggita a quel punto. Fui con-
dannata a non tenere più niente.
Tremando e barcollando fissava le sue braccia ora di nuovo prote-
se in avanti.
Guardava le sue mani serrate e le dischiuse lentamente, le aprì
completamente come Cristo, le aprì in un gesto di abbandono e di
dedizione. Rinunciava e perdonava, allargando le braccia e le mani,
permettendo che le cose scorressero lontano e oltre a lei.
Non tollero le cose effimere. Ciò che scorre, che passa, che si
muove mi soffoca di angoscia.
Lei danzava, danzava con la musica e con il ritmo delle orbite ter-
restri, roteava con il roteare della terra, come un disco, porgendo le
sue facce regolarmente alla luce e al buio, danzando verso la luce del
giorno.
POSTFAZIONE
DI GUNTHER STUHLMANN
«Ho scritto le prime due pagine del mio nuovo libro in uno stile
surrealista». Anais Nin annota nel suo “Diario” nell‟aprile del 1932.
«Sono influenzata da „Transition‟, da Breton e da Rimbaud, che dan-
no alla mia immaginazione l‟opportunità di scorrere liberamente».
Nel giugno del 1932 Anais Nin aveva già scritto «trenta pagine di
prosa poetica, in una forma assolutamente visionaria, una esplosione
lirica».
Questa «esplosione lirica» coincide con un periodo di grandi
sconvolgimenti nella sua vita personale. Per più di dieci anni la Nin
si era dibattuta tra vari progetti, tutti abortiti, di romanzo. Aveva ap-
pena finito di lavorare all‟elogio e alla difesa - i primi scritti da una
donna - del disdegnato D. H. Lawrence, e stava per valicare i confini
di una vita personale «protetta», con il marito e la famiglia nella casa
che avevano preso in affitto a Louvenciennes, nei dintorni di Parigi.
Un posto centrale cominciava a occupare nella sua vita lo scrittore
Henry Miller, allora ancora sconosciuto, e la sua mitomane moglie
June, ed era anche coinvolta dall‟instabile genio di Antonin Artaud.
Anais si era impegnata nella sua prima ardua battaglia con la psicoa-
nalisi, all‟inizio con il dottor René Allendy e con il dottor Otto Rank
in un secondo tempo. Nel personaggio di Alraune - la principale pro-
tagonista di un film tedesco basato sul romanzo di Hans-Heinz Ewers
- aveva individuato il simbolo della donna che «nessun uomo potrà
mai soddisfare», a cui attribuiva una significativa rassomiglianza con
l‟immagine che, in quel periodo, aveva di se stessa.
Henry Miller, a cui mostrò le prime pagine «surrealiste» di “Al-
raune”, ne fu disorientato e le chiese di spiegargli quelle «astrazio-
ni». Anais ricorda di avergli detto: «Vedo il simbolismo della nostra
vita. Io vivo su due livelli, uno umano e uno poetico. Colgo le para-
bole, le allegorie». Secondo Anais Nin, Miller ricorreva a un approc-
cio «realistico» nel tentativo, durato tutta la vita, di comprendere
l‟inafferrabile personalità della moglie June, la «Mara» e la «Mona»
delle sue ultime opere, mentre lei stessa - nel personaggio di «Sabi-
na» o di «Alraune», come si era chiamata all‟inizio, - offriva la pro-
pria percezione multidimensionale di June come una estensione,
l‟aspetto mancante, una specie di “Doppelgaenger” di se stessa.
«Dall‟alto della mia stratosfera posso ispezionare la mitologia di
June. Ho cercato di descrivere i sopratoni. Tutto ciò che concerne
June è senza senso nella mia percezione visionaria del suo inconscio.
È stata una distillazione. Non puro decorativismo, ma una cosa piena
di significati». In effetti, questo smilzo volume, poi intitolato “La ca-
sa dell‟incesto”, fu definito dalla Nin «la mia stagione all‟inferno».
La considerava una distillazione «corrosiva», più che poetica e lirica,
di parte del materiale che aveva elaborato nelle pagine segrete del
suo “Diario”, materiale che pretendeva, esigeva di essere rivelato.
Le parti pubblicate del “Diario” dei primi anni Trenta offrono in
effetti numerose chiavi per la comprensione delle fonti
dell‟ispirazione de “La casa dell‟incesto”, sia per quanto riguarda
personaggi e situazioni sia per la tecnica stilistica impiegata. Ci furo-
no lunghe discussioni con Henry Miller sull‟uso dei sogni nella scrit-
tura, sulla condensazione e l‟incastro delle immagini, come accade in
alcune delle sequenze oniriche del film di Luis Buñuel e Salvador
Dalì, “Un cane andaluso”, quel classico surrealista del 1928 in cui,
come dice la Nin, «nulla è verbalizzato o menzionato». Con Miller
Anais Nin analizza «la sensazione che si prova quando in un sogno si
è fatto un lungo e meraviglioso discorso e nella memoria rimangono
solo poche frasi. È la condizione descritta da coloro che fanno uso di
droghe. Immaginano di parlare molto e circostanziatamente e dicono
invece poche parole. Così avviene in una certa fase del processo
creativo, quando ci portiamo dentro per tutto un giorno un tumultuo-
so mare di idee che possono poi essere racchiuse in una sola pagina».
Sappiamo che, dopo aver letto il famoso “Giardino dei supplizi”
(1898) di Octave Mirbeau, Anais Nin ha voluto trattare «la tortura
psicologica come complementare di quella fisica» per potere comu-
nicare «la reale, concreta sofferenza» dei suoi amici: June Miller,
Antonin Artaud, e «Jeanne», disegnata sul personaggio reale di Loui-
se de Vilmorin. «La tortura fisica è banale e familiare», scrive.
«Sempre, se trasposta sul piano psicologico, può diventare un ro-
manzo». In alcune parti del manoscritto Anais Nin cerca di mettere a
punto la correlazione, di individuare l‟analogia tra il fisico e lo psi-
chico. Scrive: «Lo sbucciare, il togliere la pelle, per esempio, potreb-
bero rappresentare l‟ipersensitività. La morte provocata dal frastuono
delle campane della chiesa potrebbe essere il rumore delle allucina-
zioni». Questa trasposizione «è diventata il tema de “La casa
dell‟incesto” ed è servito a coordinare la descrizione degli stati
d‟ansia». Anais ha incluso nel testo, per poi eliminarli, alcuni pas-
saggi della sua ormai famosa descrizione dei rapporti tra padre e fi-
glia tratti dal “Diario” - in seguito furono inseriti in “Winter of Arti-
fice” -, ma ancora negli anni più recenti non si è smesso di elucubra-
re sul riferimento del termine «incesto» del titolo. Altri «sogni e stati
d‟animo» delle pagine originali del “Diario” sono stati invece traspo-
sti nel manoscritto, e questo metodo Anais Nin ha continuato a usare
fino nelle sue ultime opere narrative. In effetti non è troppo difficile
identificare le persone e le situazioni «reali» delle pagine del “Dia-
rio” nel montaggio/travestimento «surrealista» del poema in prosa.
Trasposta in una nuova e complessa realtà psicologica troviamo
June/Alraune/Sabina; c‟è Jeanne, legata al fratello da «nozze infanti-
li», sotto la campana di vetro delle convenzioni sociali, c‟è Artaud, al
Louvre, prima che dipingesse “Lot e la figlia”, e il ballerino peruvia-
no Helba, al teatro di rue de la Gaieté, mentre si esibisce nella danza
della donna senza braccia.
Nell‟autunno del 1934 Anais Nin va a New York con il mano-
scritto, molte volte corretto, di “Alraune”, come ancora si intitolava
in quel periodo. Ma non riuscì a trovare un editore. Henry Miller
aveva scritto una prefazione che non fu mai usata (fu riscoperta nei
primi anni Settanta e pubblicata in “Anais: An International Journal”,
vol. 3, 1985). Finalmente, nell‟estate del 1935, il manoscritto è pub-
blicato con il titolo “La casa dell‟incesto”, nella serie «18, Villa Seu-
rat» (l‟indirizzo di Henry Miller a Parigi) che inaugura l‟avventura
editoriale della Siana Press (Anais scritto all‟incontrario).
Il primo «grosso pacco di libri dalla tipografia», ricorda Anais nel
“Diario”, le giunse a casa a Parigi, nel maggio del 1936. Erano 249
copie numerate, di una edizione di 94 pagine, stampata nella tipogra-
fia Santa Caterina, a Bruges, e dovevano essere firmate dall‟autrice.
Il giovane Lawrence Durrell, scrivendo da Corfù all‟amico Miller,
dichiarava che «il libro era fresco e dolce e si scioglieva in colori e in
forme improvvise e malleabili». Fu Stuart Gilbert, il traduttore di
James Joyce, a dare in poche righe (di una introduzione mai pubbli-
cata) la chiave più illuminante per comprendere l‟esplosione lirica
della Nin. «Il titolo del libro, “La casa dell‟incesto”, designa
l‟esplorazione di un mondo conosciuto. Secondo la Nin, nel mondo
della passione l‟amante crea l‟essere che ama, l‟amato è la creazione
e la proiezione dell‟amante, un fantasma nato nella sua immagina-
zione: egli ama qualcosa che è parte di sé, si identifica con l‟amato e,
in tal senso, l‟amore per una immagine irreale è un atto incestuoso.
Credo che nulla di simile sia stato mai scritto. Per comprendere
l‟amore bisogna situarsi nel centro della vita stessa, all‟interno
dell‟estasi bisogna essere poeti». Anais Nin riteneva «di avere spinto
la fantasia così lontano da essere incomprensibile agli altri». Nel
1939 scriveva: «Riconosco l‟autenticità metafisica. Scritti come “La
casa dell‟incesto”, e tutte le fantasie per le quali non sono amata,
contengono la più pura essenza di ciò che intendo». Reagendo, dap-
prima, a ciò che credeva essere la fredda, riduttiva domanda
dell‟analisi («credo che sia il poeta in me ad affermarsi a causa della
lotta contro la psicoanalisi»), alla interpretazione «realistica» del
mondo di alcuni scrittori fra cui Henry Miller, al prevalere dei «natu-
ralisti e degli espositori di fatti», Anais Nin si era scavata il proprio
«ordine di scrittura», che definiva: «Formulare senza distruggere in-
tellettualmente, senza alterare, senza uccidere; senza fare inaridire».
Nelle opere seguenti non usò più lo specifico modo «surrealista» de
“La casa dell‟incesto”, ma quell‟«esplosione lirica» costituì la base
delle sue opere narrative, definì il suo metodo e la sua filosofia. E in
realtà fu preveggente e profetica quando, nel 1932, sulla prima pagi-
na de “La casa dell‟incesto”, scrisse: «Tutto quello che so è contenu-
to in questo libro».