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BimensileN°7/8Agosto2015

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if
err
um
Soliferrum

Eccoci qua... In imperdonabile ritardo, che ci vede


costretti a unire 2 numeri in uno... Quello che avete
per le mani, è il numero 7/8 di Soliferrum, e per
giunta mancante di alcune rubriche, ma il ritardo non
è stato dettato dall'inedia, anzi, proprio non
trovavamo il tempo per lavorare al nostro organo
ufficiale, impegnati all'inverosimile nelle attività del
Fronte Nazionale, e nel cercare (dalla nostra piccola
periferica sede) di strutturare il partito in tutta Italia...
Ci stiamo riuscendo, certo il fatto che i responsabili
nazionali del Fronte Giovani, del tesseramento, e
dell'organizzazione escano dalla nostra comunità, aiuta
molto. Siamo riusciti a "mettere la bandierina" in
realtà a noi sconosciute; Abruzzo dove ho
personalmente nominato due provinciali ed un
comunale, Liguria, dove Lorenzo Graglia si è assunto
l'onere di dirigere la regione, Emilia Romagna, dove
grazie allo sforzo combinato nostro e di Carlo Cigliana,
siamo riusciti a coprire tutte le province, e poi
comunali a Barletta, Udine, Trento, etc....e dove lo
trovavamo il tempo di scrivere Soliferrum? Ma gli
impegni non li abbiamo solo verso il Fronte Nazionale,
li abbiamo anche e soprattutto verso noi stessi...ed
allora è giusto trovare un "buco" anche per ultimare il
nostro foglio di battaglia, consci che siamo solo
all'inizio...ma che il domani appartiene a noi.

Marco Braccini
EXEMPLIS VITAE

Jean-François Thiriart 1922 – 1992


Nasce in una famiglia di Liegi, milita dapprima
nella gioventù socialista, durante la seconda
guerra mondiale partecipa al Fichte Bund
(un'associazione nazional bolscevica) e in seguito
nel gruppo "Amis du Grand Reich allemand"
(amici del grande Reich), associazione che
raggruppa vecchi militanti dell'estrema sinistra
belga che ora sono favorevoli all'alleanza con la
Germania. Jean Thiriart può essere considerato un
pensatore "Nazional-comunista" favorevole al
richiamo comunitario dell'Europa. Un'ideologia
questa che mette insieme Comunismo e
nazionalismi europei. Trascorse alcuni anni in
carcere, rientra nella politica in occasione dalla
decolonizzazione Congolese, partecipando alla
fondazione del Mouvement d’action civique,
(Movimento di Azione Civica). Il 4 marzo 1962 a
Venezia Thiriart rappresenterà il M.A.C. in un
convegno in cui l'M.S.I. per l'Italia, il Partito
Socialista del Reich per la Germania e il
Movimento d'Unione per la Gran Bretagna tentano
la fondazione di «un Partito Nazional europeo
basato sull'idea di un'Europa unita e libera dalla
satellizzazione statunitense. Ma il progetto del
Partito europeo abortisce ben presto, a causa
soprattutto delle tendenze piccolo/nazionaliste dei
firmatari italiani (M.S.I.). La lezione che Thiriart
trae da questo fallimento è che il Partito europeo
non può nascere da un’alleanza di gruppi e
movimenti piccolo-nazionali, ma deve essere fin
da principio un’organizzazione unitaria su scala
europea. Nasce così, nel gennaio 1963, la Giovane
Europa, in cui Thiriart eserciterà un ruolo
carismatico. Giovane Europa avrà irradiazioni in
Austria, Germania, Spagna, Francia, Gran
Bretagna, Pesi Bassi, Portogallo, Svizzera e
chiaramente Italia. L'organizzazione, insiste
soprattutto sulla formazione ideologica, organizza
scuole quadri, tentando fra l'altro di costituire
organizzazioni sindacali comunitarie. Giovane
Europa promana un suo braccio militare nelle
"Brigate rivoluzionarie europee" per la lotta contro
l'occupante americano. Nel tentativo di costruire
un polmone esterno l'organizzazione cerca
contatti con la Cina maoista, la Romania, l'Iraq,
l'Egitto, e l'Autorità Nazionale Palestinese. Thiriart
affermerà di aver avuto nel 1968 contatti con
Nasser, e proprio in quest'anno, il 3 giugno,
muore in uno scontro a fuoco con gli israeliani
Roger Coudro. Trentenne, ingegnere francese
della Peugeot, arruolatosi nelle Brigate Europee.
Coudro cade in Palestina nelle file dei feddayn in
uno scontro a fuoco con gli israeliani. È il primo
europeo a cadere per la causa palestinese. Per
Thiriart definizioni quale destra o sinistra non
hanno significato, e ama citare Ortega y Gasset:
«essere di sinistra o di destra, è scegliere uno
degli innumerevoli modi che si offrono agli uomini
d'essere imbecille» Il programma della Giovane
Europa, esordisce così: “Tra il blocco sovietico e il
blocco degli USA, il nostro compito è di edificare
una grande Patria: l’Europa unita, potente,
comunitaria... da Brest sino a Bucarest”....
L’Europa deve optare per una neutralità forte e
armata e disporre di una forza atomica propria;
deve “ritirarsi dal circo dell’ONU” e sostenere
l’America Latina, che “lotta per la sua unità e per
la sua indipendenza”. Il Manifesto abbozza
un’alternativa ai sistemi sociali all'epoca vigenti
nelle due Europe, proclamando la “superiorità del
lavoratore sul capitalista” e la “superiorità
dell’uomo sul formicaio”: “Noi vogliamo una
comunità dinamica con la partecipazione nel
lavoro di tutti gli uomini che la compongono”. Alla
democrazia parlamentare e alla partitocrazia
viene contrapposto una rappresentanza organica:
“un Senato politico, il Senato della Nazione
Europea basato sulle province europee e
composto delle più alte personalità nel campo
della scienza, del lavoro, delle arti e delle lettere;
una Camera sindacale che rappresenti gli interessi
di tutti i produttori dell’Europa liberata dalla
tirannia finanziaria e politica straniera”. Il
Manifesto conclude così: “Noi rifiutiamo l’Europa
teorica. Noi rifiutiamo l’Europa legale. Noi
condanniamo l’Europa di Strasburgo per crimine
di tradimento....A questa Europa legale che
rifiutiamo, noi opponiamo l’Europa legittima,
l’Europa dei popoli, la nostra Europa...". Accanto
alla scuola per la formazione politica dei militanti
“Jeune Europe” nel 1967, darà vita anche ad
un’associazione universitaria, "Università
Europea", che sarà attiva particolarmente in
Italia. Dal 1963 al 1966 viene pubblicato un
organo di stampa in lingua italiana, “Europa
Combattente”. Dal 1966 al 1970 esce “La Nazione
Europea” a cura di Claudio Mutti, oggi direttore di
"Eurasia". La "Nation Européenne”, annovererà
collaboratori come: Il saggista algerino Malek
Bennabi, l’ambasciatore siriano Selim el-Yafi,
l’ambasciatore iracheno Nather el-Omari, il
presidente dell’OLP Ahmed Choukeiri, il capo della
missione vietcong ad Algeri Tran Hoai Nam, e il
capo delle Pantere Nere Stokeley Carmichael. Sul
numero di febbraio del 1969 appare una lunga
intervista rilasciata a Jean Thiriart dal generale
Peròn, il quale dichiara di leggere regolarmente
“La Nation Européenne” e di condividerne
totalmente le idee. Per quanto riguarda la
liberazione dell’Europa, Thiriart pensa a costituire
delle Brigate Rivoluzionarie Europee che
intraprendano la lotta armata contro l’occupante
statunitense. Già nel 1966 egli ha avuto un
colloquio col ministro degli Esteri cinese Chu En-
lai, a Bucarest, e gli ha chiesto di appoggiare la
costituzione di un apparato politico-militare
europeo che combatta contro il nemico comune.
Nell’autunno del 1967 Gérard Bordes, direttore de
“La Nation Européenne”, si reca in Algeria, dove
entra in contatto con la Segreteria Esecutiva del
FLN e col Consiglio della Rivoluzione. Nell’aprile
del 1968 Bordes ritorna ad Algeri con un
Mémorandum à l’intention du gouvernement de la
République Algérienne firmato da lui stesso e da
Thiriart, nel quale sono contenute le proposte
seguenti: “Contributo europeo alla formazione di
specialisti in vista della lotta contro Israele;
preparazione tecnica della futura azione diretta
contro gli Americani in Europa; creazione di un
servizio d’informazioni antiamericano e
antisionista in vista di un’utilizzazione simultanea
nei paesi arabi e in Europa”. Nell’autunno del
1968 Thiriart viene invitato dai governi di Bagdad
e del Cairo, nonché dal Partito Ba’ath, a recarsi
nel Vicino Oriente. In Egitto assiste ai lavori
d’apertura del congresso dell’Unione Socialista
Araba. Ma lo scopo principale del viaggio di
Thiriart consiste nell’instaurare una collaborazione
che dia luogo alla creazione delle Brigate Europee,
le quali dovrebbero partecipare alla lotta per la
liberazione della Palestina e diventare così il
nucleo di un’Armata di Liberazione Europea.
Davanti al rifiuto del governo iracheno,
determinato da pressioni sovietiche, questo scopo
fallisce. Scoraggiato da questo fallimento e ormai
privo di mezzi economici sufficienti a sostenere
una lotta politica di un certo livello, Thiriart decide
di ritirarsi dalla politica militante.
Dal 1969 al 1981, si dedica esclusivamente
all’attività sindacale. Nel 1981, un attentato di
teppisti sionisti contro il suo ufficio di Bruxelles
induce Thiriart a riprendere l’attività politica.
Riallaccia i contatti con un ex redattore della
“Nation Européenne”, lo storico spagnolo
Bernardo Gil Mugarza, il quale, nel corso di una
lunga intervista, gli darà modo di aggiornare e di
approfondire il suo pensiero politico. All’inizio degli
anni Ottanta, abbandonata la vecchia parola
d’ordine “Né Mosca né Washington”, Thiriart
assume una posizione che potrebbe essere
riassunta così: “Con Mosca contro
Washington”...scriverà:..Un’Europa occidentale
alleata, o un’Europa occidentale aggregata
all’URSS sarebbe la fine dell’imperialismo
americano...Se i Russi vogliono staccare gli
Europei dall’America...devono necessariamente
lavorare per questo scopo...bisogna che ci
offrano.... la possibilità di costruire un’entità
politica europea....". nell’agosto 1992 Thiriart è a
Mosca, a fare gli onori di casa è Aleksandr Dugin,
il quale nel marzo dello stesso anno ha accolto
Alain de Benoist. L’attività di Thiriart a Mosca,
dove si trovano anche Carlo Terracciano delegato
del Fronte Europeo di Liberazione, è intensissima.
Tiene conferenze stampa; rilascia interviste;
partecipa a una tavola rotonda con Prokhanov,
Dugin e Sultanov nella redazione del giornale
“Den’”, che pubblicherà un testo di Thiriart
intitolato "L’Europa fino a Vladivostok"; ha un
incontro con Gennadij Zjuganov; si intrattiene con
altri esponenti dell’opposizione “rosso-bruna”, tra
cui Nikolaj Pavlov e Sergej Baburin; discute con il
filosofo e dirigente del Partito della Rinascita
Islamica Gejdar Dzemal; partecipa a una
manifestazione di studenti arabi per le vie di
Mosca. Il 23 novembre, tre mesi dopo il suo
rientro in Belgio, Thiriart è stroncato da una crisi
cardiaca.
DESTRA DOMANI

IL DIBATTITO SUL PARTITO


REPUBBLICANO IN ITALIA
“Nelle ultime settimane si è discusso molto della
proposta di Berlusconi, di riunire tutte le forze di
centro-destra attualmente disperse sotto l’unica
bandiera di un non meglio definito partito conservatore
italiano, sulla falsariga di quello USA. L’idea, di per sé,
non è sbagliata, anche se giunge con qualche decennio
di ritardo rispetto a quando sarebbe stato auspicabile.
So bene che le autocitazioni suonano talvolta
patetiche, ma ricordo perfettamente di avere io stesso
pubblicato, tra gli anni Ottanta e Novanta , alcuni
articoli sulle riviste con cui allora collaboravo ( La
Tribuna di Alfredo Biondi, Il Duemila di Raffaele Costa,
Gazzetta ticinese , Rinascita e Oltrefrontiera in
Svizzera), sottolineando tale necessità. Il fatto che un
politico di lungo corso come Silvio sia addivenuto oggi
alle medesime conclusioni, anche se mi lusinga sotto il
profilo intellettuale, mi lascia sostanzialmente
indifferente sul piano pratico.
Al punto in cui ci troviamo, infatti, ipotizzare la
fondazione di un Grand Old Party nostrano , che
riunisca tutte le anime di quella che un tempo fu la
destra, non rappresenta certo l’asso nella manica di
chi voglia rilanciare questa parte politica, e ciò per
diversi motivi. Cominciando dal più semplice, è
opportuno innanzitutto chiedersi se l’autore della
proposta possieda o meno l’autorevolezza necessaria
per sostenerla. Rispetto a ciò, dobbiamo riconoscere,
egli si è mantenuto prudentemente nel vago, non
avendo precisato se quella espressa era la sua
opinione di cittadino, ovvero intendeva proporsi come
animatore del nuovo movimento , dubbio non ancora
chiarito nel momento in cui scrivo.
Nella prima ipotesi, le convinzioni del Cavaliere
appaiono apprezzabili e degne di nota; nella seconda,
dovrebbero invece essere respinte. Si può
legittimamente opinare, infatti, se convenga o meno
tentare la carta di una generale unificazione dei
moderati , comprendendovi anche coloro che tali non
si considerano, ma l’interesse di tutti porta ad
escludere che Silvio possa farsene protagonista. Egli,
infatti, non è oggi nelle condizioni di guidare con
prospettive di successo una nuova forza politica, e non
di sicuro per i soliti, triti motivi giudiziari, ma per la
sentenza inappellabile di un tribunale molto più
autorevole di quelli italiani: la Storia. Ciò di cui
Berlusconi non sembra ancora rendersi conto è di aver
perduto la propria battaglia non essendo stato capace,
malgrado tre successive investiture, di onorare le
clausole del famoso Contratto con gli italiani,
solennemente e pubblicamente sottoscritto. L’ultima
occasione se la lasciò sfuggire nel 2011 , quando una
coalizione di banditi, guidata dalla malavita finanziaria
internazionale, rovesciò il suo legittimo governo ,
sostituendolo con altri illegittimi, in quanto non eletti
dal popolo. Quella, per lui, rappresentò la sfida ultima
del Destino, che non ha mai fatto sconti a nessuno.
Evitiamo di riaprire le sterili polemiche su come e
perché ciò sia accaduto, eventi sui quali giudicheranno
i posteri. Prendiamo tuttavia atto che nel momento in
cui gli si chiedeva di varcare il Rubicone, per salvare
se stesso e il Paese, non trovò il coraggio di farlo,
restando acquartierato a Rimini invece di marciare su
Roma, anche a rischio di una guerra civile e della
propria stessa vita. Poteva diventare il più grande
statista dell’epoca moderna , uomo della Provvidenza
ed esempio per molti, ma vi ha rinunciato. Ecco perché
il personaggio non appare oggi credibile, quale leader
di un nuovo soggetto politico. Se proprio vuole
rendersi utile alla causa , faccia il padre nobile o lo
sponsor.
Il progetto, tuttavia, non si rivela di facile attuazione
anche per altre ragioni. Se uno dei principali problemi
resta la scelta di un leader di prestigio, che al presente
sembra mancare, non meno decisiva è l’elaborazione
del programma. Pur essendo vero che nel partito
repubblicano americano confluiscono le più diverse
anime del conservatorismo e del moderatismo, una
piattaforma ideale comune , che quanto meno serva a
differenziarlo dagli avversari democratici, è sempre
presente. Questa potrebbe esserlo anche nel caso di
una forza simile in Italia? Al giorno d’oggi sembra di
doverlo escludere, malgrado che Renzi, con le sue
follie quotidiane, ci dia obiettivamente una mano in tal
senso. Le posizioni dei partiti che si riconoscono grosso
modo nella medesima area, appaiono infatti troppo
distanti. Come ricondurre sotto un unico logo forze
storicamente e culturalmente eterogenee, quali Lega e
Fratelli d’Italia, i Laici e i Cattolici per la Vita, i
Socialisti moderati, i Liberali e via elencando ? Come
persuadere poi i rispettivi segretari , che è preferibile
un posto di vice in un partito che vince piuttosto che di
capo in uno che perde?
E qui arriviamo al nocciolo della questione, ossia cosa
possa unire forze così distanti fra loro. L’antirenzismo
può rivelarsi utile nei tempi brevi, ma alla lunga non
paga. E neppure cavalcare la protesta spicciola del
cittadino oppresso dal fisco, schiacciato dalla
burocrazia e minacciato dall’invasione terzomondista.
Una comunità umana della dimensione e dello
spessore di quella che si vuole creare non può fondarsi
sulla paura e sul sistematico rifiuto della realtà, ma
deve riconoscersi in un progetto di respiro storico , in
una cultura politica condivisa, al di là delle specifiche
ispirazioni di ogni singola componente. Inoltre, non
può trarre origine da decisioni verticistiche tipo quella
del Predellino. L’operazione, per apparire credibile,
deve emanare dal basso , anche se coordinata da
un’unica regia, per culminare quindi in una
Convenzione nazionale , a cui tutte le correnti
dovranno partecipare spontaneamente. In vista di tale
obiettivo mi permetto di tracciare alcuni punti
programmatici essenziali , da tutti condivisibili.
Il primo è la necessità di cambiare alla radice il
modello sociale e di sviluppo. Quello vigente, definibile
hobbesiano per la sua intollerabile pesantezza e
chiusura verso ogni novità, è palesemente fallito,
avendo condotto l’intero mondo occidentale, ma in
particolare i Paesi più deboli ed esposti come l’Italia, a
una catastrofe morale, sociale ed economica che non
conosce eguali nella storia. Esso si basa su uno
statalismo di ispirazione marxista, affermatosi tra gli
anni Sessanta e Settanta, dopo che i comunisti
avevano rinunciato alla rivoluzione violenta su cui
puntavano nell’immediato dopoguerra, cercando di
minare le fondamenta della democrazia penetrandola
dall’interno. Tale strategia , purtroppo, trovò
validissima sponda nelle correnti laiche e cattoliche
progressiste , nell’industria assistita , nei sindacati. In
tempi più recenti si è poi assistito al concludersi del
famoso pactum sceleris fra la malavita finanziaria
globale e la sinistra del partito della nazione , oggi
incarnato da Renzi, il cui fine ultimo è l’avvento di un
regime capitalista, con l’obiettivo di distruggere quel
poco che resta del ceto medio. L’ideale è infatti una
estrema semplificazione delle classi sociali , con un
proletariato immenso e una ristrettissima élite di
supermiliardari , i veri padroni. Il solo antidoto a
questa nuova forma di sfruttamento di massa e di
tirannide tecnologica è la partecipazione a tutto
campo, consistente nel restituire al popolo quella
sovranità invano proclamata dalla Costituzione,
attraverso un nuovo modello di rappresentanza
parlamentare e di democrazia diretta. Il secondo punto
riguarda il progressivo smantellamento dello
statalismo assistenziale , causa prima di ogni nostro
guaio , dalla corruzione generalizzata al furto
sistematico del denaro pubblico, dal permanente
conflitto d’interessi al sistema mafioso delle gare di
appalto , dal fiscalismo esasperato , che uccide le
imprese esistenti e impedisce il sorgere di nuove, alla
gestione criminale del risparmio privato da parte delle
grandi banche, che invece di metterlo al servizio
dell’imprenditoria e dello sviluppo lo impiegano nella
speculazione ad uso proprio. Se vogliamo che la nostra
civiltà abbia un futuro , occorre cambiare radicalmente
questa realtà, tornando a un’economia virtuosa
fondata sul riconoscimento del merito e sulla
produzione di ricchezza reale. Simile rivoluzione,
purché coerentemente attuata , si rivelerebbe pure
strumento efficacissimo per riscoprire l’etica
individuale e collettiva , in una società che non
conosce più i principi minimi dell’onestà, del pudore e
dell’onore. Il terzo punto è la difesa della sovranità
nazionale. Il programma accennato potrebbe infatti
non piacere a talune istituzioni europee e mondiali,
emanazioni della grande finanza planetaria. Ebbene,
qualora sorgesse un contrasto del genere , il governo
del Paese dovrebbe replicare con grinta e coraggio a
chi tentasse di sottometterne la volontà, esigendo il
rispetto del modello di sviluppo adottato per la
rinascita, attraverso la revisione degli accordi
internazionali sottoscritti e , ove ciò non bastasse,
minacciandone la denuncia. Questi, in sostanza , sono
i principi comuni su cui potrebbero convergere le
diverse componenti di una grande forza di contrasto
alla nuova barbarie. In tale contesto esse troverebbero
il modo migliore di contribuire al bene comune,
presentando le proprie istanze specifiche e lottando
per esse all’interno di questo soggetto politico. Il
Predellino, abbiamo detto, non serve, bensì
l’elaborazione di una nuova cultura politica. Smettiamo
dunque di parlottare e lamentarci invano, e poniamoci
concretamente al lavoro senza perdere un istante.”

Dott. Carlo Vivaldi Forti Destra Domani


PERCHÈ NON FESTEGGIAMO
IL 25 APRILE
Da moltissimi anni, quando arriva la fine di aprile,
invece di essere contento per il freddo inverno
ormai trascorso, il risveglio della natura ed il
sopraggiungere di lunghe giornate piene di sole
mi assale un profondo senso di tristezza,
ricordando i tragici eventi che seguirono il 25
aprile 1945. Quest'anno i corifei dell'antifascismo,
molti dei quali, in questi lunghissimi anni, hanno
ottenuto incredibili riconoscimenti e prebende,
hanno festeggiato in pompa magna il 70° della
cosiddetta liberazione mantenendo intatto lo
steccato tra vincitori e “vinti” senza alcuna
volontà di arrivare ad una concreta pacificazione
nazionale. Come può la nostra Patria dividersi
ancora tra i “bravi vincitori” ed i reietti della
cosiddetta “parte sbagliata”? Sicuramente sarebbe
stata molto più positiva una riconciliazione tra
vincitori e vinti, che senza rinnegare i loro valori
ed ideali, avessero contribuito assieme al
progresso morale e civile italiano in linea con i
Valori romani e cristiani della nostra tradizione
bimillenaria. Bisognerebbe prendere esempio dalla
civilissima Spagna che dopo la sanguinosissima
guerra civile ha sepolto nell'abbazia benedettina
della Santa Cruz nella Valle de los Caidos Josè
Antonio Primo de Rivera, fondatore e martire della
Falange assieme a 33872 caduti, di ambo le parti
del conflitto, a perpetuo ricordo di entrambi gli
opposti schieramenti. Ma l'odio di una certa parte
ha prevalso specialmente per gli oltre 800.000,
tra uomini e donne che arruolandosi nella R.S.I..
hanno difeso l'onore d'Italia subendo decine di
migliaia di caduti a guerra ormai finita, per non
parlare delle innumerevoli angherie ed ingiustizie
subite dalle loro famiglie. Come disse il principe
Junio Valerio Borghese, medaglia d'oro al V.M.
comandante della Xa Mas, “In ogni guerra, la
questione di fondo non è tanto di vincere o di
perdere, di vivere o di morire; ma di come si
vince, di come si perde, di come si vive, di come
si muore. Una guerra si può perdere, ma con
dignità e lealtà. La resa ed il tradimento bollano
per secoli un popolo davanti al mondo”. Lo stesso
Generale Eisenhower, comandante delle forze
Alleate in Europa, scrisse nelle pagine del suo
diario che “il tradimento dell'Italia è stato un
brutto affare e una delle pagine più buie della
storia di questa guerra, solo il sacrificio dei militi
della RSI ha permesso di mantenere all'Italia un
briciolo d'onore . Nonostante ciò a guerra ormai
finita l'odio cieco e sanguinario di coloro che
sognavano per l'Italia una repubblica popolare di
stampo sovietico si abbattè su oltre 50.000 inermi
ignorando le clausole del trattato di Ginevra sui
prigionieri politici. Uccisioni, torture stupri episodi
di una crudeltà disumana dopo il 25 aprile furono
all'ordine del giorno per molti mesi quando si
poteva essere uccisi non solo per essere fascisti o
loro familiari, ma anche sacerdoti,
possidenti,anticomunisti, partigiani bianchi,
persone che non accettavano questa incredibile
esplosione di cruda violenza. E' per questa
ragione che non festeggiamo il 25 aprile, ma
ricordiamo commossi in un religioso e silenzioso
momento di raccoglimento i nostri caduti.
Ricordiamo i 25000 di Trieste, Istria e Dalmazia
infoibati in quelle italianissime terre per non aver
voluto tradire i loro sentimenti d'amore per
l'Italia.Ricordiamo le centinaia di ausiliare che
immolarono le loro giovani vite dopo stupri e
sadiche torture; Ricordiamo i 50000 combattenti
della RSI e le loro famiglie che pagarono con la
vita la loro scelta di Onore e di Fedeltà ;
Ricordiamo i 126 militi dei battaglioni Bologna e
Romagna e i giovani allievi ufficiali barbaramente
trucidati ad Oderzo ; Ricordiamo i 136 trucidati
dopo inumane torture a Codevigo, narrate nel
recentissimo film Il segreto d'Italia, ed in
particolare il sottotenente Gnr Gino Lorenzi,
crocefisso come nostro Signore, per non rinnegare
la sua fede; Ricordiamo i duecento giovani soldati
della divisione San Marco assassinati sul Monte
Manfrei dopo che l’Ufficiale in comando pattuì, a
guerra finita, il disarmo dei propri uomini coi
partigiani: Ricordiamo le torture e le uccisioni
nella cartiera Burgo di Mignagola di Carbonera
(Tv) dove persero la vita molti tra i fascisti o
presunti tali rastrellati nella zona dai partigiani
garibaldini dove i corpi rinvenuti occultati nei
dintorni furono 83, senza tener conto di quelli
uccisi altrove o gettati nel fiume Sile. Ricordiamo
gli uccisi nel triangolo della morte ed a San
Possidonio, la strage dei 60 militi della Leonessa e
del battaglione Perugia, lestragi del carcere di
Schio, di Avigliana, di Agrate Conturbia, nel
biellese e nel vercellese ad opera del sanguinario
Moranino,le uccisioni di coloro che difesero i
confini orientali dai comunisti titini, le stragi di
Varese, Pavia,Bologna,Modena, della colonia di
Rovegno dove furono uccisi 129 tra militi e civili,i
martiri di Cavezzo (Mo) e di Argenta crocefissi alle
porte delle stalle dopo sadiche torture come il
sottotenente della GNR Walter Tavani, i 43
giovanissimi militi trucidati a Rovetta, l'eccidio di
Cadibona, di Lovere e le altre cento stragi
dimenticate dei quali non esiste nemmeno una
pagina nei libri scolastici di questa Repubblica
“nata dalla resistenza”. Ricordiamo le angherie
subite dagli alleati nei Fascist Criminal Camp
come quello di Hereford in Texas, dove molti
eroici soldati preferirono morire di malnutrizione e
di pestaggi per non rinnegare il loro credo politico,
Ricordiamo i 3000 franchi tiratori di Torino che
spararono sino all'ultimo colpo prima di essere
passati per le armi tali da rendere, come disse un
testimone oculare, il Po di color rosso sangue ed il
loro eroico comandante Giuseppe Solaro di Torino,
giovane fervente credente nel socialismo
nazionale della RSI che seppe morire da eroe
impiccato dai suoi carnefici. Ricordiamo per
ultima, ma prima per l'importanza,la giovane
tredicenne Giuseppina Ghersi di Savona, pestata a
sangue torturata e stuprata da un branco di
partigiani per un tema che aveva ricevuto il
plauso di Mussolini che riposa nel piccolo cimitero
di Zinola. Tutti uccisi barbaramente dopo il 25
aprile per sadiche e sanguinarie vendette senza
che fosse tenuta in alcun conto la convenzione di
Ginevra che tutela le condizioni dei prigionieri.
Tutti ignorati da coloro che si ammantano di
essere gli alfieri della democrazia repubblicana
,nata dal tradimento badogliano e dal sangue dei
nostri Martiri che non hanno mai fatto un gesto di
riconciliazione o di un loro ricordo, mentre noi
onoriamo tutti i Caduti, da una parte o dall'altra,
che in buona fede e coraggiosamente si sono
immolati per il loro ideale. Per queste ragioni non
festeggiamo il 25 aprile che per noi rappresenta
solo la festività dell' Evangelista San Marco,al
quale tra le altre cose è intitolato, oltre la
splendida basilica veneziana, uno di corpi
d'eccellenza della nostra Marina Militare.

Giovanni Gentile - Continuità Ideale Valdinievole


Fare Fronte:

Una quinta colonna in ambasciata

Fiamma Nirenstein nominata nuovo ambasciatore


d’Israele in Italia. Vediamo di capire brevemente di
chi stiamo parlando; da sempre giornalista molto
influente, ha lavorato per La Stampa come inviata in
Medio Oriente, poi per Il Giornale, successivamente
anche per il quotidiano telematico l’Occidentale. Su
Panorama, Fiamma Nirenstein scrive regolarmente una
colonna di politica internazionale. Ha scritto anche su
Paese Sera, L'Europeo, L'Espresso, Epoca. tra i suoi
titoli innanzitutto l’essere stata componente del
Parlamento italiano, di Amici europei d’Israele e
fondatrice di Iniziativa amici di Israele, nonché l’essere
stata eletta nel 2011 presidente del Consiglio
Internazionale dei Parlamentari ebrei. Insomma una
figura assolutamente non priva di un indirizzo
ideologico ben preciso; orgogliosamente sionista e dal
carattere ben poco diplomatico, Fiamma Nirenstein
rappresenta la parte conservatrice di Israele,
rappresenta il grande Israele dominatore di territori e
di coscienze, un personaggio pericoloso che tira i fili
per i poteri forti che ben conosciamo, e che
coercitivamente trainano i popoli nella spirale tetra di
una modernità sempre più liquida, di una modernità
sempre più priva di certezze materiali e spirituali,
sempre più priva di solidità comunitarie, quindi di
cultura, e di pensiero, una concezione di mondo
protesa verso l’annullamento dei popoli, delle nazioni e
degli individui in senso ampio del termine. «Sono
commossa e felice, si tratterà della continuazione del
lavoro di una vita» ha dichiarato la Nirenstein;
nessuno aveva dubbi, infatti per tutta la sua vita,
almeno quella professionale, questa donna ha fatto
degna comunella con tutti quei personaggi
ampiamente discutibili che gestiscono l’informazione,
le case editrici e i centri del potere, quindi che bene o
male riescono a dare un indirizzo culturale alla gente,
perciò una linea politica ai governi. Oltre che dal punto
di vista ideologico, anche da quello geopolitico la
lettura di questa nomina si fa interessante; infatti visti
i cattivi rapporti tra Obama e Netanyahu, e i recenti
sviluppi riguardo l’accordo stipulato sul nucleare tra
USA e Iran, la nomina della Nirenstein quale
ambasciatore in Italia risulta ovviamente essere un
messaggio potente e diretto agli Stati uniti, e in
particolare al presidente Obama. Israele gioca bene le
sue carte insomma, con un colpo da maestro prova
forse a spezzare un equilibrio geopolitico che vede
l’Europa istituzione perfettamente asservita agli USA,
quindi nell’attualità delle cose, al volere delle Lobby
che gestiscono il fare politica di Obama, le quali come
abbiamo capito, non sono propriamente in accordo con
quello che è il pensiero di Netanyahu. Una situazione
quindi, quella di bieco servilismo verso ben precisi
poteri forti, della quale tutta l’attuale classe politica è
complice, da Salvini a Renzi, passando per Berlusconi
e Grillo, tutti questi pseudo politici, non ricoprono altro
che il ruolo di camerieri di voleri stranieri e
antinazionali, non fanno altro che continuare a
spingere la nostra patria verso il dirupo. In ultima
istanza, voglio per una volta partire prevenuto, e
smarcarmi dalle accuse spicciole di antisemitismo, che
ogni qualvolta proviamo a costruire una critica
politico/ideologica riguardo Israele o il suo “indotto”, ci
piovono addosso senza pietà; sarò chiaro, tutto il
disprezzo che indubbiamente proviamo verso Israele,
non è basato sull’odio razziale, ma sulla fare politica di
Israele, il quale assieme ad altre Nazioni, si fa
portatore universale della bandiera del marcio
sionismo. Esistono sionisti non ebrei, ed ebrei
antisionisti, non è la razza a fare la differenza, ma la
“parte” per la quale si lotta; noi lottiamo per il popolo,
chi invece supporta Israele e gli USA, supporta il
sionismo, il liberismo, l’immigrazione, la distruzione
della società, e tutto il resto. Forti delle nostre
convinzioni ideologiche, sappiamo bene da che parte
stare; sempre dalla parte della gente, mai con i poteri
forti, mai con Israele.

Andrea Brizzi
Un giovane che si droga
è un giovane che non lotta.

I recenti fatti che hanno visto la scomparsa di due


adolescenti per colpa del consumo di sostanze
stupefacenti, hanno riportato alla ribalta il
problema della droga nei giovani. Soprattutto
negli ultimi tempi l’argomento ha bagnato il becco
di molti giornalisti e presunti esperti nel settore,
dalle cui bocche è uscito di tutto e di più; abbiamo
tutti avuto modo di udire argomentazioni
sconcertanti, atte ad incolpare la qualità della
sostanza assunta, fino ad arrivare a proposte da
capogiro, una su tutte: “educhiamo i nostri
ragazzi a drogarsi consapevolmente”.
Vediamo quindi di organizzare una seria analisi
critica sull’argomento, cercando di individuare
cause e conseguenze di questa assurda abitudine,
la cui diffusione sembra stia crescendo tra gli
adolescenti. Innanzitutto quando ci troviamo di
fronte ad un problema di questo tipo dobbiamo
domandarci: perché ci si droga? La risposta è
sottesa tra questioni sociologiche e sociali, le quali
meritano di essere meglio analizzate. Assistiamo
nella società di oggi, ad una mancanza totale di
“solidità”, e parimenti al tentativo ormai in stadio
avanzato, di liquefare le poche solidità rimaste,
ebbene in questa ormai fin troppo chiara
modernità liquida, gli individui si trovano slegati,
sconnessi, distanti ed estranei, in questo tipo di
società, perfetta conseguenza del liberismo e del
mondialismo, l'uomo non è più tale, bensì è
considerabile una particella, un atomo in un
substrato liquido. Come tale, egli cerca una
stabilità, una situazione di equilibrio che possa
rilassarlo, e soprattutto ritornando alla prassi, che
possa alienare momentaneamente le
preoccupazioni e i problemi di una vita che non da
quello che aveva promesso. La colpevolezza di
questa disgregazione dei legami comunitari, deve
per forza di cose essere attribuita al liberismo; un
sistema economico sociale che spinge l'uomo al
cannibalismo economico e all'individualismo
materialistico, che annienta la comunità poiché
incentiva la prevalenza dell'interesse privato
rispetto a quello collettivo, il liberismo è la causa
principale di questa liquida modernità, il liberismo
è “l'anticristo” della società, in quanto la
distrugge, annientando i nuclei comunitari, dalle
famiglie alle aggregazioni di ogni tipo. L'uomo
forse per sua natura, (giacché si possa definire
con esattezza una natura umana), ha bisogno
della società, ha bisogno di comunità, al pari di
aria, acqua e luce; ne ha bisogno poiché molto
semplicemente un'assenza di società corrisponde
ad un eccesso di libertà, e troppa libertà significa
anche troppa responsabilità, quindi in termini
sociologici l'equilibrio si cela nell'esistenza della
società, ovvero là dove vi è la cessione di parte
della libertà individuale, in favore del benessere
della collettività. Nella Storia mai è stata
raggiunta una situazione simile a quella odierna,
nella quale la comunità e quindi la società appare
distrutta e disgregata a tal punto, che rimangono
in piedi solo deboli istituzioni che si fingono Stato.
In questa giungla di iene e di lupi, i nostri ragazzi
privati spesso di una famiglia ben solida e
presente, privati di un'educazione scolastica
valida, senza certezze materiali e spirituali, si
trovano a sbandare trasportati dalle frenesie del
momento, e spesso a fuggire la realtà abbrutendo
le loro vite, nei peggiori vizi o comportamenti
conosciuti. L'atto di drogarsi, è soltanto uno dei
tanti modi che i ragazzi cercano per colmare dei
vuoti esistenziali tipici di chi è cresciuto in un
ambiente difficoltoso, in famiglie inesistenti o
litigiose, di chi è cresciuto senza possibilità
alcuna, oppure di chi è cresciuto in gabbie dorate.
Non dobbiamo differenziare l'uso-abuso di droga a
seconda del ceto sociale di appartenenza del
drogato; è vero che nella classe alta l'utilizzo di
sostanze appare mosso forse più da vizio che da
necessità di fuggire il presente, ma il concetto di
fondo rimane lo stesso, ovvero: la mancanza di
certezze, dovuta all'eccesso di possibilità o al
difetto delle stesse, causa sempre e comunque, in
una società senza appigli validi e solidità di alcun
genere, una voglia estrema di dimenticarsi della
realtà, di fuggirla, di abbrutire la propria vita con
qualcosa che distolga la mente dalla sofferenza
psicologica. Il “drogarsi” quindi, non deriva da
altro che dalla procrastinazione infinita e abituale,
di un malessere esistenziale diffuso.
Una moda quindi che va assolutamente fermata, il
cui sviluppo in aumento, avrà altrimenti, e sta
avendo, conseguenze disastrose; appare chiaro
infatti che generazioni di “drogati”, o comunque di
assuefatti da sostanze di vario tipo, non saranno
capaci di partecipare attivamente alla vita della
società, e alla vita intellettuale ampiamente
concepita. Generazioni di “non pensanti”
busseranno alle porte del mondo, senza avere
nessuna capacità di ambientarvisi, persone di
questo tipo, saranno in poche parole altre pedine
da aggiungere al gregge, pretestuosamente
diretto e guidato da un sistema edonistico e
materialistico. Persone quindi il quale agire
pedissequamente al sistema, contribuirà e sta
contribuendo a creare una spirale fatale senza via
d’uscita, “un cane che si morde la coda” insomma,
poiché in assenza di un certo tipo di società,
contestualizzando il tutto nell’agone della
modernità, un problema del genere non è
risolvibile. La soluzione quindi, a mio avviso si
palesa là dove esiste una causa e una
conseguenza al problema ovvero; abbiamo detto
precedentemente che il “drogarsi” è soltanto uno
dei tanti modi per fuggire e/o procrastinare un
malessere esistenziale diffuso nella società di
oggi, abbiamo altresì asserito che l’assenza della
società è una perfetta traduzione dello svilimento
del concetto di comunità, e della creazione di un
mondo di individui, assuefatti non solo da
sostanze, ma dall’ideologia liberista, che
individualizza il mondo, e uccide la comunità.
La soluzione quindi, è ricostruire uno Stato forte e
presente, che diriga e organizzi la vita del popolo,
grazie al quale nella storia, esso si è costituito
Nazione, e per l’assenza del quale oggi esso sta
morendo di modernità. La via d’uscita che potrà
permettere ai nostri ragazzi di liberarsi dal giogo
delle sostanze stupefacenti, è la stessa che
permetterà ai popoli oppressi dal liberismo e
dall’imperialismo di spezzare le proprie catene,
ovvero la ricostruzione di un’educazione profonda,
di una ideologizzazione delle masse, che si basi
sul rispetto e sulla valorizzazione della vita, sulla
gioia del lavoro, sulla disciplina, sulla cultura,
sull’esaltazione del concetto di comunità e quindi,
sulla sacralità sociale e spirituale della famiglia e
della Patria. Soltanto così sarà possibile instillare il
germe della ribellione nelle giovani generazioni, le
quali devono ben capire che è il loro futuro ad
essere sotto attacco, devono comprendere che è
la libertà della loro comunità di popolo, della loro
Patria, ad essere preclusa. Ancora una volta il
Fronte Nazionale, non si tira indietro riguardo le
sfide più dure, e ancora una volta dimostra di
aver compreso fino in fondo quale sia il problema
e quale la soluzione. Quindi giovani tutti, non
esitate, non aspettate la chiamata alle urne, una
croce su una scheda non vi fa liberi, partecipate!
Per voi stessi come uomini futuri, e per la vostra
gente, ricordate bene: un giovane che si droga è
un giovane che non lotta.

Andrea Brizzi
GLOBALIA

Una prospettiva meridionalista per l'Italia

Chi scrive questo articolo non ha alcuna formazione specifica


in economia, non è capace di discettare riguardo a grafici,
curve di sviluppo o proiezioni varie. Parimenti ha avuto
l’occasione di visitare, in questi mesi, Napoli, cuore del
rinovellante mito della “Borbonia Felix” e Roma, che dello
“Stupendo Morbo meridionale” è la protesi burocratica.
In questi anni di crisi in cui nemmeno più i topi hanno voglia di
ballare, i Capitani hanno cominciato ad abbandonare la nave.
E se il separatismo leghista, abusato nel decennio appena
passato, è tornato in versione “barricata e Coldiretti” in Veneto,
i mille e uno personalismi regionalistici al Sud di Roma si sono
federati, per spinta atavica, mettendo su in 5-6 anni una critica
strutturata di questo sistema unitario e Post-fordista, in palese
crisi. Non è interessante in questa sede indagare i reconditi
motivi per cui il Sud sta rifiutando l’Italia. Alle risposte più ovvie
(un secolare atteggiamento paternalistico, lo sfruttamendo
delle masse del Sud per foraggiare l’Industria del Nord) se ne
potrebbero aggiungere altri, più esotici e stuzzicanti (riscoperta
di un identità Mediterranea, sviluppo di una diversa etica della
produzione), ma il quadro rimarrebbe variegato e
inconcludente, non aiutato dalla mancanza di studi speculari a
quelli che, invece, si sono sprecati per capire la deviazione
Padana (non ultimo un meritorio lavoro di Marco Tarchi,
Professore di Scienze Politiche all’Università di Firenze).
Trovo che sia molto più utile impegnarsi in un esperimento
mentale. Invece di rifiutare a prescindere le punzecchiature
neoborboniche, sarebbe interessante capire fin dove queste
sono fantascienza territoriale e dove, magari, comincia il
rilancio intellettuale di un paese alla deriva.
Fino ad oggi l’atteggiamento del nucleo produttivo Italiano, che
rimane sostanzialmente accquattato nel Triangolo Industriale
di Giolitti, verso il Sud Italia ha spaziato da un rigido
calvinismo macroeconomico (“Italia uguale Sud uguale
disastro. Finché c’è il Sud nell’Italia il disastro è quotidiano.
Senza il Sud si sta benissimo e non avremmo avuto questa
crisi” Mario Borghezio) ad uno straparlare dell’anima del Sud
senza soldo prestare. In mezzo c’è stata la strategia della
Prima Repubblica, quasi omeopatica, nella convinzione che
una pioggia di denaro prestato senza progetto avrebbe, per
forza di cose, attecchito e fatto miracoli. Il minimo comune
denominatore è stato l’unilateralismo di questi tentativi. Da
sempre si applica al Sud Italia un paradigma produttivo che è
proprio del Nord Italia, fatto di piccola Industria a carattere
fordista. Questo modo di pensare è forse proprio dei
produttivisti “sociali”, quelli che avrebbero voluto
industrializzare l’Italia in punta di IRI, e che credevano nella
cieca obbedienza, anche dell’economia, al principio dei Vasi
Comunicanti. E’ da questo fallimento che viene fuori il nuovo
paradigma per il Sud: valorizzare il territorio. Un dogma che si
sostituisce ad un altro. Perché è vero che il Sud è
un’eccezione che non conferma proprio nessuna regola (ed è
questa la sua forza), ma non si può fare di questa eccezione
una regola. Il modello delle aziende agricole specializzate,
della sinergia tra turismo, agricoltura e specialità locali, delle
avanguardie nelle fonti di energia rinnovabili, si è rivelato
virtuoso ma “cicalesco”, buono per essere ciliegina, e non torta
esso stesso. Non ha creato ricchezza popolare: è vero che un
casermone di cemento armato fuori Sofia è molto più brutto di
un bed and brekfast tra le campagne del Salento, però uno da
lavoro a centinaia di operai, l’altro crea una famiglia di
“microfondisti” in un mare di disoccupazione. Purtroppo, in
media stat virtus. E allora il modello di sviluppo per il Sud si
rivela essere quello di una piccola industria ad alto tasso di
innovazione con un alta produttività. Senza perdere di vista
l’intuizione di Salvemini, quella che se il Meridione avrà da
rinascere, sarà per mano dell’agricoltura. Ma qui l’intuizione si
fa sistematica. Se fino agli albori del nuovo millennio era
possibile distinguere tra una netta “Questione Meridionale” e
una più generica “Questione industriale italiana”, ad oggi,
questa distinzione è ardua e pretestuosa. Non solo perché non
esiste più un Italia che va e una che non va, ma anche perché
la ripolarizzazione del Capitalismo Usuraio europeo, situato
nell’area N-EURO, uniforma nella “divisione del Lavoro a
livello internazionale” (leggi europeo: cit. Adam Smith) l’Italia
nella stessa condizione di Cenerentola d’Europa. La temuta
scissione in due capitalismi opposti è avvenuta, ma il Nord
Italia (la macroarea alpina, nei deliri di qualcuno) non è entrato
nel Club di quelli che contano. Esso quindi si trova ad essere
un autoeletto capitalismo virtuoso, ma nessuno è più disposto
a riconoscergli questo titolo. Come diceva Stendhal, “Non è
l’Italia che ha cambiato la piazza del Sud, ma è la piazza del
Sud che ha cambiato l’Italia”. Anche in economia, la
“Questione meridionale” è diventata la “Questione Italiana”,
nella solita annotazione geografica che siamo sempre la
“Terronia” di qualcuno. A questo punto riflettere sulla
Questione Meridionale è, con piglio concentrico, riflettere
sull’Italia tout court. Che è esattamente quel che tenterò di
fare. Con una tesi: un’Italia più Borbonica è un’Italia migliore.
Industrialismo e sostenibilità Spesso, nell’area socialista
nazionale, ci si lamenta che il problema italiano è una
galoppante deindustrializzazione. Ovviamente non avere più
segmenti produttivi che permettano al paese di recitare un
ruolo propositivo in ambito internazionale è un punto nodale.
Ma appaltare questa deindustrializzazione ad agenti esogeni
ed evitare di parlare di quanto questa sia frutto di un più
grande fenomeno interno al Capitalismo mondiale, è
fuorviante. Giova ricordare che già Smith aveva capito dove
sarebbe andato a parare un capitalismo che, per forza di cose,
non poteva accontentarsi se non del Mondo come arena di
coltura. Nel riposizionamento mondiale le vie sono due: o si
tenta di rimanere abbarbicati al “Secondario Mondiale”,
mettendoci però in competizione con colossi geopolitici come
Cina, India e Brasile, o ci si ritira nell’autoeletto “Terziario
Mondiale”, quella ristretta cerchia di paesi che offrono servizi
ad alto tasso tecnologico e culturale. Tentare di combattere la
via delle grandi industrie e dei grandi poli produttivi vuol dire
avere un gran cuore donchisciottesco. La demografia, la
geografia e la sociologia impediscono uno sbocco del genere.
La via potrebbe essere una reindustrializzazione a misura di
uomo. E non per cedere all’ecologismo militante. La struttura
produttiva italiana, da sempre basata su piccole e medie
imprese, si è dimostrata negli anni più elastica nell’affrontare i
problemi del ricollocamento del capitalismo mondiale. Unire
queste esperienze di piccola dimensione in gruppi a controllo
Statale, inseriti in un dialogo economico continuo con omonimi
d’oltreconfine, potrebbe salvare sia il “movimentismo”
imprenditoriale italiano, che tutt’ora salva l’economia italiana,
ripetendo la parabola dei mammiferi che prendono il posto dei
dinosauri, sia superando il grande problema delle Piccole e
Medie imprese: l’innovazione. Questo modello produttivo è,
per l’appunto, il “modus fabricandi” funzionante al Sud. Ma
dev’essere aiutato. E allora torna al centro del discorso una
profonda revisione di come il credito viene elargito alle
imprese che si federano per sopravvivere. In un articolo di
Luigi dell’Olio, uscito per Repubblica, si fa notare come solo
un intervento statale nel garantire tassi di interesse umani
possa diminuire la pressione bancaria sul tessuto produttivo.
Anche qui, solo più Stato può riuscire a garantire il dinamismo
della piccola e media impresa, sia al Sud che al Nord,
spezzando il diffuso stereotipo dello Stato in Economia come
“moltiplicatore di gigantismi industriali a perdere”. Il
Mediterraneo ai Mediterranei Un altro ritornello che suona
spesso nelle cantilene socialiste e nazionali è la necessità che
l’Italia diventi un paese realmente Mediterraneo, e che la
smetta di stare dietro alle sirene teutoniche e anglosassoni. A
questa cantilena mi aggiungo spesso anche io, che ritengo il
Mediterraneo, prima ancora dell’Europa (L’Occidente potrebbe
anche bruciare, per quanto mi riguarda) la vera casa comune
di tutti gli Italiani. Ma troppe volte chi parla di Mediterraneo lo
fa pensando da Celto, o, peggio ancora, da Padano.
Il Mediterraneo impone, poeticamente, un’apertura totale.
Bisogna farne parte. Essendo un mare interno ed intimo, non
è disposto a lasciarsi amare da sconosciuti (come invece fa
l’Atlantico, il mare di Nessuno). Per questo è necessario che a
parlare di Mediterraneo siano i Meridionali. Fin da Mussolini,
che aprì la Fiera del Levante nel 1929, l’unico modo perché il
Mediterraneo non diventi un vezzo dell’esotismo è sempre
stato quello di parlare la lingua del Mediterraneo. I tentativi,
lodevoli, anche paneuropei, di aprire fiere inter-Mediteranee
puntando sul dialogo Europa-Mediterraneo, hanno fallito,
perché il salto è troppo ampio. In tempi di magra, la Fiera del
Levante, che ha un approccio rigidamente “localistico” (a
livello di Mare Nostrum), muove annualmente 150 Milioni di
Euro, senza contare le varie partecipazioni di tale Fiera
all’estero (Albania, Germania, Libia, Romania). Questo
dinamismo è possibile perché la lingua economica parlata è
simile. Creare gruppi uniti, mobili ma solidi, è il futuro della
concorrenza: grazie ad un centro studi unitario sulla
concorrenza in tema, l’UCIMU - Sistemi per Produrre, un
collettivo di aziende interessate alla produzione di macchinari
ad alto tasso tecnologico, riesce a competere con colossi
cinesi ed indiani, e a produrre una vasta documentazione su
come e dove investire e produrre in Italia.
Addentrandoci nelle relazioni internazionali, le prossime sfide
Italiane saranno Mediterranee. Non solo sarà necessaria una
gestione oculata e profonda delle recenti scoperte
idrocarburiche in terra di Lucania, ma bisognerà che non
diventi un ennesima occasione per mantenere in vita un
sistema produttivo moribondo. La nuova disponibilità di
materia prima dovrebbe invece far partire un ripensamento di
tutta l’Industria Italiana, che dal razionalismo produttivo
meridionale (quando l’impresa funge) può solo trarre beneficio.
Non solo: il petrolio Meridionale sarà anche il banco di prova
per un progetto unitario Italiano nell’Adriatico, dove,
ragionevolmente, la lotta con la Croazia per i giacimenti
sottomarini si farà aspra e senza esclusione di colpi. L’ideale
sarebbe la nascita di un consorzio di imprese estrattive
italiane, che produca un ente di utilizzo delle risorse unico
italiano, sotto l’egida dell’Eni e del Ministero dell’Economia
italiano. Meglio ancora se a condurre tutto questo dovessero
essere le eccellenze della Zona. Come prospettato da molte
associazioni della zona, i proventi del Petrolio (sulla entità del
quale, tuttavia, resistono forti dubbi) dovrebbero essere
redistribuiti con un sistema hub and spoke. Invece di drenare
risorse finanziarie da questo frangente, è necessario
reinvestire questi soldi al Sud, creando un nuovo polo
petrolchimico. In definitiva, per evitare che l’Italia si spacchi
definitivamente in due, e parimenti per evitare che l’unico
collante a tenerla insieme sia una asfissiante burocrazia
coloniale europea, è necessario che la dirigenza Italiana leghi
insieme le disgrazie italiane, per obbligare tutti a correre una
staffetta. Il neoborbonismo (da non stigmatizzare come
“deviazione secessionista”) deve diventare una sfida da
superare in qualità verso un cosciente paradigma
meridionalista. Come le intemperanze leghiste hanno portato
alla ribalta temi nuovi (Federalismo e maggior libertà d’azione
e di spesa per gli organi del territorio, Provincie e Comuni),
così l’intransigenza meridionalista deve immettere nel discorso
politico repubblicano tematiche nuove, come un Industria più
equilibrata e un riposizionamento geopolitico italiano.
Lorenzo Centini
CONTRIBUTO:

Tempus Loquendi - Tempus Tacendi:

‘Ma dici a me? Ma dici a me? Ma dici… a me? Ehi, con


chi stai parlando? Non ci sono che io qui… Dì, con chi
credi di parlare, tu…’. E’ Travis, l’alienato (nei film USA
diviene simbolo dei reduci dal Viet-Nam, come poi lo
sarà Rambo) depresso prigioniero dell’ insonnia che lo
fa lavorare di notte, chiuso in una squallida stanzetta
in compagnia della televisione e tante pistole di
svariato calibro, che si guarda allo specchio e si
esercita con l’ignoto nemico con cui, di fatto, si
appresta a condurre la sua personale battaglia. Scena
famosissima tratta da Taxi driver (1976), regia di
Martin Scorsese, che consacrerà definitivamente
l’attore Robert De Niro stella di prima grandezza del
cinema di Hollywood. (Ci sono reduci e altri reduci. La
prima vera sconfitta, un trauma, la ferita aperta e
marcescente, del soldato americano. Ci vorranno film
quali Il cacciatore, ancora con De Niro – magistrale la
scena nei boschi e il cervo che viene risparmiato – o
Apocalypse now con Marlon Brando nel ruolo del
colonnello Kurtz – magistrale il monologo sullo sposare
l’orrore, un cupo ‘cavalcare la tigre’. Reduci ed altri
reduci, già. Quelli sconfitti della Germania 1918,
descritti da Ernst von Salomon ne I proscritti, che
prima nei Corpi Franchi e poi, die Fahne hoch! e la
camicia bruna, si trasformeranno in ossatura delle S.A.
oppure quelli della Vittoria mutilata, che e futuristi e
arditi e fascisti daranno vita allo squadrismo, mettendo
in fuga il corteo socialista e devastando la redazione
dell’Avanti, a Milano, il 15 aprile del ’19 – sto leggendo
in questi giorni la doverosa ristampa di Vecchia
Guardia a cura della Eclettica Edizioni. Reduci e reduci,
già, ma anche altra razza…).Sono andato su Youtube e
ho rivisto le sequenze – poco più di un minuto – dove,
appunto, Robert De Niro dà vita ad una mimica
stralunata e poliforme che l’ha reso famoso. Perché
questo ritorno di memoria su un film ormai lontano nel
tempo – sebbene ‘The Outsider’(titolo del libro che
rese di una certa notorietà il suo autore, l’inglese Colin
Wilson, 1958) mi è sempre stato familiare fra le mie
onnivore letture giovanili, come Lo Straniero di Albert
Camus o La Nausea di Jean-Paul Sartre, premesse per
arrivare all’inimitabile Céline? Appagamento – e
tardivo pagamento del debito – forse alle suggestioni
confuse alle tentazioni iniziali di un inquieto e
introverso adolescente, divenute consapevoli di
quell’anarco-fascismo maturato in vicende di vita
personale politica culturale di esperienze e di riflessioni
nel corso del tempo? Ci vuole un pretesto, una sorta
d’inizio (aborro usare il termine ‘incipit’), il caso
fortuito o chissà quale diavoleria del contingente del
quotidiano del provvisorio… Del resto ‘per Lo Straniero
il mondo non è né razionale né ordinato’, concordo e
prediligo il domandare, la sospensione d’ogni risposta,
perché mi sono reso conto del caos e da esso, in
solidarietà con Nietzsche, mi attendo veder brillare e
ballare qualche stella.

Ho avuto la fortuna e l’onore di conoscere il dottor


Mario Sannucci con cui trascorrevo un paio d’ore ogni
mattina del martedì, giorno di permesso a scuola,
andando a trovarlo nella sua tipografia nella zona di
via XXI Aprile. Dal portamento austero, alto, con i
capelli ancora folti e bianchi, gli occhi azzurri,
elegante, dai modi garbati e decisi. In contrasto con il
mio abbigliamento da retrò anni ’60, i capelli e la
barba arruffati… Egli era privo del braccio destro,
comandante di plotone nel btg. Lupo-XMAS, lasciato
sulle rive del fiume Senio nel tentativo di snidare una
postazione di soldati canadesi, all’inizi del ’45, estrema
difesa del suolo patrio (di una patria che del suo
sacrificio non ebbe sentore, ormai agonizzante nella
viltà e vergogna di quell’8 di settembre, macigno,
marchio d’infamia di tutta la nazione). Insieme si
risaliva la rampa della tipografia ed egli mi offriva un
cappuccino – il rito del martedì l’ho definito in Ritratti
in piedi -, con cui si sanciva la fine della nostra
conversazione, sovente un mio monologo. Gli portavo
da leggere Briciole di cultura, i miei pezzi sulla
Publicondor ed altro ed egli mi rimproverava, garbato
e deciso, di trattenere il mio pensiero, dare per
scontato un passaggio tanto da faticarne la
comprensione… Il suo rimprovero; le immagini di Taxi
driver. E il rischio d’essere frainteso (aveva forse
ragione il Platone del Timeo quando s’incazzava con il
dio egizio della scrittura?). A proposito del mio ultimo
‘pezzo’ dal titolo Contestazione Ideale, un amico
‘virtuale’ ha commentato: ‘Domanda: hai combattuto,
hai lottato, sei stato in prigione, hai creduto, per cosa?
– Hai deposto le armi (ideologiche e virtuali)? – Non ci
credo ti sia votato ad una esistenza borghese! –
Vecchio sì ma mai domo! – Hai dimenticato la lezione
di Junger? ‘Ribelli fino alla morte’! – Sono nato
rivoluzionario e ci morirò! – Tu?’… I punti interrogativi
lasciano aperto il dubbio – e di questo lo ringrazio -; i
punti esclamativi sono indici puntati contro – amen! –
ed anche di questo gli sono debitore per costringermi a
guardare lo specchio (ecco svelato il riferimento a
Robert De Niro) quanto sia oramai un piccolo borghese
stizzito ed acido e sempre meno un Outsider (sempre
che lo sia mai stato!) se mi esprimo o m’incarto con le
parole…

Apologia (autodifesa) di me stesso? No, grazie.


Testamento politico ed esistenziale? No, grazie. E’ da
oltre quarant’anni che attraverso le vie del quotidiano,
con annessi e connessi, il mormorio o lo stridio fatto di
ingiurie insulti menzogne, scritte sui muri e manifesti
con il pennarello, quel silenzio assordante nell’aula
professori (brulicare di vermi, in effetti) e tutto
l’armamentario per mettermi la corda al collo e
appendermi al ramo ed io, io ‘la cosa mi lascia
totalmente indifferente’ ebbi a rispondere ad un
ragazzotto pallido magro e di poche speranze che
pensava di rendermi il pomeriggio amaro… Però, come
per la moglie di Cesare, mi risento se si insinua – così
mi pare di capire – di essere uno sconfitto, soprattutto
un rinunciatario… Io che amo Robert Brasillach, questo
mio fratello il più caro, anche perché ci ha lasciato a
testamento, davanti al plotone d’esecuzione, ‘la
fierezza e la speranza’. Che, poi, non sempre della
fierezza possa io dire d’essere stato amante fedele o
che la mente ed il cuore, sovente, abbiano tentennato
e avvertito la speranza inutile fardello, beh, questa è
altra storia. Quante volte mi sono soffermato
sull’attaccamento, quasi filiale, verso la terra di
Romagna, la costa dalla spiaggia ampia e sabbiosa,
l’Adriatico color bottiglia, i primi baci a labbra strette e
le mani a cercare le curve dei seni senza fare rumore,
la discoteca di Alfredo e quella di Stefano dove portavo
i miei alunni in viaggio di ‘istruzione’, la tomba del
Duce a braccio teso là ai piedi dell’Appennino, con i
ciliegi in fiore come antichi samurai, e il Tempio di
Leon Battista Alberti con la cappella di Ixotta, Isotta
degli Atti la donna tanto amata da Sigismondo
Malatesta. E al poeta Ezra Pound piaceva l’iscrizione
sul sarcofago, il cartiglio con la frase tratta
dall’Ecclesiaste Tempus loquendi tempus tacendi’.
Senza scomodare le interpretazioni e le valenze di
sapienza ermetica, che pur sono lecite, ben più ci dice
della constatazione della vita, ove domina la parola, e
la morte, ove si leva la voce del silenzio. Chi non sa,
parla; chi sa, tace. E, da qualche altra parte, un altro
poeta, Charles Baudelaire, ammonisce come ‘hanno
detto che i miei versi possono fare del bene, non me
ne rallegro; hanno detto che i miei versi possono fare
del male, non me ne dolgo. Chi sa, m’intende; per gli
altri ammucchierei spiegazioni senza senso’… Così la
nostra esistenza, il nostro agire. Ho terminato di
leggere in questi giorni l’ultimo romanzo dello scrittore
spagnolo Arturo Perez-Reverte dal titolo Il cecchino
paziente. Quanto pubblicato in Italia, credo, di aver
letto tutto e mi dolgo che, nel trasloco, ho dovuto
abbandonare anche una parte delle sue opere (insieme
ad altre centinaia di volumi sulla filosofia e di storia e
narrativa). A Madrid mi hanno riferito che gli si
attribuisce una eco monarchica e che partecipa,
spesso, a incontri della Destra nazionalista. ‘Sei
giovane solo la vigilia della battaglia. Poi, vinci o perdi,
sei invecchiato… Capisci cosa voglio dire?’, così Sniper,
il writer (il graffitaro) protagonista in nero della
vicenda. Cosa aggiungere se non che invecchiare è
una malattia, una degenerazione della giovinezza
ammantata di vile e stupida saggezza, là dove lo
spirito si illude d’essere il vincitore sul corpo prostrato.
E quando la vita si fa ricordo immagini filtrate dalle
parole della memoria è essa stessa già finita. Non sei
tu lo sconfitto, non tu il rinunciatario, tu sei soltanto il
carnefice e soprattutto la vittima di ciò che chiami,
ignaro, la ‘tua’ vita… E’ il valore, l’intensità, la durata
dell’illusione, dell’inganno, che fa la differenza, poter
dirti in quella circostanza, in quella occasione, io c’ero,
non consola non gratifica non ti salva, eppure… sai
d’essere altro. Dai, smobilitiamo da atmosfere di facile
romanticismo, di ornamenti ideali, di facezie
metafisiche, zaino in spalla sacco a pelo arrotolato le
maniche della camicia sopra i gomiti gli scarponi
impolverati – faccia al sole e in culo al mondo! -,
magari unendo ereticamente i canti della rivoluzione,
delle bandiere al vento, rullo di tamburi, torce nella
notte, del BL 18 ‘con le strade brulle e rosse’ bastoni e
barricate, con Francesco Guccini de L’avvelenata, ‘io
tutto, io niente…’ o, ancora più in là, con i Litfiba di
Eroi nel vento! (che, dedicata ai piloti suicidi, i
kamikaze, del Giappone in armi, fu loro rimproverata
dagli stolti e gli ignavi) ‘non sarò eroe – non sarei
stato mai – tradire e fuggire – è il ricordo che
resterà!’… Poi un grido libero e ribelle contro il cielo se
fredde si fanno le stelle e contro la terra se aride si
rendono le zolle. Basta per restare fedeli e impavidi fra
le rovine e sentirsi, nonostante tutto, della razza dei
vincitori? Chissà…

Mario Michele Merlino da “Ereticamente”


Memoriae

Questa foto, scattata tre anni or sono a Mosca,


durante un viaggio di lavoro, ritrae una cosa che, sul
momento, lasciò me e mio fratello piuttosto perplessi;
nel giardino (innevato, ovviamente) di una scuola
primaria, campeggiava uno strano monumento. Non
ritraeva pinocchio, ne topolino, ma qualcosa che
misura la distanza che corre tra un paese, certo
contraddittorio, come la Russia e la nostra Italia,
buonista e pacifista. Su un basamento di cemento, si
arrampicava un carro da guerra T-34, risalente a
quella che i Russi chiamano la Grande Guerra
Patriottica, per noi la seconda guerra mondiale. Il
carro, oltretutto, non aveva neanche quel che di
innocuo che la ruggine stende sui residuati, ma
appariva in perfetta manutenzione, pronto per avviarsi
contro il prossimo invasore che tenterà di mettere
piede sul suolo della (santa) Madre Russia. Ricordo che
un monumento simile, costituito da un carro armato
Sherman Americano dimesso e scolorito, era nella
piazza d'armi della caserma di Albenga, dove sia io
che Marco (Braccini) abbiamo trascorso insieme le
prime settimane sotto le armi. Ecco già due stridenti
differenze, tra l'Italia e la Russia; da noi, i soldati
marciano e fanno l'alzabandiera sotto un (marcio)
simulacro inertizzato, costruito da "liberatori"
stranieri, i quali, prima di assegnarlo ad un esercito di
collaborazionisti, probabilmente lo hanno impiegato
contro i loro fratelli che non si arrendevano...In
Russia, i bambini delle scuole primarie fanno
ricreazione, corrono e giocano a nascondino intorno a
quello che i nostri sventurati e coraggiosi soldati
dell'ARMIR definirono "una casamatta con i cingoli". Un
carro Russo, sul quale uomini e donne Russi
affrontarono una battaglia durissima contro gli
invasori, alcuni feroci e temibili, altri coraggiosi ma
con le scarpe di cartone; con quello e con migliaia di
altri carri come quello, fermarono e respinsero i
nemici, schiacciandoli sotto i cingoli o costringendoli
alla resa.Per qualcuno di questi sfortunati soldati,
sopravvissuti al ferro ed al gelo, la condanna all'oblio
arrivò dai nuovi padroni della madrepatria, che li
considerava non più figli che avevano obbedito oltre
ogni limite, ma una vergogna da dimenticare, un
“errore” da far sparire. E' vero, la Russia, sotto la
sferza implacabile ed impietosa di un condottiero che
si meritava pienamente il soprannome di "Acciaio" è
uscita vincitrice da quella guerra terribile, noi siamo
stati sconfitti, ma vi è modo e modo di esserlo, vi sono
sconfitte onorevoli ed altre, come quella dell'Italia in
quella guerra, di cui si vergognarono per noi, quei
nemici che ci guadagnavano come alleati, un disonore
che ci macchia tutti da allora.

David Valori
VEXATIO STULTORUM

“EXSURGE DOMINE ET IUDICA CAUSAM TUAM”

Ovvero: Sacrosanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum


II, - Come Bee-Beep fregò le patatine a Willy il coyote

Parlare di Concilio Ecumenico Vaticano II è una impresa


ardua; tanto, forse troppo, è stato scritto fino ad oggi, tant’è che
la confusione ha portato a confondere la Coca-cola con la Pepsi
, il Parmigiano col Grana e Rosy Bindi con Malgioglio. Perciò
in questa rubrica ci limiteremo a dare ai nostri coraggiosi lettori
una istantanea della “vexatio” che il Concilio ha apportato alla
Santa Romana Chiesa e al mondo intero. Era ancora la prima
metà del Novecento: un giorno un qualche prelato di curia si
alzò di buon mattino, ancora stordito per le orationes serali fino
a tarda notte e, dopo la rituale vestizione, si appropinquò alla
celebrazione quotidiana della Santa Messa in uno degli altari
della Basilica. Una volta sull’ altare, avendo già inciampato tre
o quattro volte nel cingolo troppo lungo, cominciò a fissare l’
introito del sacro culto con lo sguardo sornione di chi prova a
riflettere quando ancora è nella fase rem. Fu così che si ricordò
della sua profonda antipatia per il latino nutrita ai tempi del
ginnasio. Terminata la celebrazione e deposte le sacre vesti,
bussò all’ uscio di Sua Santità Papa Giovanni XXIII, ivi
consumò una buona dose di coffea arabica nel servito di Pio V
e suggerì al Pontefice di fare un esperimento per vedere se il
lino della casula diventava più leggero, la radio prendeva
meglio sul versante ovest dei sacri palazzi e la Chiesa veniva
rivoluzionata. Fu così, o forse no, che il giorno 11 ottobre
1962, Papa Giovanni XXIII diede inizio al Concilio Ecumenico
Vaticano II, indetto il 25 dicembre dell’ anno precedente dal
medesimo, e che si protrasse fino all’ 8 dicembre 1965, per un
totale di dieci sessioni , che partorirono quattro costituzioni,
una manciata di decreti, non poche dichiarazioni e pure un paio
di scismi per condire il tutto con simpatia. Parola d’ ordine per
le milizie ideologiche: “aggiornamento”. Fino alla nausea
questo lemma del vocabolario è stato intromesso nella maggior
parte dei discorsi dei venerabili Padri conciliari, del vicario
Petrino e della stampa ficcanaso che, senza perder tempo, con
un paio di anni di anticipo già aveva messo la firma ad ogni
carta. Ma perché definire una “vexatio” il sofisticato processo
conciliare che con fare pseudo-taumaturgico ha incartato
millenovecentosessanta circa anni di storia della Chiesa per
spedirlo dritto nelle fauci del serpente antico con tanto di
bottiglia di vin santo e cantucci? Bee-Beep è sempre stato l’
acerrimo nemico di Willy il coyote, o viceversa? Spesso e
volentieri, la storia che ci viene presentata non è la verità della
storia, o per essere più precisi non corrisponde a ciò che è
giusto o sbagliato. Lungi dall’ autore il voler fare del
moralismo storico: qui si tratta di capire cosa è successo sulla
base di un principio evangelico, visto che siamo in tema,
ovvero quello del “dai frutti si riconoscerà l’ albero”. Dal melo
nascono le mele, dal pero le pere, ma non tutte sono buone e
mature al punto giusto, perché spesso molte sono bacate o
peggio ancora marce prima di cadere a terra. Cosa ha
significato ecclesiologicamente, dogmaticamente,
pastoralmente e politicamente l’ evento che ha rivoluzionato il
cattolicesimo e non solo? Non potremo, per una questione di
tempo e spazio editoriale, scrivere abbastanza. Ne tanto meno
abbiamo le credenziali per esprimere giudizi di valore. Ma
vogliamo cogliere quel frutto e dargli un morso, per capire se
vale la pena sperare ancora che questo ramo butti roba buona, o
se è meglio potarlo via e al più presto, prima che l’ infezione
giunga alle radici. L’ orientamento iniziale del Concilio era
quello di portare la Chiesa al passo coi tempi, rendendola
capace di trasmettersi al mondo contemporaneo con
linguaggio, metodo e contenuti aggiornati, rendendola quindi
appetibile, avvicinabile, comprensibile per tutti. Ciò voleva
dire cambiare la lingua ufficiale, riformare le costituzioni
millenarie, rivedere il significato di primato petrino,
collegialità, il culto divino, i dogmi fondamentali, la Verità,
Gesù Cristo…. Aspettate, dove stiamo andando? Proprio così.
Se per quasi due millenni i concili erano serviti per chiarire e
affermare con forza le verità che la Chiesa professava in virtù
della Verità da essa custodita e trasmessa, ora la Chiesa era
vista come un ente politico-sociale da immettere su un mercato
troppo estraneo al sacro e al divino, un soggetto del sistema
globalizzato che, per continuare a sussistere, doveva solo
svecchiarsi e dare una alleggerita alle zavorre impolverate della
Tradizione. Mai nulla di più aberrante fu inscritto nel grande
libro della Storia. Il Concilio Vaticano II fu il colossal del
revisionismo e della ambiguità ermeneutica. Tutto e il contrario
di tutto venne affermato e contraddetto, provocando scismi,
scandali e caos spirituale e sociale. Il sacro rito della Messa
venne sventrato dal suo interno, riscritto completamente dal
nulla per le mani di non cattolici, scevro del suo profondo
significato e della sua potenza essenziale data dalla
perpetuazione secolare del sacrificio di Cristo, spogliato di
ogni fasto e bellezza anche modesta, interrotto in tutti i suoi
canoni che lo rendevano valido sempre e comunque, perché
fatto dalla Chiesa, nella Chiesa e per la Chiesa mentre ora
violabilissimo se male attuato, tanto da diventare un teatrino
attorno al quale chiunque può prendere il posto che più gli
aggrada, tanto siamo tutti uguali. I sacramenti e le leggi
morali, per non parlare di molti dogmi, subirono una
modificazione strutturale nel loro linguaggio esplicativo, così
da risultare interpretabili in maniera sui generis con una
moltiplicazione della casistica, quasi fossero leggi del codice
stradale e non verità assolute del Credo cattolico. Le pie
pratiche, che per secoli avevano salvato anche gli ignoranti, qui
venivano screditate perché retrograde e poco utili a menti
ormai capaci di intelligere ed indagare con piena coscienza i
più grandi misteri, quindi non più dedite alla preghiera
semplice e autentica, ma bisognose di mettere in dubbio ogni
singola parola. La pratica pastorale, poi, divenne il nuovo
timone della dimensione ecclesiale: bisognava portare tutti
verso la pace, l’ armonia, l’ amore. Non più verso il Paradiso,
verso Cristo Gesù. La Madonna e i santi, in tempi così
moderni. Meglio lasciarli alle edicolette delle campagne. Cosa
importante, la nuova parolona, ancora oggi di grande tendenza:
ecumenismo. In poche parole, la Santa Romana Chiesa
rinunciava alla sua autoritas sulla Verità per accettare di
compromettere e rivedere ogni frase evangelica, ogni
documento magisteriale, ogni secolo di storia cristiana. Bee-
Beep si aggirava per il canyon correndo come un matto e
rubando cibo a tutti i poveri animaletti rachitici autoctoni.
Nella catena alimentare, un coyote in genere mangia uccelli,
rapaci, topolini e qualsivoglia bestia a portata di fauci. Nel
cartone animato citato, invece, viene fatto passare per un
crudele e sfigato assassino tormentato da un simpatico
uccellino blu che corre invece di volare. Qualquadra non cosa,
giusto? Così fu, ed è, con il Concilio. L’ aggiornamento della
Chiesa, precedentemente condannato con decisione da molti
papi, da ultimo Pio XII, predecessore di Papa Roncalli, divenne
il cavallo di Troia con il quale il modernismo ed altre eresie, il
satanasso stesso presero poltrona fra i sacri palazzi,
comodamente serviti e riveriti dalle successive generazioni che,
con la leggerezza sessantottina del consumismo spirituale, del
fideismo prêt-à-porter, della santità comprabile su iTunes,
hanno trasmesso fino ad oggi per buono e vero un frutto che,
dopo un paio di morsi, porta già alla nausea. Gli effetti, inutile
elencarli. Basta guardarsi intorno. Sarebbe bello trattarne
successivamente, nella prossima rubrica, dando uno sguardo
più approfondito lontani dalla televisione, dallo smartphone e
dalla statuetta incensata delle rock star. La realtà è che anche
questa volta, Bee-Beep ha rubato il pranzo a Willy il coyote, e
nessuno se ne farà colpa o gli lascerà cadere un ossicino o una
briciola di pane, perché è sempre meglio un ignorante da
domare, che un sapiente da sfamare.

MIKH’AEL
LE BLUESHIRTS

Le “Camicie azzurre” nacquero nel 1930, come gruppo


armato per la sicurezza pubblica in competizione con
l'IRA fondato e guidato da uno dei generali più giovani
d'Europa, il ventottenne Eoin O'Duffy. Nato nel 1892
tra le suggestive verdi colline alle rive del lago Lough
Egish, O’Duffy nacque e crebbe all'interno di una
famiglia tradizionale e patriottica, ed a soli sedici anni
si unì all'Irish Republican Army (1917), prima
prendendo parte alle rivolte popolari del sud e poi
combattendo nella Guerra d'Indipendenza,
distinguendosi rapidamente tra le fila indipendentiste
per coraggio e iniziativa. Tanto fu rapido il suo
successo, tanto fu veloce la sua conclusione nel
conflitto: nel 1920 fu catturato dalle Royal Irish
Constabulary, i reparti della polizia irlandese fedeli alla
corona. Nel 1922 fu rilasciato a seguito della
conclusione del conflitto e alla accettata richiesta del
neo governo irlandese per il rimpatrio di tutti i
prigioneri catturati durante la guerra; Eoin O'Duffy fu
promosso generale a soli venti anni. In otto anni di
carriera come commissario della polizia, il giovane
generale affrontò la guerra civile e affinò le sue
conoscenze politiche e militari, conoscenze che lo
portarono a fondare le Blueshirts ( Camicie azzurre ).
Il corpo di sicurezza si fece conoscere per la ligia
protezione fornita a tutte le manifestazioni dei partiti
della destra tradizionale e radicale, fino a quando nel
Febbraio del 1932 il partito di centro sinistra Fianna
Fàil salì al governo e come primo emendamento
sospese la legge sulla sicurezza pubblica che conferiva
alle associazioni popolari la possibilità di sostituire le
forze di sicurezza statali durante gli eventi pubblici.
Questo sognificò vari arresti sia nell'IRA sia nelle
Blueshirts e portò all’inasprimento dei rapporti tra le
due associazioni ormai illegali, fino a esplodere in un
conflitto che durò pochi mesi e che vide la morte di
alcuni membri da ambo le parti. Nel 1933 Eoin accettò
l'invito a prendere il posto alla presidenza della ACA (
Army of Comrades Association) fondata un anno prima
dal generale Ned Cronin, per rispondere alla mancanza
di un ente che difendesse i diritti dei veterani,
sostituito nello stesso anno da F. O'Higgins
rappresentante del partito di centro destra Cumann na
nGaedheal raggiungendo i 30.000 iscritti. Dopo aver
accettato e preso la direzione della ACA, O’Duffy
riconvertì l'associazione dandole un nuovo nome e
nuovi ideali. Nacque così la Guardia Nazionale
Irlandese basata sul nazionalismo e corporativismo
(Eoin fu sempre attirato dal carisma del Duce).
Tutti i membri della Guardia Nazionale dovevano
essere Irlandesi e di credenza Cattolica, dovevano
indossare la divisa azzurra, salutare alla romana ma
soprattutto sentirsi difensori della cultura e della
nazione irlandese. Così, allo scoppio della guerra civile
spagnola, 700 uomini in divisa azzurra al saluto "Hail
O'Duffy!" salparono verso la penisola Iberica per dare
manforte ai nazionalisti di Franco. Stessa situazione si
venne a creare allo scoppio del conflitto mondiale,
quando il Generale irlandese inviò centinaia di
volontari per difendere la causa tedesca ed europea,
anche se non venne mai preso troppo sul serio da
Hitler. Nel 30 novembre 1944, all'età di 52 anni e con
sempre peggiori condizioni di salute, il generale
O'Duffy morì portandosi nella tomba il sogno di
un'Europa e di un'Irlanda Socialista e Nazionale

Leonardo Di Bella.
ELEGIA

Doccia Fredda:
Non è inverno,
ma sento freddo ugualmente. Effettivamente è molto difficile da
Non è inverno, aprire,
ma il mare è in tempesta, e la casa poi,
e guardando all'orizzonte, è scomodissima e sporca.
nello specchio, Chi mai resisterebbe?
vedo una barca alla deriva, Ma il sole tramonta
sbattuta qua e là tutte le sere,
da onde forti e prepotenti. e risorge tutte le mattine,
Com'è triste il destino e la bellezza della notte
delle spiagge, sta proprio nell'attesa
tendono ogni minuto dell'alba.
la mano alle onde, Sono ore che mi guardo allo specchio,
le sfiorano appena la smetto.
ed esse si ritirano sempre, I viali del centro la sera
ogni minuto tutti illuminati,
per l'eternità. sono così bui.
Ho sempre pensato I boschi invece,
che gli uccelli in gabbia immersi nel buio più profondo,
siano animali strani, sono così pieni di luce,
passano tutta la vita così pieni di vita.
a cercare di volare via, La Luna che biancheggia
e quando capita l'occasione tra le pietre,
non lo sanno fare, carezzate dal vento sacro,
o non lo vogliono fare. il vento della montagna
Prigionieri delle abitudini. che solo lassù soffia,
Non c'è niente da fare, che solo lassù cura.
tra una sigaretta e un caffé Decido di uscire,
ferisco i fogli mi vesto,
con parole inutili, noto della cenere di sigaretta
e alla mia porta sulla mia camicia.
non bussa nessuno. Poco male,
il vento del crinale
laverà via anche quella.
Andrea Brizzi
Ordine del Creato:
Le poesie vanno urlate
pestate in terra come cocci rotti e bulbi sproloqui
aperte con sputi e sagrati come vagine butterate
riempiti di schiaffi e generiche rimostranze
le poesie vanno bandite dal Creato
bruciati i listelli
nei quali bidonari universitari
scrivono cagate ammantate di magone
le poesie
vanno chiuse in scatole di latta
e spedite
piene di polvere da sparo
ai giudici poco zelanti che ancora le leggono
NONOSTANTE ESPRESSO ORDINE DEL CREATO
Alle 21 di stasera
in una piazza qualsiasi purchè piena
dopo aver debitamente spolverato l'aria
con puzzo di limone e sottigliezze di frattaglie
eseguiremo una sinfonia di sigarette
spente e fumate da bambine cresciutelle
e da vecchi sordidi
no, signora mia, Sobiesky non ripete
nessun appello per il vostro languore
foss'anche necessario stuprarvi
rimetteremo ai moderati i loro peccati
E nessuno si provi a chiamare la Bellezza
che, peraltro, non ci salverà
"E meno male!" disse il mio minaturo blogger
"ho chiamato la Bellezza tre lune, nel Labirinto
e solo il rene di Dedalo mi ha risposto"
Alle 21, stasera
replicheremo la notte in cui rapirono le Sabine
mille donne sciameranno per nulla
diecimila telefoni col wifi
lanceranno gli annales al cielo
ma Cerere
sarà troppo occupata ad amoreggiare con le Parche
per accorgersene. Lorenzo Centini

LIBIA
Chino la testa sommesso e sorridente
la tralice mi rende valoroso ai tuoi occhi?
c'è qualcos'altro che vorresti, oggi, ora, da me?
il mio pastrano
che se solo l'avessi potuto indossare in ben altri '800
t'avrei mostrato come si fa il pelo a Radetzky
ti avrei illustrato il mio moschetto
ai puzzi cogitabondi
le marsine che mi avresti tolto!
Nulla di tutto questo
ti dirà l'umidità delle mie labbra
carezzerò ancora il tuo ricordo con un algido martello da
fabbro
chino la testa
per vedere meglio in controluce quanti chilometri percorro
senza te
Quante piazze luminose
infreddolisco con i miei inverni
solcati da mancanze energetiche
succhio e non risucchio
e troverò anche il tuo angolo di bocca sporco di fame
tra tutti i mucchi
di scalpi
che tengo segregati
nel sottoscala.
rimpianto o no
adesso devo comunque comprare i miei libri
in locali più polverosi
non fermerò più la tua insana passione per Deleuze
Francia zaffiro, cosa farai tu
per cogliere sempre i miei congiunti?
balbetto anche io da quando hanno ripreso Tripoli
da quando non posso più sentire la grevità dei Rais
sporgendomi dalla spiaggia.
sei scappatia via come il Colonialismo
vile e più che sabbiosa
Case, pietre, obelischi e pozzi petroliferi
lasciati soli e addormentanti
come il me di due mesi fa
ancora assonnato.
Vecchi club di signore
arcigne e sempre spallate
si ritrovano all'ombra della Sorbona
a fissare immobili vecchie cartine della Moschea di
Marrakesch
e con dolcissimi occhi da sciacallo
ricorderanno quando assaggiarono il peso di Rocroi
facendo l'amore con un bruno marsigliese.
Io svolazzo il mio pastrano
indispettito dalla mia propria felicità
che nononstante tutto
nonostante il tuo "Si"
aleggia ancora sui miei occhi, caldissimi
da sciacallo.

Lorenzo Centini

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