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D'Ä MÊ RIVA

IL LINGUAGGIO MEDITERRANEO DI
FABRIZIO DE ANDRÉ

di Andrea Martina

1
Alle scelte sbagliate

Perché tanti abitanti delle coste voltano la schiena al mare?


(P. MATVEJEVIĆ – BREVIARIO MEDITERRANEO)

2
INDICE

1. Un messaggio nella bottiglia


I. Attraversando spazio e tempo .............................................
II. L'avvicinamento al mare ....................................................
III. Genova all'orizzonte .........................................................

2. Dalla PFM a Crêuza de Mä


I. “Quelli” della Buona Novella …..........................................
II. Partendo da un bicchiere …................................................
III. Perso nel bosco …..............................................................
IV. Due rotte che si incrociano …............................................

3. Il disco
I. Crêuza de Mä …...................................................................
II. Jamin-A …...........................................................................
III. Sidún …..............................................................................
IV. Sinàn Capudàn Pascià …..................................................
V. 'Â pittima ….........................................................................
VI. 'Â duménega …..................................................................
VII. D'ä mê riva …...................................................................

4. Odissea e Mediterraneo
I. L'Ulisse odierno …................................................................
II. Mare Nostrum …..................................................................
III. La musica dei luoghi …......................................................

5. Impatto mediatico e contesto

3
I. L'esigenza di un intellettuale …........................................
II. Sopravvivere agli anni '80 …...........................................
III. L'operazione Crêuza de Mä ….......................................
IV. Riconoscere sé stessi …..................................................

6. Dopo Crêuza de Mä
I. Una lingua da non abbandonare …....................................
II. Mégu megún ….................................................................
III. La nova gelosia …............................................................
IV. 'A çimma ….......................................................................
V. Monti di Mola …...............................................................
VI. 'Â cúmba …......................................................................
VII. Una storia che non finisce .............................................

7. Lingua e Linguaggio
I. Cantando nel popolo ….......................................................
II. La scelta del genovese .......................................................
III. Il linguaggio di domani …................................................

Note bibliografiche …........................................................................


Bibliografia …....................................................................................
Discografia ….....................................................................................

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UN MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA

Quando si deve fuggire, tutto il resto si lascia dietro.


I beni, gli averi sono le prime cose ad andarsene
con una catastrofe, con una guerra,
ma la musica rimane la cosa più leggera da portarsi.
(V. CAPOSSELA – TEFTERI)

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Attraversando spazio e tempo

Durante una battuta di pesca vicino alle Isole Shetland, un pescatore inglese, preso
in uno dei tanti gesti abituali del suo lavoro, tirò le reti sul ponte e oltre a trovarci
alghe e piccoli pesci si accorse della presenza di una bottiglia con un foglio di
carta all'interno: il messaggio, datato 25 aprile 1914, proveniva dal porto scozzese
di Aberdeen e aveva lo scopo di tracciare le correnti del Mar del Nord, pregando
lo sconosciuto destinatario di segnalare data e luogo del ritrovamento al più vicino
ufficio postale.
A stupire non è tanto la distanza tra il porto di Aberdeen e il luogo del
ritrovamento della bottiglia, ovvero più di duecentocinquanta miglia, ma il tempo
passato da quando il messaggio è stato scritto a quando è stato ritrovato: 10
dicembre 2006.
In mezzo alle tempeste e al gelo del Mar del Nord e tra due guerre mondiali, il
vetro ha protetto la carta dal deterioramento, ma il mare ha conservato il
messaggio nel tempo.

Questa breve storia potrebbe essere la base giusta per spiegare quello che Fabrizio
De André ha cercato di fare nel 1984 sorprendendo critici e appassionati con la
pubblicazione di Crêuza de Mä, un disco cantato interamente in dialetto genovese.
Un'esigenza più che un'ispirazione, combinata a meraviglia dall'incontro tra il
cantautore genovese e Mauro Pagani (arrangiatore e polistrumentista) che, dopo
aver interrotto la sua collaborazione con la PFM verso la metà degli anni '70, era
impegnato da diverso tempo in una lunga ricerca sugli strumenti e le sonorità
mediterranee.
L'idioma scelto e gli arrangiamenti delle canzoni hanno rappresentato forti novità
nel repertorio deandreiano, ma l'impostazione dell'album, ovvero un concept
(pratica che De André utilizzò già dal 1968 con Tutti Morimmo a Stento), e i
contenuti delle canzoni sono rimasti comunque fedeli alla sua linea poetica.
Crêuza de Mä viaggia nel Mar Mediterraneo e nei sogni di chi lo naviga o aspetta
dalla propria riva il momento di partire, racconta storie dimenticate e muove il suo

6
obiettivo tra gli emarginati delle città portuali, cerca una radice comune che
attraversa secoli e generazioni passando dalle scie disegnate dalle barche
sull'acqua.
Per rintracciare in Italia un fenomeno simile bisogna andare indietro di tredici
anni e ascoltare un album minore (dal punto di vista commerciale) di Domenico
Modugno, Con l'affetto della memoria, impreziosito dalla popolare Amara terra
mia, e ricco di canzoni in dialetto con un filo conduttore preciso: il ritorno alle sue
origini. In quell'occasione Modugno, all'apice del successo, più che spiazzare il
panorama musicale offrì semplicemente un omaggio alla musica popolare del Sud
Italia mettendo insieme il meglio del suo primo repertorio degli anni '50, dove
cantava quasi esclusivamente nel dialetto sampietrano (Lu pisce spada, Salinaru,
Sceccareddu 'mbriacu), con l'aggiunta di canzoni come Amara terra mia e
Scioscia Popolo (scritta da Edoardo De Filippo). Nonostante l'anima del concept
album e l'uso del dialetto, Modugno però non aprì le porte a quello che poteva
essere un nuovo linguaggio espressivo nella musica come nel caso di Crêuza de
Mä, ma andò semplicemente a recuperare quella che era la musica popolare del
passato restando fedele a quella tradizione.
Sempre in Italia, un altro tentativo fu fatto anche da Lucio Battisti nel 1974 con
Anima Latina, album di evidente matrice sperimentale frutto di un viaggio con
Mogol in Sudamerica e della voglia di contaminare la musica pop con altri generi.
Ma anche in questo caso le distanze con il lavoro di De André e Pagani sono
evidenti e si possono rintracciare nella presenza della componente elettronica (di
cui Battisti è stato un precursore) e dalla precedenza che viene data alla musica
rispetto al testo.
Altri segnali in quella direzione furono lasciati dagli Area con l'album Arbeit
Macht Frei del 1973 e anche dallo stesso Mauro Pagani che pubblicò il suo primo
album (omonimo) da solista nel 1978 avvicinandosi a quello che avrebbe fatto sei
anni dopo con De André.
In ogni caso l'impatto di Crêuza de Mä non si avvicina a questi lavori soprattutto a
causa dell'effetto sorpresa suscitato nel pubblico e nella critica, perché dalla
famosa frase pronunciata dall'amministratore della Ricordi dopo il primo ascolto,

7
“Speriamo di vendere qualche copia a Genova”1, si passò gradualmente (e a suon
di vendite) all'altrettanto celebre dichiarazione di David Byrne che proiettò il
disco nel panorama internazionale: “Se un paese ha un artista capace di produrre
un album come Crêuza de Mä può solo andarne fiero”2.
Con questo lavoro De André non solo dimostrò di non essere ancora arrivato
all'apice della sua produzione artistica, che in quegli anni molti facevano risalire
alla magica tournée con la PFM, ma riuscì anche a risvegliare l'attenzione su un
popolo in una profonda crisi d'identità ormai incapace di riconoscersi e definirsi: il
popolo mediterraneo.

Il disco abbraccia il Mediterraneo nella forma attraverso lingua e musica e rispetta


questo spirito anche nell'essenza, cercando di essere cosmopolita, mistico e
sfuggente come ogni realtà marittima. È impossibile inquadrare l'opera in un
genere ben preciso e, anche da un punto di vista temporale, sembra essere sospesa
in un'epoca indefinita.
Il messaggio è scritto in genovese, ma non quello degli ultimi decenni, bensì un
genovese antico impreziosito da termini di origine araba e turca che restituiscono
alla “Superba” repubblica marinara non solo la sua impronta mediterranea ma
anche il ruolo di storico punto di contatto tra Europa e Islam 3. Il dialetto veicola
un ritorno alle origini per cercare uno spirito d'unione, una riscoperta e la
consapevolezza del destino comune a cui sono sempre stati legati i popoli del
Mediterraneo.
Crêuza de Mä non può essere considerato un vero e proprio testamento perché
non ha l'urgenza di dover lasciare necessariamente qualcosa a chi verrà dopo, ma
prova a far riemergere delle tracce del passato che rischiano di perdersi nell'oblio.
Non può certo essere ridotto ad un diario di bordo dato che si avvicina molto di
più ad un racconto durante una traversata in mare che alla semplice descrizione di
un viaggio. Ma in una bottiglia sembra trovare il suo giusto spazio perché riesce a
conservare quello che è il tratto comune di ogni navigante che dalla propria riva
cerca di mandare un messaggio, e quindi sognare altri mondi guardando verso
l'imprevedibile orizzonte, lasciandosi trasportare dalle onde.

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In un vetro levigato dalle musiche di Mauro Pagani si trova il messaggio di
Crêuza de Mä, dove le parole hanno il sapore di quell'artigianato citato da
Massimo Bubola (uno dei collaboratori di De André) che nel descrivere com'era
lavorare con il cantautore genovese faceva cenno al lavoro dei falegnami,
impegnati a fare tavoli che devono restare in piedi per almeno cento anni4. Destino
riservato anche alle canzoni e alla cura con cui vengono realizzate: non una parola
di più, non una parola in meno, con un equilibrio tale da non immaginarsi nessun
altro sinonimo o verso in grado di sostituire quello esistente.
Un messaggio che resiste negli anni in una bottiglia e si muove lungo il
Mediterraneo.

L'avvicinamento al mare

De André probabilmente può essere considerato, tra i cantautori italiani di


maggior successo, il meno avvezzo a rispondere a logiche commerciali. Già
dall'inizio della sua carriera artistica questo aspetto prese forma nella sua allergia
ai concerti. Nonostante le richieste sempre più pressanti e remunerative da parte di
impresari e discografici, bisognò aspettare diciassette anni e otto album per
vederlo su un palco. Tendenza riscontrata anche nelle sue pubblicazioni, sempre
smarcate dai meccanismi di vendita della discografia italiana che, per tutti gli anni
'60 e buona parte dei '70, erano incentrati sulla produzione di 45 giri con due
singoli, uno per lato, mentre lui era solito lavorare su long playing che gli
permettevano di sviluppare al meglio un tema centrale per più canzoni.
Fu insolito vedere alla luce un disco come La buona novella, ispirato dalla lettura
dei vangeli apocrifi e calato in piena contestazione studentesca sessantottina, così
come fu decisamente innovativo rielaborare una raccolta di poesie, l'Antologia di
Spoon River di Edgar Lee Masters, nell'album Non al denaro non all'amore né al
cielo.
Un percorso che cercava di andare al di là della temperatura commerciale del
momento, provando a scandagliare nuovi linguaggi e riversando nella canzone

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tutte le contaminazioni ricevute, senza avere particolari scadenze o appuntamenti
con il mercato.
Di quest'ultimo aspetto, infatti, sorprende la tempistica con cui si estende la sua
discografia: particolarmente ricca nella prima parte della carriera, con la presenza
sia di raccolte che di concept album, e più rarefatta proprio dopo il 1975, anno in
cui si confronta per la prima volta con un palco.

Il 18 marzo di quell'anno può essere considerato proprio come lo spartiacque della


carriera di De André. Il suo nome, che prima di quel giorno era avvolto da un
mistero affascinante, per la prima volta si trovò accanto ad un microfono con un
pubblico pagante di fronte. Dopo lunghe trattative seguite da numerosi rifiuti, De
André accettò di esibirsi alla Bussola di Marina di Pietrasanta, scelta aspramente
criticata a causa della distanza tra lui e il pubblico che lo avrebbe ascoltato per la
prima volta, appartenente alla classe borghese e che poteva permettersi di
spendere 30.000 lire per un concerto, in controtendenza con il messaggio
veicolato dalle sue canzoni, particolarmente attente agli ultimi e ai senza-Dio.
Polemiche che cercò di placare raccontando il fine di quella sua sorprendente
decisione:

misi insieme un gruppo – che erano i New Trolls, ma ufficialmente non


apparivano come tali – buttai giù una scaletta, provammo per un mese e
finalmente approdai alla Bussola. Avevo trentacinque anni. Il mio amico De
Gregori mi rimbrottò duramente, perché mi vendevo a un pubblico di ricchi, e
probabilmente aveva ragione. Ma io, quello che guadagnavo, lo davo in parte a
chi dicevo io, e così mi mettevo la coscienza in pace 5.

Da quel concerto De André iniziò ad entrare in una nuova dimensione musicale,


dove il terrore del pubblico veniva mitigato attraverso le bottiglie di whiskey e le
canzoni riuscivano ad andare oltre alla registrazione del disco, mostrando diverse
potenzialità sonore prima sconosciute.

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Ma per arrivare a Crêuza de Mä si deve passare da due svolte che segnarono il
cantautore genovese: l'incontro con la PFM e il rapimento in Sardegna.
Appena De André si convinse che l'attività live era parte integrante della vita di un
musicista, subito Franz Di Cioccio e soci fiutarono un'opportunità artistica allo
stesso tempo rischiosa e accattivante: prendere il repertorio di un cantautore, ri-
arrangiarlo e partire in tournée. L'unico precedente degno di nota veniva dagli
Stati Uniti, con l'unione tra Bob Dylan e The Band, ma in Italia quest'esperimento
era praticamente inedito, senza contare le possibili reazioni del pubblico dato che
tra le canzoni di De André e il rock progressive della PFM la distanza era
apparentemente abissale.
Da quest'unione nacque una delle vette della musica italiana che andò oltre alla
tournée e fu celebrata dalla pubblicazione di due album registrati dal vivo, ancora
oggi ben piantati nell'immaginario collettivo. Per capire la grandezza di questa
collaborazione viene spesso presa ad esempio Il Pescatore, canzone del 1970
registrata con chitarra e voce, e completamente trasformata dalla PFM un ibrido
tra rock, funky e folk.
Per De André quegli arrangiamenti diventarono definitivi per tutti i suoi concerti
futuri: da lì in poi Amico Fragile doveva necessariamente avere l'assolo di chitarra
di Franco Mussida e anche Bocca di Rosa mostrava un volto completamente
nuovo con un lungo intro capace di mandare nel dimenticatoio la versione del
1967.
Più che trasformare le vecchie canzoni, l'incontro con la PFM ebbe per De André
un ruolo cruciale soprattutto nei successivi album, sempre più attenti
all'arrangiamento del brano, con una notevole ricerca negli strumenti da utilizzare
che andavano al di là del solito schema chitarra, tastiera, basso e batteria.

Ma il percorso musicale per arrivare a Crêuza de Mä non può tralasciare il


dramma umano subito da De André e dalla sua compagna Dori Ghezzi, quando
nell'agosto del '79 furono rapiti e tenuti sotto sequestro per quattro mesi nelle
campagne della Sardegna. Quell'esperienza lasciò segni profondi ma anche
sorprendenti: una volta liberato, non solo De André fece subito una netta

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distinzione tra mandanti e carcerieri, perdonando questi ultimi e sentendosi
addirittura vicino alle loro esigenze, ma rafforzò ancora di più il suo rapporto con
la Sardegna a tal punto da creare un ponte storico e geografico tra il popolo sardo
e quello dei nativi americani con un album omonimo, pubblicato nel 1981, ma da
tutti chiamato L'indiano, per via di un indiano a cavallo in copertina6.
In questo lavoro, oltre alle cicatrici del sequestro che si intravedono nella
struggente Hotel Supramonte, si riesce a cogliere un punto di vista puro di De
André nei confronti dei popoli dimenticati, ritenuti molto più sinceri rispetto a
quelli della civiltà consumistica. Gli indiani e i sardi, immersi nella loro simbiosi
con la natura, diventano i protagonisti illuminati dal faro di De André, che cerca di
fare luce su emergenze sociali molto attuali come la perdita della memoria, la
difficoltà di sentirsi parte di una storia e, quindi, il distacco dalle proprie radici.
Ne L'indiano c'è anche un forte eco della precedente collaborazione con la PFM.
Con gli arrangiamenti di Mark Harris e Oscar Prudente, le canzoni hanno
un'impronta dylaniana che spazia tra il blues di Quello che non ho, il reggae di
Verdi Pascoli, fino ad arrivare all'Ave Maria cantata in sardo, brano che risente
dell'evidente influenza dei Pink Floyd.

Quello che può essere considerato il preludio di Crêuza de Mä, venne rafforzato
da un casuale incontro negli studi in cui venne registrato L'indiano tra Fabrizio De
André e un altro musicista, in quel momento impegnato in una colonna sonora per
Gabriele Salvatores. Inizialmente a De André serviva un polistrumentista che lo
aiutasse durante i live a riproporre gli arrangiamenti della PFM, e davanti a lui si
presentò Mauro Pagani7.

Genova all'orizzonte

Stabilire dei momenti nella produzione di un artista è sempre un tema delicato. In


ambito musicale questo confine è ancora più sottile e nel caso di De André diventa

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quasi geografico a tal punto da individuare tre periodi in particolare: quello
francese degli esordi, con l'evidente influenza di chansonnier del calibro di
Brassens, a cui è seguita l'influenza americana di artisti come Bob Dylan e
Leonard Cohen che ha accompagnato tutta la sua produzione degli anni '70
trovando il culmine ne L'indiano e, infine, la fase mediterranea inaugurata con
Crêuza de Mä e portata avanti fino agli ultimi album Le Nuvole e Anime Salve.
In questi viaggi, le canzoni di De André hanno avuto una continua evoluzione
grazie ad arrangiamenti sempre più ricchi, ma con un punto di riferimento
costante: il testo, sia inteso nei termini della struttura con cui veniva scritta una
canzone (riprendendo le forme tanto care a Brassens), che nei temi trattati.
La sua scrittura non ha mai incontrato particolari cambiamenti, se non nel
linguaggio da utilizzare grazie ad alcune incursioni dialettali. Nemmeno la
presenza di diversi collaboratori del calibro di Ivano Fossati, Massimo Bubola e
Francesco De Gregori ha alterato questo approccio. L'aspetto musicale, invece, è
stato il vero nodo cruciale che ha permesso a De André di resistere e continuare a
rinnovarsi nel tempo: da La Ballata del Miché ad una delle sue ultime canzoni,
Prinçesa, il livello degli arrangiamenti è stato un continuo crescendo, dove il
matrimonio tra testo e musica, è diventato sempre più forte.

Non c'è dubbio, però, che di tutti questi momenti il passaggio nel Mar
Mediterraneo, sancito dalla pubblicazione di Crêuza de Mä sia stato quello più
dirompente.
Per spiegarlo bene ci viene ancora una volta in aiuto una metafora marittima:
incontrare la musica di Fabrizio De André è simile all'esperienza di un marinaio
che si trova su una barca in pieno mare aperto, dove l'unico modo per orientarsi è
guardare le stelle. De André ne ha lasciate tante, servendosi di personaggi
raccontati sia in prima che in terza persona, ma sempre molto vicini
all'ascoltatore, disegnati apposta per allenare l'empatia.
Lungo le sue canzoni c'è la stella dell'amore, che sa essere cieco, sfuggente o
perduto, dove le donne (Dolcenera, Jamin-a, Bocca di Rosa) sono fonte costante
di desiderio e pericolo. Amore che si fonde nella guerra senza ritorno di Andrea

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“ucciso sui monti di Trento” e in quella di Piero che non vede un nemico, ma solo
un uomo “dal suo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore”. Un
amore che spesso trova casa nei personaggi che vivono dietro le quinte del mondo
come gli zingari Khorakhanè, il matto del paese, le graziose di Via del Campo e
Pasquale Cafiero, la guardia carceraria costretta a chiedere favori al boss Don
Raffaé. Amore che incontra spesso Gesù, spogliato dalla sua sacralità e restituito
al mondo terreno, come uno degli esempi anarchici più intensi da scoprire.

In questo perdersi nel mare di De André e ritrovarsi grazie alle sue stelle, è
possibile anche aguzzare la vista e immaginare quello che può trovarsi oltre
all'orizzonte, cercando di cogliere anche il segnale più insignificante.
È qui che l'avvicinamento al Mediterraneo cantato in Crêuza de Mä si fa ancora
più curioso: andando indietro nella discografia di De André, più precisamente in
una canzone del disco L'indiano (album che ha preceduto proprio Crêuza de Mä),
capita di imbattersi in questo ritornello che sa tanto di un appuntamento al futuro:

Marinaio di foresta
senza sonno e senza canzoni
senza una conchiglia da portare
o una rete di illusioni

Il “Marinaio di foresta”, protagonista della canzone Franziska, è un bandito che si


è dato alla macchia ed è particolarmente geloso della sua donna8. All'apparenza è
uno dei tipici personaggi del mondo di De André, ma descritto in maniera
allegorica e introdotto in un ipotetico mare che segna il passaggio dai monti sardi,
dove ha riscoperto il primato della natura sull'uomo e il senso delle radici, alla sua
Genova, luogo di ritorno in cui fare i conti con le proprie origini.
La città della Lanterna diventa, quindi, il porto che segna il punto di arrivo delle
influenze americane e una nuova partenza verso il Mar Mediterraneo.

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DALLA PFM A CRÊUZA DE MÄ

Ci sono due tipi di musica:


quella che si ascolta,
quella che si suona
(R.BARTHES)

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Cos'è che lega gli arrangiamenti della PFM a quelli di un disco come Crêuza de
Mä? All'apparenza molto poco: da un lato abbiamo il riuscitissimo tentativo da
parte di una delle più importanti band italiane di contaminare il repertorio di De
André con il rock progressive e dall'altra troviamo un disco dove la presenza di
strumenti elettrici è rarefatta in modo da lasciar spazio a mandolini, bouzouki,
percussioni e fiati.
In realtà è stato proprio l'incontro della PFM che ha permesso a De André di
rilanciare la sua carriera e sperimentare nuove strade. Ascoltare canzoni di grande
successo come La guerra di Piero, Il pescatore o La canzone di Marinella, in
versioni completamente nuove e lontane da quelle tradizionali, aprì degli scenari
che per il De André “cantante” restavano ancora inesplorati: avere un
arrangiamento ricco di suoni e strumenti non distoglieva l'attenzione dalla cantata
e l'effetto creato con l'esibizione dal vivo era molto efficace.
Ma come in ogni storia immersa nella musica, anche questa ha un antefatto che
potrebbe essere l'inizio di un buon romanzo.

“Quelli” della Buona Novella

La tournée Fabrizio De André & PFM partì a cavallo tra il 1978 e il 1979, periodi
in cui sia il cantautore che la band erano affermati e con un gran seguito in tutta
Italia, ma il primo vero punto di contatto risale al 1970, anno in cui De André era
impegnato nelle registrazioni de La buona novella.
L'idea era particolarmente audace per quei tempi: un disco estrapolato dalla lettura
dei vangeli apocrifi, restituendo un'immagine rivoluzionaria di Gesù, slegata dalla
dottrina cattolica.
Come già successo per i precedenti dischi, anche in questo gli arrangiamenti
furono curati da Gianpiero Reverberi, uno dei più grandi punti di riferimento della
scuola genovese, che si serviva spesso di un gruppo, I Quelli, per le registrazioni
strumentali in studio.

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La formazione era composta da: Franz Di Cioccio alla batteria, Franco Mussida
alle chitarre, Giorgio Piazza al basso e Flavio Premoli alle tastiere. Questo
nucleo, che aveva alle spalle numerose ore di sala d'incisione con artisti del
calibro di Celentano, Battisti e Mina, sarà destinato a diventare dopo pochi mesi la
prima formazione della PFM – Premiata Forneria Marconi.
Le coincidenze, però non finiscono qui: sempre in quel disco fu affiancato alla
formazione de I Quelli un musicista che di lì a breve entrerà in pianta stabile nella
PFM e successivamente diventerà fondamentale per De André: Mauro Pagani.
Nella Buona Novella si limitò solo a suonare poche parti, come l'ottavino in
Maria nella bottega del falegname, ma dopo qualche anno le sue doti di
polistrumentista gli consentirono di diventare uno dei musicisti più apprezzati del
panorama italiano.

Partendo da un bicchiere

Dopo il primo concerto alla Bussola, Fabrizio De André sciolse definitivamente le


sue riserve riguardo al palco e iniziò con notevole ritardo a conoscere un mondo
inesplorato. Per le prime esibizioni dal vivo fu accompagnato da alcuni
componenti di due band genovesi, i New Trolls e i Nuova Idea, e subito si poneva
il problema degli arrangiamenti da utilizzare. De André non era particolarmente
favorevole a grossi cambiamenti tra registrazione in studio ed esecuzione live,
d'altronde non era mai stato un “animale” da palcoscenico e i rischi dell'esibizione
dovevano essere minimi.
Il problema iniziò a crescere dopo il confronto con il pubblico: in un primo
momento la novità di vedere Fabrizio De André in concerto, dopo averlo sentito
per anni alla radio o su un giradischi, era molto alta, ma via via andò ad attenuarsi
e diventava necessario sperimentare qualcosa di diverso per non rischiare di
rimanere intrappolati nel proprio passato.
Questa crisi si manifestò subito nel 1978 dopo la pubblicazione di un ottimo
album come Rimini a cui, però, non seguì alcun concerto.

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La via d’uscita non ci mise molto a presentarsi e arrivò nell'estate di quello stesso
anno, alle porte della sua fattoria in Sardegna, a bordo del furgoncino della PFM.
Franz Di Cioccio in Evaporati in una nuvola rock (Chiarelettere, 2008), diario
fotografico realizzato con Guido Harari e che raccoglie le testimonianze più
dirette di quella tournée, racconta così il clima precedente a quella visita:

le ultime notizie che avevamo su di lui raccontavano che voleva fare l'allevatore.
Pensava, ce lo rivelò il giorno dopo a pranzo a casa sua all'Agnata, di sentirsi
superato, di aver perso la voglia di scrivere perché non era più il suo tempo.
Insomma, voleva smettere di fare il «mestiere» del cantautore. […] L'idea di fare
l'allevatore aveva rinnovato il suo amore per la natura rendendolo deciso a
circondarsi solo dell'essenziale9.

La quiete prima della tempesta.


Quella che poteva essere una rimpatriata, otto anni dopo La buona novella,
divenne a tutti gli effetti un pranzo di lavoro. Toccò proprio a Franz Di Cioccio
lanciare il guanto di sfida proponendo una tournée insieme e, per convincere De
André, usò la migliore arma che aveva a disposizione, ovvero la musica,
improvvisando sul momento una versione alternativa de Il pescatore con un
bicchiere e delle posate che erano sul tavolo10.

Da quel tintinnare sul vetro alle prime date della tournée, De André toccò con
mano quale poteva essere il vero potenziale delle sue canzoni. Non solo ballate
che nascevano sulla chitarra e non riuscivano a spingersi oltre, ma veri e propri
viaggi nel mondo raccontato dal testo: l'intensità di Amico Fragile si tocca
soprattutto con la chitarra di Franco Mussida, il Testamento di Tito esplode per poi
raccogliersi in una dimensione intima e l'assolo di basso di Patrick Djivas in
Giugno '73 trasporta l'ascoltatore in un'atmosfera drammatica già dall'inizio della
canzone.
Per un artista come De André, abituato alle collaborazioni, quella con la PFM lo
segnò più di tutte le altre perché non si trattava di un affiancamento nella scrittura

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come nel caso dei lavori con Francesco De Gregori o Massimo Bubola, ma
andava a scardinare le strutture musicali a cui era abituato proiettandolo nel
futuro.
Le diciassette canzoni, presenti nei due dischi registrati dal vivo che hanno
celebrato quel tour, furono suonate nei successivi concerti di De André sempre in
quel modo, anche con musicisti diversi. Rappresentarono un modello per i
successivi live, in cui ad accompagnare il cantautore genovese erano presenti
almeno sette-otto musicisti capaci di suonare più strumenti.

Quel tour, durato quaranta giorni e trentadue date, diventò anche un'importante
palestra per il rapporto tra De André e il pubblico perché le contestazioni non
mancarono. Inizialmente la divisione era tra gli affezionati della PFM e quelli di
De André, fazioni che mal sopportavano quell'esperimento ma comunque
affollavano palazzetti e teatri tenda sempre pieni di gente curiosa. Con il passare
delle date, poi, la contestazione andò più su un piano politico e vide De André
particolarmente esposto a causa di un suo vecchio peccato di giovinezza che non
gli veniva ancora perdonato, ovvero l'aver suonato alla Bussola, a cui si univa
pure la sua estrazione borghese mal sopportata da alcune frange della sinistra
extra-parlamentare, che non perdevano l'occasione di fischiare e intonare cori tra
una canzone e l'altra.
Clima non semplice ma comunque dai risvolti imprevedibili dato che spesso i
fischi venivano coperti dalla maggioranza del pubblico, oppure era lo stesso De
André a rivolgersi direttamente ai contestatori in maniera molto aperta, cercando
di capire le loro ragioni e accogliere la protesta invece di respingerla.
Difficile aspettarsi qualcosa di diverso da uno spirito anarchico, ma questi non
erano altro che gli imprevisti di anni affollati dove uomini e donne di spettacolo si
trovavano costantemente nel mirino, aspetto comunque marginale ai concerti di
De André & PFM che si concludevano in trionfo e data dopo data diventavano
sempre più esaltanti.

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Perso nel bosco

Alla fine di quella cavalcata tutti sentivano ancora la polvere addosso, ma la


sensazione era quella di essere solo all'inizio di un nuovo percorso artistico. Infatti
si poteva facilmente pronosticare, nel giro di un anno, un nuovo disco di De André
realizzato in compagnia della PFM che, di quel tour, aveva solo un rimpianto: non
essere riuscita a far cantare qualcosa del proprio repertorio a De André a causa di
tempi troppo serrati per mettere in piedi una scaletta.
Ma ad allontanare definitivamente quell'ipotesi furono due uomini incappucciati
che nella notte del 27 agosto 1979 prelevarono Fabrizio De André e Dori Ghezzi
dalla loro fattoria all'Agnata e li portarono alle pendici del Monte Lerno,
chiedendo alla famiglia un riscatto di due miliardi.
La coppia fu liberata dopo quattro mesi e questo portò De André a ridefinire i suoi
progetti: non tanto per i segni di una vicenda che poteva finire in maniera
drammatica, quanto per le emozioni (miste a curiosità e paura) ricevute da
quell'esperienza:

Nei quattro mesi passati con i miei rapitori, avevo visto in loro gli esponenti più
di una tribù di indiani che di un'organizzazione mafiosa. E nella loro lotta per la
sopravvivenza avevo letto qualche cosa di molto simile al destino degli indiani
d'America: due culture in apparenza lontanissime tra loro, ma entrambe
emarginate, fortemente autoctone nonostante l'essersi trovate spesso vittime di
dominazioni esterne, legate a tradizioni antichissime 11.

Il lato ancora più fastidioso riguardava la macchina mediatica messa in moto fin
dall'estate del '79, smaniosa di raccontare il rapimento di Fabrizio De André e
Dori Ghezzi e il successivo ritorno alla nuova vita. Anche l'industria musicale
cercò di non perdere quell'occasione pressando più volte gli artisti a partecipare ad
una nuova tournée. Proposte rigettate al mittente perché non avrebbero fatto altro
che alimentare ancora di più i riflettori su di loro nel momento in cui era
necessario ristabilire un rapporto normale con la quotidianità.

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Smaltite quelle pressioni, l'obiettivo di De André si spostò verso un nuovo disco
che mancava da oltre tre anni e il ritorno in una sala d'incisione lo vide lontano
dalla PFM, poiché impegni divergenti e tempistiche poco chiare non permettevano
alla band di lavorare ad altri progetti.

Due rotte che si incrociano

Occorre a questo punto fare una precisazione su un meraviglioso incrocio che sarà
l'anticamera di Crêuza de Mä.
Mauro Pagani, che aveva già collaborato con De André ne La Buona Novella ed
era stato uno dei più importanti elementi della PFM, ai tempi della tournée del
1978-79 era già fuori dalla band e aveva avviato una carriera da solista incentrata
in quella fase sulla ricerca dei suoni mediterranei. Ciò non impedì il famoso
incontro tra i due agli Stone Castle Studios, il primo vero mattoncino di Crêuza de
Mä.
Con la PFM su altre rotte, a De André restava un problema: riprendere l'attività
dal vivo senza abbassare il livello della qualità raggiunto grazie a Franz Di Ciocco
& Co.: il profilo di Mauro Pagani era uno dei migliori in Italia per suonare quegli
arrangiamenti.

Per oltre un anno entrambi furono impegnati nel tour dell'Indiano e questo
permise a Mauro Pagani di sfoggiare parte della sua versatilità nel repertorio di De
André suonando violino, chitarre, mandolino e ottavino.
Rientrati alla base, l'idea di realizzare un lavoro inedito insieme diventò sempre
più concreta. Di fatto la collaborazione in studio tra Fabrizio De André e Mauro
Pagani fu la perfetta fusione di due esigenze apparentemente distanti: De André da
tempo aveva voglia di misurarsi con il dialetto genovese (confidenza che fece
anche alla PFM agli inizi degli anni '80) e Pagani era molto concentrato sugli
strumenti e la musica dei popoli mediterranei.

21
Per unire queste due anime bisognava immaginare un disco completamente
lontano dagli schemi a cui era abituato il cantautore genovese: niente più ballate,
niente più incursioni nella musica americana, ma un modo tutto nuovo di costruire
una canzone.
La sfida, oltre ad essere originale, presentava non pochi rischi sia per Mauro
Pagani:

io ho provveduto alla parte musicale, mentre Fabrizio si è occupato dei testi. È


stato molto coraggioso: era un cantautore famoso per i suoi testi e di colpo
pubblicava un disco del quale non si capiva neanche una parola. Per quanto mi
riguarda ho un legame molto particolare con CRÊUZA DE MÄ: è stata la mia
prima vera produzione di un album. [...] Non è stato solo il primo lavoro che
facevo con Fabrizio, ma anche quello in cui ho riversato tutti gli studi che da
anni stavo conducendo sulla musica mediterranea12.

che per Fabrizio De André:

quella di un disco cantato nel mio dialetto, anzi nella mia lingua fu una voglia,
per così dire, primordiale, nel senso che aveva le sue radici in quelle mie e della
mia gente. […] Era una grossa sfida, che potevo anche illudermi di vincere sul
piano della qualità, ma difficilmente su quello delle classifiche di vendita: fatto di
per sé poco rilevante, ma importante per i discografici, dai quali gli artisti
dipendono13.

Il lavoro che portò alle sette canzoni di Crêuza de Mä, dall'idea fino allo studio di
registrazione, fu lento e maniacale. Anche per quell'occasione si parlava di un
concept album e il tema di fondo non poteva che essere quello del viaggio, dove il
mar Mediterraneo non era visto solo come un semplice luogo, ma diventava uno
stato d'animo.

22
L'idea di cantare in genovese poteva essere un ostacolo importante, ma alla fine si
rivelò un valore aggiunto per legare la voce alle sonorità ricercate da Mauro
Pagani.
Prima di quel disco De André aveva già sperimentato le potenzialità del dialetto:
nell'album Rimini scelse di raccontare la storia tutta sarda di Zirichiltaggia e per
farlo cantò in dialetto gallurese, grazie al quale riuscì ad esaltare la spinta folk (a
tinte irlandesi) di quel brano rispecchiandone anche lo spirito.
Il genovese, però, sembrava aprire molte più strade grazie ad una musicalità ed
un'eleganza che lo allontanavano dalla durezza del sardo. In tale direzione De
André riuscì anche a riscoprire una terminologia di chiara provenienza araba
dimenticata dagli stessi genovesi.
L'obiettivo, quindi, andava oltre al semplice “disco in genovese”, ma aveva una
visione più ampia: abbracciare il linguaggio neolatino e i suoi legami tra arabo e
turco, in modo da realizzare un viaggio nelle radici e nelle storie del mare su cui
Occidente e Oriente hanno imparato a conoscersi, scontrarsi e convivere14.
Questo risultato trova evidenza anche in quello che viene raccontato nelle
canzoni. L'arco temporale è vastissimo e va dagli scontri tra musulmani e cattolici
del XVI secolo citati in Sinàn Capudàn Pascià fino alla recente distruzione di
Sidone (Sidún) per mano delle truppe di Sharon. Non manca un affresco sul
tessuto sociale delle città mediterranee, che ci viene presentato attraverso
personaggi emarginati come 'Â pittima o descrivendo cosa voleva dire, per una
prostituta, passeggiare per la città di domenica ('Â duménega, unico testo del disco
scritto da Mauro Pagani). A far da collante c'è il punto di vista del marinaio, che si
prepara ad allontanarsi da casa e a intraprendere un nuovo viaggio (D'ä mê riva),
sogna di trovare la sua Jamin-a nel prossimo porto, per poi ritornare a terra,
attraversando una Crêuza de Mä.

La struttura musicale delle canzoni parte da una tipica sessione ritmica basso e
batteria, ma ospita soprattutto strumenti inediti nella musica cantautorale italiana
come la gajda o il saz, grazie ai quali è possibile fare un viaggio nel viaggio. A
strumenti tipici e già conosciuti come la chitarra andalusa e il mandolino

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napoletano, vengono affiancati l'oud arabo, il bouzouki greco e fiati di tradizione
arabo-turca come lo shannaj.
Alla ricerca veniva anche accompagnata la sensibilità di Mauro Pagani
nell'utilizzare gli strumenti non in maniera tradizionale, bensì funzionali alle
sonorità che voleva ottenere: dal violino con il plettro e dai cambi di accordature
del bouzouki è stato ricavato un suono talmente originale e preciso, che rende le
canzoni difficilmente immaginabili da ascoltare in altre versioni15.
Aspetto che riesce ad abbracciarsi con i testi di De André. Anche in genovese
conservano una straordinaria precisione tra concetti espressi e parole scelte per
farlo.
Oltre ad un sontuoso lavoro sugli arrangiamenti, uno dei meriti particolari di
Mauro Pagani è stato anche quello di aver indirizzato De André verso un nuovo
modo di cantare, più intenso ed emotivo. In Crêuza de Mä, infatti, non spicca solo
un nuovo idioma, ma anche una cantata particolarmente legata al messaggio
veicolato dal testo, un approccio volto ad avvicinarsi all'impostazione espressiva
dei canti popolari mediterranei.

Dopo una carriera invidiabile, improvvisamente Fabrizio De André si ritrovò in un


contesto dove venivano rimessi in discussione musica, linguaggio e voce.
Fu un momento cruciale che inaugurò una trilogia di dischi pubblicati a distanza
di sei anni l'uno dall'altro dove, probabilmente, si può ascoltare la completezza di
un artista arrivato al suo massimo livello.
1984: Crêuza de Mä.
1990: Le Nuove.
1996: Anime Salve.

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IL DISCO

La mediterraneità non si eredita, ma si consegue.


È una decisione, non un vantaggio.
Dicono che di veri mediterranei ce ne siano sempre meno.
Non c'entrano la storia o la tradizione, il passato o la geografia,
la memoria o la fede: il Mediterraneo è anche destino
(P. MATVEJEVIĆ – BREVIARIO MEDITERRANEO)

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Le prime reazioni in seguito alla pubblicazione di Crêuza de Mä non furono
particolarmente esaltanti, come se ci fosse la paura di sbilanciarsi in giudizi troppo
affrettati. Per facilitarne l'ascolto, i testi presenti sul libretto del disco avevano la
corrispondente traduzione in italiano, inoltre la Ricordi pressò gli artisti per far
partire un tour di concerti immediatamente dopo il lancio sul mercato in modo da
stimolare le vendite.
Restava però l'azzardo di un disco totalmente fuori dai canoni cantautorali italiani.
Di fatto, Fabrizio De André e Mauro Pagani chiusero le registrazioni di Crêuza de
Mä con alcuni dubbi sulla riuscita di quel lavoro, ma con la consapevolezza di
aver inseguito la propria ispirazione anziché i richiami del mercato.

Una grande sorpresa arrivò alla fine di quel 1984 con due prestigiosi premi
assegnati dal Club Tenco: album dell'anno e migliore canzone in dialetto (Crêuza
de Mä), preludio di una serie di riconoscimenti che continuarono ad arrivare
anche negli anni successivi, rendendo il disco ancora oggi tra i più moderni e
ascoltati di Fabrizio De André.
Successivamente una testimonianza insospettabile di quel successo venne da
David Byrne che, dopo la strepitosa esperienza con i Talking Heads, iniziò negli
anni '90 un lungo viaggio nella world music e definì Crêuza de Mä uno dei lavori
più importanti di tutti gli anni '80, annoverandolo tra sue le maggiori fonti
d'ispirazione. A lui si aggiunse anche il regista Wim Wenders che, pur ammettendo
di non essere riuscito a capire e tradurre tutti i testi, rimase rapito dalle sonorità
del disco.
Inoltre sono tante le riviste del settore, come Rolling Stone Italia, Ondarock o
Musica & Dischi, che negli anni hanno continuato a citare Crêuza de Mä come
una pietra miliare e uno dei migliori album realizzati nella storia della musica
italiana. Fino ad arrivare al progetto 2004 Crêuza de Mä, in cui furono riproposte
le canzoni del disco cantate e ri-arrangiate da Mauro Pagani, più tre inediti e una
nuova versione di Mégu megún (presente in Le Nuvole).

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Anche gli arrangiamenti, in linea con la svolta di De André avviata insieme alla
PFM, rappresentarono un nuovo capitolo nella musica italiana.
Nonostante Mauro Pagani sia spesso ricordato per il camion di strumenti musicali
che si porta appresso (e dai cui riesce a estrarre ogni genere di suono), per l'album
fu interpellata anche una nutrita squadra di musicisti tra cui spiccano Franco
Mussida, con un sontuoso assolo di chitarra in 'Â duménega, e Francis Biggi che,
pur non suonando, figurò come consulente per gli strumenti etnici e medioevali.
Ad esaltare questa fusione c'era la voce di Fabrizio De André, non più usata alla
stregua di un cantastorie, ma lavorata a tal punto da sembrare essa stessa un altro
strumento musicale. Ne venne fuori una ricchezza impressionante di sonorità, con
combinazioni uniche all'interno di ogni canzone.
Viaggio e sogno si respirano in ogni nota di Crêuza de Mä ed ogni ascolto
permette di stimolare l'immaginazione.

Crêuza de Mä

L'introduzione di Crêuza è affidata alla gajda macedone, una sorta di piva,


di cornamusa, il più diffuso strumento a fiato, che abbia o no lo stomaco di
una capra, del bacino del Mediterraneo. Ha la funzione del banditore come a
dire 'Signori, si va a raccontare una storia sul Mediterraneo '16.

Prima canzone e title track del disco, Crêuza de Mä presenta fin da subito una
duplice (se non triplice) interpretazione. La traduzione letteraria dal dialetto
indicherebbe una “mulattiera di mare”, ma di fatto è un termine usato per indicare
le strade che partivano dalle alture di Genova, tracciando il confine tra una
proprietà e l'altra, e scendevano fino al porto17. Veri e propri corridoi dove non
batte il sole e attorno ai quali si estende in altezza la città. A questo si aggiunge
una terza lettura, più metaforica, che vede nelle Crêuze le scie lasciate in
superficie dalle barche dopo il loro passaggio.

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Crêuza de Mä è il ritorno del marinaio a casa, una riscoperta sensitiva che passa
dai buoni odori della cucina all'ammirazione delle ragazze che sembrano
sbocciare in tutta la loro bellezza e il cui viso non verrà mai segnato dalle fatiche
del mare. Crêuze come le strade che conducono a posti sicuri, come la taverna
dell'Andrea in cui poter finalmente consumare un pasto degno della lunga attesa in
mare, ma anche a strade imprevedibili, collegate da vicoli in cui c'è il rischio di
venire rapinati in ogni momento.
Il marinaio torna a riappropriarsi della vita sulla terraferma, ma sa già di vivere
sensazioni fugaci per via del prossimo viaggio che non tarderà ad arrivare e per
questo si abbandona ai piaceri del vino e della compagnia, consapevole che il
porto è solo un rifugio e non la sua vera casa.

E 'nt'a barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi


emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä.

E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli


emigranti della risata con i chiodi negli occhi
finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere
fratello dei garofani e delle ragazze
padrone della corda marcia d'acqua e di sale
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.

Queste righe, più di tutte le altre, avviano già dall'inizio dell'album un percorso
empatico (tipico della poetica di De André) verso le fragilità degli uomini, in
questo caso nelle vesti di marinai. Il punto non è tanto capire se sia bello o brutto
andare per mari, quanto cercare di cogliere il lato emotivo di una vita
apparentemente avventurosa, ma piena di difficoltà.

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A completare il legame della canzone con la città, intervengono, in chiusura, delle
voci provenienti dal mercato del pesce di Genova che, ironia della sorte, sono
registrate nella stessa tonalità della canzone e nel disco segnano il passaggio tra il
bouzouki con cui si chiude il pezzo e le percussioni che introducono Jamin-A

Jamin-a

Jamin-a è la compagna di un viaggio erotico, che ogni marinaio spera, o meglio,


pretende di incontrare nei porti dopo le pericolose bordate subite per colpa di un
mare nemico, o di un comandante malaccorto. A Genova si usa dire, dalla gente
che naviga, “Cae muggê, passou u munte de Portufin turnu franco e fantin” che,
tradotto in italiano, vuol dire: “Cara moglie, passato il monte di Portofino, ritorno
libero e scapolo”18.

In questa canzone trova casa un altro mito del navigante: incontrare una donna
capace di cancellare i lunghi giorni passati su una nave. Qui il sogno diventa
viscerale, fisico, in un ritmo ipnotico creato grazie all'incontro tra l'oud, le
percussioni (tra cui è presente anche uno zarb) e lo shannaj, oboe turco su cui si
sviluppa il tema che apre e chiude la canzone.
Sul testo di Jamin-a occorre fare fin da subito una precisazione relativa al
personaggio: non parliamo di una donna reale, bensì di un sogno che prende
forma nella mente durante la navigazione in mare. Il desiderio è carnale, senza
alcun freno:

Stella neigra ch'a lûxe me veuggiu demuâ


'nte l'ûmidu duçe de l'amë dû teu arveà

Stella nera che brilla mi voglio divertire


nell'umido dolce del miele del tuo alveare

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Le opportunità offerte dal genovese si ritrovano in ogni verso del disco, ma in
Jamin-a sono ancora più evidenti. De André, infatti, riesce a parlare delle voglie
di un uomo, anche quelle più intime e sporche, senza apparire troppo crudo o
addirittura volgare.
La lettura del testo dopo l'ascolto fa trasparire una certezza: è impossibile
immaginare questa canzone in un’altra lingua. La voce di De André è un tutt'uno
con la musica e diventa difficile distinguere il singolo strumento proprio per
l'armonia con cui si mescolano i suoni.
Jamin-a, con il suo carattere confessionale, ci regala un'altra pagina della vita dei
naviganti. Va oltre la forma femminile, mostrandosi come la vera meta del
desiderio di un marinaio.

Sidún

Nell'agosto del 1982 il generale israeliano Sharon fece un rally nel Sud del
Libano e i suoi guerrieri misero a ferro e fuoco Sidone, città fenicia. Era come se
avessi assistito alla distruzione di Cartagine da parte di quei figli di mignotta dei
Romani. Sidone era una vera culla della civiltà. Se non ci fossero stati i Fenici
probabilmente noi non saremmo stati informati di tutto quel che succedeva nel
resto del mondo, cioè il bacino del Mediterraneo. É lì che hanno inventato il
vetro, mica a Venezia. Quando hanno bruciato Sidone mi sono incazzato come
una bestia19.

Crêuza de Mä è stata considerata quasi all'unanimità la canzone manifesto di


quest'album, ma la vera punta di diamante è Sidún, uno dei momenti più intensi ed
emotivamente coinvolgenti di tutto il repertorio di De André.
In passato il cantautore genovese aveva riproposto il tema della guerra in varie
forme, legato soprattutto a personaggi come Piero, Andrea, il protagonista de La
Ballata dell'eroe o il generale di vent'anni di Fiume Sand Creek. Con Sidún
abbiamo un nuovo punto di vista: una città distrutta che viene “umanizzata” e

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prende le sembianze di un arabo che assiste inerme ai bombardamenti, tenendo in
braccio il proprio figlio ammazzato da un carro armato.
De André ha sempre avuto un approccio molto preciso sulla guerra e più che
concentrarsi nel dire quanto possa essere giusta o sbagliata, ha avuto l'urgenza di
raccontarne le assurdità, partendo proprio dal peccato originale di questi conflitti:
dimenticare il dramma umano di persone costrette ad ammazzarsi tra loro e
guardare solo a confini da segnare o risorse da accaparrarsi. Nelle sue canzoni,
invece, l'uomo non è parte integrante dell'ingranaggio bellico, non più una pedina
su una mappa. ma viene posto al centro.

Nel 1982 Sharon, a quei tempi ministro della difesa israeliano, invase il Libano
con una sanguinosa guerra che costò migliaia di vittime civili e militari. Beirut,
Tiro e Sidone furono le città maggiormente danneggiate. Ed è proprio una
registrazione di Sharon, accompagnata dalla voce di Ronald Reagan (presidente
degli Stati Uniti dal 1981 al 1989), ad aprire la canzone. Oltre a questo si sentono
anche degli applausi in sottofondo, quasi a voler accentuare ancora di più l'idiozia
della loro soddisfazione.
Appena le voci vengono sfumate, entra Mauro Pagani con il saz turco (padre del
bouzouki greco), vera spina dorsale della canzone, che accompagna il racconto di
Fabrizio De André.
Sidún rappresenta, in tal senso, il punto più alto della loro collaborazione. Il
contraltare tra gli applausi e l'ingresso del saz ci proiettano direttamente in
un'atmosfera dolorosa, con la città circondata da macerie e avvolta in un silenzio
spettrale, dove l'eco degli applausi e delle bombe lanciate da quelle stesse mani
resta ancora impresso nell'aria.
Un signore arabo abbraccia i resti del suo bambino (“U mæ nininu mæ
u mæ” - “Il mio bambino il mio, il mio”), simbolo dell'atrocità di un
bombardamento, e lancia il suo sfogo contro i soldati (“E i euggi di surdatti chen
arraggë / cu'a scciûmma a a bucca cacciuéi de bæ / a scurrï a gente cumme
selvaggin-a / finch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a qué” - “E gli occhi dei
soldati cani arrabbiati / con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli / a

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inseguire la gente come selvaggina / finché il sangue selvatico non gli ha spento
la voglia”), per poi guardarsi intorno e vedere solo distruzione. Qui ci appare
Sidone, il suo triste destino (“e 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziún” -
“e nelle ferite il seme velenoso della deportazione”), città capace di essere stata
una culla di civiltà nel Mediterraneo e ora costretta a diventare il teatro della
stupidità umana:

ciao mæ 'nin l'ereditæ


l'è ascusa
'nte sta çittæ
ch'a brûxa ch'a brûxa
inta seia che chin-a
e in stu gran ciaeu de feugu
pe a teu morte piccin-a

ciao bambino mio l'eredità


è nascosta
in questa città
che brucia che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte

Piccola morte che, come spiegherà Fabrizio De André, durante un'intervista per la
trasmissione tv Mixer, “va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale
di un piccolo paese”20.
Il finale rilancia ancora una volta la carica emotiva della canzone, allontanandosi
dal dolore, con un coro liberatorio che sembra levarsi dalle fondamenta della città,
quasi a voler sottolineare come neanche le bombe possano riuscire a cancellare
Sidone dalla storia.

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Sinàn Capudàn Pascià

Alla fine del XVI secolo, durante uno scontro tra le flotte della repubblica
di Genova e quella turca, fu catturato dai musulmani un marinaio genovese di
nome Cicala; la canzone è una specie di manuale, di vademecum dello scalatore
sociale, d'altra parte ampiamente giustificabile date le condizioni dei tempi e
la particolare durezza usata nei confronti dei prigionieri, tanto più se
professavano una religione diversa21.

Da grande appassionato della storia qual era, Fabrizio De Andrè non poteva
perdere l'occasione di inserire in Crêuza de Mä una vicenda realmente accaduta in
passato.
Protagonista della canzone è Scipione Cicala, un genovese di ricca famiglia che fu
catturato dai turchi nel XVI secolo e sottoposto ad un dilemma cruciale:
rinunciare al cristianesimo e convertirsi all'Islam oppure morire. Questa scelta
rappresentò il punto di partenza di una nuova vita che lo portò a cambiare nome in
Hassan Çigala-zade e a passare in breve tempo da prigioniero a Sinàn Capudàn
Pascià.

Il testo, cantato in prima persona, passa tra le scelte che hanno segnato la vita del
protagonista, riassunte da un vecchio ritornello popolare: “Intu mezu du mä
gh'è'n pesciu tundu / che quandu u vedde ë brûtte u va 'nsciù fundu / intu mezu du
mä gh'è 'n pesciu palla / che quandu u vedde ë belle u vegne a galla” - “In mezzo
al mare c'è un pesce tondo / che quando vede le brutte va sul fondo / in mezzo al
mare c'è un pesce palla / che quando vede le belle viene a galla”.
Con questa storia De André riesce a combinare diversi elementi tipici del suo
mondo. Attorno al racconto di questa vicenda emerge un carattere indulgente,
molto lontano da quello che potrebbe essere un facile giudizio sommario.
Cicala è il classico esempio dell'arrampicatore sociale, ma in un contesto delicato
dove si rischia di barattare la propria coerenza con la morte. Quello che a tratti

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potrebbe sembrare opportunismo, in realtà non è altro che un semplice istinto di
sopravvivenza.
Inoltre, in questa canzone c'è spazio anche per l'eterno conflitto tra cristianesimo e
Islam, divisione che nei secoli è stata motivo di sanguinose guerre lungo tutto il
Mediterraneo e ancora oggi resta di estrema attualità. La conversione di Cicala
più che essere raccontata in chiave drammatica, ci viene presentata con tutta la
saggezza che segna questa piccola storia:

E digghe a chi me ciamma rénegôu


che a tûtte ë ricchesse a l'argentu e l'öu
Sinán gh'a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü

E digli a chi mi chiama rinnegato


che a tutte le ricchezze all'argento e all'oro
Sinán ha concesso di luccicare al sole
bestemmiando Maometto al posto del Signore

La canzone ha un sapore tribale reso possibile dalla combinazione di basso,


marimba, tamburi e i tom della batteria, che permette a Mauro Pagani di sfoggiare
un'altra arma dal suo arsenale già presente in Jamin-a: l'oud22.

'Â pittima

Alla Pittima, ancora oggi sinonimo di persona fastidiosa, appiccicosa e


implacabile nella sua determinazione, si dava il compito nell'antica Genova di
riscuotere, dietro compenso, i debiti dei creditori insolventi. Il personaggio è la
risultante di un'emarginazione sociale (almeno come io lo descrivo) dovuta
principalmente alle sue carenze fisiche: “cosa ci posso fare se non ho le braccia
per fare il marinaio, se ho il torace largo un dito, giusto per nascondermi con il
vestito dietro a un filo?”. Questo è il lamento di chi è stato costretto da una

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natura tutt'altro che benevola a scegliersi per sopravvivere un mestiere
sicuramente impopolare23.

Il viaggio nella storia del Mediterraneo non passa solo da marinai, avventurieri e
sultani, ma anche da figure marginali che abitano nei porti e il mare possono solo
guardarlo. Di questa categoria fa parte 'Â pittima, personaggio tipico di Genova
(ma anche della storica rivale Venezia), emarginato dalla società perché simbolo
di fastidio, repulsione.
De André, però, inaugura un nuovo punto di vista della pittima che va al di là del
proprio lavoro di recupero crediti, e si fissa sulla persona, sui difetti fisici che la
costringono a quell'unica strada per procurarsi da mangiare.

Anche qui De André sceglie di cantare in prima persona, creando un clima simile
ad un racconto notturno in riva al mare guidato da percussioni, flauti e un
bouzouki.
L'impronta del testo, come per Sinàn Capudàn Pascià, mette al centro il destino
del protagonista che stavolta non viene dettato dalle opportunità presentate, ma da
una natura poco generosa. La canzone porta a sciogliere gli stereotipi attorno al
ruolo della pittima e a farci entrare in diretto contatto con il suo mondo, ispirando
anche una certa tenerezza che ci viene restituita sul finire della canzone con un
profondo messaggio di umanità:

Mi sun 'na pittima rispettä


e nu anâ 'ngíu a cuntâ
che quandu a vittima l'è 'n strassé
ghe dö du mæ

Io sono una pittima rispettata


e non andare in giro a raccontare
che quando la vittima è uno straccione
gli do del mio

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Da sottolineare come questa canzone abbia rappresentato uno dei pochi
esperimenti di grande successo tra le cover di Crêuza de Mä con la versione in
inglese di Allan Taylor, The Beggar.

'Â duménega

Dal 1500 sino alla fine del 1800 era praticamente un'istituzione genovese relegare
le prostitute in un quartiere cittadino. […] Pare che attraverso il guadagno di
queste disgraziate il comune di Genova riuscisse a pagare tutti i lavori portuali
per un anno intero. Corrispondentemente a questo loro dovere (chiamiamolo
così) c'erano anche dei diritti (chiamiamoli altrettanto così), fra cui quello della
passeggiata domenicale. In effetti, invece di una giornata d'aria diventava una
specie di calvario24.

Il paradosso di questa canzone è di essere la più “genovese” tra tutte e allo stesso
tempo l'unica del disco il cui testo non è firmato da Fabrizio De André ma da
Mauro Pagani, con l'intento di scrivere proprio una canzone “alla De André”.
Le prostitute hanno sempre avuto un posto in prima fila nel mondo di Faber, e in
'Â duménega diventano il mezzo per descrivere un ulteriore spaccato della società
genovese di un tempo.

Nel racconto della loro passeggiata domenicale si va per le strade di Genova:


Ciamberlin (Pianderlino), Fuxe (alla Foce), Caignàn (Piazza del Carignano) e
Puntexellu (vico Dritto Ponticello). Posti lontani dal quartiere in cui offrivano il
loro corpo e dove trovavano una platea di clienti pronti a riversare ogni tipo di
cattiveria.
Questo scenario, tipicamente pirandelliano, ci porta a vedere le prostitute come le
custodi del retroscena genovese, pronte ad accogliere le voglie di uomini a cui
non basta la moglie oppure riescono ad avere una donna solo grazie ai soldi, e

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anche attrici di palcoscenico su cui diventano bersaglio dello stesso pubblico che
incontrano di nascosto.
Ma oltre al danno dell'insulto, lungo la passeggiata si materializza la beffa di
incrociare lo scherno del direttore del porto che, del loro lavoro, ne trae beneficio
grazie al sistema di tassazione genovese:

e u direttú du portu c'u ghe vedde l'ou


'nte quelle scciappe a reposu da a lou
pe nu fâ vedde ch'u l'è cuntentu
ch'u meu-neuvu u gh'à u finansiamentu
u se cunfunde 'nta confûsiún
cun l'euggiu pin de indignasiún
e u ghe cría u ghe cría deré
bagasce sëi e ghe restè

E il direttore del porto che ci vede l'oro


in quelle chiappe a riposo dal lavoro
per non far vedere che è contento
che il molo nuovo ha il finanziamento
si confonde nella confusione
con l'occhio pieno di indignazione
e gli grida gli grida dietro
bagasce siete e ci restate

Non manca il finale ad effetto.


Le frustrazioni subite vengono presto cancellate dall'ironia con cui viene vista
quella folla di contestatori: proprio in mezzo a loro si trova un uomo, il quale non
si rende conto “che in mezzu a quelle creatúe / che se guagnan u pan da nûe /a
gh'è a gh'è a gh'è a gh'è /a gh'è anche teu muggè” - “che in mezzo a quelle
creature / che si guadagnano il pane da nude / c'è c'è c'è c'è / c'è anche tua
moglie”.

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Tra tutte le canzoni del disco, questa è quella che risente di un minor numero di
contaminazioni mediorientali. Batteria e basso vengono intrecciati con mandolini,
chitarre e violino e per l'occasione si può gustare anche l'unione di due musicisti
del calibro di Mauro Pagani e Franco Mussida che, con il suo assolo di chitarra
classica, lascia una firma di prestigio nel disco.

D'ä mê riva

Quando un navigante abbandona la banchina del porto della città in cui vive,
arriva il momento del distacco dalla sicurezza, dalla certezza, sottospecie magari
di una moglie custode, appunto, del talamo nuziale, agitante un fazzoletto chiaro
e lacrimato dalla riva. Il distacco dal pezzetto di giardino, dall'albero del limone
e, se il navigante parte da Genova, sicuramente dal vaso del basilico, piantato lì
sul balcone a far venire appetito agli altri, a quelli che restano, ai disertori del
mare25.

Dopo essere ritornati a casa e aver sentito storie passate e presenti, dopo il
desiderio di una Jamin-a, l'incontro della pittima per strada e le prostitute vestite a
festa nel mattino domenicale, il marinaio torna al focolare domestico e lo fa con
un filo di tristezza perché sa di dover affrontare una nuova partenza che lo
allontanerà dalla moglie.

La canzone si apre con le onde del mare che lasciano spazio all'arpeggio della
chitarra ottava di De André e alla separazione tra il viaggiatore e la sua donna.
Il mare non si presenta più come luogo di scoperta, ma come un richiamo
inevitabile che mette a dura prova ogni legame. Dalla propria riva, più che in ogni
altro posto, si avverte il distacco e l'unico punto di riferimento a disposizione resta
l'orizzonte:

38
Ti me perdunié u magún
ma te pensu cuntru su
e u so ben t'ammìi u mä
'n pò ciû au largu du dulù

Mi perdonerai il magone
ma ti penso contro sole
e so bene stai guardando il mare
un po' più al largo del dolore

D'ä mê riva ci proietta sulle onde del mare che portano la barca ad allontanarsi
dalla terra ferma. Questo moto avviene con lentezza e rimanda ad una dolce
malinconia, dove il marinaio immagina la sua donna pronta per un'altra lunga
attesa e fa cadere lo sguardo sul baule che gli è stato preparato con “tréi camixe
de vellûu dui cuverte u mandurlin e 'n cämà de legnu dûu” -“tre camicie di
velluto due coperte e il mandolino e un calamaio di legno duro”, per poi fermarsi
sulla foto di lei da ragazza grazie alla quale “puèi baxâ ancún Zena
'nscià teu bucca in naftalin-a” -“poter baciare ancora Genova sulla tua bocca in
naftalina”.

Per tutta la canzone sono dominanti voce e chitarra di De André, il resto dei suoni
bassi serve a dare maggior colore, rimarcando alcuni versi, mentre il tappeto
sonoro delle onde ci porta direttamente sulla barca del marinaio, diventando
simbolo del distacco.
È il momento più intimo di Crêuza de Mä, non a caso messo in chiusura al disco,
proprio per restituire quel clima di sospensione che si respira solo a pochi metri
dal mare o durante un qualsiasi viaggio.

(… continua …)

39
NOTE BIBLIOGRAFICHE

Capitolo 1. Un messaggio nella bottiglia

1. AMODIO A., MOLTENI F., Controsole. Fabrizo de André e Crêuza de Mä,


Arcana, Roma, 2010, p. 25.
2. ivi, p. 9.
3. DOTOLI G., Fabrizio De André traduttore della parola euro-mediterranea,
Schena Editore, Fasano (BR), 2009, p. 52.
4. Massimo Bubola in Dentro Faber, ciclo di documentari distribuiti in DVD
insieme al "Corriere Della Sera" e prodotti da Vincenzo Mollica, Cristiano De
André e Aldo Grasso, 2011.
5. ROMANA C. G., Amico Fragile, Sperling & Kupfer, Milano, 2000, p. 93.
6. ivi, p. 126.
7. AMODIO A., MOLTENI F., 2010, p. 23.
8. PISTARINI W., Il libro del mondo. Le storie dietro le canzoni di Fabrizio De
André, Giunti Editore, Firenze, 2010, p. 225.

Capitolo 2. Dalla PFM a Crêuza de Mä

9. DI CIOCCIO F., HARARI G. (a cura di), Evaporati in una nuvola rock,


Chiarelettere, Milano, 2008, p. 37.
10. ivi, p. 38.
11. ROMANA C.G., 2000, p. 126-127.
12. Intervista di Mauro Pagani rilasciata a R. Russino per “Jam”, De André, Pagani e
i 20 anni di Crêuza de Mä , dicembre 2014, ripresa da AMODIO A., MOLTENI
F., 2010, p. 24.
13. ROMANA C.G., 2000, p. 133.
14. DOTOLI G., 2009, p. 93.
15. AMODIO A., MOLTENI F., 2010, p. 19.

Capitolo 3. Il disco

16. BRIGHENTI F., Il poeta genovese stavolta canta Genova, ma solo in genovese in
"Il Lavoro", 2 marzo 1984.
17. PISTARINI W., 2010, p. 233.
18. Fabrizio De André in TV, "Mixer", Rai2, 1984.
19. SUSANNA G., Un viaggio nel sole e nell'azzurro del Mediterraneo in "Fare
Musica", 1 giugno 1984.
20. Fabrizio De André in TV, "Mixer, Rai 2, 1984.
21. VERONESI S. (a cura di), Fabrizio De André “Crêuza de Mä”, Fondazione
Fabrizio De André Onlus, Milano, 2014, p. 162
22. AMODIO A., MOLTENI F., 2010, p. 39.
23. VERONESI S., 2014, p. 164.
24. ivi, p. 169.
25. ivi, p. 173.

Capitolo 4. Odissea e Mediterraneo

40
26. MATVEJECIĆ P., Mediteranski Brevijar, GHZ, Zagabria, 1987; tr. it. a cura di
Silvio Ferrari, Breviario Mediterraneo, Garzanti, Milano, 2017, p. 9.
27. DOTOLI G., 2009, p. 32.
28. Intervista a Ivano Fossati in Dentro Faber, 2011.
29. GHEZZI P., Il vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003, p. 34.
30. AMODIO A., MOLTENI F., 2010, p. 30.

Capitolo 5. Impatto mediatico e contesto

31. BANTI A.M., L'età contemporanea, dalla Grande Guerra a oggi, Laterza, Bari,
2009, p. 372.
32. GHEZZI P., 2003, p. 31.
33. DOTOLI G., 2009, p. 27.
34. RICOEUR P., Parcours de la reconnaisance, Éditions Stock, Parigi, 2004; tr. it. a
cura di Fabio Polidori, I percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore,
Milano, 2005, p. 130.

Capitolo 6. Dopo Crêuza de Mä

35. ROMANA C.G., 2000, p. 143-144.


36. PISTARINI W., 2010, p. 253.
37. indicazione presente sul libretto del disco "Anime Salve", 1996, Bmg Ricordi.
38. PISTARINI W., 2010, p. 285.
39. ROMANA C.G., 2000, p. 155.
40. Lu. Gia., Quelle canzoni sospese tra le nuvole e il mare, "Il Mattino", 4 marzo
1991.
41. PISTARINI W., 2010, p. 268.
42. ROMANA C.G., 2000, p. 155.
43. Intervista a Mauro Pagani in Dentro Faber, 2001.
44. HARARI G., (a cura di), Una goccia di splendore, Rizzoli, Milano, 2007.
45. Indicazione presente sul libretto del disco "Le nuvole"; 1990, Bmg Ricordi.
46. Cartella stampa di presentazione dell'album, cit. in PISTARINI W., 2000, p. 299.
47. ivi, p. 300.
48. VERONESI S., p. 195-196.

Capitolo 7. Lingua e linguaggio

49. ROMANA C.G., 2000, p. 135-136.


50. DOTOLI G., 2009, p. 85.
51. ROMANA C.G., 2000, p. 135.
52. Intervento di Pier Paolo Pasolini nell'incontro Volgar’eloquio tenuto al liceo
classico Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975.
53. AMODIO A., MOLTENI F., 2010, p. 25.
54. PISTARINI W., 2000, p. 235.
55. Fabrizio De André in TV, "Mixer, Rai 2, 1984.
56. COTRONEO F. (a cura di), Come un'anomalia: tutte le canzoni, Einaudi
Tascabili, Torino, 1999, p. 227.

41
BIBLIOGRAFIA

ABULAFIA D., The great sea; tr. it. a cura di Luca Vanni, Il grande mare. Storia
del Mediterraneo, Mondadori, Milano, 2013.
AMODIO A., MOLTENI F., Controsole. Fabrizio De André e Crêuza de Mä,
Arcana Edizioni, Roma, 2010.
ANDRIC I., Na Drini Ćuprija, The Ivo Andric Foundation, Beograd, Serbia; tr. it.
a cura di Dunja Badnjević, Il ponte sulla Drina, Mondadori, Milano, 2016.
APRILE M., Dalle parole ai dizionari, Il Mulino, Bologna, III edizione, 2015.
BANTI A. M., L'età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Laterza, Bari,
2009.
CAPOSSELA V., Tefteri. Il libro dei conti in sospeso, Il Saggiatore, Milano, 2013.
COTRONEO R. (a cura di), Come un'anomalia: tutte le canzoni, Einaudi, Torino,
1999.
DI CIOCCIO F., HARARI G. (a cura di), Evaporati in una nuvola rock. Il diario
ufficiale della leggendaria tournée, Chiarelettere, Milano, 2008.
DOTOLI G., Fabrizio De André traduttore della parola euro-mediterranea,
Schena Editore, Fasano (BR), 2009
FASOLI D., Fabrizio De André. Passaggi di tempo, Coniglio Editore, Roma,
2009.
GHEZZI P., Il vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003.
HARARI G. (a cura di), Una goccia di splendore, Rizzoli, Milano 2007.
LEE MASTERS E., Spoon River Anthology, tr. it. a cura di Alberto Rossatti,
Antologia di Spoon River, RCS Libri, Milano, 2007.
MATVEJECIĆ P., Mediteranski Brevijar, GHZ, Zagreb, 1987; tr. it. a cura di
Silvio Ferrari, Breviario Mediterraneo, Garzanti, Milano, II edizione VIII
ristampa, 2017.
OMERO, Odissea, tr. it. a cura di Aurelio G. Privitera, Mondadori, Milano, 1991.
PASOLINI P. P., Scritti corsari, Garzanti Novecento, Milano, VI ristampa, 2013.

42
PISTARINI W., Il libro del mondo. Le storie dietro le canzoni di Fabrizio De
André, Giunti, Firenze, 2010.
PIVANO F., ROMANA C.G., SERRA M., De André il corsaro, Interlinea,
Novara, 2002.
RICOEUR P., Parcours de la reconnaisance, Éditions Stock, 2004, Paris; tr. it. a
cura di Fabio Polidori, I percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore,
Milano, 2005.
ROMANA C.G., Amico fragile, Sperling & Kupfler, Milano, II edizione, 2000.
SAID E. W., Representations of the intellectual; tr. it. a cura di Maria Gregorio,
Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Giangiacomo Feltrinelli Editore,
Milano, 2014.
VASTA G. (a cura di), Deandreide. Storie e personaggi di Fabrizio De André in
quattordici racconti di scrittori italiani, RCS Libri, Milano, 2006.
VERONESI S. (a cura di), Fabrizio De André “Crêuza de Mä”, Fondazione
Fabrizio De André Onlus, Milano, 2014

43
DISCOGRAFIA

Fabrizio De André (album in studio):

1967: Volume I – Fabrizio De André (Bluebell Records)


1968: Tutti morimmo a stento – Fabrizio De André (Bluebell Records)
1968: Volume III – Fabrizio De André (Bluebell Records)
1970: La Buona Novella – Fabrizio De André (Produttori Associati)
1971: Non al denaro non all'amore né al cielo – Fabrizio De André (Produttori
Associati)
1973: Storia di un impiegato – Fabrizio De André (Produttori Associati)
1974: Canzoni – Fabrizio De André (Produttori Associati)
1975: Volume VIII – Fabrizio De André (Produttori Associati)
1978: Rimini – Fabrizio De André (Dischi Ricordi)
1981: Fabrizio De André (L'indiano) – Fabrizio De André (Dischi Ricordi)
1984: Crêuza de Mä – Fabrizio De André (Dischi Ricordi)
1990: Le nuvole – Fabrizio De André (Ricordi - Fonit Cetra)
1996: Anime Salve – Fabrizio De André (BMG Ricordi)
2014: Crêuza de Mä – Fabrizio De André (Sony Music)*

Fabrizio De André (album in concerto):

1979: Fabrizio De André in concerto. Arrangiamenti PFM – Fabrizio De André


(Dischi Ricordi)
1980: Fabrizio De André in concerto. Arrangiamenti PFM Vol. 2 – Fabrizio De
André (Dischi Ricordi)
1991: 1991 concerti – Fabrizio De André (Ricordi)
1999: Fabrizio De André in concerto – Fabrizio De André (BMG Ricordi)
2001: Fabrizio De André in concerto vol. II – Fabrizio De André (BMG Ricordi)

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2014: La mia Genova – Fabrizo De André (Nuvole Production)*

*= il disco è stato distribuito all'interno del volume Fabrizio De André “Crêuza


de Mä”, curato da Sandro Veronesi e realizzato dalla Fondazione “Fabrizio De
André” Onlus

Altri:

1966: Blonde on blonde – Bob Dylan (CBS Records)


1966: Supplique pour être enterré à la plage de Sète – Georges Brassens (Georges
Meyerstein - Maigret)
1967: Song of Leonard Cohen – Leonard Cohen (Columbia Records)
1971: Con l'affetto della memoria – Domenico Modugno (RCA)
1971: Led Zeppelin IV – Led Zeppelin (Atlantic)
1972: Storia di un minuto – PFM (Numero Uno)
1973: Arbeit macht frei – Area (Cramps)
1974: Planet Waves – Bob Dylan (Asylum Records)
1974: Anima Latina – Lucio Battisti (Numero Uno)
1977: Com'è profondo il mare – Lucio Dalla (RCA)
1978: Mauro Pagani – Mauro Pagani (Ascolto)
1980: The Game – Queen (Elektra Records)
1980: Nero a metà – Pino Daniele (EMI Italiana)
1982: Peter Gabriel IV – Peter Gabriel (Charisma)
1986: Graceland – Paul Simon (Warner Bros)
1986: So – Peter Gabriel (Geffen Records)
1987: ...Nothing like the sun – Sting (A&M - Polygram)
1987: Bonne soirée – Pino Daniele (Bagaria - EMI)
1988: ...Nada como el sol – Sting (A&M - Polygram)
1989: Rei Momo – David Byrne (Luaka Bop – Sire)
1989: Mascalzone latino – Pino Daniele (CGD – EastWest Italy)

45
1992: Italia d'oro – Pierangelo Bertoli (Dischi Ricordi)
1992: Come l'acqua – Mango (Fonit Cetra)
1993: Both sides – Phil Collins (Warner)
1995: Canti randagi – AA. VV. (Dischi Ricordi)
1999: Mai Paura – Mercanti di Liquore (Musica Mezzanima - Samsara/IRD)
1999: Brand new day – Sting (A&M – Polygram)
2003: Faber, amico fragile – AA. VV. (BMG)
2004: 2004 Crêuza de mä – Mauro Pagani (BMG – Macù Edizioni Musicali)
2004: Passi d'autore – Pino Daniele (BMG)
2005: Song from the labyrinth – Sting (A&M – Polygram)
2006: Ovunque proteggi – Vinicio Capossela (Atlantic Records – Warner)
2009: De André canta De André – Cristiano De André (Blue's Records)
2010: De André canta De André vol. 2 – Cristiano De André (Blue's Records)
2012: Rebetiko Gymnastas – Vinicio Capossela (Warner Music Italia – La Cùpa)

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