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Strategie d impresa pellicelli

Strategie d'impresa (Università degli Studi di Torino)

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PARTE PRIMA: LA GESTIONE STRATEGICA


CAP. 1: IL CONCETTO DI STRATEGIA E IL PROCESSO DI GESTIONE STRATEGICA
1.2: strategia, business policy e gestione strategica.
La strategia è un mezzo rispetto al fine, costituito dagli obiettivi di lungo tempo dell’organizzazione. È al tempo stesso
l’insieme dei criteri di decisione e delle azioni.
Oltre formulare una strategia occorre realizzarla e gestire le varie fasi che portano ai risultati finali.
Gestione strategica è il processo continuo che determina la mission e gli obiettivi di un’impresa nel contesto
dell’ambiente esterno in cui opera e delle forze e debolezze interne. Comprende l’analisi della situazione (o analisi
strategica), la scelta, realizzazione e valutazione delle strategie, nonché il loro adattamento all’ambiente che cambia.
La politica aziendale è orientata alla gestione interna e ha l’obiettivo di integrare le varie funzioni dell’impresa.
Le strategie possono essere studiate sotto diversi profili:
Profilo psicologico: vede nella motivazione e nei comportamenti dei singoli il motore dell’organizzazione cui
appartengono.
Profilo sociologico: spiega il comportamento delle organizzazioni complesse sulla base delle strutture sociali e
delle relazioni tra persone.
Profilo politico: per capire come le forme di governo dell’impresa e le coalizioni di potere possano agire sulle
strategie.
Profilo economico: esamina il processo di formare delle strategie sulla base di quatto elementi: chi decide? Quali
obiettivi da raggiungere? Quali variabili agiscono? Quali meccanismi usare?
1.3: un modello di gestione strategica.
La gestione strategica può essere definita esaminando le tre aree principali che la compongono:
1a area: analisi strategica
Mira a capire:
a) La posizione strategica dell’organizzazione rispetto ai concorrenti e l’ambiente
b) Quali cambiamenti sull’attività dell’organizzazione
c) Quali risorse e competenze possieda l’organizzazione.
L’analisi strategica ruota intorno a tre concetti:
1) Mission: capire chi governa effettivamente l’impresa, ossia a corporate governance è importante per interpretare
le strategie adottate. Devono essere sottoposti a revisione periodica.
2) Ambiente: come il cambiamento agisca sulle variabili e come queste possano generare opportunità e minacce
(lo strumento è l’analisi esterna)
3) Risorse e competenze: variabili interne punti di forza: creano vanteggi competitivi; punti di debolezza: creano
svantaggi competitivi rispetto ai rivali (lo strumento è l’analisi interna).
a
2 area: la scelta delle strategie
Occorre individuare, valutare e selezionare le opzioni che possono portare a realizzare gli obiettivi. Il management deve
avere le strategie per orientare la gestione.
3a area: la realizzazione delle strategie
Le strategie scelte devono essere realizzate, tradotte in azioni. Occorre creare motivazioni, assegnare responsabilità e
deleghe, pianificare le risorse, gestire acquisizioni, dismissioni, fusioni.
1.4: tre livelli di strategie: corporate, business, funzionale.
1o livello: le strategie corporate
È quella elaborata dal top management, ossia l’imprenditore o i dirigenti di livello più alto, per l’intera organizzazione, e
risponde a 4 domande:
1) Quali business: dipende dalle forze e dalle debolezze dell’organizzazione e dalle opportunità e minacce
provenienti dall’ambiente. Il top management può adottare 3 profili:
In un solo business;
In più business tra loro correlati;
In più business tra loro non correlati.
Il primo: le strategie corporate e strategie business coincidono, mentre il secondo ed il terzo:
la strategia corporate si trova di fronte una pluralità di business che possono essere tra loro
correlati (vuol dire stesse tecnologie, stessi clienti, stessi segmenti) o meno.
2) Quale orientamento: possono avere tre orientamenti: crescita, stabilità e contrazione.
3) Quali risorse: stretto legame tra obiettivi e risorse. Bisogna stabilire quali risorse debbano essere assegnate a un
business piuttosto che a un altro.
4) Quale struttura organizzativa: le caratteristiche della strategia dettano caratteristiche dell’organizzazione e
viceversa. Le imprese multibusiness in genere adottano una strategia divisionale,
più raramente una struttura matrice o a rete. Se la strategia è basata sui bassi costi

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l’organizzazione tende e essere semplice e rigida, se la strategia è basata sulla


differenziazione la struttura tende a essere complessa e flessibile.
Le strategie corporate attingono a tre tipi di modelli ispirati da logiche diverse:
1) Transaction costs è un concetto che indica i costi sostenuti per il ricorso al mercato e che possono essere evitati se
al mercato si sostituisce l’impresa.
2) Portfolio management indica una serie di modelli basati sui concetti di quota di mercato, curve di esperienza e
ritmi di sviluppo.
3) PIMS, acronimo di profit impact of marketing strategy, che indica le esportazioni dei rapporti tra le strategie di
mercato e l’andamento dei profitti.
Le strategie business ricorrono a due principali tipi di modelli:
1) SCP, structure conduct performance, fondato sui presupposto che i risultati ottenuti da un’impresa dipendono
dalle strategie adottate, le quali a loro volta sono dettate dalla struttura del settore;
2) Il modello del ciclo di vita del settore derivante dalla constatazione che le strategie sono e devono essere diverse
secondo la fase del ciclo in cui si trova l’impresa.
o
2 livello: le strategie business (strategie prodotto/mercato o strategie competitive)
Una strategic business unit (SBU) è la parte di un’organizzazione che ha una propria strategia, un proprio mercato, propri
concorrenti, una mission distinta da quella delle altre arti dell’impresa.
I problemi che il management affronta riguardano principalmente:
Come affermarsi in un particolare ambiente competitivo;
Quali vantaggi costruire rispetto ai concorrenti;
Come cogliere le nuove opportunità individuate o create nei mercati;
Quali prodotti e servizi sviluppare e in quali mercati, valutando in quale misura tali prodotti e servizi rispondano
alle esigenze dei consumatori in modo da raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione.
La strategia business è focalizzata su un mercato o un singolo segmento di mercato e deve distribuire le risorse tra una
pluralità di funzioni con l’obiettivo di aumentare la capacità competitiva.
3o livello: le strategie funzionali
Per funzioni: si intendono le principali attività specializzate che compongono l’organizzazione. Le principali: finanza,
marketing, produzione, R&S di prodotti nuovi e la gestione delle risorse umane.
Il management delle business unit o l’imprenditore nelle piccole e medie imprese hanno come responsabilità
fondamentale il coordinamento di queste funzioni, in modo che dalla loro integrazione risulti una gestione ordinata che
consenta di raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione.
Per le singole funzioni si possono formulare obiettivi da raggiungere e strategie adeguate.
La responsabilità di formulare le strategie funzionali comete a dirigenti che, a loro volta, riferiscono al direttore generale
o all’imprenditore.
1.5: che cosa fa scattare il cambiamento strategico.
Accade con una certa frequenza che le strategie in corso siano abbandonate e sostituite da altre. Gli eventi principali che
possono dare origine al cambiamento:
Crisi di risultati: se i risultati non sono quelli attesi, l’unica alternativa può essere cambiare la strategia.
Nuova leadership: un nuovo amministratore delegato (CEO) o un nuovo gruppo di dirigenti al vertice
dell’organizzazione spesso sono la spinta per nuove strategie.
Minaccia di takeover: se la capitalizzazione di mercato è stimata inferiore alla potenziale creazione di valore,
sorge l’interesse a un’ acquisizione da parte di altre imprese o di gruppi di investitori.
Nuovi azionisti di riferimento: con il cambio della compagine sociale cambiano le persone e le istituzioni che
controllano il capitale, di conseguenza possono cambiare gli obiettivi e la scelta dei modi per raggiungerli.
1.6: chi prende le decisioni: la leadership strategica.
Secondo Hill e Jones, la leadership strategica richiede cinque specifici requisiti:
1) Vision. Il leader deve avere una chiara visione degli obiettivi che intende raggiungere e orientare l’intera
organizzazione verso tali obiettivi. Deve essere coerente nelle proprie decisioni e azioni.
2) Impegno personale. Il leader deve mostrare di credere fermamente negli obiettivi e nel modo scelto per
raggiungerli. È di esempio ai suoi collaboratori e il suo impegno personale è un potente segnale per tutta
l’organizzazione.
3) Essere informato: conoscere quanto avviene fuori e dentro l’impresa è molto importante. Lavorare a stretto
contatto con i collaboratori è il modo migliore per conoscere direttamente i problemi.
4) Capacità di delegare: il leader ha una forte capacità di delegare e dare autorità e potere a chi deve prendere
decisioni all’interno dell’organizzazione. È uno strumento di forte motivazione.
5) Politicamente avveduto: crea consenso: fa emergere le decisioni come leader di una coalizione; evita di
impegnarsi personalmente e pubblicamente su uno specifico obiettivo; orienta l’organizzazione verso gli obiettivi
che ha in mente, ma ha ben chiara l’inutilità di enunciazione scontate; il leader non propone all’organizzazione un
piano generale completo, bensì agisce sulle singole parti che sembrano slegate, ma che egli vede come tasselli di
un mosaico.

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CAP. 2: LA GESTIONE STRTEGICA NELLA REALTÁ


2.1: l’evoluzione della teoria.
Gli sviluppi della teoria e delle ricerche in materi di strategie e gestione strategica sono tracciati in vari scritti. Meritano di
essere ricordati in particolare quelli di Whittington (1993), Porter (1997), Rumelt(1998).
Anni Sessanta: la nascita
Le origini della gestione strategica come campo di studi e di ricerche si possono datare ai primi anni Sessanta e in
particolare ai contributi di Chandler (1962), Ansoff (1965) e infine Learned et al. (1965), le cui idee base sono attribuite
ad Andrews (1971).
Nella concezione di Andrews l’ambiente crea costantemente minacce e opportunità e l’impresa adatta le proprie forze e
debolezze al fine di evitare le minacce e trarre vantaggio dalle opportunità. Strategic fit: la strategia sarebbe a ricerca del
miglior adattamento tra opportunità e minacce dell’ambiente da un lato e forze e debolezze dell’impresa dall’altro.
Chandler, Andrews e Ansoff hanno posto le basi concettuali dello strategic management. La loro audience era però
principalmente nelle università, tra gli studenti e i professori. Ad agire sulla pratica delle imprese fu, negli ultimi anni
Sessanta, una società di consulenza: Boston Consulting Group (BCG)
Anni Settanta: la transizione verso la ricerca
Ampia diffusione dei concetti di strategia e pianificazione di lungo termine ebbero ampia diffusione.
La crisi mondiale del 1973-75, chiarì che anche i sistemi di pianificazione strategica più sofisticati non erano in grado di
anticipare il cambiamento.
Mintzberg e Waters (1985) e Quinn (1980), i primi due con il concetto di strategie emergenti, il secondo con quello di
logical incrementalism, sulla base di ricerche empiriche affermarono il principio che la strategia spesso la sintesi di
risultato no programmati.
Industrial organization (IO), concentrò le ricerche sulle relazioni tra scelte di politica industriale e sviluppo di settore.
L’obiettivo era come rendere minimi, attraverso l’intervento pubblico, i profitti “eccessivi”.
Con un modello Porter cercò di legare la redditività media di un settore a cinque forze competitive. Il modello delle
Cinque forze fu ampiamente adottato come strumento di analisi di settore ed entrò nel linguaggio corrente della gestione
strategica.
Dagli anni Ottanta in poi: i contributi di altre discipline
Dure critiche:
Le raccomandazioni circa le strategie da adottare che i consulenti davano secondo la collocazione delle imprese
nelle (loro) matrici (portfolio analysis)
Considerava un errore di principio basare l’intera valutazione sul presupposto che il capitale fosse una risorsa
scarsa e che l’arena competitiva fosse statica.
Negli Ottanta la gestione strategica attinse in larga misura ai contributi di altre discipline: all’economia e alla sociologia
dell’organizzazione e, in misura minore, alle scienze politiche e alla psicologia.
Se si esce però dalle dichiarazioni di principio e si passa all’esame delle proposte pratiche, molte di queste si ispirano a
principi noti.
Il management è più interessato alla gestione corrente che alle strategie. L’obiettivo restare lean (snelli), flessibili, vicini
al cliente, reagire rapidamente alle mosse dei rivali.
Per Collins, un’impresa che intenda crescere e ottenere risultati deve concentrarsi sul fare almeno una cosa meglio delle
altre; le imprese di success scelgono un obiettivo difficile da raggiungere, lo perseguendo con tenacia, sanno che all’inizio
i risultati sono sempre modesti; quelle che non hanno successo cambiano frequentemente gli obiettivi, annunciano con
fanfara le nuove iniziative che spesso non hanno valore.
Resta l’esigenza di una pianificazione, di una strategia, di una “vision” sul futuro. È responsabilità del management
costruirle, renderle flessibili e adattarle costantemente ai cambiamenti dell’ambiente. L’efficacia e l’efficienza della
gestione corrente sono il miglior sostegno a una strategia avveduta.
2.2: le critiche al modello tradizionale (razionale).
La strategia sarebbe la ricerca di un equilibrio, di un adattamento giudicato conveniente per la creazione di valore
dell’impresa tra due forze: da un lato l’ambiente esterno, dall’altro l’analisi interna (fit model).
La strategia avrebbe lo scopo di rispondere alle opportunità e alle minacce dell’ambiente, mettendo in campo le forze e
arginando le debolezze dell’impresa.
La strategia si sviluppa in un mondo dominato dall’incertezza, dalla complessità, dalla confusione.
L’unica alternativa in un mondo dominato dall’incertezza è capire rapidamente che cosa cambia e perché cambia, e
adeguare rapidamente le strategie alle nuove circostanze.
Nella maggior parte dei casi le strategie emergo dalla “base” dell’organizzazioni.
Fits and starts (tra soste per adattarsi e nuove accelerazioni). Nello sviluppo della strategia vi sono periodo di stabilità, ma
anche periodi di alti e bassi, di tentennamenti, a volte miglioramenti per piccoli passi, a volte cambiamenti radicali.
Occorre distinguere tra le strategie che l’impresa vorrebbe adottare (strategie scelte), strategie pianificate (intended
strategy) e strategie realizzate (deliberate strategy)

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Il management deve:
Riconoscere rapidamente le strategie emergenti sprigionate dall’organizzazione, coltivare le migliori e
accantonare le peggiori;
Confrontare le strategie emergenti con gli obiettivi dell’impresa, con le minacce e le opportunità provenienti
dell’ambiente e con le forze e le debolezze interne.
Il management deve pensare in modo strategico e deve disporre di una cultura organizzativa capace di creare
continuamente strategie emergenti.

2.3: la strategia è un processo di miglioramento continuo.


Lo sviluppo incrementale
La tesi nota come sviluppo incrementale o logical incrementalism è stata teorizzata da Quinn (1978), secondo il quale
nelle imprese di grandi dimensioni che hanno ottenuto buoni risultati il processo di gestione strategica assomiglia
raramente al modello descritto in letteratura.
Esistono limiti nella conoscenza.
Se si adottano le tesi dello sviluppo incrementale si corrono due rischi:
1) Rispondere in ritardo o più tardi dei rivali a cambiamenti radicali del contesto;
2) Sviluppare una cultura organizzativa basata sulla semplice reazione a eventi esterni e non sul costante impegno ad
anticipare gli eventi e a innovare.
Incertezza e learning organization
Una “organizzazione che apprende” riesce a trarre vantaggio dalla varietà di conoscenze, capacità ed esperienze delle
persone che la compongono. Due sono i presupposti principali per il suo successo:
1) La condivisione degli obiettivi dell’organizzazione da parte dei collaboratori;
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2) Lo sviluppo di una cultura che stimoli il confronto tra idee diverse e dia priorità alla sperimentazione.
2.4: le trappole nelle decisioni strategiche e come evitarle.
La strategia è anche il risultato di una “negoziazione” tra stakeholder che hanno valori e poteri diversi e può infine essere
imposta da poteri esterni e da un’evoluzione dell’ambiente.
L’equilibrio non dà vantaggi. Una tecnica usata da più imprese non può essere un vantaggio competitivo. Se tutte le
imprese usassero il modello tradizionale della gestione strategica si creerebbe una sorta di equilibrio; invece, l’impresa
che non lo usa è in una posizione di svantaggio. La pianificazione strategica sarebbe dunque la condizione necessaria per
ottenere risultati non inferiori alla media del settore, ma non garantirebbe risultati superiori alla media.
L’incertezza domina. Il futuro è dominato dall’incertezza. La storia recente è ricca di eventi di portata assai rilevante che
non sono stati previsti.
Non basta pensare in grande. Assegnare le strategie esclusivamente al vertice dell’organizzazione allontana le decisioni
dai problemi reali e priva il vertice del contributo di conoscenza di molti collaboratori.
Lontani dal futuro. Il modello tradizionale concentra l’attenzione del management sul rapporto tra le risorse esistenti e le
condizioni attuali dell’ambiente esterno, con il rischio di porre in secondo piano la ricerca i future opportunità.
Vittime di pregiudizi. Mentre il mondo è grande e complesso, la mente umana e le sue capacità di elaborare le
informazioni sono invece molto limitate.
Limiti alla conoscenza e all’autonomia. Altri due ostacoli alle decisioni strategiche derivano da un errato o incompleto
uso delle informazioni disponibili per il management. Varie ricerche hanno dimostrato che molti manager commettono
errori nelle loro decisioni strategiche per due motivi di carattere psicologico, tra loro correlati:
1) Limiti alla conoscenza (cognitive biases)
2) Pensiero di gruppo come base per la decisione (group think)
La conseguenza è che spesso tediamo a decidere in base a regole approssimate, precostituite e a concentrare l’attenzione
su pochi dati o eventi.
Il risultato è che i componenti di un gruppo spesso rendono decisioni che individualmente non avrebbero preso. Molte
decisioni vengono prese da gruppi di persone e non dai singoli.
Il group think avviene quando, per seguire un leader o una politica, un gruppo decide senza valutare a fondo i problemi.
Non analizza le informazioni che potrebbero mettere in discussione la politica di base e razionalizza la decisione dopo che
i fatti sono avvenuti.
È dimostrato che gli errori più frequenti sono:
Tendenza a costruire ipotesi sulla base di convincimenti già acquisiti basati sulla propria esperienza, ma non a
prova di turbolenza;
Tendenza a generalizzare sulla base dell’osservazione di piccoli campioni di esperienze;
Tendenza a sopravvalutare la nostra capacità di controllare gli eventi;
Tendenza a stabilire analogie che semplificano troppo la realtà;
Le imprese che hanno già fatto investimenti significativi in una data attività economica sono spesso portate a
investire ulteriormente (nella stesa attività) quando si profila la possibilità di risultati negativi.
Due tecniche. Per correggere gli errori derivanti dai limiti alla conoscenza e dal pensiero di gruppo si possono suggerire
due tecniche:
1) Devil’s advocacy (avvocato del diavolo): uno o più manager del gruppo responsabile delle strategie o più esperti
esterni assumono il compito di criticare a fono, con tenacia, le strategie adottate e i piani di sviluppo relativi. Lo
scopo è far emergere eventuali debolezze prima di tradurre le strategie in realtà;
2) Dialectic inquiry (analisi dialettica): tesi e antitesi. Al piano originario è contrapposto un secondo piano che parte
da ipotesi diverse e segue percorsi diversi. Confrontando il primo con il secondo e discutendo vantaggi e
svantaggi possono emergere nuovi concetti, nuove politiche meno vulnerabili rispetto a quelle del piano
originario.
2.5: la necessità di formulare una strategia e di pianificare.
È veramente necessario avere una strategia e una pianificazione strategica.
Maggiore complessità delle operazioni e maggiori investimenti di capitale. L’attività delle imprese è diventata molto
più complessa e impone maggiori investimenti di capitale. L’impresa modera può avere successo soltanto se è in grado di
coordinare in modo efficace le varie attività e l’uso delle risorse.
L’impegno finanziario è spesso talmente elevato da richiedere uno stretto controllo degli investimenti e uno stretto
coordinamento tra produzione e vendita al fine di tenere bassi sia il fabbisogno totale del capitale sia i costi per l’uso del
capitale stesso.
La progettazione richiede più tempo. Il periodo di tempo che intercorre tra l’avvio di un progetto e l’introduzione ne
mercato dei prodotti e dei servizi relativi tende a diventare sempre più lungo e a coinvolgere attività sempre più
complesse. Nelle imprese operanti in mercati altamente competitivi ciò comporta implicazioni tanto profonde sulle
strutture organizzative e sull’utilizzazione delle risorse da richiedere un coordinamento che solo la pianificazione può
dare.
Il ciclo di vita dei prodotti si accorcia. Il ritmo del progresso tecnologico tende ad aumentare continuamente e in
corrispondenza si accorcia sia il “ciclo vitale” dei prodotti sia il periodo di tempo che passa tra l’invenzione e la sua
utilizzazione commerciale.
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Occorre personale specializzato. Un altro fattore che impone il ricorso alla pianificazione è la crescente professionalità
richiesta al personale nelle varie attività. Nessuna impresa può avviare nuovi progetti di ricerca per entrate in nuovi
mercati o lanciare nuovi prodotti senza nuovi compiti. Rende maggiormente rigida l’impresa e obbliga a proiettare le
scelte in un futuro sempre più lontano.
Un gruppo di imprese deve avere una strategia unitaria. Le imprese che operano in più settori coordinati da holding
oppure con strutture organizzative articolate in divisioni operative devono necessariamente disporre di un disegno
generale che orienti l’azione delle varie unità componenti il gruppo. La formulazione di una strategia e l’elaborazione di
una pianificazione strategica sono strumenti di coesione tra le diverse unità operative, poiché indirizzano l’intero gruppo
verso obiettivi unitari, evitano che agli obiettivi del gruppo siano sostituiti quelli delle singole imprese o unità operative.
Cresce l’instabilità. Sebbene i principali paesi industrializzati abbiano nettamente migliorato la loro capacità di
controllare l’andamento dell’economia attraverso politiche economiche più attente, le crisi sono sempre in agguato. Gli
ultimi anni hanno dato ulteriore conferma di quanto sia difficile prevedere il futuro dell’economia.
L’instabilità politica, che agisce su quella economica, è sempre in agguato. Pianificazione e strategie mirano a ridurre gli
effetti negativi di tale instabilità.
Nuove strategie:
Diversificando le fonti di approvvigionamento;
Potenziando la ricerca di fonti alternative.
La concorrenza è più intensa. È sempre più difficile conquistare nuovi mercati e difendere i mercati esistenti. Disporre
di una strategia è indispensabile per fronteggiare le nuove situazioni che si presentano.
Cresce l’importanza dei valori sociali. Occorre seguire con attenzione l’emergere di nuovi valori della società. Occorre
pertanto uno strumento che consenta di individuare quando e come l’attività dell’impresa deve far propri i cambiamenti
nei valori della società.
Bisogna pensare in termini di futuro. La pianificazione strategica è un potente stimolo per indurre i dirigenti
dell’impresa a ragionare in termini di futuro e ad abbandonare l’esame del passato come centro più importante della loro
attività.
Pianificare significa motivare e agevolare. Le imprese che dispongono di una pianificazione strategica possono
migliorare il grado di motivazione dei loro collaboratori. Enunciare una strategia può agevolare la delega di responsabilità
e può anche facilitare le comunicazioni interne.
La pianificazione è uno strumento di controllo. La pianificazione strategica è una premessa indispensabile per il
controllo di efficienza nell’impresa poiché definisce gli obiettivi da raggiungere e consente di stabilire i quale misura la
realtà si discosta da quanto era stato previsto.
Consente di valutare l’attività dei vari settori dell’impresa e soprattutto consente di riportare tale attività verso gli obiettivi
prefissati nel caso in cui il percorso effettivo sia diverso da quello pianificato.

CAP. 3: LA MISSION E GLI OBIETTIVI DI LUNGO TERMINE


3.1: la mission.
La mission è un’enunciazione molto ampia degli scopi che l’impresa persegue e generalmente individua grandi aree di
attività del campo economico e sociale.
Secondo Ackoff (1986) la mission deve:
Contenere l’indicazione degli obiettivi attraverso i qual la mission stessa può essere raggiunta;
Differenziare l’impresa dai concorrenti;
Definire il business o i business in cui l’impresa intende operare;
Incorporare le attese non soltanto degli azionisti e del management, ma anche degli altri stakeholder;
Stimolare, rappresentare una sfida da raccogliere.
Varietà di formulazioni. Viene formulata in modo ampio e serve poco per orientare la gestione nel breve termine e non
ha un significato pratico immediato.
Se è formulata i modo preciso e circoscritto, la mission definisce in quale business o in quali business l’organizzazione
intende operare quali sono i suoi obiettivi e quali valori ispirano le sue strategie.
La spinta ad adottare una definizione formale viene a volte da consulenti esterni, che convincono il top management circa
la necessità di una definizione che dia un senso di unità alle varie attività dell’impresa.
La spinta può provenire anche dall’interno:
Spesso il management sente la necessità di una chiara definizione di dove l’impresa stia andando e quale sia
l’identità che vuole assumere. Si giunge alla conclusione che la mission dell’impresa deve essere meglio definita
e meglio articolata;
Può essere lo stesso consiglio di amministrazione o il comitato esecutivo che nel valutare le scelte strategiche
avverte la necessità di tracciare una linea guida;
Possono esser gli azionisti di riferimento o il presidente o l’amministratore delegato aa decidere di adottare la
definizione della mission come metodo per comunicare all’interno dell’organizzazione. Ciò avviene spesso
quando l’impresa cambia i grandi obiettivi o deve affrontare momenti difficili.
Contenuto definito. La mission afferma sempre principi generali che indicano le posizioni nel lungo termine alle quali
l’impresa mira con le proprie strategie. Questi principi dovrebbero essere sufficientemente flessibili da consentire
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all’impresa di rispondere agli eventuali cambiamenti nelle condizioni dell’ambiente e al tempo stesso indicare un
cammino alle proprie strategie.
3.2: gli obiettivi di lungo termine.
La definizione dei principali obiettivi che si intendono raggiungere. Gli obiettivi stabiliscono che cosa l’impresa debba
fare, quando e come.
Bisogna tenere presente che esistono due gruppi distinti di interessi nell’impresa:
L’interesse di chi opera all’interno (management, vari collaboratori)
L’interesse di chi ha rapporti con l’impresa dall’esterno (azionisti, stato, fornitori, clienti)
Stakeholder sono soggetti, persone o gruppi di persone, organizzazioni, che hanno interesse nell’attività dell’impresa e
che quindi possono agire sulla mission e sugli obiettivi di questa.
Massimizzare il “ritorno” per gli azionisti. Gli azionisti si attendono un “ritorno” in due forme:
Pagamento dei dividendi;
Aumento del valoro di mercato delle loro azioni.
Un’impresa crea valore se remunera il capitale più di un investimento di pari rischio.
Shareholder value
Il valore per l’azionista in un determinato periodo di tempo è dato dall’incremento del valore del capitale investito più i
dividendi distribuiti nel periodo e la misura monetaria di altri benefici. Può avere forti oscillazioni anche in un periodo di
tempo breve.
Esercitare una pressione sull’impresa per massimizzare il valore è considerato il modo migliore per far sì che il capitale
venga usati dal management nell’interesse degli azionisti e quindi sia uno strumento efficace di governo dell’impresa, o
corporate governance.
Le critiche principali sono tre:
1) Orizzonte di breve termine. Secondo i critici, dovendo rendere le azioni appetibili agli investitori il management
decide avendo un orizzonte di breve periodo. Ciò significa che il mercato azionario non esprime il valore
dell’impresa, in quanto ignora il potenziale futuro.
Se il management viene misurato sulla base del ROI può essere indotto a ridurre spese che giudica non essenziali
nel breve, ma che potrebbero però dare i loro risultati nel lungo termine.
La risposta a questa critica è articolata in due punti:
a. È dimostrato che il mercato azionario valuta anche con una prospettiva di lungo termine. Il mercato
azionario avrebbe comunque la capacità di valutare nel giusto contesto di lungo termine una decisione del
management che abbia come conseguenza un aumento dei dividendi limitato al breve periodo;
b. Le tendenze in realtà sono determinate da esperti del mercato azionario, che sanno valutare le
informazioni e proiettarne le implicazioni nel lungo periodo.
Non tutti riconoscono l’utilità di definire la mission e gli obiettivi di lungo termine, in quanto il futuro è per
definizione incerto.
2) Pura finanza. Il valore per gli azionisti è in sostanza un obiettivo finanziario. L’impresa deve essere invece
guidata da strategie di lungo termine come la conquista di quote di mercato, la customer satisfaction, la
differenziazione di prodotto, che incorporano obiettivi non soltanto finanziari.
La strategia non è un fine, ma un mezzo verso il successo dal punto di vista finanziario. Chi adotta un
orientamento allo shareholder value, valuta il potenziale di successo delle strategie attraverso una prospettiva
finanziaria di lungo termine che coagula più criteri.
3) Ignora gli altri stakeholder. La critica maggiore è basata sull’idea che l’impresa debba essere gestita
nell’interesse di tutti gli stakeholder. L’accusa di ignorare responsabilità più ampie è diventata più pressante negli
ultimi anni per almeno quattro motivi:
a. La globalizzazione delle strategie delle imprese, con cui molte imprese hanno sostato i loro investimenti
verso i paesi in cui il costo del lavoro e delle materie prime è più basso e in cui le norme a difesa
dell’ambiente sono meno rigide;
b. Le remunerazioni assai elevate di alcuni top manager, che sono considerate dell’opinione pubblica senza
alcuna correlazione con quelle dei dipendenti, né con i benefici per i clienti e per i fornitori, né con quelli
degli azionisti;
c. La privatizzazione di imprese di pubblica utilità, ignorando che mirano ora a remunerare gli azionisti
ignorando le esigenze dei clienti e della società in generale.
d. La diffusione di strategie basate sui concetti di impresa snella e di ristrutturazione, che quasi sempre
portano a ridurre i posti di lavoro e i salari anche quando i profitti sono in aumento.
Piuttosto che massimizzare le esigenze di un solo stakeholder i sostenitori di questa tesi affermano che l’impresa
dovrebbe soddisfare simultaneamente le esigenze di tutti gli stakeholder, quindi collaboratori, clienti, management,
fornitori e comunità locali. È evidente l’esistenza di un conflitto tra le esigenze dei vari gruppi i stakeholder.
L’obiettivo principale dell’impresa dovrebbe essere di soddisfare in modo equilibrato le esigenze degli stakeholder e non
di massimizzare i vantaggi per nessuno di questi.
La replica dei sostenitori dello shareholder value alle critiche suddette è affidata anzitutto alla constatazione che se
un’impresa crea valore per gli azionisti, lo crea anche per gli altri stakeholder.
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Corporate stakeholder
Sono persone, gruppi di persone o istituzioni che hanno interessi nella gestione dell’impresa. Azionisti e collaboratori
possono essere considerati portatori di interessi interni, mentre fornitori, comunità locali, sindacati, stato e pubblico in
genere possono essere considerati portatori di interessi esterni.
Per teoria degli stakeholder si intende il dovere per le imprese di soddisfare contemporaneamente più obiettivi. Più
precisamente, si intende che il risultato massimo è raggiunto quando l’impresa valuta costantemente le attese di tutte le
parti che hanno interesse nelle sua gestione.
Tutti gli stakeholder, in forme diverse, nutrono aspettative circa le strategie che l’impresa adotterà: quindi il management
deve:
Capire quali sono le attese dei vari stakeholder;
Individuare i criteri che usano per valutare l’operato del management;
Tener conto delle attese degli stakeholder nel formulare le strategie.
Quando si vuole dare attuazione alla teoria degli stakeholder emergono due problemi:
1) Difficile equilibrio. È difficile definire quantitativamente gli obiettivi degli stakeholder deversi dagli azionisti.
Handy (1984, 1996), in testa alla lista delle priorità per il management dovrebbero essere posti i collaboratori,
seguiti dai clienti e dalla comunità locale, mettendo gli azionisti alla fine.
Doyle (1994, 2008) propone di collocare i clienti al primo posto.
Sia Handy sia Doyle criticano il concetto di shareholder value soprattutto perché concentra l’attenzione sui
risultati finanziari di breve termine.
Kaplan e Norton (2003) hanno sviluppato uno strumento, il balance scorecard, che pone all’orizzonte
dell’impresa più obiettivi: verso i clienti, verso la gestione interna, verso l’innovazione e verso i risultati
finanziari.
Nella realtà, se l’organizzazione risponde alle quattro prospettive del balance scorecard si ritorna in ultima analisi
allo shareholder value.
2) Uno per tutti. Riguarda la mancanza di conferme ala tesi secondo la quale porre la creazione i valore per gli
azionisti in testa alle priorità danneggerebbe gli interessi degli altri stakeholder.
Dall’analisi emerso quanto segue:
La maggior parte delle imprese che hanno creato valore per gli azionisti hanno anche creato valore per gli
altri stakeholder;
Quelle che hanno deluso gli azionisti hanno fatto altrettanto nei confronti dei vari stakeholder.
Corporate governance
Se accettiamo lo shareholder value come obiettivo primario, resta il problema di chi governi effettivamente il processo di
gestione strategica dell’impresa.
Ciò dovrebbe stimolare il management a costruire le migliori strategie nell’interesse degli azionisti e quindi dell’impresa,
non sempre viene rispettato:
Il management può essere incapace di assumere le responsabilità che gli sono assegnate. È sempre opportuno
distinguere tra efficienza dell’organizzazione (fare le cose al meglio) ed efficacia (fare le cose giuste)
Gli interessi del management possono essere diversi da quelli degli azionisti.
Le attese e la realtà. Esistono anche molti fattori che portano a divergenze tra quanto gli azionisti si attendono, da un
lato, e la realtà dall’altro; fattori che sfuggono al controllo del management.
Per lungo tempo il management delle grandi imprese è stato al riparo da minacce di takeover. Era difficile disporre di
risorse tali da acquisire imprese anche se scarsamente efficienti.
I raider (predatori) valutano il potenziale in un’impresa: se è superiore alla capitalizzazione dei mercati avviano un
takeover con l’intenzione di ristrutturare e rivendere.
A partire dagli anni Novanta la situazione è cambiata per effetto di due fattori. Il primo è la crescente competizione
globale, in particolar modo nel settore manifatturiero, che ha costretto molte imprese europee ad avviare profonde
ristrutturazioni al fine di competere con i rivali americani e asiatici. Il secondo è la liberalizzazione del mercato dei
capitali che ha semplificato l’accesso da parte di investitor stranieri, tra i qual in particolare i fondi di investimento
americani e britannici. Ciò ha reso possibile per le imprese europee attingere ai mercati internazionali per finanziare la
loro ristrutturazione, ma con l’obbligo di dare maggiore attenzione agli interessi degli azionisti.
Non tutti d’accordo. Dai risultati di varie ricerche emerge che la differenza nel return on capital (ROE e ROI) tra le
imprese europee e quelle americano può essere spiegata principalmente attraverso le differenze esistenti nella pressione
fiscale e nelle norme contabili.
Quali meccanismi? Gli azionisti, soprattutto nelle imprese con ampio frazionamento del capitale delegano la scelta delle
strategie al management che in un certo senso diventa un loro “agente”. È il concetto noto come “agency theory”.
I meccanismi sono vari e mirano a:
Ripristinare il controllo attraverso l’esercizio dei diritti dell’assemblea degli azionisti e attraverso la nomina
diretta del consiglio di amministrazione;
Allineare gli interessi tra azionisti e management puntando sui rischi di un takeover ostile;
Ottenere lo stesso risultato adottando forme di remunerazione del management legate al valore delle azioni.

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Assemblea. Se gli investitori decidono di tenere le azioni e di esercitare i loro poteri, i principali meccanismi sono
l’assemblea degli azionisti e la nomina diretta del consiglio di amministrazione.
Vendita d azionisti. Essi avrebbero un forte strumento di controllo nella possibilità di vendere le azioni. Se non
ottengono dagli investimenti fatti quanto si attendono, delusi potrebbero vendere le azioni. Se lo fanno in molti, il prezzo
delle azioni scende. L’impresa corre così il rischio i diventare il bersaglio di takeover.
Stock option. Se la remunerazione del management i vertice è composta anche da azionisti dell’impresa gli interessi
convergono verso quelli degli azionisti. Occorre tener presente che questa forma di remunerazione:
Dipende anche da andamenti fuori dal controllo del management;
È in genere limitata ai top manager, mentre per creare un clima orientato allo shareholder value occorrerebbe fare
altrettanto con i livelli più bassi.
Effetto scandali. Il cambiamento culturale è stato accelerato dagli scandali finanziari. Analisti finanziari, investitori
istituzionali, agenzie pubbliche, revisori contabili hanno dato un’attenzione maggiore alle decisioni dei consigli di
amministrazione. Gli investitori istituzionali chiedono un differente tipo di corporate leader, una persona che, oltre alle
capacità professionali, sia sensibile alle responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholder e non solo nei confronti degli
azionisti.
Il pubblico non chiede che le imprese smettano di correre rischi. Chiede che lo facciano i modo responsabile.
Il processo di riconquista del potere di governare l’impresa nella quale avevano investito era lento, ma sembrava avviato.
Diversità di vedute. Più omogeneo è il Cda, più è probabile che i suoi componenti abbiano gli stessi orientamenti ed è
meno probabile che siano portati a controllare il management. Consiglieri con differenti background, in termini di
professione, esperienze di settore, sesso, sono più portati a porre domande rispetto a quelli che fanno parte delle stesse
cerchie professionali di amicizie. I consigli di amministrazione esistenti tendono a reclutare nuovi membri delle stesse reti
di rapporti cui appartengono.
Difesa dai raider
I consigli di amministrazione assediati dai “predatori” ricorrono a varie forme di difesa. In genere tali difese sono adottate
senza che sia necessaria l’approvazione degli azionisti.
Ora i takeover ostili sono più rari e più difficili da realizzare. Disponendo di shark repellent l’impresa può diventare
virtualmente intoccabile.
3.3: definire il business.
Per rispondere a domande come: qual è il nostro business? Quale sarà? Quale dovrebbe essere? La risposta è in parte
diversa a seconda che l’organizzazione intenda operare in un solo business o in una pluralità di business. In entrambi i
casi vale un principio: è nella definizione dei confini e dei contenuti della business unit che l’impresa pone le premesse
per i vantaggi competitivi.
Single business
W. Abell (1980) ha indicato e quattro dimensioni che consentono di definire il business:
1) Esigenze del cliente e di benefici da lui (lei) attesi allarga l’orizzonte del mercato e anche quello dei potenziali
concorrenti e dei prodotti sostitutivi. Individuare i segmento con precisione è la premessa per posizionare il
prodotto e per costruire il marketing planning.
2) Esigenze da soddisfare; quale funzione ha il prodotto o servizio. Ad es. fast food è rapidità, standard di qualità
affidabili, prezzi ragionevoli, ambiente giovane, aria condizionata.
3) Come soddisfare le esigenze dei clienti; quali tecnologie usare.
4) Se il potenziale cliente è un’impresa, devo chiedermi quale contributo i mio prodotto o servizio può dare alla sua
catena del valore.
Abell insiste sulla necessità di dare una definizione del business orientata al cliente e non orientata al prodotto, perché
quest’ultimo mette in secondo piano la funzione principale dell’impresa che è soddisfare il consumatore o un particolare
gruppo di consumatori.
Multibusiness
La mission ha 2 livelli:
1) Single business, in cui la logica è la stessa vista in precedenza e la scelta del business è orientata alle esigenze del
cliente.
2) Corporate: nelle imprese diversificate il corporate ha la responsabilità della gestione strategica di un gruppo di
unità operative. Se l’obiettivo è creare valore deve porsi più domande. Non è detto che il corporate sia in grado di
aumentare l’efficienza di una data business unit.
3.4: definire le politiche e i valori.
La mission è una sintesi delle politiche che le imprese intendono seguire: valori, priorità, convincimenti, tutto quanto
guida la gestione dell’impresa.
Le imprese multinazionali sono sempre più impegnate a generare un’immagine positiva nei confronti dei governi
“ospitanti” e delle comunità locali.
3.5: strategie ed etica.

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Secondo Trevino e Nelson (1999), nel business è etico il comportamento che rispetta i principi, le norme e gli standard
fissati dalla società circa il modo di condurre un’attività economica.
Secondo Jones e Pollit (1998) l’etica del business riguarda le regole di condotta in base alle quali vengono prese le
decisioni all’interno delle organizzazioni, quindi la business ethics è una categoria particolare di regole di comportamento
da applicare in un determinato contesto.
Le ragioni di questa maggiore attenzione al molo in cui l’attività economica viene condotta, piuttosto che ai risultati
ottenuti, sono assai complesse. Da un lato, lo sviluppo dell’information technology, la globalizzazione degli scambi, il
forte sviluppo di nuovi prodotti a beneficio dei consumatori, ma dannosi per l’ambiente hanno fatto emergere problemi di
carattere etico. Dall’altro lato, tendenze sociali di lungo periodo hanno rinnovato l’interesse verso tutti gli spetti della
moralità nel dibattito pubblico e politico.
Le aree di responsabilità
Jones e Pollit (1998) identificano quattro aree di responsabilità principali in materia di business ethics:
1) Consumatori. I prodotti che intendiamo acquistare e lo stile che volgiamo condurre hanno effetti sull’allocazione
delle risorse a livello globale.
2) Investitori. Alcuni investitori hanno deciso di non finanziare certe produzioni e di usare il potere nelle assemblee
per condizionare il management al rispetto dell’etica.
3) Management. Molte scelte di gestione sfuggono al controllo degli azionisti e sono fatte all’insaputa degli organi
di governo. Sul comportamento etico delle organizzazioni, entro certi limiti, può agire il management fissando
chiaramente le regole. Molto possono fare anche organizzazioni esterne e umanitarie. Una cultura etica deve
partire no da codici di condotta, ma deve essere basata sulla responsabilità individuale.
4) Politica e legislazione. Sull’orientamento della politica influisce l’atteggiamento della pubblica opinione, che
spesso ondeggia tra posizioni molto diverse.
Come intervenire
Tutti sono d’accordo nell’affermare la necessità di rispettare le regole dell’etica; pochi concordano però sulla loro
definizione. Le divergenze nascono dalle diversità tra culture e tra religioni.
Secondo Hill e Jones (2007), un’impresa dovrebbe costruire un clima che dia priorità elevata all’etica. Il leder deve dare
l’esempio. I valori etici devono essere incorporati nella mission. Hill riconduce il problema a due punti centrali:
1) Definire in modo sistematico le implicazioni etiche di ogni decisione strategica;
2) Creare un clima nel quale i dirigenti e i collaboratori siano portati a valutare costantemente le implicazioni etiche
di ogni decisione strategica prima di renderla operativa.
Per Trevino e Nelson (1999) un processo di decisone secondo etica comporta tre passaggi:
1) Coscienza morale;
2) Giudizio morale;
3) Comportamento etico.
Su questi tre passaggi agiscono due fattori: le caratteristiche delle persone e le caratteristiche delle organizzazioni.

PARTE SECONDA: L’ANALISI STRATEGICA


CAP. 4: ANALISI DEL MACROAMBIENTE: MINACCE E OPPORTUNITÁ
4.1: l’analisi delle grandi variabili.
Ambiente esterno:
Macroambiente: costituito da variabili sulle quali il management non può agire.
Microambiente: costituito da variabili che interagiscono direttamente con l’impresa.
Opportunità e minacce. Le opportunità sono quando una tendenza dell’ambiente crea il potenziale per costruire o
rafforzare un vantaggio competitivo. Le minacce sorgono quando le tendenze dell’ambiente esterno mettono in pericolo la
redditività dell’impresa.
L’ambiente è un campo sterminato di variabili che possono essere esaminate sotto le angolazioni più diverse.
Le strategie adottate dall’imprese danno un primo forte orientamento all’analisi delle variabili. Un’impresa che scelga di
competere sulla base dei costi bassi bada ad alcune grandi variabili:
Le tendenze della domanda (in quanto bassi costi significa necessità di grandi volumi);
Il costo dei fattori e in particolare del lavoro.
L’impresa che invece adotta una strategia di nicchia scruta nell’ambiente l’emergere di nuove opportunità, cerca le
differenze, cerca di individuare le aree del mercato dimenticate o trascurate dai rivali più potenti.
Alcune regole. L’atteggiamento del management nei confronti dell’analisi dell’ambiente.
Ai fini della gestione strategica le variabili da considerare non sono tutte, ma soltanto quelle che hanno una forte
impatto sull’impresa e sul quadro competitivo e che hanno elevata probabilità di verificarsi. Per individuare le
priorità da attribuire alle variabili, la matrice proposta da Lederman (1984), combina da un lato la probabilità che
un evento si verifichi e dall’altro gli effetti del verosimile impatto sull’economia dell’impresa.
Occorre distinguere tra l’analisi dell’ambiente attuale e il suo impatto sulle strategie attuali e l’analisi
dell’ambiente futuro in cui l’impresa si troverà a operare.

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Ogni settore ha una gerarchia di fattori che agiscono sull’ambiente.


È importante l’approccio mentale. Due sono gli obiettivi: anzitutto individuare la natura dell’incertezza. In
secondo luogo, individuare le tendenze che possono agire sulle scelte strategiche.
L’analisi PEST
Per individuare quali variabili dell’ambiente esterno abbiano maggiore impatto sul futuro di un’impresa.
Nella scelta delle variabili e nella loro interpretazione molto dipende dalla natura del settore, dalla struttura della
concorrenza, dalle strategie adottate e dalle capacità del management.
Le principali variabili di un’analisi Pest
Politica Stabilità del governo; Pressione fiscale; disciplina della concorrenza, del mercato del lavoro e dei capitali;
protezione dell’ambiente; corporate governance; deregulation; atteggiamento verso gli investimenti stranieri;
privatizzazione; barriere allo scambio internazionale.
Economia Prodotto interno lordo (PIL); consumi privati; distribuzione dei redditi tra la popolazione; reddito
disponibile; inflazione; salari/costo del lavoro; intervento dello stato nell’economia (imprese pubbliche);
investimenti privati e pubblici in macchinari e attrezzature, in costruzioni; apprezzamento/deprezzamento
della moneta rispetto a quelle dei concorrenti; costo del denaro.
Società/cultura Demografia: distribuzione della popolazione per classi di età, composizione dei nuclei familiari; stile di vita;
sensibilità ai rapporti dieta/salute e valore del prodotto/prezzo; sensibilità alla difesa dell’ambiente;
movimenti di protezione del consumatore; attitudini verso il lavoro e l’imprenditore; valori della tradizione.
Tecnologia Investimenti in R&S nei vari settori e nell’economia in generale; protezione della proprietà intellettuale;
ritmo di innovazione tecnologica; ritmo di lancio di nuovi prodotti; qualificazione professionale della forza
lavoro.
Politica
Le ideologie dominanti nelle coalizzazioni al governo, nei parlamenti, nei partiti e ne sindacati orientano la legislazione e
le varie forme di intervento dello stato nell’economia.
E conseguenze dei cambiamenti in questi fattori variano da settore a settore e da paese a un altro:
La deregulation – politica con la quale lo stato interviene nell’economia abolendo vincoli, misure
protezionistiche, liberalizzando – è ed è stata all’origine di forti cambiamenti nella concorrenza.
Quanto alla tutela ambientale, l’inquinamento atmosferico è una seria minaccia per l’umanità e tutti i parlamenti
dei paesi industrialmente avanzati hanno allo studio norme che potranno avere effetti profondi su molte strategie.
Le norme in materia di disciplina della distribuzione commerciale per una catena della grande distribuzione che
intenda entrare in un’altra nazione, il futuro delle normative riguardanti la concessione di licenze e gli orari di
apertura hanno un peso determinante. Potrebbero cambiare profondamente il successo di ogni strategia.
La politica fiscale agisce direttamente o indirettamente su molte scelte.
La variabilità dei fattori politici è di particolare importanza quando l’impresa opera in paesi in cui esistono rischi
di insurrezione, rivoluzione o colpi di stato con l’avvento di regimi autoritari.
Non bisogna dimenticare che l’intervento dei poteri pubblici non è conoscibile in anticipo con certezza, perciò
non sempre è possibile fare previsioni circa l’impatto di una decisione.
Economia
Molte variabili economiche possono incidere sulla strategia:
l’andamento del PIL. Se il PIL cresce dovrebbero crescere anche le sue componenti principali: consumi (privati e
pubblici), investimenti e il saldo import-export. Al contrario, se il PIL scende o rallenta la crescita in genere
scendono sia i consumi sia gli investimenti.
Il costo del denaro. Questo fattore agisce profondamente sulla domanda: se il costo aumenta, scende la domanda
di tutto ciò che fa ricorso al credito. Se il costo del denaro è alto, i piani di sviluppo possono trovare sostegno
soltanto nell’autofinanziamento o nelle dismissioni.
l’andamento dei cambi. Questa variabile agisce su tutte le imprese: se la moneta di un paese si apprezza nei
confronti di quella di un altro paese, scende il costo relativo di quanto è importato ed è più difficile esportare dai
paesi in cui sono sostenuti i costi. Se invece la moneta si deprezza avviene il contrario.
Le condizioni dell’economia hanno l’impatto maggiore sul successo di un’impresa e sulla capacità di produrre profitti.
Tali condizioni agiscono sul potere d’acquisto e quindi sulla domanda, sul costo dei fattori, sui cambi e sull’andamento
dei prezzi.
L’economia crea costantemente opportunità e minacce. In un’economia in recessione la maggior parte delle imprese sono
in difficoltà, ma alcune riescono a trovare opportunità.
L’economia agisce sulla scelta delle strategie.
Società/cultura
Sono molti i fattori sociali che agiscono sull’economia delle imprese, direttamente o indirettamente.:
la demografia è una delle componenti più importanti. Se la popolazione invecchia cambiano i consumi, cresce il
mercato dei prodotti per la salute. Se le unità di consumo (famiglie) sono sempre più piccole, se aumenta il
numero dei single, cambiano i consumi. Se la popolazione è sempre più attenta al rapporto dieta/salute cresce la
spesa alimentare in valore, ma cala quella in volume.
L’aumento dei redditi individuali ha favorito la motorizzazione e questo fenomeno ha cambiato il modo di vivere
di molte persone e le strategie della grande distribuzione.
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L’invecchiamento della popolazione e la maggiore esperienza dei consumatori negli acquisti, unita all’aumento
dei redditi, ha determinato il parziale tramonto dei mercati di massa. Alla frammentazione dei mercati le imprese
hanno risposto adottando strategie di nicchia e di mass customization.
Uguali opportunità sulla base del sesso, della religione e della razza è un principio entrato a far parte di molte
legislazioni.
Comunque, mentre per l’analisi dei cambiamenti demografici sono disponibili molti dati, molto difficile è avere dati sul
cambiamento del comportamento delle persone.
Tecnologia
Il processo tecnologico può rapidamente far emergere nuovi prodotti e nuovi processi produttivi e altrettanto rapidamente
può renderli obsoleti. Può quindi creare opportunità e minacce, può alzare e abbattere barriere all’entrata di nuovi
concorrenti in un settore.
Spesso il principale problema che il management deve affrontare è anticipare il cambiamento tecnologico nel proprio
settore e in quelli correlati.
L’impatto del cambiamento tecnologico può essere considerato sotto due profili:
1) L’ampiezza del cambiamento, in quanto l’innovazione tecnologica varia da incrementale (come i miglioramenti
nelle prestazioni di una macchina fotografica) a radicale (l’arrivo di Internet). L’innovazione radicale è la più
importante per il suo impatto sulle strategie;
2) La posizione dell’impresa nel settore, per cui Porter (1980) distingue tra:
Rule markers, che stanno nel settore da lungo tempo e dettano le regole del successo, valide fino a quando
il settore mantiene stabilità;
Rule takers, che sono soltanto imitatori e non hanno scelta: il potere dei rule marker è così forte da
lasciare loro solo l’alternativa tra imitare o abbandonare;
Rule breakers, in genere piccole imprese che creano nuove regole per la competizione e destabilizzano il
settore. Poiché scardinano le vecchie regole, possono essere considerate dei rivoluzionari, riconducibili a
due categorie: a) rivoluzionari dentro il settore di appartenenza, ossia imprese del settore che adottano
strategie completamente nuove partendo dalle regole esistenti; b) rivoluzionari provenienti dall’esterno
del settore, nuovi entrati che introducono nuove strategie, destabilizzando e a volte distruggono il settore.
La difesa della proprietà intellettuale lega la politica alla tecnologia.
Entelechiani
Si definiscono così i fatti non previsti e che non possono essere previsti, in grado di sconvolgere i programmi, di gettare
imprese o interi settori sul lastrico. Ne sono esempio i terremoti, lo scoppio di epidemie, le crisi economiche improvvise.
Sono eventi che hanno bassa o bassissima probabilità di verificarsi, ma l’impatto è elevatissimo.
Il fatto che una catastrofe abbia poche possibilità di verificarsi non è una giustificazione per ignorare il rischio che possa
accadere. Perché il management tende a ignorare questi rischi? Due possibili spiegazioni. 1) analogicamente ai politici, i
manager di un’impresa restano in carica per un tempo limitato. L’orizzonte è breve. Di conseguenza mettono in conto un
basso rischio che il disastro si verifichi nel corso del loro mandato. 2) un disastro naturale colpisce tutte le imprese.
Fronteggiate il rischio facendo investimenti significa sostenere i costi, ma questo renderebbe più vulnerabile l’impresa in
quanto abbassa la redditività.
4.2: l’analisi degli scenari.
La raccolta dati e informazioni
L’impressa ottiene informazioni da una varietà di fonti: clienti, fornitori, finanziatori, consulenti, collaboratori.
Le tecniche di revisione
Dopo aver raccolto i dati e aver individuato le tendenze, la previsione consiste nell’anticipare quale corso avranno tali
tendenze in futuro, usando varie tecniche.
Estrapolazione. Consiste nell’estendere al futuro una tendenza attuale. Il problema non è nell’elaborazione dei dati, ma
nel fatto che le variabili sono molte.
Brainstorming. Si basa sull’assunto che il futuro sia prevedibile elaborando e confrontando le idee di più persone. È un
metodo non quantitativo che dà buoni risultati quando gli obiettivi sono circoscritti e le persone che partecipano
conoscono il problema.
Metodo Delphi. È un metodo che consiste nel delimitare il campo di previsione e nel rivolgersi a esperti di tale campo
raccogliendo i loro pareri circa la probabilità che si manifesti una certa tendenza.
Scenario. Lo scenario un modello di un futuro possibile dal quale il management trae le possibili implicazioni per
l’impresa.
Lo scenario: un metodo antico
Sono state date varie definizioni, fra cui:
Porter (1985): “una visione internamente coerente di quanto potrebbe avvenire in futuro; scenario non è una
previsione, ma un possibile sviluppo futuro”.
Ringland (2006): “la parte del piano strategico che riguarda gli strumenti e le tecnologie per gestire le incertezze
del futuro”.
L’obiettivo non è fare previsioni, ma fornire uno schema all’interno del quale gli eventi successivi possono essere inseriti.
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Gli obiettivi di uno scenario


Con l’uso degli scenari il management mira ad aumentare il grado di conoscenza di uno stato futuro nel quale potrebbe
essere chiamato a prendere decisioni.
Capire di più. Gli scenari aiutano a immaginare come potrebbe essere il futuro; come tale futuro potrebbe emergere;
perché potrebbe emergere una tendenza piuttosto che un’altra.
Nuove decisioni. Costruire e discutere nuovi scenari fa emergere la necessità di prendere decisioni che altrimenti no
sarebbero prese in considerazione.
Riesaminare le decisioni. Il nuovo contesto immaginato costringe a rivedere decisioni già prese.
Gli elementi di uno scenario
In genere ogni scenario contiene quattro elementi principali:
1) Forze trainanti. Ogni scenario individua le forze che cambiano la storia e la spingono in un particolare plot. Tali
forze sono numerose, ma possono essere distinte in due grandi categorie: quelle ambientali, sulle quali l’impresa
non può agire, e quelle che dipendono dall’azione dell’impresa.
2) Logica. È il sistema di concetti che sta alla base del plot o della trama di uno scenario. Sono i “perché” che danno
origine ai “che cosa” e ai “come” di un plot. La logia fornisce la spiegazione del perché specifiche forze o certi
attori agiscono in un dato modo.
3) Plot. È la trama che produce un dato stadio finale. Ogni trama contiene una storia che lega il presente allo stadio
finale; illustra cosa deve accadere affinché il futuro produca una data serie di eventi.
4) Stadio finale. Affinché lo scenario dia risultati non ambigui, deve descrivere un particolare stadio finale.
4.3: le attese degli stakeholder.
Stakeholder Interessi principali
Azionisti Dividendi; aumento del valore di mercato degli investimenti in azoni; pagamenti dei dividendi secondo i
piani; piani di investimento; partnership
Management Stabilità del ruolo; progressi di carriera; remunerazione; status; responsabilità nell’organizzazione
Altri collaboratori Remunerazione; condizioni di lavoro; stabilità del posto di lavoro; job satisfaction
Consumatori Qualità ei prodotti; prezzi convenienti; continuità dell’assistenza post-vendita; innovazione di prodotto
Distributori Consegne tempestive; affidabilità dei programmi; margini di utili; immagine di marca (del produttore)
Fornitori Continuità degli ordini; pagamenti secondo i piani
Finanziatori Restituzione del prestito; pagamento degli interessi
Governo Pagamenti delle imposte e delle tasse; contributi all’occupazione e alle esportazioni; difesa dell’ambiente
Società in generale Responsabilità nei confronti della società; gli obiettivi dell’impresa non dovrebbero essere in contrasto con
quelli della società in senso lato
Simon (1964) sostiene che una delle cause all’origine della crisi di molte imprese è l’aver ignorato le attese di uno o più
stakeholder.

CAP. 5: ANALISI DELL’AMBIENTE COMPETITIVO


5.1: un modello che semplifichi la realtà.
Un modello è un tentativo di illustrare le caratteristiche essenziali di un sistema in modo che sia semplice da capire e da
applicare e che sia anche sufficientemente vicino alla realtà per dare risultati significativi.
Quando l’analisi strategica ha per oggetto una strategia corporate è disponibile una minore varietà di modelli a confronto
con le strategie competitive.
Il problema principale è stabilire se il profitto possa essere generato combinando business (in senso verticale, orizzontale,
o laterale, o in altri modi), metodi di mercato (contratti) o forme ibride (come per esempio joint-venture, franchising,
alleanze).
Quando l’analisi strategica ha per oggetto una strategia competitiva, esiste un’ampia varietà di modelli.
La prima cosa da fare è definire che cosa si intende per ambiente competitivo e il modo migliore per definirlo è porsi dal
punto di vista del cliente e chiedersi: “con quali altri prodotti il nostro entra in concorrenza, quando una persona o
un’organizzazione decide di acquistare?”
5.2: i fattori di successo all’interno di un settore.
I modelli aiutano a individuare le relazioni tra le principali variabili, ma non rispondono alla domanda che assilla il
management.
Ogni settore ha i propri fattori di successo.
In alcuni settori, in vista di un turnaround (uscita dalla crisi) i rapporti con il sindacato sono importanti, in altri settori
molto meno; nell’industria pesante e in tutti i settori in cui la ristrutturazione è un fattore di successo, occorre valutare le
reazioni del sindacato prima di avviare qualsiasi strategia.
Il processo di analisi dovrebbe dunque esaminare una molteplicità di elementi in grado di avere un effetto potenziale sulle
strategie.
Tutti sono concordi sulla necessità di concentrare le risorse nelle aree specifiche in cui l’impresa ha le maggiori
probabilità di affermarsi, ma sono anche concordi nel riconoscere che non è facile individuare quali fattori diano un sicuro
successo.

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Per cercare di risolvere questo problema si possono usare due metodi:


1) Partire dai risultati di analisi empiriche e confrontarli con la mission e con gli obiettivi che l’impresa ha posto al
proprio orizzonte;
2) Concentrare l’attenzione sulle “tre C”
Le analisi empiriche
La ricerca mira a stabilire quali strategie, e in presenza di quali condizioni, producano determinati risultati in termini di
ROI, ossia di redditività, e di cash flow, indipendentemente dalla natura dei prodotti e dei servizi.
Le “tre C”
Esaminare le risorse e le capacità che l’impresa possiede non è sufficiente: occorre anche confrontarle con quelle dei
concorrenti. Secondo Ohmae (1983) la ricerca dei fattori di successo deve essere concentrata sulle cosiddette “tre C”:
Customer, i clienti
Competition, la concorrenza
Corporation, le risorse dell’impresa.
5.3: structure-conduct-performance: una famiglia di modelli
Il paradigma SCP individua ipotesi più volte verificate:
Structure: sulla struttura del settore agiscono varie condizioni dell’offerta e della domanda.
Conduct: le strategie dell’impresa dipendono dalla struttura, che a sua volta dipende da caratteristiche come il
numero dei compratori e dei venditori dal grado di differenziazione dei prodotti/servizi, dall’esistenza di barriere
all’entrata, dal grado di integrazione verticale, dal rapporto tra costi fissi e costi variabili e da altre condizioni di
struttura dettate dalla tecnologia.
Performance: i risultati di un’impresa in un settore o in un mercato dipendono dalla condotta delle imprese che
comprano per quanto riguarda la politica dei prezzi, delle politiche delle imprese che vendono per quanto riguarda
i costi, dalla cooperazione tacita o esplicita tra imprese, dalle politiche adottate per gli altri elementi del marketing
mix e dalle politiche degli investimenti.
I due modelli più diffusi per l’analisi dell’ambiente competitivo al fine di individuare opportunità e minacce sono dunque:
1) Il modello delle Cinque forze
2) Il modello del ciclo di vita del settore
5.4: il modello delle Cinque forze.
Le forze in campo
Il modello delle Cinque forze riguarda dunque la posizione di un’impresa in un dato mercato/settore secondo due
dimensioni:
1) La prima è una relazione di tipo verticale, da monte a valle, e va dai fornitori ai concorrenti e ai clienti.
2) La seconda è il cambiamento, una dimensione originata dall’azione delle imprese che intendono entrare nel
mercato e dalla pressione dei prodotti sostitutivi.
Il potere di negoziazione tra i protagonisti determina i prezzi e le altre condizioni di scambio. Al tempo stesso, la struttura
del mercato/settore è soggetta a cambiamenti per effetto di fusioni e acquisizioni tra i protagonisti già presenti e a causa
dell’entrata di nuovi concorrenti. L’analisi comprende anche i prodotti sostitutivi e ciò comporta un esame
dell’innovazione tecnologica.

Potere di negoziazione dei compratori


I compratori hanno un potere di negoziazione altro in presenza delle seguenti condizioni:
pochi compratori acquistano una parte rilevante della produzione dell’impresa;
il prodotto o servizio offerto dall’impresa non è diverso da quello dei concorrenti, perciò il compratore può
facilmente passare da un produttore a un altro;
i costi sostenuti per passare da un fornitore all’altro sono bassi;
è possibile l’integrazione verticale a monte;
il valore di quanto il compratore acquista è una quota modesta dei costi totali del compratore stesso.
Potere di negoziazione dei fornitori.

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Il potere dei fornitori è basso o nullo quando il loro prodotto è una commodity facilmente disponibile nel mercato, oppure
quando esistono sostituti e per il compratore non esistono costi per passare da un fornitore a un altro.
I fornitori hanno una posizione di forza quando esistono le seguenti condizioni:
i compratori di un settore sono molti ma i fornitori sono pochi, perciò è difficile passare da un fornitore a un altro;
i prodotti offerti dai fornitori non hanno sostituti;
il fornitore è in grado di <<acquisire>> una parte del valore aggiunto dell’impresa che compra: se il fornitore è in
grado di integrarsi a valle (per esempio acquistando un’impresa che utilizza il suo prodotto) la posizione del
compratore è debole.
Il valore dei prodotti o dei servizi acquistati presso un certo fornitore è una quota rilevante dei costi totali
dell’impresa che acquista: ogni aumento dei prezzi unitari agirebbe negativamente sul valore aggiunto
(dell’impresa che acquista), a meno che il compratore sia in grado di trasferire gli aumenti sui propri prezzi di
vendita;
La marca del fornitore ha un’elevata capacità di attrazione, il che vale in particolare quando il compratore è
un’impresa che a sua volte rivende.
Minaccia di prodotti sostitutivi.
È raro che un prodotto o un servizio non abbiano sostituti. Se il compratore può passare facilmente da un prodotto a un
altro che lo sostituisce, le sue capacità di negoziazione aumentano, e diminuiscono pertanto le possibilità per l’impresa
produttrice di conseguire profitti elevati.
La minaccia competitiva dei prodotti sostitutivi deriva dalle seguenti condizioni:
la forte pressione della concorrenza, dovuta al fatto che il compratore è in grado di confrontare facilmente non
solo i prezzi, ma anche la qualità e le prestazioni dei vari prodotti sostitutivi;
le difficoltà o i costi che i clienti di un settore affrontano per passare da un prodotto all’altro, da cui dipende
l’intensità (forte o debole) della forza competitiva dei prodotti sostitutivi;
l’esistenza di un tetto ai prezzi che un settore può applicare al proprio prodotto, un tetto che viene stabilito proprio
dalla presenza di prodotti sostitutivi e che limita anche i profitti conseguibili dalle imprese.
Minaccia di nuovi concorrenti.
Quando una nuova impresa entra in un settore cambia il quadro competitivo, in quanto porta nuova capacità operativa,
contende quote di mercato alle imprese esistenti e per farlo può abbassare i margini sui prezzi, riducendo l’attrattività del
settore. I nuovi entranti sono attratti da margini di profitto elevati e barriere all’entrata basse.
Le principali barriere all’entrata sono le seguenti:
economie di scala: sono una forza dissuasiva in quanto costringono il potenziale rivale a entrare con un’ampia
scala di produzione o ad accettare uno svantaggio di costo;
accesso alla tecnologia: per operare in certi settore c’è bisogno di know how e capacità tecnologiche non facili da
ottenere;
differenziazione dei prodotti: innovazione e investimenti in pubblicità creano una sorta di identificazione tra
marca e prodotto che può rappresentare una barriera all’entrata di nuovi concorrenti (la fedeltà al brand);
Switching costs: costi che il compratore sostiene passando da un prodotto/servizio all’altro, per acquisire le nuove
conoscenze e le attrezzature necessarie all’uso più appropriato;
Svantaggi di costo indipendenti dalla dimensione: le imprese presenti nel mercato potrebbero avere vantaggi di
costo difficili da imitare per il nuovo entrato. Tali vantaggi possono dipendere dal controllo di brevetti, da una
localizzazione favorevole rispetto alle fonti di materie prime e del lavoro o rispetto ai mercati di sbocco, da
agevolazioni concesse dallo stato o dalle autorità locali ecc.
Accesso alla distribuzione: quanto più le imprese esistenti nel settore hanno stretti legami con i canali della
distribuzione, tanto più difficile risulta l’entrata per i potenziali concorrenti;
interventi dello stato: in vari settori lo Stato limita l’entrata di nuove imprese.
Rivalità tra i concorrenti.
In alcuni settori la rivalità è molto forte, mentre in altri è bassa, ed è evidente che l’intensità della concorrenza agisce sui
profitti medi di settore, così come sulle scelte strategiche. La rivalità dipende da una serie di fattori che la rendono più o
meno intensa:
numero dei concorrenti e loro dimensioni: la rivalità è più intensa quando i concorrenti sono molti e hanno
capacità e dimensioni molto simili;
ritmo di sviluppo: se il ritmo di sviluppo della domanda è elevato, aumentano le opportunità per le imprese;
quando il ritmo è lento, un’impresa cresce soltanto se sottrae quote di mercato a un concorrente;
caratteristiche del prodotto: quando i prodotti offerti sono delle commodity, la competizione è basata sul prezzo e
sui costi sostenuti per passare da un fornitore all’altro, quindi i clienti possono generare un’intensa rivalità
minacciando di abbandonare il fornitore per un altro;
barriere all’uscita: quanto più alti sono i costi per abbandonare il settore quanto maggiore sarà la rivalità
all’interno del mercato;
rivali differenti: diversi per origini, strategie, cultura di management;
Capacità produttiva: saturare la capacità per ridurre i costi unitari è un obiettivo prioritario

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Struttura dei costi: costi fissi elevati incoraggiano la competizione sulla base del prezzo o di altre tattiche
competitive miranti ad aumentare i volumi. Maggiore è la presenza dei costi fissi maggiore sarà l’intenzione delle
imprese saturare l’attuale capacità produttiva e aumentare la stessa.
La risposta dei rivali.
Quando un potenziale entrante riesce a superare le barriere resta sempre l’incognita di come le imprese esistenti potranno
reagire. Possiamo evidenziare alcune situazioni in base alle quali il potenziale entrante può abbandonare il progetto se le
imprese già esistenti:
hanno in precedenza risposto in modo aggressivo per difendere la loro posizione;
hanno risorse finanziarie adeguate per difendere la loro posizione di fronte ai nuovi entranti;
hanno relazioni consolidate con i distributori e con i clienti;
sono in grado di ridurre i prezzi per difendere la propria quota di mercato o già l’hanno fatto in passato;
a causa delle barriere all’uscita devono sostenere costi più alti per abbandonare il mercato rispetto a quelli che
devono sostenere per difendersi.
Implicazioni strategiche.
Fare l’analisi del settore non è tuttavia sufficiente: ciò che conta è valutare le implicazioni, derivanti dall’analisi, sulle
strategie future dell’impresa. Gli interrogativi più importanti sono:
esistenza di condizioni per cambiare le relazioni con i fornitori: può essere consigliabile stringere relazioni di
partnership con alcuni fornitori piuttosto che affrontarli attraverso negoziazioni;
esistenza di condizioni per stringere nuove relazioni con i compratori: produrre con la marca del distributore
(private label)porta in genere a margini più bassi rispetto alla vendita di prodotti di marca ma per alcuni può
essere una strategia vincente in quanto ha consentito tra l’altro di dare stabilità alla capacità produttiva utilizzata);
individuare e/o creare fattori di successo nel settore;
definire strategie che considerano le risposte dei rivali i quali possono cambiare la natura della competizioni.
Le debolezze del modello
Il modello delle cinque forze è un utile strumento di analisi del settore, ma presenta anche vari punti di debolezza, che
possiamo sintetizzare come segue:
concentra l’attenzione sull’esistente, su come costruire e difendere le barriere: spinge ad essere reattivi e non pro-
attivi;
parte dal presupposto (errato) che ciascun protagonista delle cinque forze mantenga il proprio ruolo: spesso i
fornitori si trasformano in concorrenti e i concorrenti collaborano;
rappresenta l’interazione tra clienti e fornitori come un gioco a somma zero, ma sempre più spesso cliente e
fornitore collaborano, si scambiano informazioni, quindi si ottiene un gioco a somma positiva;
è un modello utile per individuare le condizioni medie di redditività di un settore: il settore automotive ha
redditività del capitale molto bassa ma nel segmento SUV per diversi anni la redditività è stata elevata;
ignora il ruolo attivo dello Stato: questo può esercitare un’azione profonda sulla struttura della competizione;
ignora il ruolo dell’innovazione e della creatività e mette in secondo piano le differenze esistenti tra imprese per
effetto delle diverse capacità del management;
parte dal presupposto che i compratori abbiano lo stesso grado di importanza delle altre forze. Aaker e Baker non
condividono questo assunto, anzi sostengono che i compratori sono molto più importanti di ogni altro aspetto
nello sviluppo delle strategie; non possono quindi essere trattati come le altre forze;
parte dal presupposto che i fornitori e i compratori, attraverso il loro potere, rappresentino una minaccia; invece
molte imprese hanno allacciato rapporti di collaborazione con fornitori e compratori.
5.5: Il modello del ciclo di vita del settore
L’analisi del ciclo di vita del settore è basata sull’ipotesi che un mercato, o un segmento al suo interno, passi attraverso
una successione di fasi ciascuna delle quali abbia implicazioni sulle strategie delle imprese. Le fasi del modello del ciclo
di vita del settore sono cinque dove in ciascuna cambiano le opportunità, le minacce e le strategie dei rivali.
Le fasi del ciclo
Fase 1 – embrionale. La domanda è bassa, principalmente alimentata da utilizzatori che puntano sulla ricerca del nuovo.
I prezzi sono alti perché non si possono ancora realizzare economie di scala. Le barriere all’entrata sono alte, soprattutto
legate ai costi sostenuti per la nuova tecnologia. In questa fase troviamo imprese “pioniere” che affrontano i rischi
connessi con il lancio di un nuovo prodotto.
Risultato: L’impresa che fa innovazione cerca di conquistare e consolidare rapidamente una posizione dominante nel
mercato: investe in R&S e in processi di produzione per migliorare la qualità;
Fase 2 – Sviluppo. L’uso del prodotto si diffonde, la domanda cresce, i prezzi scendono in quanto le imprese realizzano
economie di scala. Le barriere in genere in questo stadio sono più basse rispetto al precedente; la tecnologia non è più
esclusiva di una o poche imprese. La minaccia di entrata di nuovi concorrenti è alta. La differenziazione del prodotto non
è alta e quindi non vi è fedeltà alla marca, le uniche reazioni alla concorrenza è affidata al marketing. I profitti potrebbero
essere alti, ma cominciano a subire la pressione della concorrenza. Paradossalmente, nonostante l’entrata di nuovi
concorrenti, la rivalità è bassa.

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Fase 3 – Shakeout. Il mercato si avvia alla saturazione, entrano nuovi concorrenti attratti dai buoni risultati ottenuti dalle
imprese già presenti. È una fase caratterizzata da forte turbolenza generata dall’intensa competizione. Durante la fase
precedente le imprese hanno confidato nella continuità dello sviluppo, finendo per accumulare capacità produttiva che
non appena la domanda rallenta, si dimostra in eccesso.
Risultato: L’unica alternativa efficace per mantenere le quote di un mercato con domanda calante è ridurre i prezzi, perciò
il risultato è una forte competizione che spinge fuori dal mercato le imprese meno efficienti.
Fase 4 – Maturità. Dopo lo Shakeout il settore entra in uno stadio di contrazione o di crescita tendente a zero; la
domanda è rappresentata soltanto dalla sostituzione di vecchi prodotti; sia le caratteristiche sia le prestazioni dei prodotti e
dei servizi tendono a divenire molto simili, pertanto la fedeltà alla marca diminuisce. L’attrattività nel settore è bassa in
quanto i prezzi scendono e la
competizione è intensa.
Risultato: In queste condizioni può sempre esplodere una rovinosa guerra dei prezzi e le imprese che adottano con
successo queste strategie non solo sopravvivono alla concorrenza, ma alzano anche barriere all’entrata di potenziali
concorrenti. I profitti risentono dei forti mutamenti dettati dalle necessità di fare nuovi investimenti nella produzione
(pubblicità, qualità, differenziazione), del maggior potere di negoziazione acquisito dai distributori e della minaccia di
nuovi entrati (minaccia più contenuta rispetto alle fasi precedenti ma esistente). Se il numero dei concorrenti diminuisce,
le imprese rimanenti possono nuovamente avere l’opportunità di aumentare i prezzi e la redditività. Ciò dimostra che lo
shake out fa aumentare il grado di concentrazione delle imprese le quali formano nuovamente un oligopolio che dà loro
l’opportunità di stringere accordi miranti a ridurre la competizione. Anche eventi esterni al settore possono creare
turbolenze: deregulation o recessione economica possono riaccendere la competizione tra le imprese rimaste;
Fase 5 – Declino. Se il calo della domanda non si ferma, il settore è avviato al declino. I motivi possono essere vari:
innovazione tecnologica;
cambiamenti sociali;
cambiamenti demografici;
concorrenza internazionale;
conoscenza del prodotto da parte del compratore.
In questo stadio la competizione tra le imprese rimaste nel mercato, in genere, aumenta. L’intensità dipende dalla rapidità
del declino e dalle barriere all’uscita e la capacità di controllare i costi diventa determinante.
Risultato: Le imprese sono così spinte ad abbassare i prezzi, il che – unito al lento sviluppo e al calo della domanda –
presto si traduce in forti perdite. L’unica alternativa è l’abbandono del settore o una profonda ristrutturazione. Se le
barriere all’uscita sono alte c’è una spinta maggiore alla guerra dei prezzi.
Molte eccezioni – Critiche al modello del ciclo di vita del settore
Le critiche al modello sono le seguenti:
spesso è difficile individuare con chiarezza i vari stadi e la loro durata;
non sempre il ciclo segue il percorso indicato: talvolta una o più fasi hanno una durata brevissima o mancano per
effetto del progresso tecnologico;
l’andamento del ciclo è anche la risultante dell’azione delle imprese, che cercano di modificarne il percorso a
proprio vantaggio, e ciò rende meno prevedibile il futuro;
a volte i settori in declino possono ritrovare slancio grazie alle innovazioni o ai cambiamenti sociali, altre volte
possono rimanere a lungo nella fase di maturità e altre ancora declinano rapidamente dopo una breve fase di
sviluppo.
Riflessioni.
Il modello delle <<cinque forze>> parte dal presupposto che le imprese presenti in un settore vogliano difendere la loro
posizione e i loro profitti. Per questi motivi cercano di fronteggiare le minacce (rappresentate dai prodotti sostitutivi) e di
sfruttare le opportunità che si presentano (rappresentate da fornitori deboli in forte concorrenza tra loro);
Nel modello del ciclo di vita del settore è difficile mantenere la coerenza tra le strategie da adottare e la fase del ciclo in
cui ci si trova, perché quando un settore ha vita lunga, sul ciclo principale si innestano altri cicli per effetto della
domanda, della tecnologia e dell’economia in generale ( es. la domanda di nuovi aerei è legata all’andamento della
domanda di trasporto aereo passeggeri e merci, che a sua volta è legata all’andamento dell’economia).

CAP. 6: ANALISI DEI CONCORRENTI E DELLA DOMANDA: SEGMENTAZZIONE E


POSIZIONAMENTO
6.1: L’arena competitiva.
Per competere con successo, l’impresa deve mettere in campo vantaggi competitivo superiori a quelli dei rivali. Ma per
individuare e sostenere tali vantaggi deve anzitutto individuare chi sono i suoi rivali e quindi definire ulteriormente il
contesto in cui avviene la competizione.
Chi sono i nostri concorrenti?
Qual è il profilo dei nostri concorrenti? Quale business adottano?
Quali strategie hanno?
Abbiamo vantaggi su di loro?

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Come potrebbero rispondere a una nostra mossa?


In un ambiente dinamico è sempre più difficile individuare i concorrenti attuali e futuri. Vari settori convergono negli
stessi mercati e molte delle distinzioni del passato tra un settore e l’altro sono cadute. Esempio AT&T
(telecomunicazioni) e Marks & Spencer (grande distribuzione) sono entrati nel settore delle carte di credito sfruttando il
vantaggio competitivo dei precedenti contatti (con il cliente).
Occorre quindi anzitutto definire l’arena competitiva in cui i rivali si affrontano. Può essere ampia quanto in intero settore
oppure limitata quanto un singolo prodotto/mercato.
La definizione dipende da quattro criteri:
L’ampiezza della gamma di prodotti e servizi considerati (un solo prodotto un intera classe di prodotto;
I segmenti di clienti (un solo segmento a confronto con più segmenti)
L’orizzonte geografico (una singola regione o paese oppure il mercato mondiale)
Il numero delle attività che compongono la catena del valore (poche o molte)
Se si volesse fare una decisione di breve periodo e di tipo tattico, l’arena sarà limitata ai clienti e ai concorrenti attuali.
Se l’obiettivo della definizione è invece porre le basi per decisioni di tipo strategico, la definizione del mercato deve
essere più ampia per considerare:
Le opportunità di mercato attualmente non servite da alcuna impresa;
I cambiamenti nella tecnologia, nei livelli dei prezzi e nelle condizioni dell’offerta che potrebbero allargare la
cerchia dei prodotti sostitutivi;
I rischi di entrata di imprese provenienti da altri mercati/settori.
Day invece propone di individuare l’arena competitiva ragionando in termini di sostituzione in due prospettive diverse:
1) Sostituzione dal lato della domanda, al fine di comprendere tutti i modi in cui i clienti possono soddisfare le
proprie esigenze;
2) Sostituzione dal lato dell’offerta, al fine di individuare tutti i concorrenti che hanno le capacità di servire gli stessi
clienti.
Le due prospettive sono legate:
Dal lato della domanda, un mercato è composto daun insieme di esigenze dei clienti che possono essere servite da
più offerte tra loro in competizione
Dal lato del cliente, per esempio, l’esigenza di trasporto può essere soddisfatta da imprese appartenenti a settori
diversi: compagnie aeree, treni, costruttori di auto, autonoleggio.
Dal lato dell’offerta, un mercato è l’insieme dei prodotti e servizi tra loro sostituibili che il cliente percepisce in
grado di offrire prestazioni simili o molto simili tra loro.
Quali concorrenti offrono prodotti simili ai nostri con la stessa tecnologia, con gli stessi processi produttivi, fonti di
materie prime, forze vendita e canali della distribuzione?
Qual è la copertura geografica del mercato: regionale, nazionale o globale?
Individuazione dei rivali (anche entranti) può risultare difficile. Possono essere di due tipi a seconda che abbiano:
Prodotti tecnicamente simili; Sono relativamente più facili da individuare, perché sono le imprese che tra le
proprie core competencies hanno le stesse capacità tecnologiche.
Prodotti sostitutivi. Sono più difficili da individuare poiché bisogna saper individuare rispetto al proprio
prodotto/mercato quali sono i loro possibili sostituti.
I fattori chiave per il successo
Dopo aver costruito il profilo dei principali concorrenti, occorre fare un confronto tra loro e la nostra impresa. Una tecnica
frequentemente usata consiste nel definire i fattori chiave per il successo nell’arena competitiva e nel valutare, con una
scala graduata, quanto siano temibili i principali concorrenti.
La scelta dell’avversario
Le possibilità di competere con successo dipendono anche dal profilo degli avversari. Alcuni possono avere forti risorse
finanziarie, notevoli capacità di marketing, lunga esperienza e obiettivi di lungo termine nella conquista e nella difese
delle quote di mercato.
6.2: il profilo dei concorrenti.
L’obiettivo di queste analisi è mettere l’impresa nelle condizioni migliori per sviluppare vantaggi competitivi superiori a
quelli dei rivali. Inoltre non è possibile fare un’analisi dettagliata di tutti i concorrenti ma solo su coloro che meritano
un’attenzione particolare, sia attuali che potenziali.
La scelta dei concorrenti sui quali concentrare l’analisi si basa sull’utilizzo di tecniche:
Mappe di percezione della competizione: chiedere ai clienti quali concorrenti prendono in esame nelle loro scelte.
Quanto più il cliente considera due concorrenti vicino tra di loro nell’offerta, tanto più è probabile che possa
decidere di passare dall’uno all’altro.
Il rivale più forte;
Il gruppo di imprese dominante;
L’impresa che rappresenta il rivale tipico.
Dopo aver individuato quale o quali concorrenti scegliere come parametro di confronto (benchmark) occorre esaminare in
profondità le loro caratteristiche

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Elementi di analisi
Gli aspetti da considerare nella realizzazione di un’analisi sono numero. Vediamo i principali:
Strategie. È importante raccogliere le informazioni necessarie a consentire di tracciare un quadro delle possibili
evoluzioni delle strategie future. Anche l’analisi di strategie adottate in passato può fornire utili indicazioni: se
una strategia è fallita sarà difficile che verrà ripetuta;
Vantaggi competitivi dei rivali;
Obiettivi dei rivali. Se avessero come obiettivo la creazione di valore per gli azionisti, possono decidere di
investire in nuovi impianti e in una nuova organizzazione per ottenere risultati a medio – lungo termine;
Risorse. La qualità e la dimensione delle risorse sono indicatori importanti per definire le capacità dei
concorrenti: capacità produttiva, stato di avanzamento delle tecnologie, struttura dell’organizzazione, risorse
finanziarie, capacità del management;
Risultati ottenuti. Bisogna effettuare un’analisi sull’andamento e sulla composizione nel tempo;
Portafoglio prodotti e servizi. Le caratteristiche dei prodotti e dei servizi che i concorrenti offrono attualmente
sul mercato sono un altro indicatore efficace del confronto. Riguardano la qualità e le prestazioni dei prodotti, i
servizi post-vendita, le politiche di promozione. È importante avere un portafoglio sia con prodotti vecchi e con
limitate capacità si sviluppo (ma che generano profitti) sia prodotti con un forte potenziale (ma che siano nelle
prime fasi del loro ciclo di vita. Uno strumento efficace è la matrice del Boston Consulting Group.
Struttura dei costi. La conoscenza della struttura dei costi fornisce elementi per prevedere le politiche dei prezzi
che possono essere praticate. Conoscere il break-even-point fornirebbe elementi per valutare le politiche costi-
volumi.
Dimensioni e sviluppo. La quota di mercato e il ritmo di sviluppo delle vendite sono un indicatore efficace del
potenziale di un concorrente.
Immagine e posizionamento. Bisogna stabilire come l’immagine dell’impresa si colloca rispetto all’immagine
dei rivali. È quanto si intende per posizionamento di mercato.
Organizzazione e cultura. Hanno un peso rilevante sulle strategie. Le strategie “piatte”, flessibili, decentrate
favoriscono l’innovazione e l’aggressività del marketing, ma raramente sono in grado di attuare strategie di
contenimento dei costi. Mentre le strutture piramidali, rigide e accentrate sono meno portate all’innovazione, ma
sono più abili nel disciplinare i vari livelli verso obiettivi di costo e di volumi di produzione.
Barriere all’uscita.
6.3: i gruppi strategici.
Dalla definizione dei confini dell’arena competitiva e dall’esame del profilo dei concorrenti può emergere un’ampia
varietà di strategie. In vari settori è possibile distinguere più gruppi di imprese che adottano strategie relativamente
omogenee all’interno dello stesso gruppo, ma diverse a quelle degli altri gruppi. Coprono gli stessi mercati, sono in
concorrenza le uno con le altre: prendono il nome di gruppi strategici.
I gruppi strategici rappresentano un livello di analisi intermedio tra il settore e la singola impresa.
Il modello è utile per distinguere i rivali sui quali concentrare la maggiore attenzione.
Come individuarli
Per individuare i gruppi strategici si fa un riferimento a dimensioni che sono essenzialmente tre:
1) Le variabili organizzative: economia di scala e di scopo, canali della distribuzione, integrazione verticale,
diversificazione;
2) Le caratteristiche del prodotto e del marketing: politica dei prezzi, qualità, immagine leadership tecnologica,
servizi;
3) Le variabili finanziarie: costi/volumi e leva finanziaria.
Le alternative strategiche in un settore possono essere visualizzate graficamente con le mappe strategiche, costruite
individuando due dimensioni che distinguono chiaramente le strategie delle imprese.
Barriere alla mobilità
Alcuni gruppi strategici riescono meglio di altri a proteggere le loro posizioni e conseguono così redditività elevata. Altri
gruppi adottano invece strategie aggressive che rendono la competizione molto accesa e tendono ad abbassare la
redditività.
Il fattore principale è l’esistenza di barriere alla mobilità, che ostacolano il passaggio da un gruppo strategico a un altro
(intese sia in entrata che in uscita).
L’esistenza di barriere può dare al gruppo strategico la capacità di conseguire a lungo una redditività più alta della media
del settore.
Le Fonti principali delle barriere all’entrata nel settore:
Economica di scala;
Brevetti;
Timori di rappresaglia.
Alcune ricerche sono giunte a una conclusione importante: le risorse e le capacità che formano la base di un gruppo
strategico dovrebbero essere scarse:
Se sono scarse esistono barriere alla mobilità da un gruppo all’altro;

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Se non sono scarse il gruppo strategico perde gradualmente le posizioni di vantaggio, in quanto altre imprese sono
in grado di acquisire le stesse risorse e capacità e possono entrare all’interno del gruppo.
Conseguenza dell’analisi
I primi concorrenti di un’impresa sono quelli che appartengono allo stesso gruppo strategico.
Le principali minacce alla redditività dell’impresa provengono dunque dall’interno dello stesso gruppo strategico.
Dato che tutte le imprese del gruppo adottano strategie simili, dal punto di vista del consumatore i prodotti sono
l’uno il sostituto dell’altro.
Rispetto al modello Porter delle cinque forze i differenti gruppi strategici possono trovarsi in posizioni diverse. Il
potere di negoziazione dei fornitori, i rischi di entrata di nuovi concorrenti e così via possono essere
sensibilmente diversi da un settore all’altro.
Per un’impresa, in conclusione, che intenda entrare nel settore, un gruppo strategico può presentare maggiori
opportunità e minacce più basse rispetto ad altri.
6.4: le strategie di risposta dei rivali.
Il successo o il fallimento di una società non è determinato solamente dalle azioni che adotta l’impresa ma anche le
risposte dei rivali hanno un peso rilevante sull’impresa. Ci sono tre modalità per anticipare le risposte dei concorrenti:
Teoria dei giochi
Behavioral theory
Coevolution
Teoria dei giochi
Day e Reibstein individuano in quattro principi la forza della teoria dei giochi:
• Visione strategica. Capacità di analizzare una situazione strategica, anticipare la sua futura evoluzione e prendere
una decisione oggi che avrà un effetto favorevole in futuro sono tre elementi insostituibili per acquisire una
posizione di vantaggio;
• Conoscere se stessi e gli altri. Il successo di una decisione strategica dipende anche dalla capacità di capire come
gli avversari interpretano la competizione e come valutano la nostra posizione. La teoria dei giochi ci costringe a
vedere la situazione dal punto di vista degli altri.
• Situazioni che si ripetono e situazioni che non si ripetono. La teoria dei giochi prescrive comportamenti diversi
a seconda che la partita si svolga una sola volta o sia ripetute più volte.
• Coordinamento e cooperazione. La teoria mostra come la mancanza di fiducia reciproca possa penalizzare i
risultati. Il coordinamento rende l’organizzazione più competitiva.
Limiti. La teoria dei giochi può aiutare nella scelta e nello sviluppo delle strategie purché l’ambiente economico sia
stabile. Nella turbolenza economica i comportamenti sono assai meno prevedibili.
Behavioral Theory
La sola teoria dei giochi non spiega molte situazioni strategiche. Infatti, la capacità della teoria dei giochi di anticipare il
comportamento dei rivali si basa sull’assunto che i contendenti adottino un comportamento razionale. Ma questo non
avviene quasi mai poiché in un ambiente competitivo complesso prevalgono i pregiudizi, la storia personale. A volte le
scelte strategiche che hanno successo sono proprio quelle basata sull’irrazionalità.
Di fronte a una scelta strategica, spesso il management è indotto a orientarsi verso soluzioni semplici, che portano a
risultati molto diversi da quelli ai quali un’analisi razione avrebbe potuto portare. Per esempio, basare il ragionamento
sull’intuizione induce a esplorare possibili azioni con un orizzonte di breve termine, spinge a prendere come riferimento
casi noti, sviluppa una sorta di avversione per tutto quanto si discosta da passate esperienze. Avendo di fronte un rivale
che decide in questo modo intuitivo, non razionale, le risposte che darà difficilmente possono essere quelle suggerite dalla
teoria dei giochi. È verosimile prevedere che non raccoglierà i segnali verso la cooperazione, che non apprezzerà i
vantaggi di rinunciare alla lotta a oltranza.
La Coevolution
La coevolution è un concetto mutuato dalla biologia evolutiva. La teoria afferma che specie diverse possono coevolvere e
non sono necessariamente antagoniste.
Secondo Moore (1996) il modo tradizionale di pensare alla competizione – in termini di domanda, offerta e mercati – può
portare il management a scelte sbagliate, perché ignora il contesto in cui le imprese agiscono e la necessità di coevolvere
con altri in tale contesto, un processo che comporta sia cooperazione sia conflitto.
Esplorare il passato
Per comprendere il futuro può essere utile conoscere le strategie del passato che hanno determinato il presente: i leader di
mercato cercano in genere di controllare i concorrenti attraverso le azioni di rappresaglia; i nuovi entrati puntano o
sull’innovazione o su segmenti/nicchie solitamente trascurate dai leader.
In letteratura sono state studiate cinque tipologie di risposta attuata nei confronti di potenziali nuovi concorrenti:
1) Rappresaglia: punendo i concorrenti che attaccano, il leader può condizionare il comportamento di potenziali
nuovi concorrenti e renderlo prevedibile.
2) Reazione lenta alle sfide: soprattutto quando il fattore trainante di una strategia dei rivali è la moda, la reazione
dei leader può essere lenta.

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3) Incapacità di rispondere: se un’impresa attacca un leader presente sull’intero territorio nazionale praticando forti
sconti in un’area geografica limitata, il rivale non ha la possibilità di rispondere. Se lo facesse, infatti, sarebbe
costretto ad abbassare i prezzi su tutto il territorio.
4) Risposta selettiva: l’impresa non deve rispondere a tutti gli attacchi, ma soltanto ad alcuni. Nella scelta può
orientarsi secondo la visibilità degli elementi del marketing mix.
5) Risposta non prevedibile: alcune imprese danno al mercato risposte indecifrabili, difficili da prevedere.
6.5: analisi della domanda: segmentazione e posizionamento.
L’ambiente competitivo può essere scrutato sotto vari profili e con metodi diversi. Nelle pagine precedenti abbiamo
presentato un’analisi a cascata: partendo dallo studio del settore per passare poi all’analisi dei concorrenti. Il punto
d’arrivo è il potenziale compratore.
1) Ogni compratore ha attese ed esigenze proprie.
2) Dopo averle individuate, l’impresa configura segmenti di mercato che hanno attese simili e possono essere serviti
con lo stesso marketing mix.
3) All’interno di questi segmenti affronta vari concorrenti, rispetto ai quali deve decidere la posizione da assumere.
È ciò che si intende per segmentazione e posizionamento.
Domanda e creazione di valore per il cliente
L’obiettivo di ogni strategia di marketing dovrebbe essere la customer satisfaction mediante la creazione di valore per il
cliente.
Per comprendere quali fattori agiscono sulla creazione di valore per li cliente è necessario l’analisi di tre aree:
1) Benefici di carattere economico;
2) Benefici di carattere psicologico;
3) Benefici percepiti dal cliente.
Il punto di partenza di questa analisi è un’equazione molto semplice ma difficile da misurare nella pratica:
Valore per il cliente = benefici percepiti dal cliente – costo di acquisto
Benefici di carattere economico. L’impresa crea valore dal punto di vista economico per il cliente quando i benefici che
questi trae dall’acquisto sono valutati superiori al costo, ossia al prezzo pagato.
Le fonti di creazione del valore dal punto di vista economico sono principalmente:
1) Il costo di acquisto: l’acquisto di un software per la gestione e controllo delle scorte è fatto per ridurre i costi di
conservazione di queste;
2) L’uso del prodotto o di un servizio: l’acquisto di un certo tipo di macchina per lavorare il legno può ridurre i costi
di certe fasi di lavorazione, quindi può creare valore.
3) Costi di manutenzione e riparazione: se il costruttore di un trattore ha progettato il vano motore in modo da
rendere facilmente accessibili le parti che hanno necessità di manutenzioni o che possono comportare riparazioni,
il compratore ha un vantaggio economico in quanto sostiene minori costi;
4) I costi sostenuti per passare ad un altro prodotto: poiché abbandonare un prodotto obsoleto o un suo componente
può comportare un costo e anche questo è un elemento di possibile creazione di valore per il cliente;
5) L’offerta di prezzi inferiori a quelli dei concorrenti e condizioni di pagamento più favorevoli;
Benefici psicologici. Per rispondere ad attese di carattere psicologico l’impresa punta molto sulla capacità di creare
emozioni.
Personalità: i clienti hanno una propria personalità (introversi, riservati, prudenti, estroversi, avventurosi) e
associare un prodotto all’immagine di un personaggio famoso della cultura e dello sport nei confronti del quale il
consumatore si identifica significa creare un valore psicologico per il prodotto/servizio;
Valori: difesa per l’ambiente e la protezione degli animali, la tutela della saluta, i diritti del consumatore ecc..
Benefici percepiti. Il valore creato dal cliente non dipende soltanto da componenti di carattere economico ma interviene
anche la percezione che il cliente ha
delle caratteristiche del prodotto/servizio offerto;
dei servizi forniti prima della vendita;
dei servizi postvendita;
dell’immagine della marca.
Quanto maggiore è la differenza tra i benefici complessivi percepiti e i costi percepiti tanto più forte è la capacità di
attrarre clienti, dare customer satisfaction e creare fedeltà.
La segmentazione del mercato
Per segmentazione del mercato si intende l’individuazione, nella domanda potenziale, di esigenze e attese con
caratteristiche simili, alle quali l’impresa può rispondere con lo stesso marketing mix.
Una prima distinzione bisogna farla tra mercati:
Business-to-consumer: compratori che acquistano per il proprio consumo personale;
Business-to-business: compratori (organizzazioni) che acquistano per un consumo aziendale-produttivo.
Poiché il comportamento di acquisto di questi due gruppi è diverso, sono diversi anche i criteri di segmentazione:
Business-to-consumer: sulle attese dei consumatori individuali agiscono principalmente tre fattori:
1) Demografia: reddito, età, tipo di occupazione, livello d’istruzione;
2) Stile di vita: attitudini, valori, attività, interessi;
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3) Uso del prodotto: modalità d’uso, frequenza d’uso in termini di tempo e quantità;
Business-to-business: le attese delle organizzazioni nascono in modo diverso, le variabili sono:
1. Caratteristiche delle imprese: dimensioni, localizzazione, settore, situazione finanziaria;
2. Cultura organizzativa: base tecnologica, propensione a innovare, accentramento o decentramento delle
decisioni;
3. Uso del prodotto: applicazioni, quantità tempo di acquisto, frequenza di acquisto, esperienza.
Requisiti. Per avere successo la segmentazione deve possedere alcuni requisiti:
Devono esistere forti differenze nelle attese dei compratori;
I segmenti devono essere identificabili e misurabili: devono essere possibile misurare il potenziale di domanda e
questo risulta difficile se si usano criteri psicografici;
Deve essere possibile confrontare costi e ricavi della segmentazione;
La segmentazione deve dare vantaggi che giustificano le risorse impiegate nel marketing mix: le dimensioni del
segmento devono essere tali da rappresentare un effettiva opportunità per l’impresa;
I segmenti devono essere raggiungibili, in particolare con la comunicazione, a costi ragionevoli;
I benefici per i potenziali compratori che fanno parte di un dato segmento devono essere stabili nel tempo: se i
benefici attesi cambiano, sia il posizionamento del servizio offerto rispetto a quello dei concorrenti sia la
comunicazione devono essere cambiati.
Il posizionamento
Il positioning è creare un’identità o un’immagine del prodotto e comunicarlo ai potenziali compratori.
Dopo aver definito il segmento di mercato, occorre esaminare la posizione dei concorrenti e poi decidere quale posizione
l’impresa intenda assumere.
La posizione nel mercato è data da una varietà di attributi che riguardano il prodotto, il prezzo, i canali di distribuzione, la
promozione. E non si tratta sempre di caratteristiche tecniche, ma si può trattare anche di percezioni e preferenze del
compratore costruite attraverso la pubblicità o altre forme di promozione.
Il genere il posizionamento di mercato è attuato mediante due tecniche distinte:
Posizionamento rispetto al leader del settore. Una volta stabilita la posizione del leader, l’impresa colloca il
proprio prodotto di conseguenza: può fare pubblicità comparativa e modificare il prodotto quanto basta per
differenzialo nella percezione del compratore;
Posizionamento con un’idea. Pur posizionando il proprio prodotto in funzione di quanto ha già fatto la
concorrenza, l’impresa può decidere di sottolineare che “il mio prodotto è migliore”.
Il riposizionamento
A seguito di risultati deludenti l’impresa può scegliere di effettuare un riposizionamento. Le tecniche sono principalmente
due:
1) Modifica del product concept. Il prodotto o il servizio possono essere modificati nel beneficio centrale atteso dal
cliente o in uno o più degli elementi che lo compongono. Questa seconda politica è la più frequente;
2) Modifica della comunicazione. Una nuova comunicazione dove si cerca di trasmettere i benefici che il cliente può
trarre dal prodotto o dal servizio.

PARTE TERZA: I VANTAGGI COMPETITIVI


CAP. 7: ANALISI DELLE RISORSE: FORSE E DEBOLEZZE
7.1: resource audit.
L’unica area sulla quale l’impresa ha il controllo diretto è quella rappresentata dalle proprie risorse. L’analisi delle risorse
è particolarmente importante ed è il punto di partenza per lo sviluppo di ogni strategia.
Una verifica delle risorse tangibili e intangibili di cui l’impresa dispone è la premessa per stabilire quali siano le capacità
su cui deve costruire una strategia.
Le risorse tangibili sono:
Risorse finanziarie
Risorse fisiche
Risorse umane
Le risorse intangibili
Brevetti, marchi commerciali, varie proprietà intellettuali, database.
L’analisi dovrebbe riguardare tutte le risorse cui l’impresa ha accesso e non solo quelle interne di cui l’impresa ha la
proprietà: Rete di contatti con i fornitori e con i clienti.
Inoltre l’analisi dovrebbe distinguere tra le risorse determinanti per creare vantaggi sui rivali e quelle necessarie, ma non
determinanti, in quanto facilmente imitabili.
Il processo di analisi delle risorse di cui un’impresa dispone o dovrebbe disporre per intraprendere una certa strategie è
indicato in genere con l’espressione resource audit e può essere condotto secondo tre metodi:
1) Analisi del valore aggiunto;
2) Individuazione delle competenze distintive che creano vantaggi;

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3) Analisi delle funzione e dei processi.


Il tutto si riassume nell’analisi SWOT.
7.2: l’analisi del valore aggiunto
Le diversità tra i risultati ottenuti da imprese dello stesso settore raramente possono essere spiegate da differenze nelle
risorse disponibili. Spesso la superiorità ha origine nel modo differente di organizzare le risorse per creare competenze
distintive e coordinarle.
Lo strumento per esplorare l’origine e la sostenibilità nel tempo di vantaggi competitivi sui rivali è l’analisi del valore
aggiunto.
Il valore aggiunto è la differenza tra il valore di mercato degli output e il costo dei input.
Non è facile calcolarlo poiché il valore degli input acquistati può variare a seconda del criterio di stima utilizzato.
Se l’analisi del valore aggiunto ha lo scopo di individuare le fonti dei vantaggi competitivi (attuali o futuri), non è
sufficiente considerare l’impresa nel suo insieme. Occorre infatti un approccio sistematico. Sia questo approccio sia i
principi dell’economia possono essere tradotti in pratica con due utili strumenti di analisi: value chain e value system.
La catena del valore
Ogni organizzazione è composta di parti corrispondenti ad altrettante attività che chiamiamo funzioni, le quali insieme,
costruite in sistema, producono valore. Sono le funzioni acquisti, marketing, finanza, gestione delle risorse umane,
logistica, ricerca & sviluppo (R&S).
Lo scopo è individuare in che modo ciascuna parte contribuisca al valore aggiunto complessivo e determinare come le
varie parti possano contribuire ai vantaggi competitivi dell’intera organizzazione.
La catena del valore ha tre caratteristiche:
1) Esprime il valore di un dato prodotto o servizio in termini di attività necessarie per produrlo, distinguendo tra
attività primarie e di supporto;
2) Rappresenta i legami tra le varie attività, ossia il rapporto esistente tra una data attività e il costo di un’altra
attività, in quanto nella ricerca di vantaggi competitivi un’impresa può svolgere le varie attività in modi differenti
con differenti risultati;
3) Esprime le potenziali sinergie tra prodotti e servizi e tra business unit. Ogni attività ha al proprio interno non solo
le economie di scala ma anche economie di scopo derivanti.
La catena del valore permette di capire come un’organizzazione possa gestire le due principali strategie competitive: bassi
costi e differenziazione. Entrambe le strategie hanno infatti la loro forza nelle attività che un’impresa è in grado di
sviluppare al proprio interno.
Un vantaggio di costo può emergere da:
Efficienza nella produzione;
Bassi costi di distribuzione;
Efficacia della forza vendita.
La differenziazione può emergere da:
Capacità di innovare;
Produrre con elevate qualità;
Rispondere più rapidamente dei rivali alle nuove esigenze dei clienti.
Limiti della value chain.
Essendo la value chain una rappresentazione semplificata della realtà, ha due limiti:
1) Per costruire vantaggi competitivi è necessario fare un’analisi in profondità al fine di individuare in quali attività
viene creato il valore;
2) La catena del valore individua legami generici attuali all’interno delle strutture esistenti, mentre la strategia
competitiva deve essere la risultante di una proiezione futura e deve considerare anche la verosimile risposta dei
rivali.

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Il value system o sistema del valore


Oltre all’analisi della catena del valore della singola impresa, può essere utile fare una seconda analisi riguardante il
sistema più ampio di cui l’impresa fa parte, e che comprende le catene del valore dei fornitori, dei distributori e dei
clienti.
Lo scopo è individuare le fonti dei vantaggi competitivi che possono emergere da migliori legami con i fornitori,
con i distributori e con i clienti.
Dando per assunto che le catene del valore dei fornitori e quelle dei distributori sono tra loro differenti, il vantaggio
competitivo di un’impressa può avere origine anche dalla scelta del miglior fornitore o distributore.
Ad esempio un fornitori di packaging innova e propone un sistema che crea maggior valore aggiunto, avendo con lui un
rapporto esclusivo l’impresa può acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti.
Ulteriori vantaggi possono emergere dall’acquisire una parte della catena del valore dei clienti, sostituendosi ad essi o
fornendo loro un servizio. Alcuni di questi legami possono essere unici, non imitabili, quindi possono dare un vantaggio
rispetto ai concorrenti.
Ad esempio alcuni costruttori di elettrodomestici hanno introdotto nel mercato frigoriferi che, grazie al collegamento con
una centrale operativa gestita dagli stessi produttori, possono trasmettere un ordine di fornitura con consegna a domicilio
a una catena di supermercati. È un modo per acquisire una parte della catena del valore del cliente, così come fanno i
costruttori di auto che vendono assicurazioni, finanziamenti, riparazioni, manutenzioni, auto usate.
L’analisi congiunta della value chain e del value system può fornire informazioni sulle fonti del valore aggiunto delle
imprese e sulle possibilità di costruire vantaggi competiti rispetto ai rivali.
Se l’impresa offre un gruppo di prodotti, possono esistere tra questi dei legami costitutivi da materie prime o
canali della distribuzione comuni, e tali legami possono essere sviluppati al fine di costruire vantaggi competiti
nei confronti dei rivali.
Esempio: se la stessa materia prima (cacao) è utilizzata in una pluralità di prodotti, l’impresa può acquisire un vantaggio
competitivo rispetto a un concorrente che abbia una gamma più limitata o addirittura un solo prodotto.
In sostanza, il fattore critico di successo è la capacità di costruire legami che i rivali non possono imitare.
È possibile anche coinvolgere altri attori per, ad esempio, la riduzione dei costi. Il caso della Toyota che ha chiesto ai
propri fornitori di componenti una riduzione del prezzo del 30% grazie anche al suo forte potere contrattuale.
7.3: individuare le competenze distintive che creano vantaggi.
Molte imprese, anche di piccole dimensioni, riescono a creare competenze uniche che le distinguono dai concorrenti,
nonostante abbiano accesso alle stesse risorse dei rivali, tali imprese riescono, meglio di altre, a coordinare la posizione
nel mercato, l’innovazione e le strategie.
Sono in sostanza punti di forza dell’impresa, competenze e tecnologie particolari che le conferiscono la capacità di
costruire vantaggi competitivi sui rivali.
Sulle competenze distintive sono emersi due diversi filoni di ricerca:
1) Core resources (Kay);
2) Core skills and competencies (Hamel e Prahalad).
Core resources
Kay individua tre risorse “critiche” per lo sviluppo di una strategia:
1) Architettura di rapporti, ossia la rete di rapporti e di contratti che un’impresa ha allacciato con altre imprese e con
persone e che possono generare vantaggi competitivi che altre imprese non sono in grado di imitare;
2) Reputazione dell’impresa, che riguarda l’immagine di qualità e di affidabilità dei prodotti, la notorietà nella
puntualità delle consegne; Essendo costruiti e difesi nel lungo termini risultano difficili da imitare;
3) Capacità di innovare, diversa da impresa a impresa.
Critiche.
Pochi mettono in dubbio che i tre fattori individuati da Key possano contribuire al successo di una strategia, ma manca
l’indicazione chiara di come queste capacità possano essere sviluppate.
Core skills and competencies
Hamel e Prahalad hanno introdotto due nuovi concetti:
1) Core skills. Le capacità fondamentali dell’impresa che possono dare successo.
2) Core competencies. La risultante dell’integrazione tra capacità, conoscenze e tecnologie dell’impresa. Sono
incorporate nei prodotti, quindi nella capacità di competere nel business, e possono essere legate alle strategie
competitive o di business unit.
Esempio: per questi autori il fattore chiave di successo del gruppo Honda sono i motori. Li vediamo ovunque: nelle auto,
motociclette, nei fuoribordo, nelle motoslitte, nei tosaerba da giardino.
Questo ultimo fattore, per gli autori, sono il requisito essenziale per avere successo e sono individuate in particolare per la
loro azione in tre aree:
Valore per il cliente: devono agire profondamente su come il cliente percepisce l’impresa e i suoi prodotti e
servizi;
Differenziare rispetto ai concorrenti: devono essere uniche, non comuni ad altre imprese e non facilmente
imitabili;

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Estensione ad altri prodotti e servizi: non devono essere limitate ai prodotti in cui sono attualmente presenti, ma
essere incorporate in ogni progettazione.
L’impresa deve costruire le core competencies prima di affrontare i concorrenti, non quando è già in campo. Deve,
inoltre, individuarle con un certo grado di dettaglio.
Critiche.
La prima critica a questa tesi è che un dettaglio delle core competencies può essere relativamente facile nelle grandi
imprese e in certi settori (come quelli dell’elettronica), ma è molto difficile in altri contesti e va adattato secondo i settori.
La seconda critica è che gli autori restano comunque nel vago e non definiscono con precisione quali siano le core
competencies.
7.4: l’analisi delle funzioni e dei processi.
Un terzo gruppo di metodi di analisi interna noto con l’espressione analisi delle principali funzioni e processi, valuta le
capacità che il management responsabile di ciascuna area ha di formulare e realizzare politiche e di utilizzare le risorse di
cui dispone.
L’analisi consiste nell’esame delle principali funzioni dell’impresa e dei principali processi di gestione che le legano.
Le funzioni sono:
a) Marketing.
b) Finanza;
c) Ricerca e sviluppo
d) Gestione operativa;
e) Gestione delle risorse umane;
f) Acquisti e gestione dei ,materiali.
I processi sono quelli che tagliano trasversalmente le varie funzioni:
1) Sistemi di pianificazione;
2) Sistemi di controllo;
3) Strutture organizzative.
Marketing
Gli obiettivi di questa funzione sono:
Conoscere la domanda potenziale
scegliere quale segmento l’impresa possa e intenda soddisfare;
con quali risorse intenda raggiungerlo
quali strategie adottare in rapporto al ciclo di vita e a quanto fanno i rivali.
Per attrarre la domanda del target e per competere con i rivali, l’impresa mette in campo una serie di varabili che nel loro
insieme sono indicate con l’espressione marketing mix (scelte che riguardano il prodotto, il prezzo, la distribuzione e la
promozione).
Il ciclo di vita del prodotto è lo strumento più efficace per l’analisi strategica del marketing e consiste nel descrivere
l’andamento delle vendita di un prodotto nel tempo.
Finanza
Lo strumento più usato per valutare il successo di una strategia, per una diagnosi della situazione attuale dell’impresa e
delle sue prospettive future è l’analisi finanziaria. offre la possibilità di:
individuare le tendenze nell’arco di un lungo periodo di tempo;
Fare confronti con i concorrenti e con le tendenze generali del settore;
Individuare in quali aree l’impresa supera i rivali e in quali è inferiore;
Individuare con relativa obiettività i punti di forza e debolezza, per esempio gestione delle scorte, tempi di incasso
dei crediti, costo del capitale.
L’obiettivo di lungo termine per le imprese è la creazione di valore e quale che sia la formula adottata per stabile se
l’impresa abbia o non abbia creato valore, e in quale misura, tre aspetti sono al centro dell’attenzione:
1) Quale grado di successo abbia ottenuto l’impresa a fronte degli investimenti finanziati con il capitale degli
azionisti e di quelli finanziati attraverso il ricorso all’indebitamento
2) Quale sia la struttura finanziaria, e se sia solida; quale il grado di liquidità e il grado di indebitamento;
3) Quale sia il costo del capitale.
L’analisi finanziaria concerne i risultati delle principali decisioni prese dal management in relazione a:
Investimenti; ossia la destinazione delle risorse di capitale a progetti, linee di prodotto, aree di attività, divisioni di
un’organizzazione, business unit. Gli indici più usati riguardano la redditività del capitale investito (investiment
ratios) e i risultati ottenuti (performance ratios);
Struttura finanziaria; cioè il rapporto migliore tra fonti e impieghi e la scelta dei metodi di raccolta del capitale.
Due indici significativi sono il rapporto tra debiti e capitale proprio e il rapporto tra debiti e totale delle attività
patrimoniali;
Dividendi; distribuiti agli azionisti in rapporto al capitale investito nel tempo. Per valutare i risultati di queste
decisioni prevalgono tre indici: utili per azione; dividendi per azione; rapporto tra prezzo di un’azione e utili.
Limiti. È basata su dati contabili e, poiché le imprese possono adottare criteri diversi nella valutazione di ammortamenti,
spese in R&S e acquisizioni, il confronto con parametri di riferimento raramente è significativo.
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Ricerca e sviluppo
Il management della R&S ha come obiettivi principali:
la scelta delle tecnologie che più di altre possano dare vantaggi competitivi sui rivali;
l’applicazione di tali tecnologie ai processi e ai prodotti dell’impresa;
l’allocazione delle risorse che alimentano la superiorità tecnologica;
la scelta delle forme organizzative che stimolano l’innovazione tecnologica.
Quanto più è intensa la dinamica del settore, tanto più la R&S incide sul successo delle strategie.
R&S di prodotto/servizio: mira ad assicurare innovazione nell’offerta al mercato strategie di differenziazione;
R&S di processo: mira all’efficienza di produzione, quindi alla riduzione di costi, alla qualità e alla migliore
utilizzazione dei fattori produttivi strategie di bassi costi.
Gestione operativa
La gestione operativa include scelte che hanno un forte peso strategico:
Scelta tra sistemi di produzione continui e sistemi intermittenti.
Continui: la produzione è realizzata lungo linee in cui i prodotti possono essere continuamente lavorati o
assemblati (assemblaggio di elettrodomestici lungo una linea di montaggio);
Intermittenti: attività applicate al prodotto in una certa sequenza e sia l’attività che la sequenza possono cambiare
di volta in volta (costruzione di una barca su commessa);
Curva di esperienza.
È un principio secondo il quale la riduzione dei costi per unità prodotta può derivare dall’esperienza acquisita nella
produzione: i costi di produzione possono essere ridotti con l’aumento dei volumi di produzione. Ogni volta che
un’impresa raddoppia i volumi i costi unitari di produzione scendono di una percentuale che varia da un’impresa all’altra.
Il principio è basato su tre variabili:
1) L’apprendimento, meccanismo per cui quante più volte una persona svolge una data attività, tanto più acquista
efficienza nel proprio ruolo.
2) Economia di scala, riduzione dei costi unitari di produzione all’aumentare dei volumi;
3) Possibilità di sostituire capitale con lavoro e viceversa, per cui all’aumento dei volumi di produzione
un’organizzazione può sostituire lavoro al capitale, o capitale al lavoro, secondo la combinazione che produce i
costi più bassi o che dà origine alla maggiore efficienza.
Risorse umane
L’obiettivo di questa funzione è
la valutazione delle capacità professionali necessarie per il futuro dell’organizzazione;
creazione di forti motivazioni e l’attaccamento all’organizzazione a cui appartengono;
l’assunzione di personale;
l’assegnamento dei ruoli;
la definizione di forme di remunerazione;
la valutazione delle prestazioni.
Negli ultimi decenni due tendenze hanno reso difficile mantenere alte le motivazioni:
molteplici ristrutturazioni che hanno ridotto il numero degli occupati e ridisegnato ruoli e mansioni, con la
conseguente perdita di esperienze professionali nelle imprese
ondata di fusioni, acquisizioni e alleanze, che ha creato duplicazione di ruoli e incertezze nel futuro di molte
persone.
Acquisti e gestione dei materiali
Tale funzione si occupa degli acquisti, con l’obiettivo di individuare i potenziali fornitori di beni e servizi utili all’attività
dell’impresa, valutare le loro offerte, negoziare prezzi e condizioni di pagamento, fare ordini, seguirli e verificare le
consegne.
La logistica. È diventato un fattore importante da quando le imprese europee hanno deciso di de localizzare per il costo
del lavoro più basso.
7.5: l’analisi SWOT.
L’analisi SWOT individua forze, debolezze, minacce e opportunità dell’organizzazione. Ogni impresa ha alcuni processi
interni nei quali eccelle, punti di forza, e altri processi nei quali non ottiene buoni risultati ed è inferiore ai rivali, punti di
debolezza, deve far leva sui primi e proteggere temporaneamente o annullare i secondi.
Questo tipo di analisi presuppone una diagnosi dell’impresa riguardante i principali aspetti:
capacità del management;
situazione finanziaria;
risorse umane;
tecnologie disponibili;
obsolescenza impianti;
obsolescenza prodotti;
flessibilità;
distribuzione.

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L’obiettivo è combinare l’analisi interna con l’analisi dell’ambiente esterno definendo i fattori dell’analisi SWOT che
comprende:
le minacce e le opportunità dall’analisi esterna;
le forze e le debolezze emerse dall’analisi interna.
E’ opportuno limitare l’attenzione ai punti di forza e di debolezza che contano più di altri, e in genere l’analisi SWOT
parte da una lista molto ampia che viene via via ridotta sino a concentrarsi sui fattori più rilevanti.
Lynch suggerisce alcune regole per migliorare la qualità e l’efficacia dell’analisi SWOT:
1) essere brevi;
2) legare, quando possibile, forze e debolezze ai fattori di successo;
3) valutare forze e debolezze in rapporto a quelle dei concorrenti;
4) fare affermazioni specifiche, evitare considerazioni vaghe;
5) distinguere tra dove l’impresa vorrebbe essere e dove effettivamente è allo stato attuale;
6) essere realisti circa le forze e le debolezze.

7.6: l’analisi comparativa.


Dopo aver valutato le risorse disponibili e aver individuato le competenze distintive e le core competencies, occorre
un’analisi comparativa. Ecco alcuni metodi di confronto frequentemente adottati.
Storia dell’impresa: tale criterio consiste nell’esaminare quanto è avvenuto in passato. Se oggi la situazione è
migliorata, possiamo concludere di avere un punto di forza; se invece è peggiorata possiamo giungere alla
conclusione opposta. Se il grado di indebitamento è aumentato così da aumentare l’esposizione verso i creditori
allora in quest’area c’è un punto di debolezza;
Standard di settore: il termine di paragone può essere una norma o uno standard elaborato in base alla esperienza
del settore, al parere dei consulenti o ai risultati di ricerche scientifiche. Per esempio, ricerche sono state fatte sul
rapporto tra spese destinate a R&S e il fatturato: se un’impresa supera il livello considerato utile per aprire le
porte del successo, si può concludere di essere in presenza di un potenziale punto di forza; se invece si trova al di
sotto di tale livello, si può parlare di un punto di debolezza;
Strategie della concorrenza: tale criterio parte dal presupposto che un’impresa per avere successo, debba almeno
neutralizzare i concorrenti mettendo in campo politiche e strutture organizzative come minimo equivalenti
(esempio: gamma di prodotti);
Benchmarking: con tale metodo l’impresa studia i migliori processi di produzione e di marketing usati dai
concorrenti, con lo scopo di individuare possibili modi per migliorare i propri processi. Tale metodo comporta un
certo numero di fasi:
1) individuazione dei processi che devono essere migliorati;
2) analisi in profondità di altre imprese che li realizzano in modo efficace;
3) adattamento dei processi individuati;
Balance scorecard (Kaplan e Norton): questi due autori nel tentativo di dare informazioni ai principali
stakeholder dell’impresa hanno proposto uno schema che riassume le attese di questi soggetti portatori di interessi
in termini di successo, con l’obiettivo di indicare al management quali sono le aree critiche alle quali dare
priorità;
Diversità di vedute: importante è considerare che le valutazioni cambiano secondo gli angoli di visuale, ossia
soggetti diversi, ai medesimi criteri danno priorità diverse.

CAP. 8: LE FONTI DEI VANTAGGI COMPETITIVI


8.1: definizione di vantaggio competitivo.

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La definizione di vantaggio competitivo può variare a seconda degli autori e del tempo. Nella letteratura del management
spesso si definisce il vantaggio competitivo come capacità di distinguersi positivamente rispetto ai concorrenti nella
percezione dei compratori.
Definire ciò non ci chiarisce da dove derivi questo vantaggio competitivo creato dall’impresa, se:
derivi dalla capacità di applicare un prezzo più alto o produrre a costi più bassi;
se derivi da una qualità superiore a quella dei rivali o dalla capacità di innovare.
Un’impresa, quindi, potrebbe detenere un vantaggio competitivo, ma al tempo stesso conseguire profitti più bassi della
media perché i prezzi che applica sono troppo bassi o i suoi costi troppo alti (quindi non significa necessariamente avere
maggiore redditività).
Per competere con successo l’impresa deve quindi creare un consumer surplus per il compratore ossia: la differenza tra il
beneficio percepito dal consumatore dall’acquisto di un prodotto o di un servizio e il suo prezzo monetario.
Un consumatore, quindi, acquisterà un prodotto soltanto se il suo consumer surplus è positivo. Lo stesso consumatore
acquisterà il prodotto da un particolare venditore soltanto se questo offrirà un consumer surplus più alto rispetto a quello
che offrono i rivali.
Condizione necessaria: Surplus > 0
Condizione necessaria e sufficiente: Surplus positivo dell’impresa > del surplus dei concorrenti.
Il valore creato dall’impresa è dato:
Valore creato = Beneficio percepito dal cliente finale – Costo dei fattori
8.2: le fonti dei vantaggi competitivi.
Le modalità con le quali le imprese creano vantaggi competitivi seguono due approcci diversi:
1) Posizione nel settore (strutturale). L’approccio della posizione nel settore rispetto ai concorrenti, secondo cui i
vantaggi dell’impresa derivano dalla conquista e dalla difesa di una posizione rispetto ai rivali e la posizione può
essere o di bassi costi o di differenziazione nei migliori segmenti di un settore;
2) Resource-based theory (RBT). L’approccio della resource-based theory (RBT), secondo cui risultano
determinanti le risorse e le capacità dell’impresa. I vantaggi derivano da prestazioni superiori a quelle dei rivali:
1) originate da risorse e capacità distintive non possedute dai rivali e non imitabili,
2) sviluppate nel tempo e che agiscono sulle prestazioni dell’impresa nei vari campi di attività.
Nessuno dei due approcci è in grado di spiegare come si crea e si sostiene un vantaggio in un ambiente competitivo
dinamico.
Creare più valore dei rivali non significa però avere la redditività più alta in assoluto. La struttura del settore è un fattore
critico nel determinare quale quota di valore creato l’impresa riesca a trattenere come profitto. Essendo parte integrante
dell’analisi strategica, l’analisi di settore resta dunque insostituibile, per vari motivi:
il peso della struttura del settore sulla redditività è alto, anche se non è l’elemento più importante;
le caratteristiche di settore che agiscono sulla redditività hanno un effetto più duraturo rispetto a quello derivante
dalle diversità tra strategie di imprese nello stesso settore;
alcuni settori hanno strutture tali da rendere possibili forti scostamenti dei risultati di un’impresa rispetto alla
redditività media (di settore);
le imprese che hanno redditività superiore alla media devono il loro successo anche alla capacità di affrontare i
lati negativi del settore;
infine, se è vero che la struttura del settore, agisce sulle strategie delle imprese è anche vero che le strategie
contribuiscono alla struttura. È dunque utile esamine entrambe.
8.3: la posizione nel settore: i vantaggi generici.
Negli anni settanta è stato accettato il principio che la creazione di valore dipende o dalla cost position o dalla
differentiation position dell’impresa rispetto ai suoi concorrenti.
Secondo Porter, per costruire un vantaggio competitivo un’impresa deve:
avere costi più bassi rispetto a quelli dei concorrenti;
essere in grado di differenziare i prodotti in modo da applicare prezzi superiori a quelli dei concorrenti;
sulla base di questi principi Porter ha sviluppato ciò che definisce strategie generiche: bassi costi e differenziazione.
La scelta di una delle due strategie competitive generiche dipende:
innanzitutto dalla disponibilità delle risorse e
dagli obiettivi che l’impresa si è data,
Il target al quale rivolgersi può essere ampio, e includere l’intero settore, o limitato a una nicchia di mercato.
Combinando il target al quale riferirsi con le due strategie competitive otteniamo quattro tipi di strategie generiche.
Leadership di costo: l’impresa, che si rivolge all’intero settore, costituisce una posizione che ha un vantaggio di
costo significativo nei confronti dei concorrenti. Tale strategia comporta efficienza nell’uso delle attrezzature e
degli impianti, forte controllo sui costi fissi, contenimento dei costi in tutte le funzioni dell’impresa;
Differenziazione: l’impresa, che anche qui si rivolge all’intero settore, affronta i rivali con prodotti o servizi che
hanno caratteristiche uniche percepite come superiori dai compratori rispetto ai rivali;
Focus sui costi: consiste nel concentrare le risorse su un particolare gruppo di compratori, linea di prodotto o
mercato geografico affrontando i rivali sulla base del costo;

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Focus sulla differenziazione: l’impresa compete nei confronti di un particolare target sulla base della
differenziazione anziché sul costo.
Il focus su nicchie con prodotti differenziati è una strategia che può dare buoni risultati.
Limiti dell’approccio
Tale approccio offre un quadro parziale della realtà in quanto fa perdere di vista molte opportunità strategiche (Day,
1997). Pertanto questo approccio ha in particolare due punti deboli:
1) Playing the spread: Porter nella sua visione sostiene che un’impresa deve adottare una sola strategia competitiva
generica, altrimenti verrebbe a trovarsi, nell’arena competitiva senza un vantaggio competitivo e condannata ad
una redditività inferiore alla media. Speso, però, le strategie delle imprese mirano a sviluppare entrambi questi
vantaggi competitivi con la conseguenza di non poter sostenere a lungo strategie competitive generiche (Toyota).
È dimostrato che la qualità elevata può creare vantaggi competitivi e quindi aumentare le quote di mercato con
l’aumento delle quote si avrà un aumento dei volumi di vendita e quindi un abbassamento dei costi totali per
effetto delle curve di esperienza e delle economie di scala.
2) Campi diversi: un secondo punto debole è che cost leadership e differenziazione riguardano campi
completamente diversi. Il primo è un vantaggio competitivo che si manifesta nei confronti dei rivali e soltanto
indirettamente nei confronti del cliente; la strategia di differenziazione è invece orientata quasi principalmente al
cliente.
8.4: la resource-based theory (RBT).
Per i sostenitori di tale teoria la fonte del vantaggio competitivo non è nell’ambiente esterno, quindi in una posizione
acquisita dall’impresa, ma nelle risorse interne. Quindi per battere i rivali l’impresa deve possedere risorse, capacità e
competenze distintive superiori.
Le critiche alla posizione del settore
Secondo l’approccio della posizione nel settore conferma che un’attrattività/redditività elevata dipende da contesti di
settore particolarmente favorevoli più che dalle capacità dell’impresa. Quindi i fattori principali di successo di un’impresa
sono due:
1. Capacità di scegliere il settore con le migliori condizioni, il segmento migliore, il gruppo strategico migliore;
2. Capacità di agire sulla competizione quindi sul comportamento dei concorrenti.
L’analisi SWOT che abbiamo visto nel capito 7 è la sintesi di questo pensiero. Le imprese che meglio di altre sanno usare
i propri punti di forza per cogliere le opportunità dell’ambiente e sono in grado di neutralizzare le minacce dell’ambiente
stesso hanno le maggiori probabilità di successo.
Queste conclusioni sono contestate dai sostenitori della RBT, secondo i quali la fronte del vantaggio competitivo non è
nell’ambiente esterno ma nelle risorse interne.
Barney (1991) e Grant (1991) sostengono che le differenze nelle prestazioni tra imprese possono essere spiegate
attraverso le differenze nelle risorse e nelle competenze piuttosto che attraverso le differenze nella struttura della
competizione.
Secondo l’approccio RBT, per avere successo una strategia deve muovere da tre elementi principali:
Trarre il massimo vantaggio dalle risorse e dalle competenze dell’impresa;
Usare le risorse al massimo del loro potenziale;
Sviluppare e rafforzare costantemente le risorse e le competenze.
I fondamenti della RBT: stabilità e vantaggi competitivi
Quindi per i sostenitori della RBT le risorse e le competenze sono dunque le fondamenta di una strategia di lungo termine,
che crea:
1) maggiore stabilità negli obiettivi dell’impresa;
2) costituisce la vera fonte dei vantaggi competitivi.
Ogni strategia nasce quindi dalla definizione del business in cui intende operare, dalle esigenze del target che intende
raggiungere e dai modi in cui intende soddisfare tali esigenze.
Secondo Grant (1991) quando l’ambiente è dinamico le risorse e le capacità dell’impresa sono una base più stabile per
definire la propria identità e il proprio business: partire da ciò che si è in grado di fare, piuttosto che dalle esigenze che il
business cerca di soddisfare, può essere il fondamento di una strategia più durevole.
Quindi più che dalla strategia adottata, la stabilità è data dalle risorse e dalle competenze, che sono la vera fonte dei
profitti realizzati in quanto creano vantaggi competitivi.
Se consideriamo le due principali strategie generiche, possiamo agevolmente dimostrare come in realtà siano basate su
risorse e competenze, e confermare così la validità della RBT.
I vantaggi di costo dipendono da:
risorse, come per esempio la gestione di impianti di grandi dimensioni e la gestione delle tecnologie
capacità di anticipare i concorrenti
accesso privilegiato a fonti di materi prime e a asso costo del lavoro
accesso ai canali distribuitivi
i vantaggi della differenziazione dipendono da:
controllo di certe risorse: marchi, brevetti, specializzazione della forza lavoro;

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capacità di interpretare l’evoluzione della domanda prima dei rivali


capacità di rispondere rapidamente alle nuove esigenze dei consumatori;
capacità nel design e nel time-to-market.
8.5: le risorse, le capacità e le competenze distintive.
La tesi della RBT sono molto articolate, ma possono essere ricondotte alle seguenti enunciazioni:
Le competenze distintive sono i punti di forza che l’impresa non divide con i rivali;
Le competenze distintive di un’organizzazione emergono dalle sue risorse e capacità;
Per costruire vantaggi competitivi, le imprese devono formulare strategie sia basate sulle risorse e sulle capacità
esistenti nell’organizzazione (le competenze) sia tese ad acquisire nuove risorse e capacità.
Le risorse
I fattori produttivi, gli input, le risorse umane, finanziarie, tecnologiche e organizzative di un’impresa possono essere
distinte in:
Risorse tangibili. Sono facili da imitare:
- Edifici, attrezzature, impianti;
- La capacità operativa, le economie di scala e di scopo, la copertura geografica della distribuzione;
- La capacità finanziaria e il costo del capitale;
Risorse intangibili. Sono difficili da imitare:
- Konw-how di processi produttivi e di marketing;
- Immagine di marca;
- Brevetti e marchi.
Le capacità e le competenze distintive
Le capacità organizzative di un’impresa. sono la capacità di reperire risorse e di coordinarle nei processi
produttivi meglio dei rivali;
Le competenze distintive. Ossia, processi che alimentano i vantaggi competitivi di un’organizzazione, sono i
punti di forza rispetto ai concorrenti, che danno all’impresa la possibilità di ottenere maggiore efficienza, dare
migliore qualità, sviluppare migliori innovazioni e rispondere meglio alle esigenze del cliente.
Quindi le risorse e le competenze sono i determinanti principali delle competenze distintive di un’impresa.
Routine organizzative. Come l’impresa riesca a creare competenze distintive lo si può spiegare tramite il concetto di
routine organizzative. Il lancio di un nuovo prodotto è basato su una serie di procedure, come la valutazione degli
investimenti e la preparazione di una campagna pubblicitaria.
Il concetto implica, inoltre, che le capacità restino anche quando una persona o un gruppo di persone lasciano l’impresa.
Le persone possono cambiare ma le routine restano. In realtà però non è sempre così.
Partendo dal presupposto che i vantaggi competitivi sono determinati principalmente dalle risorse e dalle competenze,
Grant propone un approccio articolato in cinque stadi:
1) Individuare e classificare le risorse dell’impresa in termini di forze e debolezze nei confronti dei concorrenti;
2) Identificare le capacità distintive: che cosa sappiamo fare meglio degli altri?;
3) Valutare le capacità delle risorse e delle competenze di generare profitti attraverso la creazione e lo sfruttamento
di vantaggi competitivi;
In questo stadio Grant individua due fattori chiave:
La sostenibilità (nel tempo) dei vantaggi competitivi;
La capacità dell’impresa di “appropriarsi” dei vantaggi (profitti/creazione di valore) generati dalle risorse
e dalle capacità di cui dispone;
4) Selezionare le strategie che meglio di altre sfruttano le risorse e le capacità delle imprese in rapporto alle
opportunità offerte dall’ambiente esterno;
5) Individuare gli scostamenti tra risorse necessarie e risorse disponibili.
La RBT individua quattro caratteristiche che risorse e competenze devono avere per generare e sostenere un vantaggi
competitivo:
Durabilità: se la competizione manca, i vantaggi competitivi dipendono dal ritmo con cui le risorse e le capacità
diventano obsolete. Le capacità hanno maggiore durabilità rispetto alle risorse sulle quali sono basate perché
l’impresa è in grado di mantenere le capacità sostituendo le risorse esaurite.
Esempio: grandi stilisti italiani riescono a mantenere a lungo le loro capacità di fare moda e creare valore
attraverso più generazioni di collaboratori.
Trasparenza: le capacità dell’impresa di sostenere i propri vantaggi competitivi dipende dalla velocità con cui i
rivali possono imitarne le strategie. Il tempo di imitazione dipende dalla capacità dei concorrenti di capire in che
modo le risorse e le capacità danno il successo all’impresa; (esempio Baody Shop)
Trasferibilità: l’imitazione comporta il reperimento delle risorse e lo sviluppo delle capacità necessarie per
sostenere la sfida competitiva. Se l’impresa può acquisire le risorse necessarie per imitare il vantaggio
competitivo di un rivale che ha avuto successo, tale vantaggio avrà breve durata;
Esempio: le strategie di nicchia delle imprese giapponesi (Chuken kigyo) non possono essere trascritte su manuali
scritti o leggendo un brevetto ma è piuttosto l’accumulazione di esperienze derivanti da attività svolte da più
persone nell’arco di molti anni.
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Riproducibilità: se i rivali non riescono ad acquisire le risorse o le capacità per imitare l’impresa attingendo dal
mercato, possono tentare di riprodurle internamente.
Esempio: nel settore bancario è relativamente agevole imitare innovazioni di prodotto, mentre è più difficile
riprodurre le capacità basate su routine organizzative complesse.
Tornando invece all’esempio delle imprese giapponesi, il loro dominio non è assicurato poiché hanno adottato e
migliorato, a suo tempo, tecnologie straniere (americane). Prima con strategie low cost e poi con migliore qualità
e infine con superiorità tecnica.
8.6: oltre la RBT: value disciplines.
L’approccio della value disciplines considera che le fonti dei vantaggi competitivi sono diverse secondo il segmento di
clienti cui si rivolge l’impresa, che dovrebbe pertanto “disciplinare” di volta in volta le basi della strategia.
Questa teoria, evoluzione della RBT, individua le fonti dei vantaggi competitivi nella capacità dell’impresa di creare
valore e di delineare un distinto segmento di clienti meglio di quanto riescano a fare i concorrenti.
Differenti segmenti hanno differenti esigenze: uno vuole qualità superiore e accetta un premium price; un altro vuole
innovazione; un altro chiede prezzi bassi; un altro ancora servizi personalizzati.
Possiamo distinguere due tipi o gruppi di elementi:
Quelli irrinunciabili, secondo le attese dei consumatori, e che quindi l’offerta deve sempre includere (condizione
necessaria ma non sufficiente per decidere se acquistare)
Quelli che fanno la differenze e determinano la scelta tra più offerenti.
Esempio: per un volo Roma-Londra sono necessarie alcune condizioni (standard di tempo di percorrenza, sicurezza,
confort “irrinunciabili”). Mentre quello che condiziona l’offerta decisiva dipende da alcuni elementi specifici (orari,
qualità del servizio a bordo, puntualità o altro “fanno la differenza”).
Value disciplines e vantaggi competitivi.
Tre strategie emergono dall’analisi dei fattori di successo dei leader di mercato:
1) Eccellenza operativa. Consiste nel dare buona qualità ai prezzi migliori, attraverso una configurazione di prodotto
o servizio che renda minimo il costo per il compratore e faciliti al massimo l’accesso a tale prodotto o servizio.
L’organizzazione da priorità ai costi bassi ;
2) Risposta alle attese. Obiettivo prioritario è dare un prodotto o un servizio che risponda il più possibile alle precise
esigenze del consumatore. L’organizzazione è costruita in modo da delegare il massimo del potere decisionale a
chi è a contatto con il cliente.
3) Prestazioni superiori. La strategia è basata sull’innovazione rapida e continua e i prodotto o i servizi incorporano
le tecnologie più recenti.
8.7: principali elementi di un vantaggio competitivo.
Hill e Jones (1998) individuano quattro elementi generici di un vantaggio competitivo, attraverso i quali l’impresa può
creare valore. Tali elementi sono definiti generici in quanto l’impresa dovrebbe perseguirli indipendentemente dal settore
in cui opera e dall’attività che svolge.
Efficienza
I risultati sono rappresentati dai prodotti e dai servizi che l’impresa offre sul mercato e alcuni risultati si prestano a essere
misurati in unità fisiche, mentre altri soltanto in valore. In base a ciò, efficienza è sinonimo di produttività misurata in
valore monetario. Quanto più l’impresa è efficiente, tanto più bassi sono i costi dei fattori impiegati per ottenere un
determinato risultato. L’efficienza è la premessa per acquisire i vantaggi competitivi derivanti dai bassi costi.
Le soluzioni sono numerose per raggiungere un efficienza superiore a quella dei rivali:
Realizzando economie di scala e sfruttando curve di esperienza;
Adottando tecnologie flessibili di produzione;
Riducendo il tasso di prodotti difettosi per realizzare zero defect;
Introducendo il just-in-time;
Innovando e progettando prodotti e servizi che siano facili da produrre (R&S);
Aumentando la produttività delle risorse umane attraverso la formazione;
Dando maggior potere a chi affronta i problemi pratici (empowerment);
Legando le remunerazioni alle prestazioni;
Dando efficienza all’intera organizzazione attraverso una leadership forte;
Costruendo una struttura organizzativa che faciliti il coordinamento delle varie funzioni verso il conseguimento
degli obiettivi di efficienza.
Qualità
Un prodotto o un servizio sono di qualità quando rispondono alle attese del compratore, ossia danno al compratore i
benefici attesi. La qualità agisce sui vantaggi competitivi in due modi:
Fornendo prodotti di qualità in modo che il compratore associ la marca del produttore al principio value for
money ossia valore per il vostro denaro. Si traduce in capacità dell’impresa di applicare prezzi più alti rispetto a
quelli dei concorrenti;
Aumentando la produttività in quanto riduce i tempi necessari per correggere i difetti e i costi delle garanzie;
Per costruire una qualità superiore, l’obiettivo primario dell’intera organizzazione deve essere centrato sul cliente.

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È il concetto del Total Qaulity Management (TQM) che richiede una serie di comportamenti e azioni:
Focus sul cliente e sulle sue esigenze e attese;
Escogitare metodi di misura della qualità;
Fissare obiettivi e introdurre incentivi;
Stimolare suggerimenti da parte dei collaboratori;
Individuare i difetti e agire eliminandoli alla fonte;
Sviluppare e migliorare le relazioni con i fornitori;
Progettare con l’obiettivo di semplificare la produzione;
Far cadere le barriere tra funzioni e migliorare il coordinamento.
Non bisogna poi dimenticare che le percezioni negative sulla qualità sono difficili da cambiare.
Esempio: negli USA la percezione che le auto costruite da imprese americane non siano all’altezza di quelle importate in
fatto di qualità è difficile da cancellare: le auto che Detroit ha messo in circolazione in passato ha condizionato
profondamente l’immagine del settore.
L’esperienza insegna che migliorare la qualità è un obiettivo:
difficile da raggiungere anche quando si dispone di rilevanti risorse;
da perseguire con continuità, in quanto i rivali che già si trovano in vantaggio hanno verosimilmente una cultura
organizzativa che favorisce ulteriori miglioramenti di qualità.
Innovazione
Con la parola innovazione si designa ogni cambiamento nelle caratteristiche dei prodotti e dei servizi offerti sul mercato o
nel modo di produrli. L’innovazione riguarda quindi i prodotti, i processi produttivi, i metodi di gestione, le strutture
organizzative.
L’innovazione può essere:
incrementale, quando consiste in miglioramenti costanti che non cambiano il modo di competere;
radicali, quando cambia le forme della competizione.
Si ricorda che presto o tardi i concorrenti riusciranno a imitare ogni innovazione. Bisogna quindi che l’impresa si impegni
costantemente ma molte imprese sono riluttanti a investire in R%S a causa dell’elevato tasso di insuccesso delle
innovazioni.
I motivi principali dei fallimenti dipendono da alcuni ostacoli difficili da rimuovere:
incertezza che domina il futuro della domanda (innovare significa prevedere);
difficoltà di tradurre le nuove tecnologie in prodotti che rispondano alle effettive esigenze del compratore;
errori di previsione della domanda o il sopraggiungere di recessioni;
lentezza nell’introdurre innovazioni nel mercato, il che fa perdere il vantaggio di innovare dando ai rivali la
possibilità di imitare.
Per evitare insuccessi e per fare dell’innovazione un reale vantaggio competitivo l’impresa dovrebbe:
investire nell’acquisizione di capacità professionali sia nella ricerca di base sia in quella applicata;
integrare strettamente R&S e marketing;
integrare strettamente R&S e produzione;
accorciare i tempi di introduzione dei nuovi prodotti e servizi nel mercato;
migliorare il project management;
Capacità di risposta al cliente
Per avere successo l’impresa deve dare ai clienti ciò che chiedono, quando e dove lo chiedono. Deve individuare le attese
del cliente potenziale per poterle soddisfare, compatibilmente con gli obiettivi dell’impresa, comportando ciò lo sviluppo
di nuovi prodotti con caratteristiche adeguate alle esigenze emergenti.
Customization. L’effetto più evidente della tendenza ad adeguare l’offerta alla nuova domanda è la forte frammentazione
dei mercati: quindi ampie gamme di prodotti e servizi.
Tempo di risposta. Un aspetto sempre più rilevante negli ultimi anni è il tempo di risposta alla domanda, perché il tempo è
una risorsa preziosa sempre più scarsa per il cliente (il fast food nella ristorazione e il bancomat nel settore bancario).
Quanto più un’impresa risponde alle esigenze dei propri clienti, tanto più questi le saranno fedeli e la fedeltà si traduce in
possibilità di applicare un premium price oppure di vendere di più agli stessi clienti.
Rispondere alle esigenze della clientla significa migliorare l’efficienza, migliorare la qualità, sviluppare costantemente
nuovi prodotti. Occorre dunque migliorare simultaneamente gli altri elementi su cui si basa ogni vantaggio competitivo e
raggiungere altri tre obiettivi:
1) orientare l’intera organizzazione alle esigenze del cliente, facendo emergere una leadership forte, formando il
personale a interpretare le esigenze del cliente e portando i clienti all’interno dell’organizzazione attraverso
ricerche di mercato;
2) progettare e sviluppare prodotti e servizi che abbiano unicità nel rispondere alle esigenze dei clienti
(personalizzazione);
3) rispondere rapidamente alla domanda (time-to-market)

CAP. 9: SOSTENERE I VANTAGGI COMPETITIVI IN UN AMBIENTE DINAMICO


9.1: la durata dei vantaggi competitivi nel tempo.
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Non basta creare un vantaggio competitivo: è necessario che sia sostenibile nel tempo e produca a lungo i suoi effetti.
È evidente che esistono fattori di erosione che tendono a indebolire i vantaggi competitivi delle imprese dominanti:
il cambiamento verso un nuovo modello del business;
il pericolo rappresentato da concorrenti che (dotati di risorse e capaci di cogliere l’innovazione) provengono da
altri settori;
l’errore di continuare a fare le cose che sono state fatte in passato ignorando il cambiamento e senza considerare
le reazioni dei rivali.
Le barriere all’imitazione
Le barriere all’imitazione sono rappresentate da ciò che rende difficile per un concorrente imitare le risorse e le capacità
dell’impresa. Poiché il vantaggio competitivo si traduce nella capacità di applicare prezzi più alti o sostenere costi più
bassi e quindi conseguire profitti maggiori, i concorrenti tendono a imitarlo.
L’impresa dovrebbe allungare il tempo di imitazione. Quanto più è lungo tale tempo maggiori sono le possibilità per
l’impresa di consolidare un la propria posizione nel mercato:
consolidare il rapporto con i distributori;
costruire immagine di marca.
I profitti accumulati possono essere investiti in ulteriori innovazioni e consolidare ulteriormente la posizione.
Imitare le risorse. I vantaggi basati sulle risorse tangibili sono i più facili da imitare.
Esempio: acquisto di macchinari e attrezzature da parte di imprese concorrenti.
Più difficile è imitare le risorse intangibili, prima fra tutte l’immagine di marca.
Esempio: McDonald’s è sinonimo di buon rapporto prezzo/valore. Imitare in questo caso è assai difficile perché il
consumatore spesso acquista anche l’immagine di marca.
Imitare le capacità. È più difficile imitare le capacità di un’impresa, perché sono rappresentate da una particolare cultura,
da sistemi di procedure, metodi e criteri di decisioni che all’esterno è difficile individuare e riprodurre.
Ovviamente c’è sempre una possibilità di imitazione: i concorrenti possono assumere i migliori dirigenti dei rivali, e
acquisire informazioni utili a recuperare lo svantaggio. Ma spesso il vantaggio non è dato dalla presenza di un solo
soggetto ma da un risultato di un lavoro di gruppo, stile di management.
Le capacità dei concorrenti
Bisogna distinguere i concorrenti che hanno strategie e anche posizioni di mercato consolidate, dai concorrenti flessibili,
con piccole quote di mercato, alla ricerca di nuove posizioni, spesso entrati da poco nel settore.
Per questi ultimi l’imitazione è facile ed spesso è la strategia scelta per entrare in un mercato o in una nicchia; per le
imprese con strategie consolidate è in genere difficile imitare in breve tempo la strategia di un concorrente e ciò
rappresenta un ostacolo dietro il quale il pioniere può difendersi.
Questo perché le imprese con strategie consolidate, hanno impegnato risorse per lo sviluppo della loro cultura e le loro
capacità in un modo particolare di competere con un processo lungo e tormentato: se cambiano le regole della
concorrenza sono lente a cambiare strategie.
Il dinamismo del settore
Alcuni settori sono soggetti a intenso cambiamento, mentre altri sono più stabili. I primi sono caratterizzati da un forte
tasso di innovazione e ciò significa che il ciclo dei prodotti è breve, pertanto i vantaggi competitivi acquisiti possono
presto svanire.
Quando le barriere all’imitazione sono basse, quando i concorrenti hanno capacità simili e quando il settore è fortemente
dinamico, sfornando innovazioni in rapida successione, è verosimile che i vantaggi competitivi abbiano breve durata.
Secondo D’Aveni (1994) nessuna organizzazione può costruire un vantaggio competitivo che sia sostenibile a lungo nel
tempo, a causa dell’ipercompetizione. Sostiene che bisogna sempre innovare anche a costo di distruggere i propri
vantaggi, sebbene diano profitti. Investire per difendere i vantaggi in un ambiente di questo genere significa spesso
minare la vera competitività dell’impresa.
9.2: l’erosione dei vantaggi competitivi: varietà di cause.
Sono molte le imprese considerate esempi di eccellenza che, trascorso un certo tempo, perdono terreno rispetto ai
concorrenti e subiscono forti perdite.
Cambiano le regole
La deregulation o la strategia aggressiva di un’impresa possono cambiare le regole della concorrenza alle quali i manager
sono abituati e possono creare vantaggi competitivi per le imprese che sanno individuarli e sfruttarli. È un fenomeno noto
con il termine di sostituzione.
Value migration: sostituzione di un vecchio modello di business con uno nuovo;
Disruptive technologies: tecnologie che distruggono o stravolgono le strutture della competizione preesistenti;
Cambiamenti della struttura competitiva.
Nuovi concorrenti da un mercato vicino
I vantaggi competitivi possono essere indeboliti da pressioni esterne o dall’entrata di un concorrente che trasferisca
risorse e capacità da un mercato vicino.
L’inerzia, o paradosso di Icaro

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Esiste in ogni organizzazione una naturale tendenza a continuare quanto è stato fatto in passato. Il cambiamento comporta
sempre dei problemi, pertanto si afferma una naturale inerzia che ostacola l’adattamento a nuove condizioni e a un
ambiente mutevole.
Il paradosso di Icaro.
Miller sostiene che il paradosso può essere utilizzato anche a imprese di successo: alcune imprese sono tanto sicure di
avere individuato la chiave del successo da investire tutte le loro risorse finanziarie e specializzare le loro risorse umane
fino a perdere il contatto con la realtà del mercato. Presto o tardi saranno destinate al fallimento.
Miller identifica quattro categorie di imprese vittime del paradosso di Icaro:
Craftsmen: raggiungono il successo con la tecnologia. Ossessionati dall’innovazione tecnologica, diventano
presto prigionieri delle loro realtà, perdono di vista l’evoluzione della concorrenza e non riescono a vedere le
nuove opportunità;
Builder: hanno diversificato con successo e continuano con questa strategia ben oltre il punto in cui non conviene
più farlo;
Pionieri: si sono affermati grazie all’innovazione e procedono con questo obiettivo fermamente convinti che sia la
chiave del successo. Finiscono per immettere nel mercato prodotti che il compratore non chiede.
Venditori: sono convinti che la chiave del successo sia nel marketing. Pensano di poter vendere qualsiasi cosa e
finiscono con l’ignorare i nuovi prodotti, l’eccellenza nella produzione, la forza della qualità. Propongono gamme
d troppo estese di prodotti con prestazioni modeste.
Ignorare il cambiamento
Talvolta la perdita di vantaggio competitivo è originata dall’incapacità di prevedere un cambiamento nella struttura del
mercato determinato o da nuove tendenze dell’ambiente o da una nuova strategia dei concorrenti.
Non considerare la reazione dei rivali
Incapacità di capire e quindi prevedere le potenziali risposte dei rivali a una nuova
mossa dell’impresa.
9.3: l’erosione è diversa a seconda dei settori.
Nel processo di erosione Williams individua tre categorie di cicli, cui corrispondono determinate altrettante categorie di
settori o attività che sfruttano determinate risorse.
risorse con ciclo lento. Le imprese hanno vantaggi durevoli in quanto basati su risorse o capacità uniche,
profondamente innestate nell’organizzazione e fortemente protette dalla concorrenza. (brevetti, localizzazione
favorevole, forte notorietà della marca, relazioni strette tra compratore e fornitore)
Minacce: cambiamenti economico e sociale, dalla deregulation e da nuove tecnologie;
risorse con ciclo standard. Le imprese devono affrontare una forte concorrenza da parte di pochi rivali che
adottano le stesse strategie, basate sull’intensità del capitale investito o sul marketing di massa.
Poiché fondano le loro strategie sui grandi volumi, queste aziende hanno processi standardizzati e devono
coordinare attività distribuite in più organizzazioni, operano in aree di mercato circoscritte.
Risorse con ciclo rapido. Imprese che operano in un mercato il cui ciclo di vita del prodotto è breve, i margini di
profitto sono rapidamente ridotti dalla concorrenza ed esiste una sorta di moto perpetuo dell’innovazione e quindi
dell’obsolescenza, causata dall’introduzione di nuovi prodotti.
9.4: come sostenere a lungo vantaggio competitivo.
Per ridurre il cadere nelle trappole che possono indebolire il proprio vantaggio competitivo, un’impresa deve
intraprendere alcune azioni:
Costante attenzione agli elementi fondamentali di ogni vantaggio (efficienza, qualità, innovazione e capacità di
risposta alle esigenze del cliente).
Bisogna prestare attenzione costantemente all’ambiente generale e a quello competitivo in particolare così da
aumentare la capacità e la tempestività di risposta.
Individuare i metodi migliori di gestione del settore. Il modo più efficace per rinnovare l’impegno nella ricerca
delle migliori elementi fondamentali è quello di confrontarsi con i migliori, assumendo le loro prestazioni e i loro
sistemi come parametro di riferimento.
Vincere l’inerzia. La struttura organizzativa può contribuire a vincere questa inerzia:
1) il primo passo è capire quali sono le resistenze al cambiamento;
2) il secondo, affidato alla leadership e alla sua capacità, è aprire le strutture organizzative e i sistemi di
controllo a tale cambiamento.
Creazione di gruppi di lavoro dotati di autonomia o struttura organizzativa piatta.
Creare barriere all’imitazione del business model. La posizione di una impresa può essere difesa in vario modo:
- Economie di scale e di scopo: la prima difesa dall’imitazione è essere grandi in un particolare mercato o
segmento;
- Progresso continuo: l’impresa nel mercato riesce ad alzare ripetutamente il valore creato dai propri
prodotti o servizi nella percezione dei clienti;

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- Informazioni esclusive: evitare la diffusione delle informazioni circa le caratteristiche delle risorse
rappresenta una barriera. Se queste conoscenze sono protette, i rivali devono affrontare un mercato
imperfetto nel quale l’impresa già presente ha un forte vantaggio;
- Unicità: bloccare l’imitazione dando unicità alle risorse: un mercato geografico, un brevetto, relazioni
molto strette con i fornitori e/o clienti;
- Nascondere le fonti;
- Allungare i tempi: dell’imitazione;
- Freni dal passato: non sempre è facile cambiare le conseguenze di scelte fatte nel passato;
- Minacciare rappresaglie: riduzioni di prezzo, forti investimenti in ammodernamento di impianti o reti di
distribuzione, o ingenti spese in promozione;
Difese contro la sostituzione del business model. Le reazioni più frequenti alla sostituzione sono sei:
- Non rispondere: talvolta la strategia migliore è non fare nulla;
- Accettare lo scontro: è la risposta più frequente, si contrattacca per migliorare le prestazioni del modello
esistente;
- Abbracciare il nuovo: se non esistono alternative, la risposta può essere di abbracciare l’innovazione;
- Riconfigurazione: può essere preferibile utilizzare parte del nuovo per rivitalizzare quello vecchio;
- Difendere il vecchio e abbracciare il nuovo: nel breve periodo può dare buoni risultati difendere il
vecchio modello e contemporaneamente abbracciare il nuovo;
- Mietere: all’impresa non resta che raccogliere il massimo del risultato e abbandonare.
9.5: l’azione dello Stato.
In alcuni settori l’arena competitiva, le fonti e la durabilità dei vantaggi competitivi sono fissati dalle autorità economiche,
dipendono quindi dalle politiche dello Stato.
L’impresa deve poter interpretare gli orientamenti dell’azione dello Stato e prevedere quali saranno i potenziali effetti
sulla competizione.
Esistono però dei modelli di evoluzione che, se interpretati, possono assistere il management nell’anticipare il futuro:
1) Il primo è la tendenza generale dei governi a riformare la struttura dell’economia attraverso la deregulation e la
privatizzazione;
2) Il secondo, in parte contrario al primo, è il maggiore impegno dello Stato nella difesa dei diritti dei soggetti più
deboli e nella protezione dell’ambiente.
La teoria della contendibilità
Fornisce un modello per anticipare gli effetti della deregulation; l’idea di fondo è quella di disaggregare un settore in più
mercati e per ciascuno di questi cercare di determinare quali effetti avrebbe la competizione se esistessero condizioni di
libera entrata e uscita dal mercato.
9.6: ipercompetizione e vantaggi competitivi.
Negli anni novanta sono nate imprese che hanno adottato strategie molto aggressive tali da erodere quei vantaggi
competitivi tradizionali.
Le cause
Le cause all’origine dell’Ipercompetizione sono:
a) Il progresso tecnologico incessante;
b) La competizione globale;
c) La domanda che, in molti settori, emerge e svanisce rapidamente;
d) La ristrutturazione e riconversione di molte strategie, che cambiano dunque la loro capacità e il loro modo di
competere;
e) La deregulation;
f) La privatizzazione di molti settori un tempo riservati alle organizzazioni pubbliche dello Stato.
Come si manifesta.
Per scatenare una ipercompetizione è sufficiente che nell’arena competitiva entri una sola impresa – attraverso i varchi
creati dalle cause – con l’intento di imitare e superare un vantaggio costruito in precedenza dalle imprese presenti nel
mercato. A sua volta, le imprese già presenti iniziano a reagire all’erosione del vantaggio competitivo costruendo nuovi
vantaggi e a ciò risponde l’attaccante costruendo ulteriori vantaggi.
Come rispondere.
La reazione a una mossa di chi attacca o contrattacca deve essere anticipata. Secondo D’Aveni, riguardo alla costruzione
e la difesa di vantaggi competitivi occorre un nuovo modo di pensare.
Nessun vantaggio competitivo resiste. Nel modello tradizionale è possibile difenderlo ma nell’ipercompetizione
i vantaggi hanno breve durata, svaniscono rapidamente non appena un concorrente li imita e cerca di superarli;
Difendere un vantaggio può indebolire. Difendere un vantaggio in funzione di un attacco potrebbe dar tempo a
un concorrente di organizzarsi, imitare e acquisire quote di mercato, oppure potrebbe diffondere
nell’organizzazione un senso di autocompiacimento che resiste alle innovazioni;

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L’obiettivo è distruggere, non difendere. Nello scenario della ipercompetizione l’obiettivo della strategia è
distruggere lo status quo – prima che il vantaggio venga eroso dai concorrenti - e prendere l’iniziativa creando
vantaggi temporanei.
Tre principi.
L’ipercompetizione è in sostanza la negazione dei modelli statici:
In un ambiente che cambia lentamente (staticità), il vantaggio competitivo sostenibile a lungo è il principale
obiettivo
In un cambiamento rapido (ipercompetività), l’obiettivo è distruggere i vantaggi competitivi esistenti e crearne
continuamente di nuovi battendo sul tempo i concorrenti.
Questa visione dinamica è basata su tre principi:
1) Ogni strategia deve incorporare le risposte dei concorrenti a un’azione dell’impresa che attacca. Bisogna reagire
alle mosse degli avversari i una rapida serie di mosse e contromosse.
2) La posizione competitiva di un’impresa e la sostenibilità dei suoi vantaggi è sempre in rapporto alle azioni dei
concorrenti.
3) La posizione strategica di un’impresa non è in rapporto soltanto alle strategie dei concorrenti nel breve periodo:
occorre abbracciare un periodo lungo di interazioni tra concorrenti.

PARTE QUARTA: LE STRATEGIE CORPORATE


CAP. 10: LE STRATEGIE CORPORATE IN UN’IMPRESA SINGLE-BUSINESS
10.1: single-business e multibusiness.
Corporate significa impresa e la corporate strategy o strategia corporate è quella che il management formula per l’intera
organizzazione. Se l’impresa si identifica in una sola business unit, la strategia corporate coincide con la strategia
business, ma se l’impresa opera o intende operare in più business avrà probabilmente più strategie, anche molto diverse
tra loro. Ruolo del corporate è fissare le basi per le scelte strategiche anche per il livello business e per il livello
funzionale.
Dunque, la distinzione tra organizzazione single-business e organizzazione multibusiness è importante perché agisce sulla
scelta delle strategie, su come vengono realizzate e gestite. Se l’impresa si identifica in una sola business unit, adotta
strategie competitive, con cu la business unit stessa affronta il proprio ambiente concorrenziale; se invece è composta da
più business unit si parla di strategia corporate in un’impresa multibusiness, strategia che riguarda l’insieme di più SBU,
che possono anche non coincidere con impese giuridicamente distinte, ma sono legate da vincoli di capitale e sotto un
governo unitario.
10.2: un ventaglio di opzioni strategiche.
La maggior parte delle imprese comincia la propria attività in un solo settore e in un solo business, ma se raggiungono
grandi dimensioni è molto probabile che in qualche misura abbiano diversificato, verso valle nella distribuzione e/o verso
monte nelle forniture. La presenza in un solo settore comporta:
vantaggio – specializzazione, che si può tradurre in una migliore offerta di prodotti e servizi e in una maggiore
efficienza operativa;
svantaggio – concentrare le risorse in un unico settore può aumentare la vulnerabilità dell’impresa all’andamento
del ciclo economico.
L’impresa può anche sfruttare le opportunità che si presentano in altri settori, infatti può adottare una diversificazione
correlata, entrando in business complementari o simili a quelli in cui opera, o una diversificazione non correlata,
spingendosi in settori che non hanno analogie o complementarietà.
Supponendo che l’impresa operi unicamente in un settore, attraverso la combinazione di due fattori: da un lato
l’attrattività del settore e dall’altro la propria posizione competitiva, è possibile individuare varie opzioni per le strategie
corporate riconducibili a tre categorie:
strategie di sviluppo – che comprendono sia la concentrazione all’interno del settore in cui l’impresa opera (celle
1,2 e 5) sia la diversificazione attraverso la quale lo sviluppo è generato al di fuori del settore (celle 7 e 8);
strategie di stabilità – (celle 4 e 5), che indicano come l’impresa possa perseguire la mission e gli obiettivi attuali
senza un significativo cambiamento nelle strategie;
strategie di contrazione – (celle 3, 6 e 9), a indicare le vie che l’impresa può adottare per ridurre il campo di
azione.
Hunger, Flynn e Wheelen (1990) hanno proposto una matrice che può essere utilizzata come modello per individuare le
varie opzioni:

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10.3: le strategie di sviluppo.

Fin dal primo stadio di vita, la conquista dei mercati, la necessità di creare spazi all’interno dell’organizzazione ai
collaboratori e il lancio di prodotti nuovi sono una spinta inarrestabile che comporta quasi sempre la ricerca di maggiori
dimensioni.
Quando il business giunge ad un determinato stadio di crescita si pone sempre il problema di stabilire se sia utile
continuare nello sviluppo e quindi stabilire in quale direzione continuare: nel settore in cui l’impresa è già presente o in
altri settori? In quali investire risorse e con quali strategie?
Le due strategie principali sono:
concentrazione in un solo settore – opzione adottata quando il ritmo di espansione o altri fattori rendono
particolarmente attraente il settore;
diversificazione in più settori – attuata quando invece il settore in cui l’impresa opera non ha sufficiente
attrattività e in genere preferita dalle imprese a bassa redditività.
Concentrazione
Se l’impresa decide di concentrare le risorse in attività che svolge può scegliere fra:
integrazione verticale – ossia muovere lungo la linea che idealmente unisce le fonti di materie prime e di altri
fattori della produzione alla distribuzione finale;
integrazione orizzontale – cioè estendere l’attività che svolge in altri mercati geografici, oppure acquistare
concorrenti che svolgono le stesse attività, oppure stringere alleanze.
Concentrazione attraverso l’integrazione verticale (cella 1 del modello)
Si può realizzare “a monte” se l’integrazione avviene verso le fonti di materie prime, o “a valle” verso i mercati di
consumo finale. L’obiettivo può essere di eliminare le incertezze legate all’approvvigionamento di materie prime e
semilavorati (verso “monte”), oppure di dare stabilità ai flussi di vendita (verso “valle”).
Incorporando le imprese fornitrici o clienti si mira a sostituire la pianificazione ai
mercati intermedi, traendo vantaggi da una maggiore armonia dei flussi di
produzione e dalla maggiore efficienza dei controlli di qualità.
Harrigan (1984) ha individuato quattro tipi di integrazione verticale:
integrazione totale;
integrazione parziale (l’impresa integra verticalmente per controllare una parte della produzione e acquista
dall’esterno la parte rimanente);
quasi integrazione (l’impresa controlla parte del capitale del fornitore esterno);
contratti di lungo termine.
Concentrazione attraverso l’integrazione orizzontale (celle 2 e 5 del modello)
L’impresa può estendere l’attività ad altre aree geografiche o aumentare la gamma dei prodotti offerti nei mercati in cui è
già presente. Può acquisire quote di mercato, stabilimenti di produzione, reti di distribuzione ecc.

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L’integrazione orizzontale avviene dunque tra imprese o business unit che si trovano nel medesimo stadio della
produzione e della distribuzione, e i cui prodotti hanno le medesime caratteristiche dal punto di vista del consumatore:
vantaggi:
- espansione territoriale;
- specializzazione e coordinamento tra linee di prodotti;
svantaggi:
- prodotti di una stessa impresa che si contendono gli stessi mercati;
- l’aver concentrato le risorse in un solo settore, comporta un aumento dei rischi.
Es. Peugeot acquisì Citroën,1974; mentre nel 1978 acquisì le filiali europee della Chrysler, alle quali diede il marchio
Talbot.
Diversificazione
La diversificazione può essere costruita gradualmente intorno a un nucleo centrale: stessi clienti, stessi mercati ecc,
oppure massimizzare il valore per i clienti.
Obiettivo: realizzare sinergie
Due business generano sinergie quando la creazione di valore ottenuta dall’integrazione è superiore a quella che potrebbe
essere ottenuta restando separati.
Diversificazione concentrica (cella 7 del modello)
Quando l’impresa ha una forte posizione competitiva in un settore a bassa attrattività, la diversificazione in altri settori
può essere una strategia di successo.
Sfruttando le risorse e le capacità che sono alla base della posizione competitiva, l’impresa diversifica in nuovi settori nei
quali sia possibile applicare le competenze distintive acquisite, al fine di realizzare sinergie.
La diversificazione concentrica prende avvio da un nucleo centrale che costituisce il punto di forza attorno al quale
gradualmente si completa una cerchia di attività complementari; il nucleo può essere rappresentato dalla tecnologia, dai
prodotti o dai servizi, dalla presenza in più mercati geografici, dai segmenti clienti, da una rete distributiva efficiente.
Diversificazione conglomerata (cella 8 del modello)
Dall’applicazione di questa strategia deriva un complesso di imprese che non hanno tra di loro legami riguardanti i
prodotti, la tecnologia o altri caratteri:
l’unico legame esistente è il fatto di far capo alla stessa holding che controlla il capitale. La scelta di una strategia di
questo tipo può essere ispirata da obiettivi molto diversi:
necessità di affiancare imprese che dispongono di forte liquidità ad altre che hanno un buon potenziale, ma che
non dispongono di mezzi liquidi;
a volte si cerca di compensare l’andamento ciclico di un settore con la presenza in altri di segno opposto.
La diversificazione conglomerata conviene quando è stata individuata un’impresa che ha un potenziale economico non
adeguatamente sfruttato e quando l’acquirente presume di essere in grado di creare valore, aumentando l’efficienza o
ristrutturando o creando sinergie di gruppo.
10.4: le strategie di stabilità.

Dopo una fase di forte sviluppo, nel corso della quale l’impresa ha acquisito una buona posizione competitiva, il futuro si
presenta incerto o la crescita si interrompe, attendere gli eventi è la strategia migliore. Lo stesso lo si può dire per una
situazione in cui l’ambiente competitivo sia rapidamente diventato incerto, dominato da minacce incombenti.
Si possono individuare due principali strategie generiche:
rinunciare allo sviluppo nel breve termine e restare in attesa, avendo una buona posizione competitiva, evitando di
correre rischi con nuovi investimenti;
non cambiare le strategie, in attesa che sia la domanda sia il contesto competitivo assumano una configurazione
più chiara (propensi all’abbandono).
Attesa da buona posizione (cella 4 del modello)
Se l’impresa ha una buona posizione competitiva, ma il settore è entrato in una fase di stagnazione e la sua attrattività è
modesta anche perché l’ambiente è molto turbolento, secondo Wheelen e Hunger l’impresa ha due possibilità:
guardare all’interno – l’impresa non rinuncia allo sviluppo, ma preferisce attendere e investire al proprio interno,
migliorando l’organizzazione, riducendo i costi fissi e aumentando l’efficienza dei processi di gestione;
procedere con cautela – indica una situazione in cui l’ambiente competitivo e la domanda possono rapidamente
cambiare. Se si presume che possano in breve tempo emergere o buone opportunità o forti minacce, l’impresa non
prende rischi e attende che l’incertezza diradi.
L’espressione “procedere con cautela” indica una strategia in risposta a un ambiente fortemente competitivo e
intensamente dinamico.
Attesa da posizione debole (cella 5 del modello)

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La stabilità può essere suggerita anche da una situazione in cui l’impresa ha una modesta posizione competitiva in un
settore di media attrattività, ed è propensa all’abbandono. Wheelen e Hunger (1995) distinguono due strategie:
nessun cambiamento – esprime una strategia di attesa dettata da eventi negativi di cui non si conoscono ancora le
conseguenze. Se incombe la minaccia di entrata nel mercato da parte di un concorrente dotato di forti risorse,
l’impresa può attendere che la minaccia si configuri;
profit strategy – consiste nel rinviare o ridurre spese di R&S, di manutenzione, di pubblicità e altre al fine di
stabilizzare i profitti. Se l’impresa ha modesta capacità di competere e se il settore entra in una fase di modesta
attrattività, le vendite e i profitti ristagnano o cominciano a scendere. Lo scopo della strategia è quello di superare
le difficoltà temporanee e rendere attraente l’eventuale acquisto da parte di altre imprese.
10.5: le strategie di contrazione.

Durante i periodi di recessione economica e di crisi si presenta al corporate la necessità di valutare se convenga ridurre la
presenza in un segmento, in un mercato o nel settore. Le scelte dipendono ancora una volta dal responso dell’analisi
SWOT: forze e debolezze dell’impresa, minacce e opportunità provenienti dall’ambiente.
La strategia di contrazione è caratterizzata da due fasi:
prima fase – il corporate cerca di migliorare l’efficienza riducendo i costi, migliorando la produttività, riducendo
il personale, chiudendo gli impianti obsoleti ecc.;
Se la situazione rimane difficile?
seconda fase – il corporate ha di fronte tre opzioni:
- avvia un turnaround o inversione di marcia;
- rinuncia a competere e mette l’impresa in posizione captive oppure la vende;
- decide di abbandonare il settore, esce dal mercato: fallimento o liquidazione.
La contrazione può essere una strategia di breve termine, destinata a essere rapidamente abbandonata, oppure anche una
scelta di lungo periodo.
Turnaround (cella 3 del modello)
È la strategia indicata per una situazione in cui il settore ha buona o forte attrattività e l’impresa ha perso capacità
competitiva, ma valuta di poterla recuperare. Robbins e Pearce (1992) hanno distinto due stadi del turnaround che in parte
si sovrappongono:
ritirata (retrenchment) – fase iniziale del turnaround e mira a fermare il declino, a stabilizzare la situazione.
Consiste nel ridurre i costi e gli investimenti in rapporto ai ricavi. Ha un orizzonte di breve termine e agisce per lo
più sulle strategie funzionali mentre quelle competitive non cambiano. Le politiche adottate dipendono dalle
cause del declino, in genere riguardano due aree principali:
- la riduzione dei costi, con le varie possibilità di abbassare i costi nella catena del valore: pubblicità,
lavoro, R&S;
- la riduzione delle attività di bilancio e ristrutturazione dei debiti, al fine di abbassare gli oneri finanziari.
recupero – l’impresa riacquista gradualmente le posizioni che aveva prima della crisi. L’attenzione si sposta dalla
riduzione dei costi agli obiettivi di sviluppo: riposizionamento di prodotti e servizi, nuovi prodotti e servizi, nuovi
mercati.
Impresa captive o cessione (cella 6 del modello)
Se la posizione competitiva è debole in un settore stagnante o in declino, l’impresa può non essere in grado di avviare o
non voler avviare una strategia di turnaround e affronta la scelta tra assumere una posizione captive o cedere:
captive – l’impresa si trasforma in un’impresa captive, cioè un subfornitore nei confronti dei maggiori clienti,
proponendo contratti di lungo termine. L’impresa così riesce a ridurre i costi di alcune funzioni che richiedono
forti investimenti come il marketing e la R&S, ma sacrifica la propria indipendenza;
cessione – quando la capacità competitiva non è recuperabile e si prevede che il settore sia condannato al declino,
la risposta può essere vendere a un’altra impresa che abbia avviato una strategia di integrazione orizzontale e che
presuma con l’acquisto di creare sinergie. Dal canto suo, chi vende valuta il prezzo ottenuto dalla vendita, anche
se basso, possa essere superiore al rischio di un turnaround mal riuscito;
cessione parziale - quando un’impresa si trova in una fase di stagnazione o contrazione del mercato e non vuole
abbandonare del tutto il mercato, può operare una cessione parziale.
Abbandonare (cella 9 del modello)
Quando le condizioni del settore sono disastrose e la posizione competitiva è molto debole, difficilmente è possibile
trovare un compratore dell’impresa. La scelta è l’abbandono.

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fallimento – è una fase molto difficile, che raramente il management percorre perché significa riconoscere di
avere fallito la propria missione. L’iter di riferimento è differente da un paese all’altro, anche se in una prima fase
l’impresa chiede di essere “protetta” dalle richieste dei creditori e tenta la ripresa;
liquidazione – è una alternativa al fallimento, consiste nello smembramento delle varie attività e la loro vendita;
al termine delle operazioni di liquidazione l’impresa cessa di esistere. Quando la vita di un’impresa si prolunga in
condizioni molto difficili, in presenza di forti perdite, ne derivano gravi danni, perché la reputazione del
management peggiora e la gestione assorbe risorse del gruppo senza possibilità di recupero.

CAP. 11: INTEGRAZIONE VERTICALE E INTEGRAZIONE ORIZZONTALE


11.1: le strategie dell’integrazione verticale.
L’integrazione verticale è una strategia di sviluppo con la quale l’impresa cerca di acquisire il controllo sui propri input (a
monte) o sui propri output (a valle) o su entrambi. L’integrazione verticale riguarda i confini dell’impresa.
Per convenienza si dice che l’attività di produzione è un flusso che muove dai fornitori di materie prime situati a monte
rispetto all’impresa verso gli intermediari e i distributori situati a valle.
Uno dei primi problemi che ogni impresa affronta è stabilire quali attività svolgere all’interno della catena verticale e
quali attività lasciare ad altre imprese. È il problema noto come make-or-buy. La soluzione è nello stabilire quali benefici
e quali costi comporti il ricorso al mercato.
L’integrazione verticale è preferita quando il costo sostenuto per organizzare al proprio interno determinate attività è più
basso di quello che occorrerebbe sostenere per organizzare un sistema di rapporti con imprese esterne.
L’integrazione può essere:
Totale: quando l’impresa produce tutti gli input necessari per il proprio processo produttivo o quando dispone di
tutti gli output necessari per le proprie attività;
Parziale: quando compra da fornitori indipendenti parte degli input, oppure quando utilizza per gli output anche
imprese indipendenti.
I vantaggi
Con la strategia di integrazione verticale l’impresa mira a rafforzare la posizione competitiva del business o dei business
in cui già opera.
Vari sono i motivi spingono l’impressa a questa scelta:
Alzare barriere: l’integrazione verticale è un mezzo per alzare barriere ai concorrenti che intendano entrare nel
mercato o ingrandirsi. Un’impresa può in questo modo bloccare l’accesso a un fattore scarso di produzione.
Ridurre i rischi degli investimenti: l’integrazione verticale rende più facili e più sicuri gli investimenti in attività
specializzate, con il risultato di migliorare l’efficienza .
Proteggere la qualità: attraverso l’integrazione verticale a monte l’impresa può meglio controllare la qualità dei
componenti e quindi la qualità del prodotto o del servizio finale. Analogamente, il produttore che integra a valle
distribuendo attraverso un’impresa di cui ha il controllo può meglio garantire determinati standard di servizi di
vendita e post-vendita ai compratori.
“Sopprimere un mercato”: con l’integrazione verticale l’impresa internalizza un mercato in cui un fornitore o un
cliente ha un potere tale da agire sul prezzo in misura sensibile.
Facilitare la programmazione: attraverso l’integrazione verticale è più facile programmare e coordinare, ciò
significa avere maggiori capacità di rispondere rapidamente a improvvisi cambiamenti della domanda.
Stimolare la domanda: in vari casi imprese che producono materie prime, semilavorati o componenti hanno
stimolato la domanda dei loro prodotti attraverso l’integrazione verticale.
Investire in risorse in eccesso: se il mercato originario è ormai saturo e l’impresa dispone di risorse finanziarie,
umane e tecnologiche particolarmente specializzate nel settore, il modo più semplice e meno rischioso di
utilizzarle può consistere nell’integrare a monte oppure a valle, con l’obbiettivo di ridurre l’incertezza dei
mercati, stabilizzare i prezzi e la qualità delle materie prime e dei semilavorati acquisiti e, in definitiva,
raggiungere una posizione di maggiore forza nei confronti della concorrenza, dei fornitori e dei clienti.
Gli svantaggi
Come ogni strategia, anche l’integrazione verticale ha una serie di svantaggi:
Svantaggi di costo: spesso gli stessi componenti o gli stessi servizi prodotti lungo la catena verticale possono
essere ottenuti a prezzi più bassi da imprese esterne.
Cambiamenti nella tecnologia: se l’innovazione tecnologica è rapida, l’integrazione verticale può esporre
l’impresa a forti rischi di obsolescenza, perché la rende meno propensa a cambiare fornitori o distributori per
aggiornare le tecnologie.
Difficoltà di prevedere la domanda: se la domanda è stabile, l’integrazione verticale può essere agevolmente
gestita. Quando però la domanda è instabile e non prevedibile, il coordinamento lungo la catena verticale può
essere difficile.
Reazioni negative dei clienti: l’impresa che integra verticalmente a valle entra in concorrenza con i propri clienti,
che per rappresaglia possono abbandonarla e farle perdere quote di mercato. Se integra a monte vi sono poche
possibilità di rendere i nuovi mercati tra loro indipendenti, quindi cresce il rischio che un calo della domanda in
uno stadio si propaghi a tutta la catena verticale.
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Tramonto e “revival” di una strategia


Fino agli anni Settanta nelle economie europee chiuse allo scambio internazionale era la regola che una grande
impresa mirasse a controllare sia le fonti di approvvigionamento di materie prime e di componenti sia in tutto o in
parte i canali della distribuzione, in quanto l’integrazione verticale dava i vantaggi della stabilità nella
programmazione dei volumi di attività nei veri stadi e aumentava il potere di negoziazione verso l’esterno.
Oggi la scena è cambiata l’apertura delle frontiere spezza molte posizioni dominanti e lo sviluppo di imprese
specializzate mette sul mercato componenti che hanno qualità migliori e prezzi più bassi rispetto a quelli prodotti
lungo la catena verticale.
L’integrazione verticale mantiene comunque i suoi principi, ma è applicata soltanto a parti della catena. Le imprese così,
ricorrono sempre più a soluzioni alternative per diverse ragioni:
a) L’integrazione verticale rende più complessa l’organizzazione e spinge l’impresa in campi nuovi;
b) Per realizzare con successo l’integrazione verticale occorrono forti risorse finanziarie;
c) Le imprese integrate verticalmente sono più vulnerabili alle innovazioni realizzate nei settori contigui. Ossia
avendo concentrato le loro risorse su determinate tecnologie o prodotti, non sempre riescono a interpretare
tempestivamente il cambiamento che sta avvenendo in settori con i quali hanno in comune tecnologie o clienti;
d) Nel realizzare l’integrazione verticale, è difficile equilibrare la capacità produttiva dei vari comparti.
11.2: le alternative all’integrazione verticale.
Fin’ora abbiamo considerata l’integrazione verticale comune una scelta obbligatoria dell’impresa, in quanto essa o si
rivolge ad altre imprese oppure integra verticalmente e svolge direttamente una certa attività.
Ma in realtà esistono una serie di soluzioni alternative:
1) Integrazione parziale;
2) Alleanze strategiche e join venture;
3) Relazioni informali tra compratore e venditore;
4) Relazioni di lungo termine.
Integrazione parziale
Un’impresa lungo la propria catena verticale può in parte integrare e in parte acquistare sul mercato, attuando
quindi un’integrazione parziale. Forma tipica di integrazione parziale è l’outsourcing, dove un’impresa affida
all’esterno produzioni che in precedenza face al proprio interno.
I vantaggi che tale integrazione porta all’impresa sono innanzitutto che può aumentare i volumi degli input o degli
output con pochi investimenti rispetto a quanto farebbe con l’integrazione verticale; un ulteriore vantaggio sta nel
fatto che può usare le informazioni circa i costi e la redditività dei propri canali interni per negoziare contratti con
le imprese esterne; infine ulteriore vantaggio risiede nel fatto che può sviluppare capacità interne a monte nella
catena verticale per proteggersi contro eventuali fallimenti dei fornitori;
Gli svantaggi che invece risiedono nell’attuare un’integrazione parziale sono nel fatto che ripartire la produzione
tra l’interno e l’esterno può impedire di raggiungere economie di scala e dare origine a problemi di
coordinamento, riguardo a specifiche di produzione e tempi di consegna.
Alleanze strategiche e join venture
Per alleanza strategica si intende un accordo si cooperazione di lungo termine tra l’impresa e uno o più partner.
Mantenendo la propria indipendenza, le imprese alleate collaborano in una data attività di ricerca, produzione o
distribuzione oppure si scambiano informazioni. Le alleanze possono essere:
Orizzontali, quando la collaborazione è tra imprese dello stesso settore;
Verticali, quando la collaborazione è tra un fornitore e un compratore.
Possono comunque esistere alleanze tra imprese che non appartengono né alla stessa catena verticale né allo stesso
settore.
Es. American Express-Microsoft: la prima ha conferito il suo know-how nella gestione delle carte di credito e nei viaggi,
la seconda il software.
La join venture è un particolare tipo di alleanza strategica nella quale due o più imprese forniscono il capitale di una
nuova organizzazione indipendente e ne controllano la gestione. Tale soluzione appare efficace quando si presentano tre
condizioni:
1) Per avere successo nello sviluppo di nuovi prodotti;
2) Per ciascuno dei partner sviluppare in proprio le esperienze necessarie comporta costi troppo elevati;
3) Sviluppo di nuovi prodotti, produzione e marketing comportano uno stretto coordinamento tra esperienze in aree
diverse.
Relazioni informali tra compratore e venditore
Il sistema industriale giapponese offre alcuni esempi di accordi di collaborazione lungo la catena verticale. In questo
paese la catena verticale è organizzata lungo un sistema complesso di relazioni informali che assumono due forme
principali.
1) Subfornitori: con i quali le relazioni sono improntate a collaborazioni di lungo periodo e alla delega per attività
critiche;
2) Keiretsu: molto simile alla rete di sub fornitori, ma con legami formali tra le varie organizzazioni.

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Relazioni contrattuali
Entro certi limiti i vantaggi dell’integrazione verticale possono essere ottenuti attraverso accordi con altre imprese senza
sostenere costi di organizzazione rilevanti.
Contratti di breve: molte imprese stipulano con i loro fornitori contratti di durata inferiore ad un anno, che alla
scadenza vengono nuovamente negoziati. Il vantaggio sta nel fatto a costringere i fornitori a tenere i costi bassi.
Ma in una situazione di questo genere i fornitori difficilmente investiranno in attività specializzate che possano
migliorare la qualità dei componenti.
Contratti di lungo termine: sono accordi di cooperazione con i quali un’impresa si impegna a fornire beni o
servizi a un’altra impresa, che a sua volta si impegna a continuare a comprarli dalla prima. Mirando ad abbassare
i costi di produzione o a migliorare la qualità.
Contratti impliciti: si tratta di accordi non scritti tra le parti per regolare un’attività economica, ma che non
hanno forza di contratto. Le parti creano così meccanismi alternativi per dare stabilità all’accordo e il
meccanismo più semplice consiste nello stabilire che il mancato rispetto dei patti comporta per il fornitore la
perdita del cliente in futuro.
Relazioni di lungo periodo
Se una delle due imprese che partecipano all’accordo deve fare rilevanti investimenti in attività specializzate la cui
produzione può essere acquistata soltanto dal partner, sorge il problema di dare stabilità all’alleanza strategica, ossia
riconoscere garanzie per chi investe. Per ridurre il rischio che il partner receda dall’accordo, l’impresa può adottare in
sostanza le seguenti strategie:
1) Presa di ostaggio: per creare una mutua dipendenza tra i due partner;
2) Impegno credibile: accordo basato su condizioni che rafforzino lo sviluppo di relazioni di lungo termine tra
imprese;
3) Mantenere lo stimolo del mercato: introducendo strumenti per stimolare il partner a migliorare costantemente
l’efficienza.
11.3: le strategie di integrazione orizzontale.
L’integrazione orizzontale è una strategia di sviluppo con la quale le attività di un’impresa vengono ampliate
attraverso l’unione (acquisto o alleanza) con un’altra impresa che svolge le stesse attività (in precedenza era una
concorrente).
Tale strategia risponde alla tendenza di concentrare l’attività in un minor numero di imprese, facendo in modo che
l’impresa resta nel settore/mercato originario, ma acquisisce la possibilità di allargare la quota di mercato e
rafforzare la sua posizione rispetto ai rivali.
Tale strategia, che a prima vista può sembrare semplice, visto che il management conosce il mercato, può molto
spesso fallire per diversi motivi. Però quando riesce può cambiare il panorama della concorrenza e la struttura di
interi settori.
I motivi che spingono ad effettuare un’integrazione orizzontale sono vari, e tra i più importanti è ottenere
economie di scala, oppure una strategia di sviluppo in un nuovo mercato o una strategia di difesa dall’attacco di
un rivale.

CAP. 12: LA DIVERSIFICAZIONE


12.1: una decisione difficile.
Molte forze spingono le imprese verso lo sviluppo e le strategie principali sono due: concentrazione in un unico settore
oppure diversificazione in più settori.
Per diversificazione si intende l’entrata di un’impresa o di una business unit in una nuova linea di attività, attraverso lo
sviluppo interno oppure attraverso acquisizioni o alleanze (Ramanujam, Varadarajan, 1989).
Fino a quando un’impresa ha opportunità di sviluppo nel settore in cui è presente, questa strategia non è considerata
necessaria, a meno che:
serie minacce si profilano all’orizzonte;
l’impresa abbia capacità che possono essere trasferite con sicuro successo in un business di altri settori.
Diversificare o non diversificare? La scelta deve tener conto del potenziale futuro sviluppo del settore, dell’attrattività dei
settori in cui si intende diversificare, dei costi e dei benefici che ne derivano, della capacità del management di gestire
attività nuove e anche delle possibili reazioni dei rivali.
Quali siano i vantaggi delle diversificazione è questione controversa, e quanto alla creazione (o distruzione) di valore,
sembra dimostrato che raramente una diversificazione crei valore per gli azionisti, a causa di costi eccessivi di acquisto,
obiettivi errati e sinergie che non si realizzano. La scelta è dunque difficile e implica una serie di considerazioni e
decisioni strategiche in cui l’impresa affronta tre questioni principali:
1) Quale diversificazione adottare: correlata o non correlata;
2) Come entrare in un nuovo settore/mercato;
3) Come allocare le risorse tra più business unit.
12.2: i vantaggi: una questione controversa.

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Se la diversificazione crei valore o meno, è una questione controversa. È possibile diversificare per raggiungere diversi
obiettivi:
1) Sviluppo dell’impresa;
2) Sinergie finanziarie;
3) Stabilità dell’impresa e dei profitti;
4) Economie della grande dimensione ed economie di scopo;
5) Acquisire tecnologie o management qualificato;
6) Trasferire competenze;
7) Fronteggiare la concorrenza;
8) Investire risorse in eccesso;
9) Interessi del management.
Sviluppo dell’impresa
Lo sviluppo è il mezzo ritenuto più sicuro di garantire la sopravvivenza dell’impresa e abbiamo osservato come
l’espansione, oltre a risolvere molti problemi di adattamento delle strutture organizzative, possa creare un clima
favorevole (di euforia) che può contribuire ad aumentare l’efficienza della gestione. Le ricerche sulle relazioni esistenti
tra diversificazione e tassi di sviluppo nei settori originari e in quelli verso i quali l’impresa intende muovere hanno
dimostrato che:
1) I nuovi ingressi di imprese sono più frequenti nei settori ad alto tasso di sviluppo;
2) Il rallentamento nell’attività principale dell’impresa è uno stimolo potente alla diversificazione;
3) Se si confronta il tasso di sviluppo del settore d’ingresso con quello del settore di partenza, il primo risulta
superiore al secondo.
Sinergie finanziarie
Il successo dello sviluppo nel lungo termine di un’impresa impone un portafoglio di business unit che garantisca un cash
flow adeguato e stabile per finanziare le nuove attività. La diversificazione può essere un mezzo per finanziare lo
sviluppo. Oltre a creare cash flow, il corporate può utilizzare i profitti provenienti da un business per finanziare un altro
business. Questo obiettivo è tra i più contestati e l’argomentazione critica parte dal fatto che gli azionisti di un’impresa
possono facilmente diversificare il proprio portafoglio personale (di azioni).
Stabilità dell’impresa e dei profitti
Un altro obiettivo della diversificazione è evitare fluttuazioni profonde nei profitti. Oltre ad abbassare l’efficienza della
gestione, queste fluttuazioni hanno effetti negativi sulla pianificazione degli investimenti e sulla propensione degli
azionisti a conservare la loro partecipazione al capitale dell’impresa (nonché su quella dei potenziali azionisti ad
assumerla).
Economie della grande dimensione ed economie di scopo
Se con l’acquisto di un’impresa è possibile ottenere un’efficienza totale superiore a quella che le due imprese
avevano separatamente, se altrettanto avviene con una joint venture o con lo sviluppo per le linee interne, si dice
che la diversificazione consente di raggiungere le economie di scala proprie della grande dimensione.
Quando due o più business unit utilizzano le stesse risorse, come impianti di produzione, canali della
distribuzione, campagne pubblicitarie, costi di ricerca e sviluppo, emergono economie di scopo. Questa strategia
può realizzare contemporaneamente anche economie di scala, allorché le risorse possono essere utilizzate al
meglio (es. Gilette acquista Duracell).
Acquisire tecnologie o management qualificato
Attraverso la diversificazione il corporate intende assicurarsi le conoscenze tecnologiche o le capacità organizzative di cui
altre imprese dispongono, al fine di realizzare un progetto di ampio sviluppo. Specialmente nei settori a tecnologia
avanzata, il modo migliore per colmare una lacuna in una strategia di espansione consiste nell’incorporare altre imprese
con determinate specializzazioni (es. Olivetti incorpora Underwood).
Trasferire competenze
Questo obiettivo può essere realizzato principalmente in due modi:
1) cercando imprese che abbiano funzioni simili – produzione, marketing, gestione dei materiali e R&S – e
attraverso le quali sia possibile creare valore. Le capacità dell’impresa che acquista possono poi essere trasferite
per creare competenze distintive in una o più di queste funzioni, al fine di migliorare la posizione competitiva;
2) acquisendo un’impresa in un business non correlato, con il presupposto di riuscire a migliorare l’efficienza nelle
attività che creano valore, il tutto attraverso una migliore gestione (che sfrutta le esperienze dell’impresa
acquirente).
Il trasferimento di competenze può assumere due effetti:
1) abbassare i costi di creazione del valore in una o più delle imprese acquisite;
2) mettere una o più delle imprese acquisite in condizione di creare valore, in modo da differenziarsi rispetto ai
concorrenti e poter applicare un premium price.
Fronteggiare la concorrenza
Lo stimolo alla diversificazione può provenire dal timore di soccombere alla concorrenza, e far parte quindi di una
strategia difensiva, ma può anche essere un mezzo per battere la concorrenza, rientrando così in una strategia di tipo di
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aggressivo. L’obiettivo di dare al cliente un servizio più ampio è una strategia alla quale ricorrono sempre più
frequentemente le imprese ed è anche una spinta alla diversificazione.
Investire risorse in eccesso
La disponibilità di risorse finanziarie (provenienti da utili non distribuiti, dalla vendita di pacchetti azionari o dal più
facile accesso che i grandi gruppi hanno ai mercati finanziari nazionale e internazionali) e l’aumento della
capitalizzazione di mercato (che favorisce i rapporti di scambio di pacchetti azionari) possono costruire una spinta alla
diversificazione, così come può esserlo il disporre di capacità di management in misura superiore a quella richiesta dal
settore in cui si opera.
Interessi del management
Il management può mirare allo sviluppo più per vantaggi derivanti dal gestire un’impresa in crescita che per l’interesse
degli azionisti. La diversificazione può essere perseguita anche per obiettivi propri (personali) del management, e in tal
caso non è orientata all’efficienza o alla creazione di valore per gli azionisti, ma a mantenere o rafforzare la posizione dei
dirigenti che decidono di adottare tale strategia.
12.3: i limiti: la diversificazione che distrugge valore.
Se l’obiettivo principale dell’impresa è creare valore per gli azionisti, questo diventa anche il fine ultimo della
diversificazione. Ma esistono casi di insuccesso. Secondo Ansoff, la diversificazione crea valore soltanto se crea l’effetto
2+2=5.
Costi dell’organizzazione
Molto spesso la diversificazione fallisce perché i costi per organizzare e coordinare tale strategia risultano superiori al
valore creato. Il livello dei costi di organizzazione è la risultante di due componenti:
la complessità: il coordinamento tra business unit è tanto più complesso quanto più alto è il loro numero;
l’intensità del coordinamento (quindi il costo di organizzazione): necessario tra differenti business al fine di
creare valore mediante trasferimento di competenze ed economie di scopo.
Obiettivi errati
Molte imprese diversificano con l’obiettivo di distribuire i rischi e quindi dare maggiore stabilità alle correnti di profitti; il
presupposto è che la stabilità di tali correnti sia nell’interesse degli azionisti. Questa tesi ignora due circostanze: la prima
è che gli azionisti possono facilmente ridurre il rischio diversificando il loro portafoglio di investimenti (vendendo azioni
e comprandone altre); la seconda riguarda i cicli economici dei settori.
Essendo diversi i tempi delle onde cicliche, con la diversificazione sarebbe possibile dare più stabilità all’impresa.
Sinergie fantasma
Un obiettivo che la diversificazione fallisce il più delle volte è la realizzazione di sinergie (l’espressione 2+2=5 di
Ansoff).
Es.: Sony e l’acquisto di Columbia Pictures.
12.4: diversificazione correlata o non correlata?
La diversificazione in business tra loro correlati crea valore trasferendo competenze tra imprese e realizzando economie
di scala e di scopo, vantaggi che raramente possono esistere nel caso di business non correlati.
La diversificazione non correlata può infatti creare valore soltanto attraverso una strategia di acquisizione e di
susseguente ristrutturazione, oppure facendo un buon affare (pagando meno del valore di mercato).
Diversificazione correlata
Per stabilire se la diversificazione correla sia preferibile a quella non correlata, possiamo ricorrere ai concetti di catena del
valore e di strategic fit (opportunità strategiche). Quando le catene del valore di due o più business di una stessa impresa
sono simili al punto da potere utilizzare la stessa tecnologia, o le stesse reti di distribuzione, la stessa immagine, e così
via, possiamo parlare di strategic fit. Quanto più i business sono correlati, tanto più esistono possibilità di creare vantaggi
competitivi.
Lo strategic fit può emergere da più aree della catena del valore:
1) Management (utilizzo delle stesse capacità di management in business diversi);
2) Gestione operativa (realizzare economie di scala combinando più attività in una scala più grande, oppure
economie di scopo concentrando le attività in una sola o poche unità);
3) Gestione delle tecnologie (sfruttare la stessa tecnologia per più business o trasferire la stessa tecnologia da un
business a un altro; ripartizione dei costi di sviluppo delle tecnologie e dei prodotti; capacità di immettere prodotti
nel mercato in tempi più rapidi);
4) Gestione della distribuzione (emergere di economie di scopo dall’uso della stessa forza vendita, delle stesse
forme di promozione, della stessa assistenza post – vendita);
5) Notorietà di marca (se l’impresa o le sue linee di prodotti e servizi godono di ampia notorietà, l’entrata in un
business correlato può essere avvantaggiata;
6) Data mining (se le informazioni sul cliente sono un fattore strategico, la diversificazione ha nuovi obiettivi).
Diversificazione non correlata
Nella diversificazione non correlata manca la ricerca di uno strategic fit tra business. L’impresa che diversifica dispone di
risorse che ottiene rivolgendosi al mercato creditizio, dalla vendita di un altro business oppure dall’autofinanziamento, e
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investe queste risorse allo scopo di acquisire un business a condizioni finanziarie favorevoli e con la prospettiva di
conseguire una redditività elevata.
L’impresa che diversifica parte dal presupposto di poter creare valore acquistando un’impresa non efficiente e di essere in
grado di migliorarne la gestione.
I miglioramenti si ottengono con diversi interventi:
1) L’impresa che acquista sostituisce il management di vertice;
2) Il nuovo management vende le attività non direttamente produttive e riduce l’organico;
3) Il nuovo management interviene nella gestione dell’impresa acquistata agendo sull’efficienza, sulla qualità, la
capacità di innovazione e la capacità di rispondere alle esigenze del cliente;
4) Per motivare il nuovo management le remunerazioni sono legate al miglioramento dei risultati dell’impresa
acquisita; l’impresa che compra fissa obiettivi di risultato che possono essere raggiunti soltanto con significativi
progressi e il nuovo management sa che se fallisce l’azione di risanamento perderà il posto.
12.5: la concentrazione nel core business.
L’impresa deve decidere se sia conveniente difendere molte posizioni contro avversari che, singolarmente presi, si
presentano sempre più agguerriti, oppure concentrare le proprie forze soltanto in alcuni settori. È ciò che si intende con
l’espressione concentrazione su punti di forza.
Per core business si intende:
” Un insieme di prodotti, capacità, clienti, canali e aree geografiche che definiscono l’essenza di ciò che un’impresa è o
aspira a essere con l’obiettivo di fare sviluppo.” Zook e Alen (2001)
Per individuare un core business bisogna individuare cinque elementi:
1) Il cliente che più di altri contribuisce alla redditività;
2) La capacità dell’impresa che più di altre crea la differenza rispetto ai rivali e ha il maggior peso strategico;
3) Il prodotto più importante;
4) Il canale di distribuzione più importante;
5) Ogni altro elemento che contribuisce a dare peso a quanto precede (come brevetti e marca per esempio).
“Far bene una sola cosa significa spesso accumulare vantaggi competitivi difficilmente raggiungibili dalla concorrenza”.
Quando si concentrano le risorse in un solo settore è più facile raggiungere posizioni dominanti, visibili, e quindi i
potenziali compratori possono apprezzare meglio e più rapidamente l’impresa.
Concentrare vuol dire anche selezionare un gruppo definito di clienti sui quali orientare le strategie.
Anche la concentrazione presenta alcuni rischi:
1.se il mercato in cui si svolge l’attività principale entra in una fase di declino l’impresa è irrimediabilmente condannata,
non avendo alternative;
2.la specializzazione in un settore rende difficile conoscere cosa avviene in altri settori e quindi è di ostacolo alla
diversificazione nel caso in cui se ne presenti successivamente la necessità.
In conclusione:
1) è meglio una diversificazione correlata o non correlata?
2) è meglio diversificare o concentrare le risorse su un unico core business?
La risposta è nel buon senso: se è vero che imprese multibusiness diversificate hanno successo mentre imprese di nicchia
falliscono, vuol dire che tutto dipende dal management.

CAP. 13: COME ENTRARE IN NUOVI SETTORI


13.1: sviluppo per linee interne o per linee esterne?
Quando parliamo di sviluppo dell’impresa dobbiamo distinguere tra l’orientamento che assume e i modi per realizzarlo.
Per quanto concerne l’orientamento, le strategie possono essere ricondotte a due opzioni estreme: concentrazione, affidata
o all’integrazione verticale o all’integrazione orizzontale; e diversificazione, che può essere concentrica o conglomerata.
Per quanto riguarda i modi in cui realizzarlo, le imprese che decidono per lo sviluppo, quale che sia l’orientamento
strategico scelto, hanno due grandi alternative:
1) agire per linee interne, estendendo le attività entro i confini attuali dell’impresa o del gruppo. L’opzione è
riconducibile alla matrice di Ansoff e alla internal new venture;
2) agire per linee esterne, uscendo dai confini attuali o con fusioni e acquisizioni di altre imprese, oppure con
alleanze strategiche con altre imprese, venture capital, licensing e franchising.

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Sviluppo interno

L’impresa può perseguire lo sviluppo estendendo la propria attività e restando nei propri confini. Ritiene di avere al
proprio interno le risorse, le capacità e le competenze per crescere, oppure valuta di poterle acquisire al fine di potenziare
quelle di cui dispone. Dopo aver deciso lo sviluppo per linee interne, deve stabilire se rimanere nel settore in cui opera
(concentrazione) o entrare in nuovi settori (diversificazione).
Se decide di concentrare lo sviluppo nel settore in cui è già presente, ha di fronte quattro possibilità (matrice di Ansoff):
1) concentra le risorse nei mercati attuali con i prodotti attuali (penetrazione);
2) entra in nuovi mercati con i prodotti attuali (sviluppo di mercato);
3) introduce prodotti nuovi nei mercati in cui è già presente (sviluppo di prodotto);
4) introduce prodotti nuovi in mercati nuovi, possibilità considerata (nella matrice) come diversificazione.
Lo sviluppo interno è la via percorsa per entrare in un nuovo settore quando l’impresa controlla risorse e capacità che
possono essere trasferite e innestate con successo nella business unit di un altro settore. È la via seguita anche quando
l’impresa non ha le competenze di management (a differenza della situazione precedente), ma intende entrare con le
proprie forze in un settore in embrione nel quale non sono ancora presenti operatori affermati (situazione frequente negli
anni del primo sviluppo di biotecnologie e di Internet).
La domanda è: come si può sviluppare l’attività del gruppo senza acquisire nuove imprese? Le risposte sono varie: le
diverse azioni possono essere ricondotte alla matrice di Ansoff e all’internal new venture.
Le opzioni prodotto/mercato (matrice di Ansoff)

Penetrazione di mercato
È molto simile alla strategia di stabilità, ma ha il vantaggio di concentrare le strategie sui prodotti, sulle tecnologie e sui
mercati che già l’impresa conosce, riducendo in tal modo i rischi e rendono l’impresa più “visibile” ai clienti. Inoltre, dato
che le capacità di produzione, di marketing e di innovazione sono concentrate su prodotti specializzati e su segmenti ben
definiti di potenziali compratori (e non diversificati), aumenta la capacità di creare vantaggi competitivi. L’impresa può
sviluppare maggiore sensibilità all’evolversi delle esigenze dei clienti e quindi costruire una solida immagine. È una
strategia molto adatta alle imprese che intendono concentrare le loro risorse su specifiche nicchie di mercato. Esempi
sono Kellogg’s (cereali per colazione), Timex (orologi) e Luxottica (occhiali).
Quello che alla strategia di penetrazione ulteriore nei mercati esistenti i concorrenti possano rispondere con eguale o
maggiore impegno, costringendo l’impresa a investire forti risorse per conquistare a volte piccole quote di mercato.
Sviluppo del mercato
Avendo l’obiettivo dello sviluppo, l’impresa può portare i nuovi mercati geografici i prodotti che hanno avuto successo
nei mercati in cui è già presente. I rischi principali di questa strategia, quando si orienta verso i mercati esteri, sono due:
non conoscere i clienti, gli intermediari, i concorrenti; u possibile cambiamento nell’atteggiamento dello stato verso le
imprese. La conseguenza è che i rischi potrebbero sensibilmente aumentare rispetto a quando è stata presa la decisione di
entrare in un nuovo mercato geografico.
Sviluppo di prodotto
Una terza forma di sviluppo consiste nel lanciare prodotti nuovi con i quali entrare in nuovi segmenti degli stessi mercati
in cui l’impresa è già presente. Modificando il prodotto o aggiungendo nuove prestazioni, l’impresa aumenta la
penetrazione di mercato nei segmenti di clienti attuali, oppure crea in loro nuove esigenze.
La strategia di cercare lo sviluppo attraverso nuovi prodotti non è detto dia sempre buon risultati.
Nuovi prodotti per nuovi mercati
Con le proprie forze, l’impresa potrebbe sviluppare nuovi prodotti per mercati che le sono totalmente nuovi. Quando
decide di adottare questa strategia affronta prodotti, tecnologie e mercati che comportano un mutamento sostanziale nelle
conoscenze richieste al management, e comunque un cambiamento di rilievo nei processi di produzione, e a volte anche

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nelle tecniche di distribuzione. Lo sviluppo per linee interne in altri mercati attraverso questa strategia implica dunque il
rischio che l’impresa non abbia le conoscenze necessarie. Se non le ha e non può o non vuole svilupparle internamente,
passa a un’altra forma di sviluppo: acquista imprese che le posseggono oppure stringe alleanze.
Alcuni autori indicano le prime tre strategie della matrice di Ansoff con l’espressione “strategie di sviluppo di primo
livello” e la quarta con “strategie di sviluppo di secondo livello”, intendendo che quest’ultima è più ambiziosa, più
impegnativa, comporta maggiori rischi e probabilmente un cambiamento rilevante nelle strategie corporate.
Internal new venture
E’ una strategia di sviluppo adottata dalle imprese che hanno al proprio interno competenze (risorse, capacità) che
possono essere utilizzate e combinate per l’ingresso in un nuovo business.
L’impresa cerca di entrare in nuovi mercati o di sviluppare nuovi prodotti, costituendo un’unità operativa separata
con propri obiettivi, proprie risorse e libera da vincoli organizzativi.
Per avere successo, queste competenze devono essere affidate a persone con elevate capacità imprenditoriali,
quindi il management deve avere una forte flessibilità per gestire in modo efficace le nuove venture.
Sviluppo esterno

Con queste strategie, l’impressa mira a espandere la propria attività non con l’impiego di maggiori risorse in attività che
già fanno parte del suo portafoglio, bensì mediante la fusione, o l’acquisizione o varie forme di alleanze con altre imprese.
13.2: fusioni e incorporazioni.
Per FUSIONE si intende l’integrazione tra due o più imprese in una sola, che potrà portare il nome di entrambe o un
nome diverso.
Per ACQUISIZIONE si intende l’acquisto di un’impresa da parte di un’altra, la quale viene integrata nella struttura
dell’acquirente.
Perché decidere una fusione o un’acquisizione?
Superare le barriere all’entrata: controllo su fattore strategico
Acquisire quote di mercato: Renault nel mercato asiatico
Controllo del settore: Renault-Volvo per posizioni dominanti
Acquisire know-how in settori poco conosciuti
Unire le forze per sostenere aumenti di costi in attività strategiche
Investire risorse.
I processi di valutazione, acquisizione ed integrazione
Le tre fasi principali:
1) diagnosi: individuata l’impresa potenziale è necessario valutare le sue caratteristiche per stabilire se possiede i
requisiti richiesti. I criteri sono dimensione impresa, redditività degli investimenti, analisi ambiente competitivo,
fluttuazioni dei profitti, analisi domanda e quote del capitale azionario.
2) negoziazione tra le parti: indica il livello della conduzione delle trattative. Gruppi operativi specializzati con
consulenti esterni valutano e preparano le fusioni o acquisizioni nei dettagli, ma per avere successo le trattative
devono essere condotte personalmente dai “capi” delle imprese.
3) integrazione: definizione del modo in cui l’impresa incorporata si colloca nella struttura dell’incorporante.
Bisogna stabilire i piani di sviluppo e le politiche organizzative da perseguire e quelle da abbandonare.
Perché fusioni-acquisizioni falliscono?
Le principali ragioni:
costo troppo alto: è frequente pagare il 30-40% in più rispetto alla quotazione di mercato e questo produce due
effetti, il “premio” deve essere compensato dalla redditività degli anni successivi e l’impresa deve fissare obiettivi
ambiziosi nel breve periodo.
obiettivi mancati: non si sono fatti bene i conti, soprattutto quando si devono integrare organizzazioni diverse.
valutazioni incomplete: non si verifica se le organizzazioni siano effettivamente compatibili tra loro, quali valori
devono prevalere e quale partner deve essere in posizione dominante.
cambia il contesto iniziale: nei casi in cui si verificano dei mutamenti nelle condizioni fondamentali che avevano
spinto all’acquisto.
Difficoltà di integrazione: nell’integrare culture diverse, strutture organizzative, sistemi di gestione e sistemi di
controllo emergono spesso problemi non previsti. In ogni caso l’integrazione chiede tempo, e se è troppo lungo

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l’impresa può perdere le opportunità offerte dal mercato, che nel frattempo è scosso dal takeover e si attesta su
nuovi equilibri.
Manager abbandonano: i manager che hanno fatto il successo dell’impresa acquisita possono abbandonarla
temendo le incertezze derivanti dal passaggio del controllo del capitale a un’altra impresa.
Reazioni dei rivali: in vari settori si è assistito a catene di fusioni e acquisizioni che hanno cambiato il contesto
competitivo originario. Può avvenire quindi che gli obiettivi dell’operazione, anche se raggiunti, non diano i
risultati attesi al tempo in cui fu programmata.
Trappole da evitare: il successo di una fusione o di una incorporazione non è casuale. Esistono alcuni indicatori
che gli investitori possono usare per valutare se possono attendersi un grosso successo o un grosso flop. I criteri
sono cinque:
1) Il management ha esperienza nella gestione di fusioni e incorporazioni?
2) L’acquisizione rafforza i “core” del compratore?
3) Il management fa il proprio mestiere?
4) Il management assegna una priorità elevata all’integrazione?
5) Il management è preparato all’imprevisto?
La lezione è servita: sebbene sia dimostrato che la maggior parte delle fusioni e incorporazioni ha distrutto
valore per gli azionisti dell’impresa che compra, queste operazioni sono continuate e verosimilmente
continueranno. Sono parte integrante di un tipo di strategie di sviluppo.
13.3: le alleanze strategiche come alternativa alle fusioni e incorporazioni.
Un’alleanza strategica è un accordo basato sulla reciprocità tra imprese che mantengono la loro rispettiva indipendenza,
con il quale si ripartiscono i costi, i rischi ed i vantaggi derivanti dallo sviluppo di un’attività.
Vantaggi:
Acquisire posizioni di leadership nel mercato: unire le forze per avvantaggiarsi sui concorrenti. Toshiba-Siemens-
IBM per progettare il chip 25-megabit D-RAM.
Fronteggiare una minaccia competitiva: caso Clark-Volvo vs Komatsu in USA nel business del movimento terra.
Costruire una posizione di insider nei mercati: efficace per entrare rapidamente nei mercati. Caso AT&T acquistò
il 22% del capitale azionario dell’Olivetti per entrare nel mercato UE.
Fissare standard mondiali di prodotto.
Ridurre i costi di R&S.
Svantaggi:
Modesto controllo sulla gestione.
Trasferimento di conoscenza a potenziali concorrenti.
Difficoltà di integrazione.
Non hanno una lunga durata.
Joint venture
È un particolare tipo di alleanza. Dà vita a una nuova entità distinta da quelle dei partner. Può assumere forme giuridiche
diverse secondo la legislazione del paese in cui ha sede legale. Il connotato fondamentale della joint venture è l’accordo
tra le parti che la compongono. I partner, oltre a conferire il capitale si accordano su altri tipi di conferimenti (tecnologie
produttive, organizzazione delle vendite, ricerca e sviluppo), su come gestire la joint venture, come reinvestire gli utili,
come realizzare la pianificazione di breve e medio periodo.
Alcuni studiosi distinguono e alleanze strategiche dalle joint venture in base ai rapporti di forza. Nella joint venture sesso
esistono un partner “forte” e uno “debole”: il primo può disporre ella tecnologia, o di una quota di mercato o delle risorse
finanziarie di cui il secondo h necessità per entrare in un nuovo business o in un mercato geografico. Le alleanze
strategiche si realizzano invece tra partner sullo stesso piano, cioè accordi tra “eguali”.
Vantaggi:
Integra le risorse e le capacità distintive dei partner.
Consente a un’impresa di inserirsi rapidamente in un nuovo business mediante l’accordo con un’impresa che già
vi opera.
L’impresa può realizzare una politica di diversificazione con minor fabbisogno di capitale rispetto a una politica
basata sul controllo maggioritario; a parità di altre condizioni, infatti, può essere presente in un numero maggiore
di business.
Svantaggi:
Gestire una joint venture è tecnicamente difficile. Le occasioni di conflitti tra i partner sono infatti numerose e
nella fase iniziale emergono frequentemente disparità di vedute circa il pano di investimenti e le tecniche di
valutazione dei risultati.
L’equilibrio tra quanto un partner conferisce alla joint venture e quanto riceve in cambio non dura a lungo, specie
se si tratta di un settore fortemente dinamico; di qui le richieste di negoziare l’accordo su nuove basi.
Se l’impresa ha nella qualità dei prodotti e nell’immagine i suoi punti di forza, il ricorso a una joint venture può
indebolire la sua posizione nei mercati vecchi e nuovi.
Venture capital

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La venture capital è una forma di alleanza che consiste nella partecipazione al capitale di un’impresa da parte degli altri
partners. Ne è un esempio l’alleanza Ford-Mazda, che ha significato la sopravvivenza della Mazda nel mercato asiatico
(nipponico) e l’apertura a quello USA.
Vantaggi:
Rapido sviluppo nel campo delle nuove tecnologie, che saranno acquisite se avranno successo.
Insuccessi derivanti da:
Mancanza di capacità nei dirigenti delle venture
Obiettivi divergenti tra partners
Problemi legali
Orizzonti temporali non adeguati alla complessità
Licensing
E’ un contratto con il quale un’impresa (licensor) cede ad un’altra (licensee) il diritto di utilizzare un brevetto industriale,
un marchio, un know-how in cambio di un pagamento di una royalty.
Vantaggi:
Modesto impiego di capitale
Controllo sulle attività produttive del licensee
Rischi limitati e ripartiti
Rapidità di entrata in nuovi mercati e minori costi di gestione
Svantaggi:
Licensor perde il contatto col cliente finale
Spartizione tra le parti dei profitti
Facilità di imitazione
Franchising
E’ un rapporto di affiliazione commerciale con cui un’impresa (franchisor) riconosce ad un’altra (franchisee) la business
idea, inclusa la marca ed un sistema di produzione sperimentato. E’ efficiente e frequente nella distribuzione al
dettaglio(Benetton), nelle catene multiple come fast food (McDonald), hotel, noleggio auto.
Vantaggi:
Modesto impego di capitale
Controllo sulle attività di produzione
Sfrutta l’esistenza di iniziativa imprenditoriale
Svantaggi:
Spartizione dei profitti tra le imprese
Franchisor ha pochi contatti con i clienti

CAP. 14 LE STRATEGIE CORPORATE IN UN’IMPRESA MULTIBUSINESS


14.1: la valutazione delle strategie e del potenziale del gruppo.
Che cosa cambia nelle strategie corporate quando l’impresa è presente in più settori con più business unit?
Un’impresa multibusiness ha lo stesso campo di scelta di un’impresa singlebusiness:
sviluppo, stabilità e contrazione; ma cambiano gli obiettivi e i processi strategici, gli strumenti per agire e anche il ruolo
del top management, che deve essere in grado di allocare le risorse in modo da raggiungere gli obiettivi complessivi del
gruppo.
La strategia corporate di un’impresa multibusiness consiste infatti nel cercare il mix ottimale di business unit presenti in
più settori e nel coordinare la loro attività con il fine ultimo di creare valore per gli azionisti.
Il corporate di un gruppo multibusiness deve:
formulare gli obiettivi dell’intero gruppo;
valutare costantemente il potenziale dei settori in cui il gruppo è presente e la posizione competitiva delle imprese
che operano nei vari settori;
migliorare i risultati del gruppo sia attraverso una maggiore efficienza nel management delle singole business unit
sia attraverso politiche di ulteriore diversificazione o politiche di disinvestimento.
Quali sono i principi generali che ispirano la valutazione del portafoglio di business di un gruppo?
rischi e potenziale dei singoli business – si devono valutare i rischi e il potenziale di ciascuno dei settori in cui
l’impresa è già presente, effettuando un’analisi dell’ambiente e un’analisi interna per poter conoscere una serie di
elementi: ciclo di vita del settore, concorrenti, economie di scala ecc. Il corporate si deve chiedere se il settore
presenti le caratteristiche attese in termini di redditività, sviluppo, generazione di liquidità;
analisi della posizione competitiva delle singole business unit – è necessario che la posizione competitiva
dell’impresa o della business unit sia buona; perché potrebbe accadere che, pur avendo il settore un buon
potenziale di redditività, l’impresa non abbia saputo sviluppare i fattori chiave per avere successo;
analisi delle risorse disponibili – dopo aver definito il potenziale del settore e la posizione competitiva
dell’impresa, si possono presentare due situazioni opposte:
- la posizione competitiva è soddisfacente e l’impresa dispone di adeguate risorse per mantenere o
migliorare tale posizione;
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- i risultati delle precedenti analisi non sono soddisfacenti e si presenta la necessità di investire nuove
risorse per rafforzare la posizione dei fattori chiave.
confronto tra il potenziale di settori diversi e business unit diverse – la fase di analisi e valutazione delle
strategie a livello corporate è quella nella quale si confrontano tra loro il potenziale dei settori, la posizione
competitiva raggiunta dalle business unit del settore, le minacce e le opportunità del settore stesso, le risorse di
cui dispongono le business unit, i loro punti di forza e debolezza e le capacità del loro management;
valutazione della struttura del gruppo – forse l’analisi più difficile è quella che individua per ogni business unit
i rivali; il problema è che le business unit si trovano spesso a dover affrontare concorrenti specializzati e business
unit di altri gruppi che hanno forti risorse.
14.2: corporate portfolio management.
Molte imprese gestiscono una pluralità di business unit presenti in settori diversi e per orientare le loro strategie ricorrono
a strumenti noti come portfolio management:
la matrice sviluppo/quota di mercato (BCG);
la matrice attrattività del settore/posizione competitiva dell’impresa (GEMcKinsey);
la matrice stadi di evoluzione del prodotto-mercato/posizione competitiva di Hofer;
la matrice risorse/mercato di Hamel e Prahalad.
La matrice sviluppo/quota di mercato (matrice Boston o BCG)
La matrice sviluppo/quota di mercato, nota anche come matrice BCG, che ebbe grande diffusione come strumento per
allocare le risorse in un gruppo diversificato, nacque da ricerche effettuate sulle curve di esperienza.
L’approccio suggerito dalla matrice BCG prevedeva tre passaggi:
1) Definire e valutare le business unit – secondo il metodo BCG, ogni impresa dovrebbe costituire una business unit
per ciascun business in cui compete. Le business unit possono essere individuate sulla base di tre dimensioni:
- di quali clienti vogliamo soddisfare le esigenze?
- quali esigenze vogliamo soddisfare?
- come possono essere soddisfatte le esigenze dei clienti?
2) Confrontare le business unit – il secondo passo consiste nel confrontare le business unit collocandole in una
matrice a due dimensioni: la prima le confronta sulla base del ritmo di sviluppo del settore in cui operano; la
seconda le confronta sulla base della quota di mercato relativa, che si considera come sintesi della capacità di
competere e quindi della capacità di generare profitti.

star – hanno prospettive di elevati profitti nel lungo termine e opportunità di sviluppo per mantenere la
posizione. Queste business unit devono fare rilevanti investimenti; dato che hanno elevate quote di
mercato, è verosimile che le economie di scala possano generare forte liquidità.
cash cow – <<mucche da mungere>> la forza di queste business unit è nell’essere nella fascia bassa delle
curve di esperienza (dove i costi sono più bassi). Sono leader di costo nel loro settore, quindi sono in
grado di generare liquidità e profitti.
question mark – a causa dell’incertezza che domina il loro futuro sono chiamate <<punti interrogativi>>.
In questo quadrante si riscontrano business unit che hanno una debole posizione competitiva, ma essendo
in un settore ad alto potenziale hanno opportunità di conseguire profitti nel lungo termine e partecipare
alla faseespansiva.
dog - <<cani>> posizione competitiva molto debole in un settore che non cresce. Queste business unit
hanno una posizione di svantaggio competitivo rispetto ai rivali e hanno poche speranze di cambiarla,
dato che il settore ha un basso ritmo di sviluppo. Per mantenere la posizione devono assorbire liquidità,
perciò sono candidate all’abbandono da parte del gruppo.
3) Elaborare strategie -
- la prima strategia raccomandata da BCG è di mantenere un equilibrio tra cash cow (in settori maturi) e
star e contemporaneamente alimentare una o più question mark (potenziali star). Alle dog non dovrebbero
andare investimenti, a meno che siano in grado di dimostrare un rapido payback. Inoltre la BCG
sosteneva che poiché le business unit con la quota di mercato più consistente hanno i costi piùbassi e i
profitti più elevati, è vitale acquisire una posizione dominante (quota dimercato) per il maggior numero
possibile di business unit;

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- la seconda strategia suggerita dalla matrice è distribuire il portafoglio di business unit nei quadranti in
modo che il gruppo possa crescere più rapidamente del PIL, senza generare liquidità in eccesso o senza
chiedere liquidità al sistema creditizio.
Debolezze (matrice Boston o BCG)
la strategia è suggerita sulla base di due soli fattori. Tra quelli non considerati potrebbero esservi fattori
importanti, primi fra tutti l’intensità della concorrenza e le attese del potenziale compratore;
esistono molte difficoltà per definire il mercato, per misurare il ritmo di sviluppo e la quota di mercato;
il modello non tiene conto dei vantaggi competitivi che può creare la diversificazione. Considera le business unit
come se fossero tra loro indipendenti, ma nella realtà la diversificazione crea valore attraverso la capacità del
management di usare le stesse competenze in più di una business unit e la capacità di condividere risorse per
creare economie di scala;
non c’è posto per l’innovazione; una question mark potrebbe essere nella prima fase di introduzione di una
innovazione radicale che potrebbe cambiare il mercato;
non è detto che lo sviluppo sia la meta di ogni impresa. La creazione di valore può venire anche da un settore a
basso sviluppo in cui l’impresa abbia una buona posizione competitiva.
La matrice attrattività del settore/posizione competitiva (GE-McKinsey):
La società di consulenza McKinsey elaborò una propria matrice per la portfolio analysis, che raccomandava una
pianificazione secondo criteri che mettessero in primo piano le strategie, le condizioni esterne e quelle interne delle varie
unità operative. A tali unità fu dato il nome di strategic business unit (SBU) o area strategica d’affari (ASA).
Mckinsey elaborò la matrice nota come matrice a nove celle GE-McKinsey, che discrimina le SBU secondo due criteri:
capacità di competere;
attrattività del settore in cui operano.

Nella prospettiva di chi deve decidere in quali SBU investire, la logica suggerisce tre azioni:
1) concentrare le risorse nelle SBU che hanno elevata capacità di competere e che sono nei settori con la maggiore
attrattività;
2) fare una selezione attenta delle SBU che si trovano nella posizione intermedia;
3) prelevare risorse dalle SBU che sono in settori con bassa attrattività e hanno modeste capacità di competere, a
meno che esista una ragionevole presunzione circa un loro turnaround di successo.
La matrice stadi di evoluzione del prodotto/mercato e posizione competitiva (Hofer):
La matrice Hofer è basata sul ciclo di vita del settore. La matrice posiziona le SBU in base a due dimensioni:
la posizione competitiva (forte, media o debole);
lo stadio di evoluzione del prodotto/mercato (lancio, sviluppo, shakeout, maturità/saturazione, declino).
Con tale strumento è possibile costruire matrici per descrivere la situazione attuale dell’impresa e matrici sulle quali
tracciare un percorso futuro programmato. È utile per prevedere come l’evoluzione del ciclo potrebbe agire su una certa
strategia.
Limite – è possibile riscontrarlo nel fatto che il ciclo di vita di settore non può essere sempre tracciato con precisione per
ogni prodotto o SBU.

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La matrice risorse/mercati (matrice di Hamel e Prahalad)


Core competencies: l’impresa come portafoglio di risorse I due autori suggeriscono di considerare un’impresa che sia
presente in più settori non come un portafoglio di business unit, ma come un portafoglio di risorse.
L’approccio è strutturato in sei fasi operative:
1) individuare le attuali core competencies dell’impresa;
2) costruire una matrice (figura successiva);
3) stabilire un piano di acquisizione delle core competencies di cui l’impresa attualmente non dispone;
4) acquisire e consolidare tali competenze;
5) dispiegare le competenze all’interno dell’impresa;
6) proteggere e rafforzare rispetto ai rivali la leadership di tali competenze.
La matrice di Hamel e Prahalad distingue tra competenze esistenti nell’impresa e nuove competenze da acquisire da un
lato, e prodotti o mercati esistenti e prodotti o mercati nuovi dall’altro.

Riempire gli spazi vuoti – indica il portafoglio attuale di competenze, di prodotti e servizi. L’espressione
<<riempire gli spazi vuoti>> riguarda le opportunità di migliorare la posizione competitiva dell’impresa nei
mercati in cui è già presente, attingendo alle core competencies di cui già dispone.
Premier plus 10 – questo quadrante suggerisce una domanda importante: Quali nuove core competencies
dobbiamo costruire oggi per essere considerati i primi della classe dai nostri clienti per i prossimi 10 anni? Es.
IBM ha investito nello sviluppo delle proprie competenze nella consulenza ai clienti, in quanto aveva capito che i
medesimi non avrebbero richiesto solo hardware e software.
Spazi bianchi – indicano le opportunità dettate dalle core competencies esistenti e non sfruttate nei mercati in cui
l’impresa non è ancora presente. Es. Il Walkman Sony, l’impresa aveva le competenze tecnologiche nella
riproduzione dei suoni e le applicò ad un nuovo business attraverso la miniaturizzazione
Mega opportunità – rappresentano opportunità che non si sovrappongono né alla posizione attuale che l’impresa
ha nel mercato né alle sue attuali competenze distintive. Un’impresa quindi, può decidere di inseguire tali
opportunità se appaiono particolarmente significative o attraenti. Es. Il Giappone ha visto nelle costruzioni
aeronautiche una irresistibile mega opportunità, infatti strinse partnership con imprese americane ed europee
presenti nel settore.
Il ruolo del corporate: il parenting mix
Il concetto di parenting è stato introdotto da Goold, Campbell e Alexander (1994) come uno strumento per scegliere in
un’impresa multibusiness il migliore portafoglio di SBU. La prospettiva è quella di una parent company (che controlla il
capitale e la gestione delle SBU) con l’obiettivo di creare il massimo valore per gli azionisti.
Per i tre ideatori è uno strumento per definire i core skills (o core competencies) che il centro (parent company) dovrebbe
sviluppare e infondere in ciascuna SBU per assisterla nel raggiungimento dei propri obiettivi. Due sono gli interrogativi
posti a una matrice:
in che misura esiste accordo tra le strategie della SBU e le strategie e gli obiettivi del corporate (parent)?

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in che misura esiste accordo tra le esigenze e le opportunità per lo sviluppo di una SBU, e le capacità e le
competenze del corporate (parent)?

- heartland – indica una situazione in cui la parent company aggiunge valore; è il fulcro di future strategie (è la
<<patria>>);
- ballast – è la collocazione delle SBU per le quali il centro può far poco: potrebbero avere successo se fossero
indipendenti (è la <<zavorra>>);
- value trap – indica posizioni pericolose: al centro viene chiesto di contribuire, ma non ha le risorse; le SBU
dovrebbero spostarsi in heartland;
- alien – identifica i casi per i quali la prospettiva è l’abbandono (è l’alieno).

PARTE QUINTA: LE STRATEGIE DI BUSINESS UNIT


CAP. 15: LE STRATEGIE COMPETITIVE GENERICHE
15.1: i principi della strategia a livello della business unit.
La strategic business unit (sbu) è un 'unità operativa che vende un determinato insieme di prodotti a un gruppo omogeneo
di potenziali clienti e affronta un gruppo definito di concorrenti.
La disaggregazione delle attività di un'impresa in più business unit risponde in genere a tre criteri:
1) omogeneità nell'offerta verso il target di potenziali compratori
2) fattori comuni a più sbu
3) dimensioni delle sbu
Obiettivo:
Migliorare la capacità dell'impresa di competere nel settore o nel segmento di mercato scelto come target
Secondo Abell l'impresa definisce in quale business intende competere
attraverso decisioni che riguardano:
1) le esigenze del consumatore e differenziazione di prodotto;
2) target di clienti e segmentazione di mercato;
3) competenze distintive da mettere in campo per soddisfare le esigenze dei clienti
Differenziazione. Ogni impresa dovrebbe offrire qualcosa di diverso, agendo sulle caratteristiche tipiche di un prodotto o
sulle prestazioni di un servizio o sulla sfera psicologica
Segmentazione. Segmentando un impresa conosce meglio il proprio mercato quindi potrà cambiare rapidamente l'offerta
se la domanda cambia
Competenze distintive. Scegliere le competenze attraverso le quali distinguersi comporta anche concentrare le risorse
sulle funzioni che lo sostengono
Varietà di strategie competitive
La strategia competitiva riguarda come l'organizzazione (business unit) affronta i rivali in uno specifico business o
settore.
Sono presenti tre categorie di strategie competitive:
1) strategie generiche, adatte per tutti i business indipendentemente dal settore e dal fatto che le imprese siano
industriali o di servizi;
2) strategie in rapporto alla fase del ciclo di vita del settore;
3) strategie in situazioni particolari, o strategie dinaiche.
I fondamentali di una strategia competitiva
1) analisi forze debolezze
2) concentrare attenzione sui fatti significativi del mercato
3) considerare l'uscita dal settore
4) considerare strategia di mietitura
5) se si compete, definire l'arena competitiva
6) evitare di competere su troppi fronti
7) mirare a posizioni di leadership usando una strategia che integri produzione a bassi costi, differenziazione di
prodotto e segmentazione.
15.2: le strategie generiche.

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Porter e Hall furono i primi a sostenere che le imprese per avere successo devono scegliere tra competere sulla base dei
costi o sulla base della differenziazione.
Per costruire vantaggi competitivi che diano la possibilità di superare i rivali e conseguire risultati superiori alla media del
business, le imprese possono scegliere fra quattro strategie competitive:
1) leadership di costo
2) differenziazione
3) focus sui costi
4) focus sulla differenziazione
Leadership di costo
Attraverso questa strategia la business unit mira ad assumere una posizione con vantaggi significativi di costo nei
confronti di tutti i concorrenti del settore.
Per raggiungere e mantenere questa posizione occorre capire quali aree della catena del valore della SBU possono essere
le fonti di vantaggi di costo, e successivamente sviluppare le competenze e le capacità necessarie per eccellere in una o
più di tali aree.
Scelte strategiche:
basso livello di differenziazione (consumatori orientati al prezzo) 
orientamento alla produzione e alla distribuzione (investimenti in impianti, delocalizzazione) 
Vantaggi:
prezzi più bassi
maggiore potere contrattuale
barriera all'entrata
maggiore resistenza(guerra sui prezzi)
elevati profitti
Svantaggi:
rischi sulle delocalizzazioni
poca attenzione al consumatore
concorrenti più efficienti
Le business unit hanno varie opzioni per abbassare i costi:
prodotti e servizi no-frills, configurazione del prodotto servizio, gestione operativa, economie di scala, curve di
esperienza, cultura low cost
Differenziazione
Si ha differenziazione quando l'organizzazione offre qualcosa di unico, di diverso da quanto è offerto dai rivali e che il
compratore percepisce come un valore superiore.
Se la differenziazione ha successo l'impresa può applicare un premium price.
Alla base della differenziazione sta il concetto di segmentazione
Per avere successo questo tipo di strategia deve avere tre caratteristiche:
creare valore nella percezione del cliente e non solo nella prospettiva del produttore
il valore creato con la differenziazione deve essere percepito come tale dal cliente
la differenziazione che crea valore non deve essere facile da imitare
La differenziazione è più frequente in imprese che hanno i loro vantaggi competitivi nella distribuzione di massa,
nell'innovazione e nella disponibilità di talenti creativi
Scelte strategiche:
la strategia è orientata a costruire un livello elevato di differenziazione al fine di creare vantaggi competitivi e porre le
premesse per un premium price.
Maggiori sono le diversità percepite dai compratori, tanto più l'impresa è protetta dall'azione dei rivali e tanto è più forte
la sua capacità di attrarre domanda.
Vantaggi:
protetta nei confronti dei fornitori
protetta nei confronti dei clienti
barriere all'entrata
fedeltà del compratore
Svantaggi:
difficoltà di mantenere la differenziazione nel lungo periodo
facile imitazione nella differenziazione sugli attributi tangibili
commodation
Requisiti di una differenziazione di successo
1) deve creare valore per il compratore
2) il compratore deve percepire un valore aggiunt0
3) deve essere difficile da imitare
4) deve essere in grado di sviluppare una cultura
5) deve essere in grado di sviluppare un efficace coordinamento di varie aree funzionali (R&S, mkt..)
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Focus
Con una strategia focus l'impresa concentra le proprie risorse su una particolare nicchia di mercato che può essere definita
per area geografica, per tipo di cliente o per tipo di prodotto e sviluppa la strategia competitiva offrendo prodotti e servizi
progettati esclusivamente per la nicchia.
Scelte strategiche
Dopo aver scelto la nicchia su cui operare, l'impresa può perseguire o una strategia di bassi costi oppure di
differenziazione.
Per quanto riguarda i segmenti di clienti un'impresa che adotta una strategia focus sceglie nicchie specifiche nelle quali
competere, piuttosto che affrontare l'intero mercato come fa il cost leader oppure può occupare una pluralità di segmenti
come fa un'impresa che adotta una strategia di differenziazione.
Strategia adatta a quelle organizzazioni che non hanno le risorse per competere su un'ampia area di mercato e a quelle che
hanno competenze e capacità distintive rilevanti soltanto per uno specifico segmento di mercato.
Vantaggi:
La fedeltà dei clienti protegge il produttore sia dalla minaccia di nuovi concorrenti sia da quello di prodotti sostitutivi,
quindi può conseguire una redditività degli investimenti superiore alla media del settore.
Un ulteriore vantaggio della focalizzazione è la migliore conoscenza della clientela e risponde meglio e prima alle nuove
esigenze (segmentazione efficace).
Svantaggi:
Le imprese sono in posizione di svantaggio nei confronti dei fornitori.
I costi di produzione sono elevati in quanto sono presenti bassi volumi di produzione.
Un terzo svantaggio è che le nicchie possono rapidamente svanire a causa di innovazioni tecnologiche o di cambiamento
nei gusti dei consumatori
15.3: i limiti delle strategie competitive generiche.
Non è detto che una strategia competitiva generica abbia successo.
Alcuni critici affermano che strategie generiche sono soltanto un punto di partenza, quando il mercato cambia
rapidamente non hanno alcuna utilità.
LEADERSHIP DI COSTO. Una strategia di bassi costi presuppone tecnologie stabili; non è dunque applicabile nei settori
in cui sono frequenti le innovazioni tecnologiche di prodotto e processo
DIFFERENZIAZIONE. Differenziare non porta necessariamente a un premium price, il vero problema è come
differenziare
FOCUS. Il problema è come individuare nicchie che valgono l'investimento. La frammentazione in corso e
l'accorciamento del ciclo di vita rendono superato il concetto di target ampio
In mezzo al guado
Secondo Porter, dopo aver scelto la strategia l'impresa deve realizzarla in modo COERENTE
Conclusioni
Le strategie generiche possono avere successo se sono rispettate due conclusioni:
1) le decisioni riguardanti le scelte di prodotto\mercato e l'allocazione delle risorse sono compatibili con la strategia
scelta
2) il management tiene costantemente sotto controllo l'ambiente e mantiene le fonti dei vantaggi competitivi in
sintonia con l'evolversi delle minacce e delle opportunità

CAP. 16: LE STRATEGIE COMPETITIVE E IL CICLO DI VITA DI SETTORE


16.2: le strategie nei settori in embrione.
I settori in embrione hanno alcune caratteristiche rendono difficile la scelta delle strategie
Il futuro è molto incerto.
Le tecnologie sono controllate dai pionieri
Le barriere all’entrata spesso sono basse
Molti potenziali compratori sono interessati all’acquisto dei nuovi prodotti , ma lo rinviano nel tempo perché
attendono che le caratteristiche del prodotto stesso e le tecnologie siano meglio definite.
Molte imprese hanno difficoltà a reperire le materie prime e i componenti necessari in quanto, essendo il settore
in embrione, mancano fornitori con piani di produzione adeguati alla nuova domanda.
Spesso i capitali non sono sufficienti a finanziare l’attività di R&S (soprattutto nella fase dello sviluppo del
prodotto).
In una situazione tra le più difficili, data la forte incertezza, è possibile scegliere una tra le seguenti strategie:
1) Adottare una strategia creativa aperta al rischio per vincere la competizione iniziale e affermarsi come leader. Le
strategie di differenziazione e di nicchia possono essere efficaci;
2) investire nel miglioramento costante della tecnologia, della qualità e delle prestazioni del prodotto
3) adottare rapidamente la tecnologia dominante non appena l’incertezza si dirada
4) stringere alleanze con i fornitori delle materie prime, dei componenti, delle tecnologie e delle altre risorse chiave
per assicurarsi l’accesso;
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5) cercare di sfruttare tutti i vantaggi del pioniere (first muover);


6) rendere l’acquisto conveniente (prezzo) e facile (accesso) per chi lo fa per la prima volta.
I vantaggi del pioniere
conquistare quote di mercato con relativa facilità – il pioniere guadagna facilmente quote di mercato perché:
- l’innovazione attira nuovi utilizzatori (no switching cost e no fedeltà);
- i concorrenti in questa fase non reagiscono in modo aggressivo.
anticipare i vantaggi delle curve di esperienza – dal momento che i costi del valore aggiunto tendono a
scendere al crescere dell’esperienza, il pioniere può costruire un vantaggio competitivo di costo accumulando
esperienze più rapidamente dei concorrenti. Il fattore vincente sta nell’entrare per primi nel mercato, conquistare
un’ampia quota e mantenerla;
valore più alto delle quote conquistate – se il mercato è destinato a crescere, cresceranno anche i profitti relativi
alle quote di mercato conquistate. I presupposti sono tre:
- sia possibile mantenere la quota di mercato nelle fasi successive di sviluppo del settore;
- che il cliente dopo aver apprezzato l’innovazione resti fedele;
- la marca del prodotto acquisti notorietà;
minori pressioni sui prezzi – se il mercato è in forte sviluppo, la domanda spesso è superiore all’offerta e di
conseguenza il pioniere può praticare un premium price.
L’impresa ha la possibilità di recuperare rapidamente gli investimenti iniziali;
maggiore esperienza nelle tecnologie; ma se una seconda generazione di tecnologia è radicalmente diversa dalla
prima il pioniere tende a non abbracciarla rimanendo sulla proprio rischiando così di lasciare spazio ai
concorrenti.
l’entrata in forze è un segnale per i concorrenti – l’impresa che per prima entra in un mercato nella fase
embrionale investe, corre rischi, ma manda un segnale chiaro ai concorrenti perché in futuro si impegnerà a
difendere la propria posizione.
I rischi del pioniere
I vantaggi offerti da un mercato nuovo a chi arriva per primo sono rilevanti, ma lo sono anche i rischi. Il pioniere non
sempre ha un vantaggio, in quanto spesso accade che nuovi entranti conseguono profitti mentre i pionieri restano gravati
dai osti di avvio.
concorrenza affollata – un primo rischio che si corre è che troppi concorrenti siano attratti dal ritmo di sviluppo
del settore e dalla previsione di buoni profitti. La domanda si può dimostrare largamente inferiore all’offerta;
i rischi di shake out – questi sono maggiori in alcune condizioni:
- le previsioni sono di forte sviluppo delle vendite nei primi stadi;
- sia le caratteristiche del settore sia il ritmo di sviluppo sono visibili, noti quindi alle imprese interessate ad
entrare;
- le barriere all’entrata di nuove imprese sono basse;
- i nuovi prodotti usano una tecnologia esistente, facilmente acquistabile, non protetta da brevetti o non
rischiosa sebbene nuova
- alcune imprese potenzialmente interessate a entrare hanno bassa visibilità, quindi i concorrenti sono
portati a sottostimare l’eccesso di capacità operativa futura.
vincoli nella distribuzione – la capacità operativa dei canali della distribuzione è limitata. Se il settore è affollato,
alcuni concorrenti hanno difficoltà nel distribuire i loro prodotti;
vincoli nelle risorse – per mantenere il vantaggio competitivo in un settore in forte sviluppo occorrono rilevanti
risorse finanziarie, per sostenere campagne pubblicitarie e di vendita, per sviluppare i prodotti e per fronteggiare i
rivali che attaccano con prezzi più bassi;
cambiano i fattori di successo – un’impresa può essere in grado di acquisire la leadership nella tecnologia di
prodotto, ma non avere le risorse, la capacità o la volontà di sviluppare tecnologie di processo.
superiorità dei nuovi concorrenti – un concorrente entra nel mercato in un secondo tempo, con un prodotto dalle
caratteristiche superiori o con costi di produzione più bassi;
cambia la tecnologia;
cambiano i fattori di successo – i vantaggi competitivi acquisiti nella prima fase di sviluppo possono non essere
più sostenibili successivamente.
Le difese dall’imitazione e le possibili opzioni strategiche
Il pioniere che nella fase embrionale ha creato un vantaggio competitivo deve mettere in campo strategie tali da evitare
che siano imitabili:
1) sviluppare e commercializzare direttamente l’innovazione
2) sviluppare e commercializzare l’innovazione assieme ad altre imprese attraverso alleanze strategiche o joint
venture
3) cedere l’innovazione ad altri attraverso il licensing.
Secondo autori la scelta tra queste strategie dipende dalla risposta a tre domande che individuano altrettanti fattori di
successo:

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a) l’impresa che innova dispone delle risorse (complementary assets) necessarie per sfruttare l’innovazione e
costruire un vantaggio competitivo? La risorsa più importante in questa fase è disporre di capacità produttiva tale
da alimentare il rapido sviluppo della domanda e mantenere la qualità elevata. Altre risorse critiche sono: accesso
alle reti di distribuzione, i servizi post-vendita, il know-how di marketing in generale.
b) Quale grado di difficoltà incontrano gli imitatori? quali sono le barriere all’imitazione?
c) Quali sono le capacità dei concorrenti (risorse disponibili, competenze distintive) che potrebbero consentire di
imitare rapidamente l’innovazione? Queste capacità sono principalmente:
La capacità di recuperare il terreno perduto rispetto al pioniere sviluppando un prodotto con prestazioni
confrontabili;
L’accesso alle risorse critiche, in particolare la capacità produttiva e il know-how di marketing;
a seconda delle risposta date alle tre domande precedenti l’impresa che si trova in una fase embrionale che muove verso
lo sviluppo ha tre opzioni strategiche:
1) Se le barriere sono alte, se il pioniere ha le risorse e se i concorrenti sono pochi di numero e deboli, la strategia
migliore è sviluppare l’innovazione con le proprie forze
2) Se le barriere sono alte, se più concorrenti hanno risorse disponibili, mentre il pioniere non le ha a sufficiente o
non le vuole rischiare, l’alleanza strategica è la forma più consigliabile;
3) Se le barriere sono basse, se il pioniere non ha le risorse e se i potenziali rivali sono numerosi, la cessione del
know-how attraverso il contratto di licensing è l’unica possibilità di sfruttare l’innovazione;
Le strategie per evitare lo shakeout
Per shakeout di un settore, si intende una situazione in cui un’alta percentuale di imprese concorrenti sono costrette ad
abbandonare il settore in un periodo di tempo relativamente breve a causa della forte turbolenza generata dall’intensa
competizione.
mantenere la leadership tecnologica – ciò è possibile quando si presentano le seguenti condizioni:
- la tecnologia è sviluppata all’interno del settore e quindi l’impresa ha su di essa un controllo; se invece la
fonte fosse esterna, le imprese che entrassero in un secondo tempo avrebbero il vantaggio di poter
accedere a tecnologie migliori;
- il ritmo di diffusione della tecnologia è basso in quanto i progressi sono difficili da imitare;
- nello sviluppo della tecnologia l’impresa pioniere ha vantaggi di costo o una maggiore efficienza.
individuare nicchie di valore – non è detto che il pioniere sia in posizione di vantaggio, in quanto spesso i primi
prodotti a essere introdotti nel mercato sono di qualità inferiore a quelli introdotti successivamente. L’impresa
deve avere la capacità di individuare nicchie di mercato che attribuiscano valore ai prodotti;
ridurre gli investimenti – assegnare a subfornitori attività non considerate strategiche; - stringere joint venture o
marketing agreement con imprese che già abbiano accesso al target market; - cedere la tecnologia al fine di
ripartire con altre imprese i costi di sviluppo del mercato.
16.3: le strategie per competere nei mercati in forte sviluppo.
Per riuscire a competere in mercati in forte sviluppo si elencano alcune strategie:
mantenere una posizione di avanguardia nelle tecnologie: è difficile mantenere una posizione d’avanguardia in
tutti i campi della tecnologia ma bisogna essere capaci di individuare quali promettono le migliori opportunità e
investire in queste.
Rispondere rapidamente all’innovazione: essere pronti e rapidi nello spostare le risorse da un’area all’altra e
nell’acquisire le competenze necessarie per fronteggiare i nuovi rivali.
Time-to-market: il tempo che intercorre dall’ideazione del prodotto alla sua commercializzazione è con il tempo,
grazie alla tecnologia, diventato sempre più breve e l’impresa deve essere brava a ridurlo sempre più.
Rete di relazioni: disporre di una rete di relazione con altre imprese specializzate tale da coprire l’intera catena del
valore è fondamentale per percorrere nel miglior modo possibile la fase di sviluppo del mercato. Tramite
l’outsourcing è possibile creare vantaggi competitivi.
16.4: le strategie nei settori maturi.
Un settore si dice maturo quando la domanda è stagnante o cresce poco ed è rappresentata, per i beni di consumo durevoli
in particolare, dalla sostituzione di prodotti di cui il potenziale compratore già dispone.
Le imprese già presenti nel mercato adottano più strategie complementari:
devono ridurre le minacce di nuove entrate;
devono cercare di ridurre l’intensità della competizione
Le strategie per ridurre la minaccia di entrata di nuove imprese
Per ridurre la minaccia di entrata di nuovi concorrenti, e al tempo stesso mantenere la redditività del settore, le imprese
possono adottare quattro strategie:
1) allargare la gamma di prodotti - per ridurre la minaccia di nuove entrate, le imprese possono ampliare la
gamma offerta al fine di occupare il maggior numero di nicchie possibili, togliendo così spazio ai concorrenti. In
tal modo si crea una barriera ai potenziali entranti. Rischi: forti che costi che la domanda stagnante non può
coprire integralmente;

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2) riduzione dei prezzi – dopo una prima fase in cui le imprese possono praticare prezzi elevati in quanto
dispongono di un vantaggio competitivo, nel momento in cui la domanda rallenta può abbassare i prezzi per
dissuadere le imprese che vorrebbero entrare nel mercato.
3) predatory pricing – l’impresa dominante abbassa i prezzi con lo scopo di costringere il nuovo entrato a
rinunciare. Per predatory pricing o prezzi predatori si intende una politica con la quale l’impresa fissa prezzi
inferiori ai costi, con l’obiettivo di recuperare le perdite quando il rivale abbandonerà il mercato e l’impresa abbia
ripreso una posizione dominante;
4) mantenere eccesso di capacità – le imprese che sono presenti nel settore mantengono un certo livello di capacità
produttiva non utilizzata. I potenziali entranti sanno che le imprese già presenti nel mercato potrebbero rispondere
aumentando la produzione spingendo i prezzi verso il basso fino al punto da non rendere conveniente la presenza
nel settore.
Le strategie per ridurre l’intensità della competizione
il prezzo come segnale – con tale strategia le imprese comunicano le loro intenzioni alle altre imprese circa la
strategia di prezzo che hanno in programma di adottare e i modi con cui intendono reagire a una azione
competitiva dei loro rivali. Esistono vari modi per usare il prezzo come segnale, i principali sono due:
- l’impresa rende noto che ad un’azione ostile del rivale basata sul prezzo risponderà in modo da
ripristinare l’equilibrio preesistente (es. abbassando il prezzo);
- con la manovra del prezzo le imprese dominanti possono lanciare segnali che le altre imprese raccolgono
e copiano, evitando così di dar vita a <<guerre di prezzi>>.
leadership di prezzo – un’impresa, in genere la più forte, è riconosciuta come leader di prezzo: in pratica fissa
uno standard che le altre imprese imitano. I rivali riconoscono a tale impresa la capacità di punire duramente chi
voglia cambiare le posizioni del mercato agendo sulla base del prezzo o di altre condizioni di vendita;
controllo della capacità operativa – quando un settore accumula eccesso di capacità operativa è inevitabile che
prima o poi esploda la guerra dei prezzi. Se un’impresa abbassa i prezzi, altre rispondono facendo altrettanto, nel
timore di perdere quote di mercato. Il controllo della capacità operativa è dunque un’altra possibile strategia per
ridurre l’intensità della competizione;
- anticipare i rivali – l’impresa stima la domanda futura e aumenta la capacità operativa in misura tale da
soddisfare la domanda emergente. Essendo la prima, o tra le prime, a prendere tale decisione, e avendo
reso noto di avere una capacità produttiva elevata, dissuade i concorrenti dal fare altrettanto.
- Alleanze: alcune imprese stringono accordi per coordinare le strategie di espansione della capacità
operativa
- Intervento dello stato. Può contribuire a contenere la tendenza all’eccesso di capacità operativa.
dal lato dei fornitori – quando nel settore restano poche grandi imprese, il loro potere di negoziazione nei
confronti dei fornitori e dei clienti aumenta. Per proteggere le quote di mercato, aumentare l’efficienza e
migliorare la qualità, queste imprese cercano di controllare le fonti di materie prime, di componenti e di servizi
che abbiano importanza determinante per il loro processo produttivo e cercano di controllare anche il processo di
distribuzione; spesso sono adottate politiche che agiscono profondamente sui rapporti con i fornitori. Il potere nei
confronti dei fornitori è usato:
- per indurre al massimo i prezzi
- per creare costantemente competizione tra i fornitori
- per ridurre il numero dei fornitori e per sviluppare rapporti di lungo termine con alcuni di loro; se il n° dei
fornitori diminuisce, cresce il loro interesse a condividere strategie di lungo termine con l’impresa che
compra
dal lato dei distributori – dal lato della distribuzione, l’impresa ha di fronte varie alternative e la scelta dipende
dalla natura del prodotto e del servizio, dalle quantità vendute e dal tipo di informazioni necessarie per mantenere
un contatto costante con gli utilizzatori finali, nonché dalla necessità o meno di fornire assistenza postvendita.
16.5: le strategie nei settori in declino.
Un mercato si dice in declino quando la domanda cala, ovviamente è importante definire il mercato in senso geografico e
secondo i segmenti. Il declino può essere causato da un cambiamento nello stile di vita dei consumatori, da una nuova
tecnologia o da tendenze demografiche.
Nella fase di declino l’effetto più evidente è che per mantenere una quota di mercato, in presenza di una domanda
stagnante, è necessario strappare quote a uno o più concorrenti; la competizione si fa così sempre più intensa. Tre sono le
possibili opzioni in questa fase: mietere, ossia trarre il maggiore vantaggio competitivo possibile nel breve termine e poi
abbandonare; disinvestire e in qualche caso liquidare; oppure cercare una posizione di forza con una strategia opposta.
Ci sono cinque strategie di risposta delle imprese a un mercato in declino:
1) creare sviluppo. Raramente tutti i segmenti di un settore sono stagnanti o in declino. Spesso esistono segmenti in
sviluppo all’interno di settori stagnanti o in declino, che possono essere allargati offrendo nuovi prodotti o servizi,
dando origine a nuova domanda (es. settore degli elettrodomestici, nuove tecnologie hanno arricchito le
prestazioni oppure l’industria dei frigoriferi da roulotte);
2) Costringere i rivali all’abbandono. in un settore in declino i rivali più deboli abbandonano rapidamente; chi
abbandona mette in vendita imprese e marchi a prezzi (relativamente) bassi e in pratica vende anche quote di
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mercato. Con tali condizioni una politica aggressiva consiste nel conquistare la leadership del settore
costringendo altri rivali all’abbandono e accrescere la propria redditività;
ci sono una serie di azioni per costringere i rivali all’abbandono:
Comunicare chiaramente e diffusamente la volontà di essere leader
Alzare le barriere di fronte a potenziali concorrenti riducendo i prezzi investendo in pubblicità
Occupare tutti i segmenti e le nicchie che abbiano un potenziale di crescita, al fine di chiudere varchi
ai concorrenti
Acquistare quote di mercato e/o capacità produttiva dai rivali rendendo più facile il loro abbandono
Evitare che imprese di altri settori dotate di risorse finanziarie entrino nel mercato acquistando a loro
volta imprese
3) mietere per destinare risorse all’entrata di altri settori. Mietere, significa ridurre o annullare ogni forma di
investimento in attrezzature, R&S, pubblicità ecc. _ inevitabile che l’impresa perda quote di mercato, ma dato che
non investe, ha meno costi e quindi può mantenere ancora un cash flow positivo.
Svantaggi: i clienti e i collaboratori pensando a un abbandono totale: i primi passano ad altri concorrenti mentre i secondi
perdono motivazione; i concorrenti invece possono attaccare con più vigore.
Vantaggi: nel caso in cui le condizioni del mercato cambino in meglio rispetto a quelle previste, lasca la possibilità di
modificare la rotta.
4) tenere il campo è una variante della mietitura. in attesa che l’incertezza diradi, l’impresa riduce i costi e gli
investimenti, ma non sotto il livello che assicura qualità, efficienza nella produzione e nella distribuzione, fedeltà
dei clienti. Le tecniche sono varie:
outsourcing, quando all’esterno le produzioni hanno un costo inferiore;
nuova configurazione di prodotto o di servizio;
cessione impianti non utilizzati;
abbandono dei punti vendita che chiudono in perdita;
nuovi canali della distribuzione, per assicurare gli sbocchi alle produzioni di basso costo.
5) Disinvestire o liquidare. quando si avvicina il declino, l’impresa può valutare che l’uscita anticipata dal settore
possa rappresentare la strategia migliore; è una strategia adottata quando l’impresa prevede che la concorrenza
sarà forte e non dispone delle risorse necessarie per mantenere le nicchie di mercato esistenti. La liquidazione è la
soluzione più drastica: il patrimonio è smembrato, le attività sono cedute e le passività estinte.
6) Intensità del declino
Con il calo della domanda la competizione si fa più agguerrita e ciò comporta un abbassamento dei prezzi e
quindi una diminuzione della redditività.
L’intensità della competizione nei settori in declino è più forte quando:
a) Il declino è rapido rispetto a quando è lento (lo so è assurda come frase)
b) Le barriere all’uscita sono alte
c) I costi fissi sono alti
d) Il prodotto ha perso unicità, è diventato una commodity

CAP. 17: I LEADER TRA ATTACCO E DIFESA


17.2: le strategie di attacco ai leader muovendo da posizioni modeste.
Non esistono comunque regole per avere un successo sicuro, ma regole per ridurre i rischi di insuccesso. Le imprese che
lanciano la sfida ai rivali più forti hanno differenti possibilità di scelta della strategia da adottare per affrontare i leader:
Nicchie dimenticate: consiste nel cercare segmenti di mercato che le grandi imprese ignorano e nelle quali è
possibile realizzare buoni margini di profitto (Nestlè, Danone);
Specializzazione: si individuano segmenti dove l’impresa che attacca può vantare una indiscussa superiorità
attraverso una scelta accurata dei segmenti di mercato nei quali competere concentrando le risorse in questi
segmenti;
“Noi meglio di loro”: strategia di mercato che consiste nel presentare prodotti che per qualità, ritmo di
innovazione o prestazioni sono percepite dai compratori come migliori rispetto a quelli dei concorrenti più
affermati;
Immagine distinta: sviluppare un’immagine del prodotto o del servizio offerto che sia più visibile di quella dei
concorrenti maggiori;
Imitare e difendere: strategia che evita di attaccare il leader, scegliendo di competere dove l’impresa leader non
ha interessi e la politica dei prezzi non attacca la sua competitività;
Acquistare imprese: l’impresa migliora la sua posizione competitiva attraverso fusioni o acquisizioni di altre
imprese al fine di allargare la quota di mercato e rafforzare la capacità di competere.
Evitare lo scontro
Le imprese che decidono di affrontare i leader, lo fanno con non poche difficoltà, ma nonostante ciò riescono a costruirsi
una buona posizione.

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Un principio generale è di evitare lo scontro frontale e prende il nome di “strategia dell’angolo cieco”(blind side strategy):
anziché affrontare direttamente i maggiori concorrenti è preferibile aggirarli, in modo da assicurarsi quote di mercato che
essi non sono in grado o non intendono conquistare.
Le strategie che possono essere adottate sono principalmente tre:
1) Introduzione di prodotti sostitutivi; Per attaccare i leader del mercato molte imprese lanciano un prodotto
sostitutivo che presenta vantaggi rispetto ai prodotti concorrenti: un prezzo più basso, minori costi di esercizio,
minor peso, minori dimensioni, ecc.. Questa decisione non garantisce il successo di lungo periodo, in quanto le
imprese leader possono imitare chi attacca offrendo un prodotto simile e possono difendersi agevolmente
riducendo i prezzi, aumentando le spese in pubblicità, promozione, distribuzione, o accelerando il lancio di nuovi
prodotti. Chi è in posizione dominante aumenta quindi gli investimenti necessari per competere aumentando i
rischi per il nuovo entrante. Le imprese che attaccano i leader preferiscono la strategia dell’angolo cieco, strategia
eseguita da TetraPack, che ha evitato lo scontro frontale con le aziende produttrici di bottiglie di vetro o lattine,
presentando un prodotto con una tecnologia completamente diversa, più flessibile e innovativa.
2) Nuove forme di distribuzione. Le imprese che hanno modeste quote di mercato si trovano spesso a fronteggiare
canali di distribuzione controllati saldamente dalle imprese leader.
Per farsi strada devono proporre forme alternative di distribuzione poiché quelle tradizionali sono spesso precluse.
Questa barriera può essere frutto di un accordo in esclusiva oppure la conseguenza di forti investimenti in
pubblicità. Es.: la strategia adottata da Avon fu quella di adottare un nuovo modo di vendere, il porta-a-porta, che
mise in difficoltà i leader che non la potevano imitare, in quanto avrebbero causato l’insorgere dei propri
distributori.
3) Nicchie trascurate. Le imprese di grandi dimensioni puntano ai prodotti di maggior prestigio, ossia quelli che
realizzano i maggiori volumi di vendita, puntando quindi ai mercati più grandi e più remunerativi, lasciando spazi
che possono essere occupati da altre imprese. È il caso di Red Bull che ora domina il mercato delle “energy
drink” , una nicchia molto ricca che sia Coke sia Pepsi hanno trascurato, potendosi addirittura permettere un
elevato premium price.
4) Attacco ai fianchi basato sul prezzo. I rivali fissano un prezzo più basso rispetto al leader se:
I rivali possono attaccare il leader che ha prezzi elevati che coprono standard qualitativi sensibilmente più
alti di quelli desiderati, fissando prezzi più bassi che coprono livelli di qualità, si più bassi, ma comunque
graditi per il consumatore.
Se le condizioni finanziarie del leader non sono buone, così non potrà affrontare una guerra dei prezzi.
se l’attaccante è in grado di produrre a costi unitari sensibilmente più bassi e se ha la capacità finanziaria
per resistere alla risposta del leader che potrebbe abbassare i prezzi;
se il leader ha adottato una strategia di prezzo basata su alti margini e se non è in grado di ridurli o se non
vuole ridurli.
Evitare trappole strategiche: principi per attaccare con successo
Le imprese che attaccano i leader, per avere successo, non basta solo adottare le precedenti strategie, in quanto da alcuni
casi recenti sono emersi alcuni principi che l’impresa dovrebbe tener conto per avere successo:
Chi attacca introducendo un prodotto sostitutivo deve controllare la tecnologia che usa e deve possedere le
capacità relative. In caso contrario corre il rischio di creare un nuovo segmento nel quale si incunea rapidamente
il leader;
La strategia di attacco deve mettere in difficoltà il leader, che dovrà rimanere incerto circa la risposta più valida o
addirittura essere nell’impossibilità di rispondere;
Per conquistare quote di mercato è necessario disporre di una buona capacità finanziaria;
La conquista di quote di mercato è tanto più facile quanto più bassa è la fedeltà dei clienti alle imprese esistenti;
Le strategie di prodotto sostitutivo, nuovo canale di nicchia e di mercato, danno i migliori risultati se vengono
attuate in modo combinato, adottando anche una strategia flessibile nell’affrontare mercati geografici e contesti
diversi;
Non affrontare direttamente i leader; non imitare le loro strategie; in quanto il leader può difendersi agevolmente;
Occorre competere avendo una strategia di lungo termine. Quale che sia la strategia scelta, l’attaccante in ogni
caso deve avere un disegno di lungo termine, in quanto non è possibile restare a lungo cacciatori di nicchie.
L’attacco ai leader tende ad essere più efficace nei settori nuovi, a forte sviluppo, dove le attese dei clienti non
sono ancora ben definite;
Individuare prima degli altri i segmenti in sviluppo. Le imprese che per prime vi entrano o fanno le prime mosse
lasciano meno spazi ai concorrenti che seguiranno anche se hanno posizioni dominanti in altri segmenti;
Non dimenticare che quando sopraggiungono crisi, spesso la struttura della competizione cambia. Caso delle
compagnie aeree americane.
17.3: le strategie dei leader.
La storia dimostra che poche imprese riescono a mantenere a lungo una posizione di leadership nel mercato, perché sono
costantemente sotto la minaccia di attacco sia da parte dei rivali tradizionali sia da parte di concorrenti con posizioni
modeste, o di nuovi entranti che mirano a occupare nicchie di mercato o attaccano muovendo dall’angolo cieco.
Per mantenere la sua posizione il leader deve adottare strategie miranti a raggiungere tre obiettivi;
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1) Proteggere le quote di mercato,


2) Mantenere elevata la redditività;
3) Dissuadere l’entrata di nuovi concorrenti;
Punto centrale di qualsiasi strategia dei leader parte dai vantaggi derivanti da una elevata quota di mercato e dalla
necessità di mantenere tale posizione, che gli permette la riduzione dei costi di produzione e di conseguenza
l’abbassamento dei prezzi, dissuadendo l’entrata di nuovi concorrenti. Essere leader anche nei costi significa respingere
molti attacchi.
Diverse ricerche indicano cinque tipi di strategie fondamentali che i leader devono adottare:
Sempre all’offensiva: la strategia è basata sul principio che la miglior difesa è l’attacco. Il leader vuole essere
costantemente all’offensiva e consolidare la propria posizione;
Fortificare e difendere: l’obiettivo è dissuadere l’entrata di nuovi concorrenti e respingere gli attacchi dei rivali.
Quindi: difesa delle quote di mercato e protezione dei vantaggi competitivi;
Follow-the-leader: questa strategia mira a frenare i rivali che muovono da posizioni modeste del mercato. I
leader induce i potenziali attaccanti a rinunciare adottando varie strategie, anche queste simili a quelle esaminate
per i settori maturi;
Confrontation strategy: rispondere prontamente e con forza agli attacchi delle imprese che hanno quote modeste
di mercato è una strategia efficace, anche perché è un segnale per altri possibili concorrenti;
Maintenance strategy: il ritmo di sviluppo delle vendite, le quote di mercato, la redditività devono essere difesi
con investimenti che mantengano a livelli elevati le tecnologie, l’efficienza operativa, la qualità dei prodotti, i
servizi dei clienti.

CAP. 18: LE STRATEGIE DI TURNAROUND


18.1: le cause del declino e le responsabilità del management.
Per turnaround si intende l’insieme delle azioni con le quali l’impresa, sotto la pressione del peggioramento prolungato
dei risultati, cerca di superare il periodo di difficoltà e tornare alle prestazioni del periodo precedente ed eventualmente
migliorarle.
Dall’esame dei successi e degli insuccessi nei turnaround emerge infatti che per superare la crisi di risultati occorrono:
impegno, creatività e volontà di rovesciare la situazione; capacità di individuare e trarre vantaggio dal potenziale
dell’impresa; capacità di creare consenso.
La crisi può essere determinata da tre cause:
1) Recessione
2) Cambiamenti tecnologici
3) Responsabilità del management
Recessione.
In questo stato di crisi l’impresa può scegliere due strade:
1) Bisogna investire in modo aggressivo per conquistare quote di mercato approfittando della debolezza degli
avversari?
2) Oppure rinunciare a tale politica e concentrare le risorse sulla difesa della redditività?
La risposta dipende dalle condizioni in cui l’impresa si trova in funzione della:
Situazione economico-finanziaria
Scelta dei clienti sui quali investire per mantenere la fedeltà
La determinazione dei costi da sostenere per strappare clienti ai rivali
Cambiamenti della tecnologia.
Le innovazioni radicali possono sconvolgere la struttura della competizione e spingere rapidamente imprese leader verso
il declino.
Es.: rivoluzione digitale nel settore della fotografia (Eastman Kodak aveva solo Fuji Photo e pochi altri come concorrenti,
si è trovata altre imprese high – tech e dell’elettronica di consumo come Hewlett – Packard e Sony come concorrenti).
Responsabilità del management.
Le cause di una crisi che possono risalire a responsabilità del management sono le più frequenti: incapacità, dimensioni
eccessive dell’impresa, controlli finanziari non adeguati, costi elevati, inerzia.
Incapacità del management. Può assumere vari aspetti. Hoffman (1984) ha individuato una seri di punti deboli
nel management delle imprese in declino: mancanza di un adeguato equilibrio di competenze al vertice (modeste
competenze tecnologiche, o finanziarie, o di marketing); errori nel programmare la successione ai vertici.
Dimensioni eccessive dell’impresa. Le spinte verso lo sviluppo sono forti, ma uno sviluppo eccessivo comporta
in genere due conseguenze: difficoltà di controllo e indebitamento. Se la domanda rallenta e il costo del denaro
cresce, l’impresa diventa vulnerabile a crisi finanziarie.
Controlli inadeguati. Altra conseguenza dello sviluppo eccessivo rispetto alle possibilità può essere il venir
meno di un adeguato sistema di controllo finanziario (diversificazione).
Costi troppo alti. La mancanza di controlli adeguati, l’eccesso di indebitamento, diversificazioni che non creano
economie di scala e la perdita di competitività sono spesso l’origine di aumenti eccessivi dei costi.

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Inerzia. Un’impresa può essere vittima del proprio successo: continua a investire nei prodotti e nei processi
produttivi del passato, è portata a ritardare la risposta del cambiamento e diventa così inevitabile la perdita di
quote di mercato e di competitività.
18.2: la diagnosi interna.
Se la crisi non è superabile, le alternative sono la vendita (disinvestimento) o il fallimento.
Se, invece, il settore mantiene qualche elemento di attrattiva e ha un buon potenziale di redditività, il turnaround può
essere avviato. Analisi delle capacità di ripresa, attraverso quattro situazioni possibili:
Non recuperabile. La strategia è destinata a fallire in presenza delle seguenti condizioni:
a) L’impresa non è competitiva e non ha potenziale di miglioramento;
b) La domanda dei prodotti di base del settore è in calo costante; l’impresa non è diversificata e non dispone
delle risorse necessarie per cercare di entrare in altri settori.
Recupero temporaneo. L’impresa può ridurre i costi, può costruire nuovi vantaggi competitivi e può riposizionare
i prodotti o i servizi evitando così l’insolvenza;
Sopravvivenza possibile. Il settore è in lento declino e le opportunità di generare profitti continuano a essere
modeste. Il turnaround può avere successo, ma le possibilità di sviluppo restano assai limitate;
Recupero sostenibile. È la situazione ideale perché la strategia abbia successo: il turnaround è più agevole se il
settore ha buona attrattività e se il declino dell’impresa è stato originato da carenze del management piuttosto che
dal declino del settore.
18.3: le fasi e i principi del turnaround.
1) Fermare l’emorragia. In ogni turnaround c’è un prodotto, una linea di prodotti, un progetto che perde e che
brucia cash flow rapidamente, mentre le attività più importanti non hanno liquidità sufficiente per arginare la crisi
e rilanciare.
2) Cash management. Il controllo del cash flow è un corollario della politica che mira a frenare l’emorragia. Le
spese che superano un certo ammontare dovrebbero essere autorizzate anche dal responsabile del turnaround (in
molti casi tante richieste non essenziali non vanno a compimento, proprio perché il middle management ci pensa
due volte prima di mandare avanti una richiesta che in altri tempi non era sottoposta a controllo); i benefici di un
rigore maggiore nella gestione del cash flow restano a lungo, anche dopo che la responsabilità dei controlli torna
ai livelli più bassi dell’organizzazione.
3) Accumulare dati. Per risolvere i problemi occorre conoscerli, ma per conoscerli occorre avere la capacità di
ascoltare gli altri. Il turnaround matura in una situazione eccezionale e raramente sono già disponibili i dati
necessari (analisi dati declino, stato della finanza e dell’organizzazione, potenziale di marketing). Raccogliere
informazioni e ascoltare è un primo modo per fare sentire ai collaboratori che il loro contributo è importante.
4) Stabilire chi guida. Molti pensano che occorra cambiare i vertici e dare una nuova leadership, affermando che
chi ha sopportato il peso del declino difficilmente ha la forza di risollevare le sorti dell’impresa. Altri (pochi)
pensano invece che chi conosce le cause del declino e l’organizzazione abbia maggiori possibilità di invertire la
rotta (es. Motorola ha adottato questo secondo principio, ma fallisce nell’obiettivo).
5) Valutare la capacità operativa. L’analisi della capacità operativa è un passaggio cruciale del turnaround
soprattutto nelle imprese di trasformazione. L’obiettivo è non solo contenere i costi ma anche rilanciare i ricavi
con nuovi prodotti. Goldston (1992) propone di ricondurre la decisione a una matrice (corporate capabilities
matrix), che incrocia le capacità produttive esistenti con le varie categorie di nuovi prodotti per le quali potrebbe
essere usata tale capacità. Il marketing dovrebbe poi individuare con quali prodotti, con quale segmentazione e
con quale posizionamento sia possibile aumentare i volumi il più rapidamente possibile. Questo può dare un
rapido aumento delle redditività con un investimento minimo. L’impresa infatti: ha le competenze per gestire la
nuova produzione; non deve fare nuovi investimenti; utilizzando la capacità produttiva disponibile può ridurre i
tempi di introduzione di un nuovo prodotto; può concentrare le risorse sulla promozione e quindi abbreviare i
tempi di recupero degli investimenti fatti.
6) Avere un piano. Avviare un turnaround significa fissare nuovi obiettivi, fare nuove scelte strategiche e tracciare
percorsi di gestione. Occorre dunque un piano (quali mezzi, quali azioni, dove si vuole andare, perché, quali
rischi, quali sacrifici, ecc.).
7) Fissare obiettivi realistici. Chi è alla guida deve fissare obiettivi di breve termine che siano realistici e
raggiungibili, così da rendere credibile il piano di turnaround.
8) Stimolare la creazione di nuove idee. Come sostiene Goldston (1992), “il patrimonio di maggior valore nelle
imprese di successo è forse la capacità delle persone, a ogni livello, di usare conoscenza, creatività ed esperienza
per generare nuove idee”. Occorrono sempre nuove idee.
9) Generare liquidità. Disporre rapidamente di liquidità è un fattore vitale nel processo di turnaround. Serve per
pagare fornitori riluttanti, a mantenere un rapporto, per finanziare lo sviluppo di nuove idee, per dare la
flessibilità necessaria nel rispondere a nuove tendenze del mercato e sfruttare le nuove opportunità.
10) Mostrare progressi misurabili. Per dare credibilità al piano di turnaround occorre anche dimostrare che il
peggio è passato. Occorre fare progressi presto e occorre che siano misurabili in modo oggettivo. È importante
fissare in anticipo quali criteri saranno adottati per misurare i risultati.

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18.4: i fattori di successo.


Le strategie di turnaround classiche sono:
Sostituire il top management
Modificare la tendenza dei ricavi. Promozione, marketing aggressivo, ricerca di nuovi clienti e diminuzione dei
prezzi possono essere una strategia adeguata all’uscita dalla crisi quando il punto debole principale è la bassa
utilizzazione della capacità produttiva.
Tagliare i costi. Si può ricorrere a controlli molto stretti su tutti i centri di costo e su tutte le voci del budget,
riducendo il personale, aumentando la produttività e riducendo il fabbisogno di capitale.
Ridurre il fabbisogno finanziario. Vendere parte delle attività del’impresa, avviare una strategia di contrazione
che consenta di ridurre il fabbisogno finanziario attraverso lo sfrondamento dei prodotti con i margini più bassi o
sui quali si perde; la chiusura di vecchio impianti, la riduzione della forza lavoro, il ritiro da alcuni mercati o
attraverso nuove forme di distribuzione.
Combinare più strategie. Per uscire dalla crisi è necessario un disegno generale che unifichi le strategie
precedenti.
Rischio diverso.
Si distingue tra turnaround relativamente semplici e turnaround a elevato rischio e il criterio di distinzione è basato sulla
posizione che hanno i volumi di produzione dell’impresa rispetto al break even point (punto di pareggio) nella fase di
avvio del turnaround:
Se l’impresa non è troppo lontana dal break – even point, può essere sufficiente una strategia di riduzione dei
costi per riportarla fuori dalla crisi;
Se invece le vendite sono molto al di sotto del break – even, il turnaround comporta rischi più elevati. In questa
situazione è possibile uscire dalla crisi soltanto con una drastica riduzione delle attività di bilancio. Questa
strategia può essere adottata dopo la verifica che il core business dell’impresa sia ancora valido e che esista la
effettiva possibilità di riguadagnare una buona posizione competitiva. Prima di ridurre le attività occorre
verificare che il potenziale del core business non venga intaccato.
Vediamo quali sono le principali strategie di turnaround adottate di recente.
I. Ridimensionare (scaling back). Snellire è la regola principe.
II. Necessità di consenso. Il turnaround riesce se sulla politica che lo guida esiste consenso sia da parte degli
azionisti di riferimento sia da parte dell’organizzazione.
III. Leadership. Quali caratteristiche deve avere un leader in tempi così difficili come quelli del turnaround? Saper
decidere in stadio di assedio, quando i margini di errore sopportabili sono molto bassi e devono anche avere
visione ed esperienza nello sviluppo e nella ricerca di nuove idee; agire in team è la chiave per gestire al meglio
un turnaround.
IV. Interim executive. Affidare temporaneamente a esperti esterni l’incarico di prendere decisioni in momenti difficili
(interim executives).
V. Mantenere gli investimenti strategici. Lo scopo è creare liquidità per sostenere le nuove strategie.
VI. Spin – off. Se tra le attività dell’impresa esiste una divisione , una linea di prodotti o di servizi che può essere
scorporata dal tutto e che ha un buon potenziale di redditività, l’impresa può costituire una unità separata. Il
risultato è l’immissione di nuovi capitali.
VII. Controcorrente. La capacità di trasformare una minaccia in opportunità è spesso fonte di vantaggio competitivo.
Una situazione c’è chi la legge in un modo e chi la legge nel modo opposto.
VIII. Dare un quadro peggiore. Si presume che alcuni turnaround siano stati avviati dando all’esterno un quadro della
situazione ben peggiore di quanto fosse in realtà.
IX. Rapidità del cambiamento. La capacità di prevedere le nuove tendenze di certi business è notevolmente diminuita
negli ultimi anni.
X. Quali costi tagliare e in che misura. Ridurre i costi a parità di prestazioni dovrebbe essere un processo continuo,
ma quando le cose vanno bene non è facile mantenere la disciplina necessaria per fare economie. Nelle fasi di
boom, tutti sono riluttanti a cambiare le formule di successo. Un errore frequente quando la domanda cala è
ridurre o cancellare le spese in R&S. Ciò può avere senso se si intende abbandonare il business, ma per le imprese
che puntano a una ripresa esistono modi migliori per reagire.
XI. Aumentare la flessibilità. Una costante nei turnaround di successo è pianificare uno stadio futuro di maggiore
flessibilità e ridisegnare in funzione di questo l’organizzazione.
XII. Stringere alleanze. Sia con i clienti che con i fornitori esistono interessi a stringere accordi di lungo periodo.
Dovrebbero essere valutate le possibilità di joint venture.

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