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Alessandro Portelli http://alessandroportelli.blogspot.

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Altro antonioscalia@gmail.com Bacheca Esci

ALESSANDRO PORTELLI

29 APRILE 2019

Tutto il giorno di ieri sui media rimbalzava una notizia sconvolgente:


gli organizzatori del “cosiddetto “Running festival” (ma che razza di
nome!) di Trieste avevano deciso, “per il loro bene,” di non invitare
atleti africani alla mezza maratona in programma ai primi di maggio e
di “prendere soltanto atleti europei”.. Mi era paro un altro terribile
segno dei tempi, e avevo mandato qualche riga di sconsolato commento
L I N K E C O N TAT T I
al giornale. All’ultimo momento, dopo un paradossale tira e molla fra
istituzioni, forse politiche, federazioni sportive e altri ancora (gli unici Chi è Alessandro Portelli
di cui non abbiamo sentito la voce sono gli atleti africani, non invitati Una proposta di lavoro culturale
neanche alla conversazione), gli organizzatori hanno fatto marcia Scrivi ad Alessandro Portelli
indietro. E’ una cosa buona – l’ipocrisia, diceva Umberto Eco, è un
omaggio del vizio alla virtù – ma il fatto che ci si fosse pensato, e le
ragioni che erano state addotte, restano comunque un segnale su cui DOWNLOAD

riflettere. Questo è, più o meno, quello che avevo scritto. In questo Lezioni di storia: i giorni di Roma - 24
nostro ipocrita paese, esclusioni e discriminazioni si praticano sempre marzo 1944: Le Fosse Ardeatine
e soltanto per fare il bene dei i discriminati e degli esclusi: il mancato Lezioni di storia: Sulla scena di Roma:
invito agli atleti africani, che questa gara rischiavano di vincerla, è Il bombardamento di San Lorenzo
dovuto alla benevola volontà di impedire “un mercimonio di atleti
africani di altissimo valore, che vengono semplicemente sfruttati” da
manager cinici e disonesti. E’ sempre lo stesso meccanismo: gli atleti POST RECENTI

vengono sfruttati, quindi noi li difendiamo non facendoli lavorare; tanti Tutto il giorno di ieri sui media
africani soffrono per la povertà e le guerre, quindi “aiutiamoli a casa rimbalzava una n...
loro” e intanto chiudiamo i porti e non facciamoli arrivare. L’analogia Nel 1950, nel libro La folla solitaria,
la conferma il sottosegretario allo sport Giancarlo Giorgetti che, pur un testo d...
prendendo le distanze dalla decisione degli organizzatori triestini, ha Bruce Springtsteen: Born to Run,
confermato che bisogna combattere “quelli che chiamo gli scafisti dello l'autobiografia
sport”. Gli scafisti, lo sappiamo, sono la foglia di fico di chi dice di voler La scheda, il fucile e Dallas
combattere mediatori e sfruttatori – gli scafisti dei migranti, i manager ILouisiana, Minnesota: il delirio
dei maratoneti – mentre si accanisce sulle loro vittime, lasciando a casa dell'onnipotenza
i corridori e lasciando annegare i migranti. In realtà, comunque, la
https://www.youtube.com
finta protezione agli sfruttati serve a proteggere altri. Spiega /watch?v=KwYE2d0h170: semik...
l’organizzatore Gianfranco Carini: “manager poco seri sfruttano questi
L'Europa del genocidio respinge i
atleti e li propongono a costi bassissimi e questo va a scapito della loro migranti
dignità […] di atleti e di esseri umani - ma anche a discapito di atleti
Joe Hill: 1915-2015
italiani ed europei, che non possono essere ingaggiati perché hanno
"Adua" di Igiaba Scego - il manifesto
costi di mercato". Rieccoci, allora: i “negri” costano meno e portano via
15.12.2015
il lavoro ai nativi, come nelle campagne pugliesi e calabre. Proteggere

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la loro dignità serve a proteggere il valore di mercato degli autoctoni. Link a una pr esentazione del mio
Che lo sport sia essenzialmente una merce, e che il mercato si regga libro su Bruce S...
essenzialmente sullo sfruttamento, non è più né un mistero né, temo,
uno scandalo. Lo sfruttamento degli atleti – ma non solo africani! – è
ARCHIVIO
una realtà. Ma se gli organizzatori triestini davvero ci tenevano a
combattere queste storture e a difendere i diritti degli atleti africani un maggio 2006
modo ci sarebbe stato: pagare anche a loro, aggirando i loro sfruttatori, luglio 2006
il giusto ingaggio “di mercato” che offrono a tutti gli altri. Così non settembre 2006
sarebbero sfruttati (non più degli altri, cioè), e non potrebbero fare ottobre 2006
concorrenza a ribasso a nessuno. Non mi pare che gli sia venuto in
novembre 2006
mente.. Eppure, in questo modo, non avrebbero salvato solo la dignità
dicembre 2006
umana e i diritti economici degli africani, ma anche la dignità degli
gennaio 2007
europei, a cui nessuno avrebbe potuto dire, a gara conclusa, che hanno
febbraio 2007
vinto solo perché gli africani non c’erano.
marzo 2007
AL E SA NDRO PO RT EL I | 9 : 09 P M 0 CO M M E N T I
aprile 2007
maggio 2007
Nel 1950, nel libro La folla solitaria, un testo destinato a diventare un settembre 2007
classico, il sociologo americano David Riesman avvertiva che in tempi ottobre 2007
brevi la favola di Jack AmmazzaGiganti sarebbe stata sostituita dalla novembre 2007
fiaba di Jack AmmazzaNani. Invece di ribellarsi contro i potenti, il dicembre 2007
cittadino della nuova società di massa si sarebbe accanito a schiacciare gennaio 2008
quelli meno potenti di lui. Aveva ragione: nelle periferie romane, e in
febbraio 2008
tutta Italia, le rivolte popolari non rivendicano diritti ma li negano a chi
marzo 2008
ne ha ancora meno. Io credo che questo dipenda da un dato su cui
aprile 2008
abbiamo ragionato poco: queste sono le uniche lotte che gli abitanti
maggio 2008
delle borgate e delle periferie possono pensare di vincere, e che infatti
vincono sempre. A Torre Maura distruggono il pane destinato ai Rom, settembre 2008

e i Rom, democraticamente, vengono deportati; alla Magliana non novembre 2008


vogliono che il parroco distribuisca pacchi alimentari ai Rom, e il dicembre 2008
parroco, cristianamente, smette di farlo. Sappiamo che a Torre Maura, gennaio 2009
come altrove, erano indignati per la condizioni delle case popolari, per i febbraio 2009
trasporti, per il lavoro, per altri reali disagi. Ma sapevano, senza marzo 2009
bisogno di ragionarci sopra, che se avessero fatto i blocchi stradali per aprile 2009
rivendicare che almeno gli riscaldassero le case durante l’inverno, non
maggio 2009
se li sarebbe filati nessuno, al meglio avrebbero avuto vaghe promesse,
giugno 2009
al peggio la polizia li avrebbe manganellati invece di proteggerli, e
luglio 2009
probabilmente non sarebbe cambiato niente. Non è che dopo la
settembre 2009
protesta contro i Rom nelle loro vite sia cambiato concretamente
qualcosa; ma sono stati visibili, tutta l’Italia ha parlato di loro, e hanno ottobre 2009

vinto. Penso alla scena chiave di Moby Dick, quando l’ufficiale Starbuck novembre 2009
dice al capitano Ahab: ma quanto vale la tua vendetta , in concreto, sul dicembre 2009
mercato? E Ahab gli risponde: ha un valore grandissimo qui, dentro di gennaio 2010
me. Quello che hanno vinto questi cittadini non è il riscaldamento marzo 2010
invernale, ma la sensazione di essere cittadini e di avere dei diritti. A aprile 2010
questo infine serve ammazzare i nani: per sentirsi cittadini con dei

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diritti bisogna costituire categorie di non-cittadini, di senza-diritti, che maggio 2010


siano i Rom o i migranti, tali che ogni minuzia lasciata a loro sembri giugno 2010
sottratta a noi, per cui negargliela ci dà la sensazione di ricevere una ottobre 2010
qualche forma di restituzione, immateriale e illusoria ma non priva di novembre 2010
valore nella soggettività. E tutti a festeggiare la vittoria dei (mini)Golia
dicembre 2010
su Davide. Qui forse sta un lato oscuro della nostra stessa modernità.
gennaio 2011
Se il fascismo è la rivendicazione sfacciata del diritto di chi si sente
febbraio 2011
forte di dominare i deboli, anche le grandi democrazie moderne hanno
marzo 2011
garantito diritti agli inclusi grazie all’esistenza di altri esclusi – grazie
alla schiavitù nella democrazia nordamericana, al colonialismo nella aprile 2011

democrazia britannica. Forse il cosiddetto sovranismo del nostro maggio 2011


tempo è una manifestazione estrema di questa tendenza: la giugno 2011
proclamazione dei diritti universali e umani è possibile solo se agosto 2011
dall’universalità e dall’umanità qualcuno è escluso. Questo non settembre 2011
giustifica niente: anche i bianchi rurali poverissimi e sfruttati marzo 2012
dell’Alabama (e i tedeschi della Grande Depressione) avevano disagi aprile 2012
reali, ma non per questo abbiamo pensato di relativizzare e attenuare il
luglio 2012
KuKluxKlan. Ma aiuta a ragionare, e a cercare come sconfiggerlo. Al di
novembre 2012
là della utile e interessante discussione sulla questione se le tendenze in
dicembre 2012
atto prefigurino o no qualche forme di fascismo, infatti, direi che alla
febbraio 2013
radice di tutto questo stanno, forse non solo ma certo in modo
determinante, le trasformazioni della nostra democrazia reale, ed è su aprile 2013
questo che dovremo lavorare. I giganti hanno cambiato natura. Da un maggio 2013
lato, sembra che si siano materializzati: il potere si incarna nella giugno 2013
persona (il corpo monocratico) del leader, che sia Berlusconi o Salvini o luglio 2013
magari Renzi. Dall’altro, più si concentra in un idolo visibile, più il agosto 2013
potere si smaterializza, si diffonde, si nasconde. Chi comanda davvero ottobre 2013
nella globalizzazione? “A chi possiamo sparare?” chiedono sia il
novembre 2013
contadino sfrattato di Furore, sia il disoccupato vagabondo di The New
dicembre 2013
Timer di Bruce Springsteen. I giganti non sono solo potenti ma anche
gennaio 2014
invisibili e irraggiungibili. Con chi se la pigliano i cittadini di Torre
febbraio 2014
Maura – con la Raggi? Col comune (quale dipartimento, quale
marzo 2014
ufficio?), con l’Istituto case popolari (esiste ancora?), con le banche, col
governo, con Soros…? Oltre tutto gli sembra, non senza motivo, che aprile 2014
anche quelli che un tempo li aiutavano a organizzarsi per lottare contro maggio 2014
i giganti siano diventati giganti essi stessi, magari un po’ meno giugno 2014
malevoli, e siano andati a confondersi in mezzo ai loro simili. Più agosto 2014
investiamo potere nel Capo, più ce ne spogliamo noi. I seguaci del febbraio 2015
Duce, del Capitano, del leader non hanno più diritti, ma ricevono solo maggio 2015
concessioni (un reddito che si chiama “di cittadinanza” proprio perché
luglio 2015
ne è la negazione; o magari ottanta euro in busta paga) e gratificazioni
novembre 2015
emotive. Ma alla soddisfazione soggettiva e vicaria di identificarsi con il
dicembre 2015
potere personalizzato del Capo carismatico si accompagna la
gennaio 2016
sensazione di non essere altro che pedine in un gioco che non
controlliamo. E’ una sensazione oscura, informe, non riconosciuta e maggio 2016

non elaborata, e quindi incapace di manifestarsi se non in pure luglio 2016

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esplosioni di rabbia. Il “disagio delle periferie” non è che una forma del ottobre 2016
disagio generalizzato della cittadinanza, e non basta essere chiamati aprile 2019
una volta ogni qualche anno a votare in un’elezione o una primaria per
farci sentire che contiamo davvero qualche cosa. Più la democrazia si
trasforma da partecipata in governabile, più il potere e la ricchezza si FEED

contraggono in mani sempre meno numerose e sempre più distanti, più


il popolo sovrano si trasforma in plebe di sudditi governabili in cerca di
sovranità residuali e illusorie. Facciamo bene ad andare a Torre Maura
C O L L A B O R AT O R I
a manifestare contro il fascismo. Faremmo ancora meglio ad essere
A LE SA N D RO PO RTEL I
presenti sempre a Torre Maura, Magliana, Casal Bruciato, San Basilio, I VAN HAWK
quando si tratta di garantire per tutti – “senza distinzione di sesso, di S ERG I O PO LI M E N E
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali”, come dice un testo che dovrebbe esserci caro – i
diritti fondamentali: la casa, la salute, il lavoro, la scuola, la
partecipazione democratica, da cui gli ammazza nani si sentono, e in
gran parte sono, esclusi. Antifascismo oggi è semplicemente questo: far
funzionare la democrazia partecipata ed egualitaria prefigurata dalla
costituzione che dalla sconfitta e negazione del fascismo nasce e si
sostiene. Avviare il lungo e faticoso lavoro di ricostituire (e inventarne
di nuovi) quegli strumenti che, stando fra noi ed i giganti, ci
permettevano di resistergli e di controllarli. Restituire dignità e
funzione al parlamento. Ridare forza ai sindacati. Restituire centralità
alla scuola pubblica. Inventare forme nuove di presenza civile
organizzata nelle città… Insomma: antifascismo è memoria storica,
senza di che non si fa niente; ma è soprattutto difesa del futuro.

AL E SA NDRO PO RT EL I | 9 : 09 P M 0 CO M M E N T I

0 5 O TTO BR E 20 1 6

Bruce Springtsteen: Born to Run, l'autobiografia


il manifesto 5 ottobre 2016 “Le parole vorticavano impetuose come una
tempesta, schiantandosi l’una contro l’altra senza ritegno”: è Bruce
Springsteen che parla del suo primo disco. ma vale anche per questo
libro. Springsteen è anche un artista della parola; e la prima cosa che si
chiede a un libro è che sia un atto di parola sostenuto, competente e
godibile. Questo lo è: non la solita autobiografia di star – anche se a
volte rischia di scivolarci dentro – descrizioni di concerti, cene con i
VIP… - ma un’autobiografia vera. Da un’autobiografia ci si aspetta in
primo luogo che la persona che scrive di sé sia anche rappresentativa,
che la sua sia anche la storia di un tempo e di un luogo. La città di
Freehold, le case e le mezze case) della famiglia Springsteen le
tocchiamo, le sentiamo, le odoriamo, con tutti quelli che ci vivono
dentro. La musica è la chiave con cui Springsteen spiega questo mondo,
ma questo mondo è anche la chiave che ci fa capire come nasce la
musica. L’entusiasmo – la notte, le ragazze, le macchine – di tante

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canzoni di Springsteen acquista profondità e ambiguità perché sullo


sfondo dei luoghi e nel futuro dei personaggi stanno periferie proletarie
dove vivere, fuggire, tornare: “Per raccontare la loro vita occorreva un
mix tra il romanticismo cupo e violento del doo-wop, il vigoroso
realismo del soul e quella vaga promessa di ascesa sociale offerta dalla
Motown […] L’atteggiamento alternativo degli Stones e dei loro colleghi
negli anni Sessanta non rispecchiava l’esperienza di quei ragazzi. E chi
se lo poteva permettere? C’era da lottare, stringere i denti, lavorare,
proteggere ciò che era tuo, restare fedele ai tuoi compagni, ai tuoi
antenati, alla famiglia, al territorio, ai fratelli e sorelle greaser, alla
patria. Erano queste le cose che ti rimanevano quando tutto il resto si
sgretolava, quando le mode passavano e mettevi incinta la tua ragazza,
quando tuo padre finiva in galera o perdeva il lavoro e toccava a te
rimboccarti le maniche”. In secondo luogo, ci aspetta la ricostruzione di
un percorso: come l’io narrato diventa l’io narrante. Avevano ragione i
suoi genitori, scrive Springsteen: la possibilità che “il quindicenne
foruncoloso di Freehold, New Jersey, con la sua chitarra Kent da due
soldi” sarebbe stato l’unico a salire un giorno sul palco coi Rolling
Stones, suoi idoli adolescenziali (e davanti a centomila romani al Circo
Massimo) era “una su un milione”. Come è successo? “Non ero nato
genio. Per sopravvivere in quel mondo avrei dovuto metterci tutto me
stesso, l’astuzia, le doti musicali, la presenza scenica, l’intelligenza, il
cuore e la volontà”. Genio, diceva Thomas Edison, è “uno percento
ispirazione, novantanove percento sudore”. “Ho lasciato abbastanza
sudore sui palchi di tutto il mondo da riempire almeno uno dei sette
mari”, scrive Springsteen. E’ l’etica operaia trasferita nella musica (gli
Steel Mill: “musica operaia, fragorosamente chitarristica con sonorità
di matrice Southern rock”); ma è “sudore” anche il lavoro mentale,
l’intelligenza: “la mia Asbury Park era un’isola di disadattati e colletti
blu, intelligenti ma non intellettuali” (il corsivo è mio!). Ma il sudore
non è tutto: quell’un percento, che Springsteen chiama “talento” è
intangibile e inspiegato. Dice una canzone di Iris Dement: “let the
mystery be”, accettiamo il mistero. E un po’ di mistero è bene che
rimanga anche qui. Infine, ci si aspetta un percorso di conoscenza di sé,
un modo per esplorarsi scrivendo. C’è una parola inattesa che ricorre
più volte: “rabbia” – accumulata nell’infanzia cattolica, covata ed
esplosa da suo padre nel silenzio e nella birra, interiorizzata e repressa
fino a inquinare i rapporti più profondi: un “abisso in cui rabbia, paura,
sfiducia, insicurezza e una misoginia di matrice famigliare facevano a
pugni con le mie doti migliori”. C’è una felicità, scrive, che è “la sorella
allegra della depressione”. Come l’euforia delle canzoni giovanili stava
sullo sfondo della violenza di classe, così lo Springsteen atletico e
vitalistico che vediamo sul palco è anche l’esorcismo di depressioni
ricorrenti e curate con l’analisi e i farmaci, e con il lavoro di scrivere
questo libro. “Ho passato la vita a combattere, studiare, suonare e
lavorare, perché volevo ascoltare e conoscere tutta la storia, la mia

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storia […] per potermi liberare dalle sue influenze più deleterie […]
Non so se ci sono riuscito, il diavolo è sempre dietro l’angolo, ma so che
è quanto mi sono impegnato a fare da giovane, con me stesso e con te”.

AL E SA NDRO PO RT EL I | 3 : 32 P M 4 CO M M E N T I

09 LUGLIO 2016

La scheda, il fucile e Dallas


Io non credo che possiamo essere contenti di quello che sta succedendo
a Dallas in queste ore. In primo luogo, perché ci sono dei morti, e
questo non è mai fonte di gioia. In secondo luogo perché sul piano della
lotta armata, a vincere saranno inevitabilmente gli altri, difficilmente
vinceremo, e ci saranno altri morti. Non è questione di retorica della
non-violenza: le sue vittorie il movimento di liberazione afroamericano
le ha conquistate con altri mezzi, con la mobilitazione di massa, e non è
chiaro quali saranno gli effetti della strage di Dallas su questo piano.
Ma credo che, come sempre accade, dobbiamo leggere gesti estremi e
disperati come questo come sintomo e segno di qualcosa di più ampio,
più profondo, e più nostro. Diceva Langston Hughes, il grande poeta
afroamericano: “Che ne è di un sogno differito? Si inacidisce come un
acino d’uva al sole, o s’infetta come una piaga e marcisce?... Forse si
affloscia come un grosso peso. Oppure esplode?” In questa America che
ti permette di ricercare e inseguire la felicità ma ti impedisce di
raggiungerla, il fuggiasco sogno afroamericano dell’uguaglianza diventa
sempre più differito e frustrante quando sembra più vicino. Malcolm X
diceva: “the ballot or the bullet”, la scheda o il fucile. Gli afroamericani
la scheda l’hanno usata, e hanno eletto Barak Obama. Il sogno
sembrava a portata di mano, abbiamo letto editoriali sulla fine del
razzismo, e invece è stato solo un nuovo inizio: l’abisso che per quattro
secoli ha separato bianchi e neri, il vuoto su cui si strutturava
l’America, è parso per un attimo ridursi, ma avvicinamento non ha
creato armonia, bensì attrito, e l’attrito sanguina. Sanguina anche
perché dall’altra parte – dalla parte di istituzioni intrise la vittoria
afroamericana con la scheda ha subito additato a un’opinione pubblica
spaventata e a istituzioni intrise di razzismo la strada del fucile. E le
pallottole hanno continuato a volare, come fanno da secoli di schiavitù,
linciaggi, segregazione, razzismo. Il sogno sembrava a portata di mano,
ed è sfuggito di nuovo. Che cosa è allora questa promessa sempre
rinnovata e sempre mancata? E’ una menzogna, che inacidisce e
marcisce il sogno e produce disincanto, sfiducia, crisi della
partecipazione e della democrazia? O una maledizione, che produce
rabbia e paura e infine, in gesti come quello di ieri a Dallas, esplode?
Direi che l’uno è il segno dell’altro: l’esplosione minoritaria e disperata
è lo specchio della delusione e della rabbia impotente della
maggioranza in una democrazia che ha fallito il suo compito.

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AL E SA NDRO PO RT EL I | 1 2:0 7 PM 0 C O M M ENT I

08 LUGLIO 2016

ILouisiana, Minnesota: il delirio dell'onnipotenza


il manifesto 8.7.2016 Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce
Springsteen canterà “Devils and Dust”: “ho il dito sul grilletto, non so
di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di
sopravvivere – la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena
di Dio e la riempie di diavoli e polvere….”E’ la metafora di un’America
che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e
paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto
intorno… E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari,
e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di
polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati).
Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che
ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti
pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti
armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad
Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli
aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere
un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio?
Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente:
non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo
faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu
crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro. Del
senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità.
Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato
punito. Dietro questa impunità c’è il senso – condonato, se non
sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni - che le
persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave.
Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton
Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua
identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua
impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo
(abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a
Hebron lo scorso marzo). E infine. Noi siamo governati da un
parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico”
compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile
Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui,
insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza
etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere. Perciò se
un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta
a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno
che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del

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portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel


parlamento della Repubblica. E se il marito della donna offesa reagisce,
allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi
ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra,
l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo,
deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di
protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua
mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire
onnipotente. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti
dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chi9ssà
dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di
Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da
noi è mano marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo
accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà
parolaia intrisa di indifferenza. In Louisiana e in Minnesota, gli
afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di
ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti
come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le
vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che
riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay,
che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una
“razza” e non offese all’umanità – fin quando la sollevazione contro
queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà
che parole e polvere.

AL E SA NDRO PO RT EL I | 7 : 10 P M 0 CO M M E N T I

26 MAGGIO 2016

https://www.youtube.com/watch?v=KwYE2d0h170: semiknario su
"On the ethics of Resistance", Harvard university, ottobre 2015

AL E SA NDRO PO RT EL I | 4 : 54 P M 0 CO M M E N T I

27 GENNAIO 2016

L'Europa del genocidio respinge i migranti


A undici anni dalla sua istituzione, la Giornata della Memoria suscita
valutazioni e commenti ambivalenti. Non sono poche, né poco
autorevoli, le voci che lamentano un rischio, senz’altro reale, di
saturazione, di ritualità burocratica e ripetitiva, un ricordo di un giorno
per non pensarci più per tutto l’anno. D’altra parte, quando da fonti
autorevoli sentiamo dire che l’idea della Shoah è stata suggerita a
Hitler dai palestinesi, mentre l’Iran continua a non prendere le
distanze dal negazionismo e neonazisti e affini di tutta Europa scelgono
l’Italia per i loro raduni, ci rendiamo conto di quanto pervasivi possano
essere il razzismo, il revisionismo opportunista e il negazionismo

8 of 15 6/29/2020, 11:50 AM
Alessandro Portelli http://alessandroportelli.blogspot.com/

strumentale. Il problema, come sempre, non è tanto se ricordare o no,


ma che cosa ricordare e come. Dovremmo cominciare col distinguere la
memoria in senso lato di conoscenza storica del passato, dalla memoria
in senso proprio di consapevolezza critica delle esperienze sociali e
personali vissute. La giornata della memoria acquisterebbe una
dimensione ulteriore di senso se, insieme agli eventi ricordati, aprisse
anche una riflessione sulla presenza, il ruolo, la crisi della memoria
stessa. Altrimenti, la necessarissima conoscenza storica e sentita
commemorazione della Shoah, della Resistenza (e anche delle foibe e
del gulag) non compensa la smemoratezza intenzionale di una società
in cui politici e media possono dire una settimana il contrario di quello
che avevano detto la settimana prima senza che nessuno se lo ricordi e
glielo ricordi. Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone
una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda.
La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria
vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il
nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare
relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa
che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere
migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire
anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la
stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio
organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che
ha prodotto e produce tutto questo. Proprio perché la Shoah è un
crimine specificamente europeo, non possiamo fare del suo ricordo una
memoria etnocentrica. E invece, fra le tante memorie che giustamente
vengono evocate in giornate come questa, non trova posto la memoria
del colonialismo, specialmente del colonialismo italiano e dei suoi
crimini. Di che memoria sono portatori gli abitanti della Libia, ex
colonia italiana, dove ci prepariamo di nuovo a “intervenire” (dopo il
1912 e il 2012), che memoria arriva in Italia con i migranti che arrivano
(quando ci riescono) dall’ex colonia italiana dell’Eritrea? Che cosa
ricordiamo dei trent’anni di resistenza libica all’occupazione, della
resistenza etiope all’aggressione italiana, nel paese che erige sacrari alla
memoria di un massacratore di libici e di etiopi come Rodolfo
Graziani? Possiamo parlarne, o no, nella cosiddetta giornata della
memoria? Con tanti problemi e domande, però vorrei aggiungere un
esempio positivo. Il 23 gennaio, nel liceo che porta il suo nome, si è
svolta un’emozionante “notte di Primo Levi”. E’ stata emozionante per
il modo in cui Edith Bruck, Sami Modiano, Giacoma Limentani –
testimoni diretti degli eventi – hanno fatto capire a una vasta aula
magna stracolma di studenti e famiglie fino a che punto le tragedie di
allora sono ferite ancora aperte nell’anima di persone che ci sono
vicine;farli vivere a una vasta aula magna stracolma di studenti e
famiglie; per come tutto è stato reso più profondo e coinvolgente dalla
musica dei MishMash e del coro Musica Nova, e dagli spettacoli e

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letture creati dagli studenti stessi; per la creazione di un senso di


comunità e condivisione attorno alle tavole cariche di buone cose
portate dai ragazzi e dai genitori stessi; per la consapevolezza diffusa
che, come in tutte le grandi culture tradizionali, fare festa è un modo
serio di ricordare. Ma è stato bellissimo soprattutto perché gli studenti
e le loro famiglie non hanno partecipato come destinatari più o meno
coinvolti di discorsi calati dall’alto, ma hanno retto tutto l’evento con il
lavoro, le voci e le idee loro e dei loro insegnanti. Questo è un modo
non solo di prendere coscienza del passato, ma di costruire memoria
per il futuro: perché imparando da narratori come Edith, Sami,
Giacometta i ragazzi di oggi si rendono conto che la memoria futura del
nostro tempo dipende dalla loro partecipazione attiva in esso: se non
ricordiamo,noln saremo ricordati. Per un volta, insomma, si è vista in
azione la vera e autentica “buona scuola”.

AL E SA NDRO PO RT EL I | 1 2:0 9 PM 1 C O M M ENT I

30 DICEMBRE 2015

Joe Hill: 1915-2015


Era la fine del 1915, cent’anni fa. A Salt Lake City, Utah, i tribunali e lo
stato uccisero Joe Hill, militante e bardo del sindacato rivoluzionario
degli Industrial Workers of the World (IWW). Dal carcere, aveva
scritto: “So che molti ribelli importanti dicono che la satira e la canzone
sono fuori luogo in un’organizzazione di lavoratori, e ammetto che le
canzoni non sono indispensabili alla causa; ma ogni volta che mi viene,
continuerò a scrivere queste mie sciocchezze cantate, anche se so bene
che la lotta di classe è una cosa seria.” Scrive Tom Morello, musicista
ribelle di oggi: “Senza Joe Hill, non ci sarebbero Woody Guthrie, Bob
Dylan, Bruce Springsteen, i Clash, i Public Enemy, Minor Threat,
System of a Down, Rage against the Machine.” Joe Hill spiegava: “Un
opuscolo, per buono che sia, lo leggi una volta e basta, ma una canzone
la impari a memoria e la canti e la canti; se prendi un po’ di nudi fatti e
di senso comune, li rivesti con un po’ di umorismo per renderli meno
aridi, e li metti in una canzone puoi raggiungere tanti lavoratori troppo
poco istruiti o troppo indifferenti per leggere un opuscolo o un
editoriale.” La base degli IWW erano lavoratori migranti e stagionali, e
niente è più leggero, resistente e trasportabile di una canzone; come poi
il movimento dei diritti civili, gli IWW saranno un singing movement , i
cui militanti girano l’America portandosi in tasca due cose: la tessera
che li fa riconoscere come compagni dovunque vanno, e il canzoniere
rosso, The little red songbook, il cui fine dichiarato era di “fan the
flames”, alimentare le fiamme della rivolta. Joe Hill era un genio della
parodia. Prendeva canzonette di successo, canti popolari, brani gospel,
e rovesciava il senso mantenendo il suono. Prende una canzone
popolare, la storia dell’eroico ferroviere Casey Jones, e lo trasforma in

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Casey Jones il crumiro, che si ammazza per far corere i treni durante
uno sciopero, arriva in paradiso dove gli angeli sono in lotta, fa il
crumiro anche lì e finisce a spalare zolfo all’inferno. Dalle canzoni di
chiesa riprende la capacità di creare comunità, di cantare e
improvvisare tutti insieme, e le trasforma in inni all’unità operaia.
“There is power in the blood of the lamb,” c’è potere nel sangue
dell’Agnello, diventa “there is power in a band of working man,” c’è
potere in una schiera di lavoratori, quando sono uniti, mano nella
mano. A forza di sentire le bande dell’Esercito della Salvezza
annunciare la beatitudine futura nella dolcezza del cielo (“in the sweet
bye and bye”), si inventa una frase diventata familiare anche da noi:
“mangia e prega, campa di niente, e avrai la torta in cielo (“pie in the
sky”)”. Senza Joe Hill, anche un po’ di Gianni Rodari (La torta in cielo,
1966) non ci sarebbe. Scrive Tom Morello: “Joe Hill non si limitava a
scrivere canzoni contro l’ingiustizia. Era in prima linea, a rischio della
vita, per creare un mondo migliore e più giusto. Per questo il potere
aveva paura di lui. Per questo l’hanno ucciso”. Le sue canzoni hanno
avuto un impatto così straordinario e duraturo perché nascono da
dentro il proletariato ribelle, intrise del linguaggio che Joe Hill,
immigrato proletario, aveva assorbito sui moli del porto di San Diego,
fra i boscaioli dell’Oregon, nelle miniere di rame, nei saloon della
Bowery, in tutti i posti dove aveva lavorato e lottato. Joe Hill rimane
un’icona della sinistra (c’è anche un film di Bo Widerberg, Joe Hill,
1971. Peccato che nella versione italiana le canzoni siano cantate in
pedestri traduzioni italiane) sia per le sue canzoni, sia per l’ ingiustizia
simbolica della sua morte. L’accusa di omicidio per rapina fu sostenuta
solo da vaghi indizi; i testimoni cambiarono versione in vista del
processo; gli atti del processo scomparvero dagli archivi; il governo
dello Utah rifiutò di ascoltare le proteste di tutto il mondo e il
messaggio del presidente Wilson che chiedeva una revisione del
processo. Ogni somiglianza con la storia di Sacco e Vanzetti è
storicamente fondata. Nel 1938, Alfred Hayes ed Earl Robinson lo
ricordavano in una canzone subito resa classica dall’interpretazione di
Paul Robeson: “Ho sognato di vedere Joe Hill stanotte, vivo come e te.
Gli dissi, ma Joe, sei morto da anni; e lui: non sono morto mai.
Dovunque i lavoratori sono in sciopero, in ogni fabbrica e miniera,
dove i lavoratori lottano per i loro diritti, è lì che troverai Joe Hill.” C’è
traccia di questa canzone nel discorso di Tom Joad in Furore di
Steinbeck (e nel film John Ford): “Dove si lotta per dar da mangiare a
chi fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò
lì…” Dal romanzo e dal film, queste parole arrivano a Woody Guthrie e
poi a Bruce Springsteen: “Dove c’è un poliziotto che picchia qualcuno,
dove c’è una lotta contro il sangue e l’odio nell’aria, cercami e sarò lì…”
“Il mio testamento,” scrisse Joe Hill il giorno prima dell’esecuzione, “è
facile da fare: non c’è niente da spartirsi, perché il muschio non si
attacca a una pietra che rotola”( già: a rolling stone). Se potessi

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decidere, vorrei che Il mio corpo fosse fatto cenere e la cenere sparsa al
vento, che la porterà dove crescono i fiori, e forse aiuterà un fiore
appassito a rinascere.” Al suo funerale, marciarono in 30.000. Ma forse
avevano ragione Hayes e Robinson: Joe Hill non è morto, il suo
fantasma è qui insieme a quello di Tom Joad. Chissà che ricordarlo e
cantarlo non aiuti a far rifiorire quel movimento operaio per cui è
vissuto ed è stato ucciso cento anni fa.

AL E SA NDRO PO RT EL I | 1 0:1 9 AM 1 C O M M ENT I

19 DICEMBRE 2015

"Adua" di Igiaba Scego - il manifesto 15.12.2015


Erano appena i primi anni ’90, e alcuni di noi si posero una domanda:
ma queste persone che arrivano ora da tante altre parti del mondo,
stanno raccontando, stanno inventando, stanno scrivendo? C’era stato
qualche incontro, qualche segnale, e ci domandammo se, con modalità
paragonabili ma con tempi molto più rapidi, come negli Stati Uniti era
nata una letteratura afroamericana, non stesse nascendo qualcosa che
per mancanza di un altro termine, chiamammo provvisoriamente
“letteratura afroitaliana”: persone non nate in Italia, o da famiglie non
native italiane, che tuttavia scrivevano in italiano e pubblicavano in
Italia. Ricordo un po’ di scetticismo. Gli italianisti dell’università che
rifiutarono di accettare questi scritti come letteratura italiana (al
massimo, “letterature comparate”); l’industria editoriale che da questi
scrittori – come per quasi un secolo era successo agli afroamericani - si
aspettava solo documentazione (autobiografia) o sentimenti (poesia),
ma non gli riconosceva il diritto all’immaginazione (romanzo) e la
capacità di metterla in parole. Inutile ripetere che il tempo ha
dimostrato che questa scrittura non solo esiste, ma cresce e ormai è
arrivata a piena maturità, a solida coscienza di sé, e occupa uno spazio
tutt’altro che trascurabile nella cultura dell’Italia contemporanea.
Sottolineo Italia: perché quella che con un termine non
necessariamente soddisfacente oggi chiamiamo “letteratura migrante”
è un’espressione imprescindibile di quello che è oggi il nostro condiviso
e molteplice paese. Se la storia dell’Italia, se le radici dell’Europa sono
in gran parte il colonialismo e le guerre portate nel resto del mondo,
allora le memorie degli eritrei o dei curdi che oggi abitano l’Italia
diventano a pieno titolo memoria di tutti. Per esempio, è memoria
dell’Italia quella dà il titolo e il nome della protagonista ad Adua, il
recente romanzo di Igiaba Scego: la prima sconfitta militare subita da
un paese europeo (1896) per mano delle forze africane. Come ha
mostrato la stessa Igiaba Scego in un altro utilissimo libro (Roma
negata, Ediesse 2014), basterebbe guardarsi intorno per ritrovare nelle
strade, sui muri, nei monumenti della capitale d’Italia i segni del
passato coloniale italiano – glorificato dal nazionalismo e dal fascismo,

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trascurato e quindi tollerato dall’Italia democratica, e almeno in parte


costruito proprio attorno alla non dichiarata intenzione di cancellare la
memoria di quell’umiliazione originaria. Solo che adesso Adua è
presente nelle stesse strade e negli stessi quartieri anche con un’altra
connotazione e un altro punto di vista: quello degli italiani e dei
migranti per i quali è una memoria (peraltro, come mostra il romanzo,
ambigua e complessa) di dignità e orgoglio. Forse l’unico modo per
elaborare davvero Adua è fare nostra Adua: riconoscerci in una
memoria che, proprio perché è una memoria di guerra, non può essere
che divisa nel momento in cui la accogliamo come condivisa. Come altri
testi recenti (penso a Il comandante del fiume di Cristina Ali Farah, a
Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi), Adua è il prodotto di
questa stagione di maturità autoconsapevolezza di questa nuova
letteratura italiana. E’ un romanzo ambizioso. Leggendolo, mi è venuta
in mente la categoria di “opera mondo” elaborata da Franco Moretti a
proposito di opere canoniche della letteratura “occidentale”, dal Faust a
Cent’anni di solitudine: opere che cercano l’impossibile impresa di fare
entrare in mondo intero in un solo testo, che naturalmente falliscono,
ma che proprio nelle loro imperfezioni recano il segno della loro
grandezza. Adua non si misura con il mondo intero, ma certamente ha
il coraggio di cercare di mettere in un solo testo tutta la storia di un
pezzo di mondo, quella di un’Italia della cui storia fanno parte l’Eritrea,
l’Etiopia, la Somalia e le loro memorie. La protagonista la racconta
all’unico interlocutore in grado, anche grazie alle sue grandi orecchie,
di ascoltarla: l’elefantino del Bernini in piazza della Minerva, altra
presenza africana nel centro dell’Italia. La storia di Adua va da
un’infanzia rimpianta nella Somalia rurale alla scoperta del cinema
nelle città colonizzate dagli italiani, dall’infibulazione allo sfruttamento
sessuale in certo cinema italiano erotico-esotico degli anni ’70 (con
un’appendice scopertamente berlusconica un po’ tirata per i capelli ma
utile a portare la storia fino a noi), all’affetto e conflitto anche
generazionale fra la prima diaspora postcoloniale e l'immigrazione
recente (rispettivamente e spietatamente, nei relativi gerghi, “vecchie
lire” e “Titanic"). Questa storia si intreccia con quelle del padre della
protagonista, Zoppe, e del padre di lui: il contrasto campagna-città, le
relazioni generazionali (le “paternali”, i monologhi in discorso indiretto
libero del padre alla figlia sono le pagine meglio riuscite godibili del
libro), ma soprattutto le complicazioni di un rapporto fra colonizzati e
colonizzatori in cui la rabbia e il risentimento dell’oppresso si
intrecciano con la subalternità e magari anche con l’opportunismo
della sopravvivenza, in cui dai a tua figlia il nome di una vittoriosa
battaglia anticoloniale ma poi coi colonizzatori (e quindi con la tua
coscienza) sei per forza costretto convivere, adattarti e servire. Il padre
di Adua nel romanzo si chiama Zoppe. Anche nella forma “Zoope”, è un
nome abbastanza diffuso in Somalia. Ma una volta che entra nel
discorso italiano, le connotazioni diventano altre, e a me suggerisce

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irresistibilmente il più famoso zoppo della cultura euro-africo-asiatica


– Edipo. Come ha mostrato Carlo Ginzburg in Storia notturna, da
Edipo a Cenerentola la zoppia - rottura della simmetria costitutiva del
corpo umano – è il segno di uno squilibrio profondo, di un disordine
cosmico; ma proprio per questo è anche il segno di una posizione
intermedia fra mondi diversi e in comunicanti (sono zoppi il coyote e la
iena, mediatori fra mondo dei vivi e mondo dei morti in molte
mitologie native americane). Ora, Zoppe è appunto questo: come
Edipo, è indovino, mediatore fra mondi visibili e invisibili, capace di
evocare persone lontane e pre-vedere tempi futuri (cosa che aiuta
Scego a far entrare nel libro anche tempi che sarebbero fuori del suo
orizzonte cronologico); e di mestiere fa il traduttore, la più complicata
di tutte le figure di mediatore in un mondo in cui le lingue non si
capiscono fra loro. Traduttore traditore, dice il proverbio: Zoppe dà ai
colonizzatori accesso alle parole dei colonizzati, e in gran parte rinuncia
alla propria – non racconterà mai a nessuno la sua storia, e il silenzio lo
avvelena (grazia alla sua capacità visionaria, e all’incontro con una
bambina e una famiglia ebrea, Zoppe pre-vede anche la Shoah: anche
qui, un po’ forzato, ma utile a ricordarci che antisemitismo fascista e
razzismo coloniale sono legati a doppio filo; e funzionale all’ambizione
di opera-mondo del libro). Il romanzo ci conclude in piazza dei
Cinquecento. Nessuno ci pensa o lo sa: è un’altra memoria ambigua un
po’ vergognosa e un po’ dimenticata. Proprio Igiaba Scego ci ha
ricordato che prende il nome dei “cinquecento” italiani periti in un
altro disastro coloniale, la battaglia di Dogali in Eritrea, nel 1897. Se
uno la guarda su Wikipedia, ci trova un racconto “eroico” dei prodi
italiani che soccombono a soverchianti forze africane – armate
peraltro, sempre stando a Wikipedia, solo di lance. Se uno la pensa
dentro la memoria di quelli che difendevano il loro paese da
un’arrogante invasione straniera, è impossibile non stare dalla loro
parte, contro una parte di “noi italiani” stessi. Se non la ricordiamo, è
perché è vergognosa da due lati: da quello eroico-guerresco, perché è
una sconfitta; e da quello civile, perché è parte di un’incivile storia di
aggressione coloniale. In questo luogo simbolico, Adua si separa da
Ahmed, il giovane immigrato con cui ha scambiato protezione, calore e
affetto al di là delle differenze di età. Per la prima volta, lei si toglie lo
“strano turbante” fatto con la stoffa blu ereditata da suo padre, e scopre
che può liberarsi del peso e del marchio della sua memoria. Come dono
d’addio Ahmed le regala una cinepresa: dopo essere stata filmata come
oggetto da sfruttare, adesso finalmente potrà dare forma all’immagine
che ha di se stessa. Per chi si libera dell’oppressivo turbante blu di una
storia che ti grava addosso, piazza dei Cinquecento a Roma è soltanto la
piazza della stazione: luogo multiculturale di incontri, di arrivi, di
partenze, e di nuovi inizi.

AL E SA NDRO PO RT EL I | 1 0:3 8 PM 1 C O M M ENT I

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05 NOVEMBRE 2015

Link a una pr esentazione del mio libro su Bruce Springsteen


("Badlands. Springsteen e l'America: il lavoro e i sogni", Donzelli,
settembre 2015) a PPristina, Kosovo! http://oralhistorykosovo.org
/portelli-on-springsteen/#prettyPhoto[pp_gal]/0/

AL E SA NDRO PO RT EL I | 1 1:0 0 PM 0 C O M M ENT I

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