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ALESSANDRO PORTELLI

31 MAGGIO 2006

Un grande grazie
Carissime\i,
come forse avrete già saputo, sono rientrato fra i candidati eletti al
consiglio comunale di Roma nella lista di Rifondazione Comunista. E'
una bella soddisfazione, tanto più nel contesto di una nitida vittoria del
centrosinistra a Roma (oltre al sindaco, praticamente in tutti i L I N K E C O N TAT T I

municipi)e in Italia. Chi è Alessandro Portelli


Il margine con cui sono stato eletto è abbastanza ristretto da far sì che Una proposta di lavoro culturale
letteralmente ciascuna delle persone che mi hanno dato fiducia sia
Scrivi ad Alessandro Portelli
risultata decisiva. Quindi il ringraziamento deve essere inteso davvero
in senso molto personale, uno per uno. Farò davvero tutto quello che
posso per non deludervi. DOWNLOAD
Un abbraccio - anzi, 1787 abbracci.
Lezioni di storia: i giorni di Roma - 24
Sandro marzo 1944: Le Fosse Ardeatine
A L E S A N D R O P O RTE L I | 1 1:3 2 P M 1 C OMME NTI Lezioni di storia: Sulla scena di Roma:
Il bombardamento di San Lorenzo

Il cuore in periferia
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Tutto il giorno di ieri sui media
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all’occupazione nazista. Roma ha la fama di una corpo inerte, reso
l'autobiografia
indifferente e cinico dal peso di una lunga storia che grava addosso alla
La scheda, il fucile e Dallas
città con tutta la massa del Cupoloone o del Colosseo. Però basta
ILouisiana, Minnesota: il delirio
scendere in strada, muoversi un poco fuori della cerchia dei
dell'onnipotenza
monumenti e delle cartoline per trovare anche una città viva e capace
https://www.youtube.com
di resistenza e ribellione.
/watch?v=KwYE2d0h170: semik...
Per trovare questa città, però, bisogna andare ai margini: nelle
L'Europa del genocidio respinge i
periferie, nelle borgate. È qui, infatti, che si è fatta in gran parte la
migranti
storia di Roma nel ‘900. Ai confini di Roma, le deportazioni fasciste che
Joe Hill: 1915-2015
creano le borgate come Tiburtino III o Borgata Gordiani, presto nidi di
antifascisti, si incrociano con le migrazioni di massa che, in violazione "Adua" di Igiaba Scego - il manifesto
delle norme fasciste sulle residenza (rimase in vigore fino agli anni ’60) 15.12.2015
portano a Roma una popolazione proveniente da tutto il Sud, una Link a una pr esentazione del mio
miscela di culture che porta con sé la memoria delle lotte contadine del libro su Bruce S...
Sud, e cresce e si trasforma in condizioni di precarietà, senza diritti. Ed
è ancora in questi territori che viene a insediarsi l’immigrazione più
ARCHIVIO
recente, ripetendo in parte le esperienze degli immigrati meridionali di
una o due generazioni fa: Roma multietnica è radicata a Centocelle maggio 2006
come al Tufello, a Prima Porta come a Torre Maura. Se uno cerca dov’è luglio 2006
che la città è cambiata, insomma, è da qui che deve cominciare a settembre 2006
cercare. ottobre 2006
La storia demografica della città si intreccia in periferia con la sua
novembre 2006
storia politica. Se è vero che le azioni partigiane più clamorose (a
dicembre 2006
partire da via Rasella) sono avvenute nel centro storico dove si
gennaio 2007
insediavano i comandi tedeschi, è altrettanto vero che è in periferia che
febbraio 2007
la resistenza assume una dimensione di massa che va oltre la
clandestinità. Al Quarticciolo si evolve l’ambigua epopea del “Gobbo”; marzo 2007

Donna Olimpia e Val Melaina sono il teatro di numerose azioni aprile 2007
partigiane e di aggregazioni politiche originali (a Donna Olimpia è un maggio 2007
prete oggi dimenticato, don Volpino, che aiuta e protegge i partigiani e settembre 2007
nasconde le armi); a Ponte Milvio come a Portonaccio, le donne ottobre 2007
organizzate dalla resistenza assaltano i forni per il pane e la farina che novembre 2007
mancano ai loro figli (a Portonaccio, basta ricordare Caterina dicembre 2007
Martinelli, uccisa – come è scritto nell’epigrafe di Mario Socrate –
gennaio 2008
perché non poteva sopportare il pianto dei suoi sette figli affamati). La
febbraio 2008
prima strage nazista – 10 fucilati tra la gente che era andata a cercare
marzo 2008
cibo,o armi, o tutti e due, in una caserma abbandonata – ha luogo a
aprile 2008
Pietralata; l’ultima, quattordici prigionieri politici fucilati a freddo sul
ciglio della Cassia – alla Storta. maggio 2008

È soprattutto nel quadrante sudest della città – lungo la Prenestina e la settembre 2008
Casilina, le strade che portano ad Anzio e Cassino – che la resistenza novembre 2008
assunse dimensioni di movimento popolare, tanto che per qualche dicembre 2008
tempo fu possibile immaginare che zone come Certosa o Tor Pignattara gennaio 2009
fossero vere e proprie “repubbliche liberate”. Sono decine i partigiani febbraio 2009
operai del Casilino e Prenestino che figurano fra gli uccisi nella strage marzo 2009
nazista delle Fosse Ardeatine. Ma la vendetta nazista si abbatte con
aprile 2009
violenza estrema soprattutto sul Quadraro, la borgata sulla Tuscolana
maggio 2009
che Kappler definì “nido di vipere” per la protezione che dava ai
giugno 2009
partigiani che vi si rifugiavano. Nell’aprile del 1944, i nazisti rastrellano
luglio 2009
il Quadraro e deportano oltre 900 uomini; quanti sono quelli che non
tornarono non lo sappiamo, ma il prezzo pagato da questa “borgata di settembre 2009
uomini liberi” fu certamente altissimo. ottobre 2009
La storia di lotta delle periferie romane non finisce con la resistenza, novembre 2009
ma continua nella battaglia per il risanamento delle borgate e nella dicembre 2009
lotta per la casa. I protagonisti sono spesso i medesimi: i gappisti gennaio 2010
venuti dal centro (Carla Capponi è il punto di riferimento delle donne marzo 2010
di Borgata Gordiani come Rosario Bentivegna per Pietralata); e gli
aprile 2010
stessi partigiani locali, come il socialista Licata e il comunista
Franchillucci a Centocelle, per i quali la lotta per condizioni decenti di maggio 2010
vita è la continuazione naturale della resistenza. Ancora a cavallo degli giugno 2010
anni ’60 e ’70,il movimento delle occupazioni – il Comitato Agitazione ottobre 2010
Borgate e il Sindacato Inquilini e Assegnatari – organizza gente di novembre 2010
periferia e in periferia – Casal Bruciato, Val Melaina, Centocelle –
dicembre 2010
individua i suoi obiettivi. In periferia, fra Tiburtina, Salaria, Casilina, si
gennaio 2011
concentra l’intervento sulle fabbriche e la lotta per le autoriduzione
febbraio 2011
della nuova sinistra negli anni ’70. E qui, da Forte Prenestino a
marzo 2011
Centocelle a La Strada a Garbatella alla Snia Viscosa al Pigneto, nasce e
si sviluppa l’esperienza dei centri sociali. aprile 2011

Ricordo una mattina, davanti a un blocco di case occupate alla maggio 2011
Serpentara, oltre Montesacro: arrivavano le camionette a sgomberare giugno 2011
gli occupanti, e una donna commentava ad alta voce, “come i tedeschi, agosto 2011
dieci italiani per un tedesco facevano”. Lo sgombero violento delle case settembre 2011
occupate faceva parte della stessa storia delle Fosse Ardeatine, la storia marzo 2012
di una Roma di periferia capace di memoria storica e di una combattiva aprile 2012
consapevolezza dei propri diritti. Ricordo un’immigrata abruzzese nelle
luglio 2012
baracche dell’Acquedotto Felice che dava a un’antica strofa narrativa
novembre 2012
un significato nuovo, di identità e solidarietà in una città che ti rifiuta:
dicembre 2012
“Se il papa santo mi donasse Roma e mi dicesse lascia anda’ chi t’ama,
febbraio 2013
io gli risponderei: Sacra Corona, vale più chi m’ama che tutta Roma.”
Roma (Roma del potere, delle cupole e dei santi) non la amava – ma aprile 2013

adesso Roma era lei. maggio 2013


Restano tracce di questa storia? Certo, la composizione sociale e giugno 2013
politica delle periferie è cambiata, la criminalità ha preso altre forme, la luglio 2013
droga ha fatto i suoi danni, i fascisti sono usciti dalle fogne; ma il agosto 2013
tessuto democratico resiste. E' in gran parte alle periferie che ottobre 2013
dobbiamo se Roma non si è fatta prendere dalla sbornia forzitaliota che novembre 2013
ha investito tante altre parti d’Italia.
dicembre 2013
gennaio 2014
da Left - Avvenimenti
febbraio 2014
A L E S A N D R O P O RTE L I | 5 :41 PM 1 C OMME NTI marzo 2014
aprile 2014
maggio 2014
30 MAGGIO 2006
giugno 2014
Storia di una canzone agosto 2014

Un inno religioso è diventato una canzone di lotta, adesso la canzone febbraio 2015

di lotta si scopre anche canzone d'amore. Ma il messaggio è sempre lo maggio 2015


stesso: io, noi due, noi tutti, ce l'abbiamo fatta fin qui, e ce la faremo, luglio 2015
ancora novembre 2015
dicembre 2015
Era il 1985, e con la Lega di Cultura di Piadena avevamo organizzato gennaio 2016
una visita di due grandi musicisti americani, Guy e Candie Carawan, e maggio 2016
un loro concerto nel caveau del palazzo comunale trasformato in
luglio 2016
piccolo teatro con un’acustica fantastica. Il pubblico era fatto di ottobre 2016
compagni, per lo più di estrazione operaia, che guardavano all’America aprile 2019
e alla sua cultura con sano sospetto antimperialista. Ascoltarono
tuttavia, partecipi e compresi, i suoni poco familiari della mountain
music del Sud degli Stati Uniti; ma poi, all’attacco dell’ultima canzone, FEED

silenziosamente, uno dopo l’altro, come se stessero ascoltando qualcosa


di sacro, si alzarono in piedi. Dell’America non sapevano molto, ma
questa l’avevano riconosciuta e sentita loro: era “We Shall Overcome”.
C O L L A B O R AT O R I
“We Shall Overcome”: ce la faremo, supereremo anche questa. Adesso
A L ESA ND RO PO RTE L I
ce l’ha riproposta anche Bruce Springsteen, nel CD intitolato, appunto IVANH AWK
We Shall Overcome. Nella tradizione afroamericana del gospel e dello SE RGIO PO L IME N E
spiritual c’è l’immagine ricorrente della vita come un percorso fatto di
prove e ostacoli materiali e spirituali da superare, un difficile viaggio da
compiere scavalcando montagne, passandoci sopra (over, appunto). In
un video realizzato dai Carawan, Hugh Cowans, predicatore e
sindacalista delle miniere di Harlan, canta insieme a sua moglie Julia
un brano gospel tradizionale, “How I Got Over”: come ho fatto a
superare tutte le asperità e arrivare fino a qui. In The Gospel Sound, il
più classico libro sulla storia del gospel, Tony Heilbut nota che
nell’inno “Amazing Grace”, amatissimo da bianchi e neri, la strofa più
cara agli afroamericani è quella che dice: “Attraverso pericoli, prove e
insidie siamo arrivati fino qui” (“we have already come”). Se mettiamo
insieme lo over di “How I Got Over” e il come di “Amazing Grace”, il
risultato è appunto questo: over/come.
La storia, dunque, è lunga. Comincia nelle stive delle navi negriere
(“Amazing Grace” fu scritta, paradossalmente, da un negriero pentito
di Liverpool nel ‘700), continua superando i pericoli e le insidie delle
piantagioni e delle miniere. E poi ha una svolta negli anni ’30, in piena
Depressione. E’ allora che due studenti (bianchi) di teologia, allievi di
Reinhold Niebuhr, tornano nelle colline del loro nativo Tennessee, per
mettere in piedi una scuola popolare. Erano gli anni della violenta
repressione antioperaia, nel Sud fondamentalista e razzista, ma non
avevano paura. Si chiamavano Myles Horton e Don West; la scuola che
fondarono si chiamava Highlander, e diventò rapidamente il luogo di
formazione dei quadri del movimento sindacale in tutto il Sud. Un
luogo sovversivo non solo per la visione di classe che lo animava, ma
anche perché era il solo posto in tutto il Sud che rifiutasse di praticare
la separazione fra bianchi e neri.
L’idea di Highlander era che l’insegnamento era reciproco, che gli
“insegnanti” imparavano dagli “allievi” – minatori, contadini, operai
tessili – tanto quanto gli allievi imparavano da loro. Perciò si trattava di
ascoltare e apprendere, raccogliendo la musica e le storie e andando nei
luoghi dove prendeva forma la cultura di resistenza del mondo
popolare. Per esempio, andando a Davidson e Wilder, due sperduti
villaggi minerari dove il leader dello sciopero, Barney Graham, fu
ammazzato dai sicari dell’azienda, e sua figlia ne cantò la lotta e la
morte in una memorabile canzone. Myles Horton era lì, parlò, ascoltò,
raccolse la canzone, e fu arrestato con l’accusa di “essere venuto sul
posto, avere preso informazioni sullo sciopero e averle diffuse
all'esterno”. In quel tempo e in quei luoghi, questo era un reato.
Nel 1941, Zilphia, moglie di Myles, era in North Carolina, per lo
sciopero dei braccianti neri delle piantagioni di tabacco, e li sentì
cantare uno spiritual poco noto: “I’ll Overcome, Someday”, ce la farò,
un giorno. Gli spiritual trasformano facilmente in canzoni di lotta
perché si prestano a un uso collettivo immediato: la forma più comune,
come in “We Shall Overcome” è quella di una parte fissa che si ripete
ogni volta finché tutti la imparano (“deep in my heart, I do believe…”:
nel profondo del cuore, credo veramente che ce la farò, un giorno), e di
una parte mobile, che ognuno può contribuire a cambiare e
improvvisare, adattandola alle situazioni e agli stati d’animo del
momento. “I’ll Overcome, Someday” andò ad aggiungersi agli archivi di
Highlander (coi brividi addosso, sentii quella registrazione anch’io, a
Highlander, mezzo secolo dopo), e lì rimase fino a un’altra fase della
storia.
Con il dopoguerra e la guerra fredda, il rapporto fra Highlander e i
sindacati si raffredda fino a spezzarsi: accusati di comunismo, Horton e
la sua scuola vengono tagliati fuori dal movimento operaio; nel 1963, la
scuola fu incendiata dal Ku Klux Klan e fatta chiudere dal governo del
Tennessee. Ma non si perdono d’animo: la scuola riapre poco lontano e
con un’altra ragione sociale: un’altra prova superata; e nel frattempo ha
anche cambiato ruolo e interlocutori. Nel Sud, il conflitto operaio si è
andato spegnendo nella repressione, ma la questione razziale diventa
esplovia, e Highlander si riconverte a questa nuova causa, dedicandosi
a formare i quadri del movimento per i diritti civili. Rosa Parks, sarta di
Montgomery, Alabama, frequentò un workshop di Highlander; tornata
a casa, il suo famoso rifiuto di cedere il posto su un autobus segregato
scatenò il boicottaggio da cui ebbe inizio tutto il resto. Più tardo, a
Highlander venne lo stesso Martin Luther King, e questa visita servì ai
razzisti per accusarlo di frequentazioni comuniste.
Negli incontri con i quadri del nascente movimento, Guy Carawan, che
si occupava dei programmi culturali a Highlander, ripropose alla nuova
generazione afroamericana la tradizione musicale dello spiritual e del
gospel come canzone di lotta. In un primo momento l’idea fu accolta
molto freddamente: i nuovi militanti erano giovani, cresciuti col
rhythm and blues, e quella gli pareva musica da schiavi e da braccianti
– come infatti era. Solo che di quella storia di oppressione e povertà
loro si vergognavano e avevano poca voglia di vedersela ricordare. Ma a
mano a mano che la lotta si allargava, e che entravano in campo anche
generazioni meno giovani e strati sociali più popolari, il potere
unificante di quella musica ebbe il sopravvento e il movimento trovò il
suo linguaggio musicale di massa. Guy Carawan aveva cambiato “I’ll
Overcome” in “We Shall Overcome”, dalla speranza alla certezza del
futuro, dal singolare al collettivo (come da “How I Got Over” a “We
have already come”). Pete Seeger venne a Highlander, la sentì cantare
nelle manifestazioni in Alabama a Mississippi, la riportò a New York in
un indimenticabile concerto alla Carnegie Hall, e da lì la canzone arrivò
fino al caveau del comune di Piadena. E a Bruce Springsteen, in un
disco dove le tengono compagnia non meno di altri tre spiritual passati
attraverso le lotte afroamericane, e che – con la dedica esplicita a Pete
Seeger (il sottotitolo è The Seeger Sessions) si riconnette direttamente
a questa storia.
Anche Bruce Springsteen ci mette del suo. Non è tempo di inni
collettivi e di manifestazioni di massa, oggi; così la sua “We Shall
Overcome” ritrova in altro modo la dimensione delle origini, non meno
sentita ma più intima: “darling, we shall overcome, someday”. Il “noi”
introdotto da Guy Carawan adesso è “noi due”. Fino dai tempi di
“Thunder Road”, nelle canzoni di Bruce Springsteen la coppia non è un
mondo chiuso ma la cellula iniziale di una società altra, l’inizio del
superamento della solitudine e dell’egoismo. Un inno religioso è
diventato una canzone di lotta, e adesso la canzone di lotta si scopre
anche canzone d’amore. Ma il messaggio è sempre lo stesso: io, noi
due, noi tutti, ce l’abbiamo fatta fin qui, e ce la faremo, ancora.

da il manifesto, 27 maggio 2006

A L E S A N D R O P O RTE L I | 4 :15 PM 3 C OMME NTI

26 MAGGIO 2006

Come votare Alessandro Portelli

Fate clic sull'immagine per vederla a dimensioni reali.

Per votare Alessandro Portelli, sulla scheda azzurra barrate il simbolo


di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea e scrivete accanto
il nome Portelli. Potete scrivere anche "Alessandro Portelli" o "Sandro
Portelli".
Il vostro voto andrà automaticamente anche al candidato sindaco.

IVAN H AW K | 7 : 4 0 A M 1 C OMME NTI

24 MAGGIO 2006

Alcune immagini della festa di ieri


Fate clic sulle immagini per vederle a grandezza naturale.
Nei prossimi giorni arriveranno altre immagini.

IVAN H AW K | 3 : 1 2 PM 0 C OMME NTI

19 MAGGIO 2006

Appuntamento per il 24 maggio

Fai clic sull'immagine per vederla a dimensioni normali.

Guarda gli altri appuntamenti con Alessandro Portelli.

IVAN H AW K | 7 : 1 1 PM 1 C OMME NTI

17 MAGGIO 2006

Gli anziani obiettori di Manchester


Si riuniscono ogni anno, anche se in pochi e sempre più in età, per
rivendicare il diritto di rifiutare di uccidere e ricordare il coraggio
civile di chi ha pagato questa scelta con la libertà

Manchester, Inghilterra, domenica, da poco passato mezzogiorno. Esco


da un internet cafè e mi avvio in cerca di un posto dove mangiare
qualcosa. Il Liverpool ha vinto rocambolescamente la Coppa
d’Inghilterra, i giornali informano di altri due soldati inglesi morti in
Irak. Fa freddo, dopo giorni di insolito sole. In uno slargo dietro la
cattedrale, mi attirano le voci di un coro. Inevitabilmente, mi accosto.
L’unica parola che distinguo è “freedom,” libertà. Una quarantina di
persone in cerchio, per lo più coi capelli bianchi; alcuni sono
chiaramente troppo vecchi per stare in piedi e gli hanno portato delle
sedie. Sono pochi, in mezzo alla grande piazza vuota, ma emanano
quella tranquilla dignità, molto protestante, di chi non ha bisogno di
far parte di una moltitudine per affermare un messaggio morale. Mi
ricordano, e forse anche sono, quei sopravvissuti di un’antica sinistra
che qui come negli Stati Uniti continuano a incontrarsi per ricordare e
ribadire le loro antiche ragioni. Dietro di loro, un cartello su un
cavalletto: “Per tutti coloro che hanno affermato e affermano il diritto
di rifiutare di uccidere.” È la giornata internazionale dell’obiezione di
coscienza, e io, come quasi tutti, non lo ricordavo. Ma loro sì.

Una statua di pietra nera


Alle spalle del gruppo, su tre gradini di piedistallo, una statua di pietra
nera, una donna circondata da piccioni, o forse colombe. Alcuni li ha in
grembo, altri becchettano sui gradini dove è distesa una bandiera
arcobaleno, chissà se venuta dall’Italia, con la scritta “peace”. Passa
poca gente, rallentano interessati e rispettosi, e tirano dritto. Si ferma
un gruppetto di ragazzine coi vestiti della domenica e i palloncini in
mano, dirette forse a qualche compleanno; una donna del gruppo si
ferma a parlare con loro, dà un volantino alla signora che le
accompagna; restano qualche minuto e poi continuano verso la loro
festa. L’unico che si è fermato fino alla fine sono io – anche perché
comunque non sto andando da nessun’altra parte.
Tutti i partecipanti alla cerimonia, in cerchio, hanno in mano un
garofano bianco. Quando ne danno uno anche a me mi rendo conto che
su ciascun gambo è attaccata una striscetta con un nome. Il mio si
chiama Valentin Gulai. Prende la parola Malcolm Pittock, smilzo,
canuto, abiti blu come da lavoro. “Ormai sono rimasti in pochi di quelli
che hanno fatto obiezione di coscienza durante la guerra,” dice
guardando intorno ai presenti più anziani di lui. “Restiamo soprattutto
noi che l’abbiamo fatto nel dopoguerra.” Lui ha fatto obiezione nel
1949; gli hanno proposto diversi servizi alternativi, la forestale o altro;
“ma io volevo affermare un principio, e fare il servizio alternativo
sarebbe stato un riconoscimento del loro diritto di dirmi che cosa
dovevo fare. Io volevo affermare un principio elementare che mi
avevano sempre insegnato: che uccidere è una cosa malvagia.” Il
processo si trascina per anni, finisce in carcere nel 1954. “Come ho fatto
a spiegarlo a mia madre? Le ho detto, la nostra vicina di casa è
straniera: ti andrebbe che mi reclutassero per ammazzare il figlio della
tua vicina?”
Malcolm, però, ha anche un tradizione familiare che, secondo uno
schema più frequente di quanto si pensi, non si trasmette linearmente
dai genitori al figlio, ma lateralmente, come una mossa del cavallo:
“Durante la prima guerra mondiale, mio zio materno, al fronte in
Francia, rifiutò di continuare a sparare. Lo arrestarono, lo
condannarono alla fucilazione; poi Lloyd George, primo ministro, gli
commutò la pena in dieci anni di carcere. Alla fine della guerra lo
lasciarono andare.”

Dai nazisti ai quaccheri


Ne prende lo spunto per ricordare la lunga storia dell’obiezione di
coscienza, dagli obiettori nella Germania nazista ai testimoni di Geova,
dal pacifismo dei Quaccheri ai soldati inglesi che sono in prigione per
avere rifiutato di continuare a combattere in Irak. Invita a scrivergli, e a
scrivere agli obiettori di coscienza che sono ora in carcere negli Stati
Uniti: “quando ero in carcere ho ricevuto centinaia di lettere e sono
state un grande aiuto per continuare a resistere.” Cita le parole di Mark
Plowman (se ho capito bene i nome), l’ultimo a fare obiezione di
coscienza dopo avere combattuto in guerra: “L’esercito è una macchina
che trasforma le persone in strumenti in mani altrui. Se continuassi a
fare il soldato mi renderei responsabile del più grave dei crimini:
distruggere la vita di centinaia civili, di persone che non conosco e non
mi hanno fatto niente” (più tardi, un’altra oratrice ricorderà che dalla
seconda guerra mondiale , da qua ndo l’arma principale è il
bombardamento, in poi i civili sono la maggioranza delle vittime). Il
volantino che mi hanno messo in mano ricordea Camilo Mejia, soldato
americano, obiettore in Irak, condannato a un anno di carcere nel
2004; Ben Griffin, primo militare dei corpi speciali inglesi, che rifiuta
di continuare a combattere in Irak una guerra che ritiene moralmente
ingiusta; e Malcolm Kendall-Smith, medico dell’aeronautica, che ha
rifiutato di tornare in Irak a combattere una guerra che considera
illegale.

Obiezione fiscale alla guerra


Dopo di lui parla una donna più giovane, Birgit Vollm, che fa parte di
un’organizzazione
per l’obiezione fiscale contro la guerra. “Dal 1960,” dice, “la coscrizione
obbligatoria è stata abolita; ma se non ci arruolano più per andare a
fare la guerra, ci arruolano facendoci pagare le tasse che le finanziano e
la sostengono. Non ci vogliono come soldati, vogliono i nostri soldi per
fare la guerra. Siamo tutti arruolati, nel momento stesso in cui
paghiamo le tasse sui prodotti che compriamo tutti i giorni.” Ricorda
l’esempio di Henry David Thoreau, il grande scrittore americano che
nel 1848 scontò una storica e simbolica notte in prigione per essersi
rifiutato di pagare le tasse per la guerra contro il Messico. “Le spese
militari sono otto volte quelle per l’aiuto allo sviluppo. Oggi l’obiezione
di coscienza passa per l’obiezione fiscale.”
La cerimonia continua con delle letture di poesie. Un po’ per l’accento
del Nord inglese che non mi è familiare, un po’ perché il megafono da
cui parlano è antidiluviano (e queste persone anziane hanno poca
familiarità col microfono), un po’ anche perché il vento è salito e io
sono controvento, capisco solo a sprazzi. Una donna legge una poesia
che parla di fragole, non capisco bene come: “ci danno le fragole ma noi
vogliamo solo la verità”. Un uomo anziano coi capelli arruffati legge
come se fosse una poesia il testo di una canzone di Ewan McColl, il
grande protagonista militante del folk revival britannico: “Più di ogni
altra cosa volevo vedere il mondo, ma mi hanno fatto capire che l’avrei
potuto fare solo con le armi in mano. Il testo è solo un poco aggiornato:
“Preferisco restare tutta la via alla pompa di benzina,” dice adesso
l’ultima strofa, “che vedere il mondo da dietro il mirino di un fucile
sulle rive dell’Eufrate.” La gente applaude e lui av verte: “non ho finito,
ne ho un’altra da infliggervi”; e, con la voce incerta della sua età ma con
la convinzione dei suoi anni, canta una ballata di fine ‘700: la storia di
un disertore, che è arruolato a forza nella marina come allora si usava,
scappa, viene ripreso e costretto a “servire il re”. La canzone popolare
continua a fare il suo dovere, anche in questa fredda giornata di
Manchester. Più tardi il coro canterà tre canzoni, due africane e una
hawaiana: invocazioni alle divinità della terra, agli antenati, alla pace,
rese un po' tutte uguali ma sincere. Alla lontana, ricordano lo stile a
cappella di gruppi come Ladysmith Black Mumbazo. Mentre cantano
una canzone Xhosa, passa una coppia di africani; chissà che effetto gli
fa, se la riconoscono, quest’Africa passata per le limpide voci del
Manchester Community Choir.

Si chiamano i nomi sui fiori


Ma prima delle canzoni di chiusura c’è il culmine della cerimonia: la
chiamata degli obiettori di coscienza i cui nomi sono sui nostri fiori.
Sono nomi di tutti i paesi, di tutto il secolo. Chiamano in ordine
alfabetico, dall’Albania alla Yugoslavia, dicendo qualche parola sulle
persone chiamate. Il mio Valentin Gulai lo chiamano alla B di
Bielorussia: è stato arrestato di recente, è ancora in carcere. Per l’Italia,
nominano Pietro Pinna, arrestato e condannato due volte (a 10 e 6
mesi) nel 1949. Non ho idea di chi fosse. Nella lista dei paesi, chiamano
persino il “Roman Empire”: Maximilianus, decapitato in Africa nel 295
dopo Cristo. Neanche di lui avevo mai sentito parlare.
Ad ogni chiamata, chi ha il fiore col nome si avvicina alla bandiera della
pace sui gradini della statua e depone il fiore (i più anziani fqaticano
anche a fae qjuei pochi passi, hanno bisogno di aiuto). È un rituale un
po’ patetico e sentimentale, ma non è che ci siano molti altri modi di
rendere omaggio. La chiamata dei nomi mi sembra una delle forme
prevalenti della ritualità del nostro tempo – dalle Fosse Ardeatine alle
Torri Gemelle, dal memoriale del Vietnam a Washington al
monumento alle vittime del bombardamento del 19 luglio 1943 a San
Lorenzo a Roma, si chiamano e si scrivono i nomi, uno per uno. La
società di massa riconosce che in ognuna delle sue stragi gli uccisi sono
persone singole, individui e non numeri di una statistica. Ogni
massacro è anche una molteplicità di singoli omicidi.
Mentre mi allontano alla fine, vedo su un palo della luce un cartello,
messo lì a suop tempo dalle autorità: azzurro cielo con una colomba
bianca e la scritta, “Manchester city of peace”. Magari è solo un
omaggio superficiale ai buoni sentimenti, magari la gente che ci passa
non ci fa nemmeno caso. Ma questi coraggiosi vecchietti ogni l’hanno
fatto diventare, almeno per un’ora, vero.

pubblicato su il manifesto, 20 maggio 2006

A L E S A N D R O P O RTE L I | 1 1:3 5 A M 1 C OMME NTI

11 MAGGIO 2006

Ci vediamo il 23 maggio

(fai clic sull'immagine per vederla a dimensioni reali)

IVAN H AW K | 1 2 : 5 1 P M 0 C OMME NTI


09 MAGGIO 2006

In risposta ad Alemanno
[…] “La verità? – dichiara Sandro Portelli – È che anche io non vorrei
commentare le dichiarazioni di Alemanno. Sono davvero fuori luogo. E
del resto queste battute le sentiamofare continuamente. Come fate a
tenere insieme La Rosa nel Pugno e Rifondazione? Ma si vuole capire
che la politica o per lo meno la “nostra” visione della politica è diversa
da quella del centrodestra? Per noi le differenze sono ricchezza.”
Portelli, docente di letteratura angloamericana, risponde quasi con
stanchezza all’ennesima polemica sollevata da Alemanno, Si trova nella
Casa della memoria e a presentare l’ultimo libro del circolo “Gianni
Bosio” (“un anno durato due decenni, storie di persone comuni prima
durante e dopo il ’68” edito da Odradek, ndr) di cui ha curato
l’introduzione. “Ecco – spiega – ciò che non si vuole proprio capire è
esattamente questo. L’esperimento tutto da realizzare anche per una
città come Roma, anche se è un laboratorio politico in cui molto si è
fatto, è proprio quello di capire il portato della cultura delle differenze.
In definitiva – aggiunge – penso che sia essenziale stare insieme senza
annullarsi creando una cultura dell’unificazione e del confronto
aperto.” È questo del resto il metodo usato in tutta questa campagna
elettorale. E su Roma le differenze contano. “C’è un’idea determinante
– conclude – ed è quella che la città appartiene a tutti. E questa idea è
importante non nel senso di una mediazione al ribasso ma nel senso
più alto del termine”.

CM

da Liberazione, 9 maggio 2006

A L E S A N D R O P O RTE L I | 2 :38 PM 0 C OMME NTI

Viaggio in Comune contro i vuoti di memoria


Alessandro Portelli Storico della memoria, dell'altra America e
dell'antifascismo, sarà capolista per il Prc a Roma
Loris Campetti

C'è una frase di Gianni Bosio che Alessandro Portelli ha scelto per
spiegare il segno della sua candidatura come capolista (indipendente)
per il Prc alle elezioni comunali romane del 28-29 maggio: «Il lavoro
culturale è spinto così dalla logica della non integrazione a costruirsi le
armi per difendere la possibilità di sopravvivere; il lavoro culturale non
può che trasformarsi in lotta politica per propria difesa e perché la lotta
politica diventa il livello più alto di ogni lavoro culturale». Questa frase,
ci spiega il nostro amico, «esprime bene un'idea che ho in testa da
tempo. Ogni volta che qualche studente mi domanda a cosa serva
studiare la letteratura, mi chiedo cosa rispondere. Finalmente ho
trovato la risposta: non serve a niente. La letteratura, come l'arte, la
musica, la cultura sono un fine e non un mezzo». Portelli insegna
letteratura americana alla Sapienza e è consigliere delegato del sindaco
di Roma per la tutela e la valorizzazione della memoria storica della
città. Ha insegnato passione e mestiere a una schiera di giovani
ricercatori, Portelli vuol dire momoria orale, antifascismo, ci ha
inegnato ad amare «l'altra America». Collabora con il manifesto dal
'72.

Tra i tuoi allievi c'è chi si preoccupa per questa candidatura,


temendo che il lavoro in comune possa sottrarre tempo al
tuo impegno storico-sociale, alla ricerca scientifica: ti
chiamano «uomo pedale» e anche «ricercatore scalzo».
Hanno paura di perderti.
Quando alla fine ho accettato la proposta dei compagni di Rifondazione
ho messo in chiaro che io non cambio vita, se uno sa fare i cento metri
non gli puoi far correre i 400. Non smetterò di fare le cose che so fare,
al contrario spero che dal consiglio esca qualche strumento in più e
briciole di bilancio per continuare il lavoro sulla memoria e mettere
insieme progetti con i soggetti di strada che si muovono, con la Casa
della memoria, i centri sociali Snia Viscosa, Forte Prenestino, La
Strada, con la Scuola popolare di musica di Testaccio, il circolo Gianni
Bosio, l'Archivio audiovisivo del movimento operaio. Non rinuncerò
alle mie passioni, al manifesto, all'insegnamento, alle cose che mi
stanno a cuore.

Nelle tue «inchieste di strada» hai lavorato molto nei


quartieri, anche quelli più disagiati. Anche a Roma il degrado
si accompagna spesso a uno spostamento a destra, anche
estrema, dell'elettorato. Eppure, in molti di quei quartieri
romani c'era una forte tradizione antifascista.
Credo che più della pervasività del messaggio revisionista abbia pesato
la mancanza di un messaggio alternativo della sinistra che ha via via
mollato l'antifascismo. Ha ragione il gappista Rosario Bentivegna
quando dice «il partito ha sempre detto la verità (su via Rasella e le
Fosse ardeatine, ndr) ma non ha controbattuto le menzogne degli
altri». Io so che quando vado nelle scuole a parlare di antifascismo i
ragazzi mi stanno a sentire. Dobbiamo avere più coraggio nel sostenere
le nostre idee, non si deve chiedere scusa a nessuno ma rivendicare la
nostra storia, certo senza l'arroganza di essere i depositari della verità.
Per esempio, questa alleanza precaria che ha vinto le elezioni potrebbe
trovare un collante proprio nell'antifascismo.
Pensi che le istituzioni, il comune, possano aiutare una
battaglia culturale come la intendi tu?
Senza miagolii e deleghe, senza dimenticare il lavoro che dobbiamo
fare in strada, le istituzioni devono contribuire a creare un clima
migliore. A Roma qualcosa di positivo è stato fatto sulla memoria.
Veltroni è un buon sindaco, è uno che ti dà l'impressione che la musica
e i libri gli piacciano sul serio. Quando portiamo i ragazzi ad Auschwitz,
Veltroni che parla con i ragazzi è autentico. E poi a Roma ci sono
esperienze importanti nei quartieri, pensa al lavoro di Sandro Medici a
Cinecittà. A Roma si intravede qualche cambiamento, proviamo a farlo
anche a livello nazionale.

Ma le periferie restano a rischio e alcuni ceti su cui la sinistra


era egemone sono tentati dal populismo di destra.
Ti meravigli? Io mi meraviglio che a Roma il fenomeno sia tutto
sommato contenuto. Il giorno in cui la sinistra dice che bisogna stare
dalla parte dei ceti emergenti, e sposa l'etica del mercato, e ci fa sapere
che la Nato è la nostra salvezza, e giù con la competitività e tutte queste
parole che mi danno il voltascomaco, ti chiedi perché nelle borgate la
sinistra arretra? Su quel versante lì la destra offre migliori garanzie. Ti
sembra normale che nell'Unione ci si debba preoccupare per la critica
di Epifani alla legge 30, o di Bertinotti allo strapotere di Mediaset? Ti
pare che si debba avere paura di Zapatero, che oltre tutto ha vinto?

da il manifesto, 9 maggio 2006

A L E S A N D R O P O RTE L I | 1 2:5 8 P M 0 C OMME NTI

06 MAGGIO 2006

We Shall Overcome. The Seeger Sessions , il nuovo disco di Bruce


Springsteen è l’incontro – imprevedibile e inevitabile – fra due giganti
della musica e della cultura americana: un rocker archetipico come
Bruce Springsteen e la voce di quasi settant’anni di canzone popolare e
politica, come Pete Seeger. Imprevedibile perché l’industria musicale
tiene tengono i generi separati come feudi incomunicanti; inevitabile
perché ci dimostra l’unità profonda della musica americana. Banjo
bluegrass, piano honky tonk, fiati dixieland, coralità gospel, energia
vocale rock stanno insieme in un disco che, come nel meglio della
cultura popolare, coniuga festa e coscienza, socialità e resistenza,
realismo e speranza in una performance corale e praticamente dal vivo.

Se uno sa ascoltare, sa da sempre che fra il rock e le radici popolari non


esistono cesure e fratture, ma una storia di evoluzione, trasformazione,
cambiamento. Questo disco lo ribadisce fin dalla prima canzone: Ol’
Dan Tucker, scritta nel 1844 da Dan Emmett e subito immensamente
popolare, voiene dall’umorismo iperbolico della frontiera, ma è
soprattutto un prodotto di quel minstrel show col quale inizia
un’ambigua tradizione di assunzione del nero nella musica bianca –
una tradizione il cui punto d’arrivo è, guarda caso, proprio il rock and
roll (e viceversa: che cos’è il dixieland, che suona nei fiati di questo
disco, se non l’appropriazione nera di strumenti europei, nella più
sincretica delle città americane, New Orleans? E il nomignolo
“Dixieland” che designa il Sud deriva da una canzone di Dan
Emmett…).

Perciò le fonti del rock and roll stanno nella musica profonda dello
spiritual (Mary Don’t You Weep, Jacob’s Ladder), delle migrazioni
(Mrs. McGrath), delle canzoni di lavoro (Erie Canal, John Henry, Pay
Me My Money Down), delle filastrocche per bambini (Froggie Went
a-Courtin’), della frontiera (Jesse James, Shenandoah, My Oklahoma
Home), dei movimenti di liberazione (Eyes on the Prize, We Shall
Overcome). Pete Seeger e Bruce Springsteen, e attraverso di loro
ancora Dan Emmett, Woody Guthrie, Guy Carawan – non hanno fatto
altro che cantare, a modo loro, l’America che vedevano e quella che
speravano di vedere.

Mi hanno raccontato che qualche anno fa alla Rounder Records


(un’etichetta di Boston) si presentò un ragazzotto locale: “Vorrei fare
un disco con voi”. “Che musica fai?” “Rock and roll”. “Ma noi facciamo
solo musica tradizionale”. “Be’, io faccio rock and roll tradizionale”. Si
chiamava George Thorogood, e il disco si fece.

Ci ho ripensato perché We Shall Overcome mi ha fatto capire una


ragione della mia passione per Bruce Springsteen: fin dall’inizio,
infatti, lui suona e canta il rock and roll come se fosse musica
tradizionale: un linguaggio musicale elaborato e condiviso socialmente,
riconoscibile collettivamente e proprio per questo capace di raccontare
vite singole, come le canzoni narrative di tradizione orale (e tante
canzoni di Springsteen hanno un impianto più narrativo che lirico,
raccontano storie più che effondere sentimenti). Era una musica che
non cercava di essere innovativa e per questo ha fatto storcere il naso a
più di un critico; ma era una musica fatta per durare, e infatti c’è
ancora.

Era anche una musica capace di evolversi osmoticamente, restando se


stessa ma mai identica, proprio come nella musica tradizionale – e
come Bruce Springsteen: una persona che ha delle curiosità, che legge,
che impara, che cresce. Forse nella storia del rock solo i Beatles sono
stati così, loro con l’India e lui con le profondità della sua America.
Penso all’impressione che mi fece, nel set quintuplo dal vivo, sentirlo
spiegare This Land Is Your Land di Woody Guthrie (“è una canzone
piena di rabbia”, non un inno patriottico) e dire che l’aveva capita
leggendo un libro. Quanto spesso ci capita di sentire un rocker parlare
di libri in un concerto? E poi legge Journey to Nowhere e ne tira fuori
Youngstown, vede Furore e scrive The Ghost of Tom Joad… Non è nato
intellettuale, non è nato con una coscienza sociale; ha imparato
invecchiando (come quei “giovani ribelli” che finiscono di essere
giovani ma non smettono di essere ribelli – anzi, trovano ragioni nuove
e più profonde), gradualmente, in modo quasi riluttante.

Lui rifiuta di dire che questo è un disco “politico”; ma la politicità è


intrinseca a questa musica. Non è solo We Shall Overcome, canzone
simbolo dei diritti civili (e originariamente uno spiritual cantato da
braccianti in sciopero in North Carolina). Sono l’incredulità di una
madre davanti al corpo del figlio spezzato dalla guerra (Mrs. McGrath),
la figura mitica del bandito sociale che ruba ai ricchi per dare ai poveri
(Jesse James), l’orgoglio dell’operaio nero che si ammazza ma non la
dà vinta alla tecnologia del padrone bianco (John Henry), l’ironica
rivendicazione di Pay Me My Money Down (fuori i soldi: sembra la
variante caraibica di Sciur parun da li beli braghi bianchi, con la stessa
inflessibilità e la stessa ironia gioiosa).

Altre tre canzoni collegano la resistenza alla schiavitù con la lotta per i
diritti civili attraverso il linguaggio di libertà dello spiritual. In Mary
Don’t You Weep, forse il brano più travolgente del disco (c’è sempre
una Mary nei dischi di Bruce Springsteen, da Thunder Road a Mary’s
Place), l’annuncio dell’apocalisse – “questo mondo comincerà a
scuotersi e tremare”, “reel and rock” - acquista un nuovo accento
quando la parola “rock” la riprende il rocker Bruce Springsteen:
l’apocalisse è la rivoluzione ma è pure una festa, una rivoluzione che si
può ballare. We Are Climbing Jacob’s Ladder è l’assalto al cielo,
gradino per gradino sulla scala di Giacobbe verso il paradiso e la
libertà. La più radicale è Keep Your Eyes on the Prize: non perdere di
vista il sogno, “hold on”, aggrappati, resisti. Forse proprio We Shall
Overcome è meno entusiasmante; però il modo intimista con cui la
canta Bruce Springsteen (come Piero Brega in Su comunisti della
capitale) conferma un’intuizione presente già in classici come
Badlands: il “noi” sociale comincia nel rapporto d’amore, già la coppia
è una minisocietà che rompe con l’individualismo egoista – “Darling,
we shall overcome”.

Anche stavolta, come per mantenere il senso delle proporzioni,


Springsteen finisce un disco “serio” con una canzone scherzosa – come
già in Tom Joad o Human Touch. Bruce Springsteen ha detto che una
delle cose che apprezza in Pete Seeger è il fatto che ha sempre dedicato
canzoni e concerti ai bambini (e lo stesso vale per Woody Guthrie: le
sue Songs to Grow On non sono meno belle, e meno politiche, delle
Dust Bowl Ballads). Chissà, un mondo migliore comincia già nel modo
con cui giochiamo coi bambini.
Il giorno dopo l’uscita del disco, mi è arrivato un e mail di uno
studente: “Non mi rendevo conto di quanto fosse mediocre il mondo,
prima che uscisse questo disco”. Per la maggior parte di chi lo sente
oggi, queste canzoni sono una scoperta. Per me (mi si conceda una nota
personale), sono le canzoni con cui sono diventato adulto, che mi
hanno appassionato alla politica, alla storia e alla libertà, e mi hanno
spinto a ricercare le canzoni nostre. A diciott’anni sentivo Pete Seeger;
a sedici, sentivo Elvis Presley,Jerry Lee Lewis e Little Richard. Grazie
Bruce, per avere rimesso tutto insieme e avermelo riportato a casa.

A L E S A N D R O P O RTE L I | 4 :06 PM 4 C OMME NTI

05 MAGGIO 2006

Appuntamenti
Domenica 21 magio ore 20
Parco Nemorense
Comizio di chiusura della Festa di Liberazione del II
Municipio

Partecipano:
Givanni Russo Spena - Senatore di Rifondazione Comunista
Alessandro Portelli - Capolista di Rifondazione Comunista alle elezioni
comunali
Neda Graziani - Capolista di Rifondazione Comunista nel II Municipio

Martedì 23 maggio ore 16


Casa della Memoria e della Storia - via San Francesco di Sales 5
Presentaizone del libro Le Brigate Matteotti a Roma e nel
Lazio. Il contributo dei socialisti nella Resistenza Laziale, a
cura di Davide Conti, edizioni Odradek

Intervengono:
Giuliano Vassalli (Presidnete Emerito della Corte Costituzionale)
Carlo Vallauri (Università di Siena)
Alessandro Portelli (Università di Roma "La Sapienza")
Davide Conti (Università di Roma "La Sapienza")
Giulia Rodano (Assessore alla Cultura della Regione Lazio)

Info: 06 6876543

Martedì 23 maggio - ore 21,00


Teatro Ambra Jovinelli
Spettacolo per la chiusura della campagna elettorale di
Sandro Portelli

Interverranno tra gli altri:


Piero Brega
Ascanio Celestini
Sylvie Genovese
Sara Modigliani
Paolo Pietrangeli
Auriko
Quartetto urbano (Xavier Rebut, Germana Mastropasqua, Michele
Manca, Flaviana Rossi)
Ambrogio Sparagna

Presenta: Vladimir Luxuria

Interviene Franco Giordano, Segretario generale di Rifondazione


Comunista

Mercoledì 24 maggio ore 20.00


PIAZZA RECANATI
La memoria storica delle lotte sociali per la costruzione di un
mondo più giusto

Intervengono:
SANDRO PORTELLI
DANTE POMPONI
Candidati al Consiglio Comunale di Roma

CARLA CORCIULO
Candidata al Consiglio del V° Municipio di Roma

Partecipano:
LUIGI NIERI
Assessore al Bilancio della Regione Lazio
MARIA CRISTINA PERUGIA
Parlamentare e Segretaria della Federazione di Roma

Saranno presenti i candidati del Circolo di San Basilio al Consiglio del


V° Municipio

A conclusione della manifestazione


Concerto di PIERO BREGA (del CANZONIERE del LAZIO)
Giovedì 25 maggio ore 21.00
PIAZZA NAVONA
Chiusura della campagna elettorale di Rifondazione
Comunista

IVAN H AW K | 1 2 : 0 6 P M 0 C OMME NTI

Revisioni da talk show

Mi diceva qualche anno fa Rosario Bentivegna, medico del lavoro,


gappista romano, protagonista della battaglia di via Rasella: “Dopo la
guerra, il partito disse sempre la verità su via Rasella e sulle Fosse
Ardeatine; quello che non fece, fu di confutare le menzogne e le
mistificazioni che erano state diffuse su quegli avvenimenti.” Le
menzogne e le mistificazioni le sappiamo tutti: la falsa notizia secondo
cui, dopo l’azione partigiana in Roma occupata in cui morirono 33
componenti di un battaglione di polizia aggregato alle SS, i tedeschi
avrebbero messo cartelli per tutta Roma invitando i “colpevoli” a
consegnarsi per evitare la rappresaglia. Sappiamo, o dovremmo sapere,
che questa è pura invenzione: persino il generale Kesserling,
interrogato in tribunale, disse che non ci avevano mai nemmeno
pensato; la rappresaglia fu decisa subito, mai condizionata alla resa dei
partigiani, e fu comunicata alla popolazione solo dopo che la strage era
stata compiuta.

Una delle tante ragioni per ammirare Rosario Bentivegna è che, in


assenza di una chiara risposta politica e storiografica a queste
menzogne, da più di mezzo secolo si fa carico puntigliosamente di
ristabilire la verità, di confutare le mistificazioni, e di difendersi e
reagire in ogni sede (compresi i tribunali) alle demonizzazioni di cui lui
e i suoi compagni sono stati oggetto.

È un lavoro di Sisifo, e ogni volta sembra che si deve ricominciare da


capo. Stavolta, la falsificazione proviene dal gran cerimoniere dei riti
televisivi, Bruno Vespa, che per qualche misteriosa ragione (o meglio:
per ragioni di cassetta e per ragioni di manipolazione ideologica) ha
deciso di improvvisarsi storico senza possedere neanche l’ombra dei
requisiti minimi del mestiere – ma, direi, senza possedere neanche
l’ombra di quella curiosità intellettuale e desiderio di verità che
dovrebbe animare non solo lo storico, ma almeno il giornalista serio.
Quando Nicola Gallerano parlava di “uso pubblico della storia” aveva in
mente cose ben più serie che questi bestseller di quart’ordine.

Così, nella sua Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vespa


racconta per l’ennesima la vulgata antipartigiana su via Rasella senza
neanche prendersi la cura di informarsi sui fatti e di leggere la
bibliografia aggiornata. Perciò, ai vari errori sulla ricostruzione
dell’evento aggiunge la ripetizione della solita accusa a Bentivegna e
compagni di non essersi presentati in risposta ai manifesti fatti
affiggere dai nazisti che li invitavano a farlo. E anche stavolta,
Bentivegna prende la penna in mano e, instancabile, cortese e
chiarissimo, spiega, precisa, rettifica come ha fatto centinaia di volte
nella sua vita. Comincia un carteggio, prima privato poi pubblico
(anche sulle pagine dell’Unità) che adesso Bentivegna, con il consenso
del suo interlocutore, ha trasformato in un libro: ViaRasella la storia
mistificata. Carteggio con Bruno Vespa (manifestolibri, 2006, pp. 116,
E. 15), con un’introduzione puntuta e puntuale di Sergio Luzzatto,
un’ennesima ricostruzione fattuale di che cosa veramente successe e
poi, irritante e soffocante, il dialogo mancato fra Bentivegna che spiega
e Vespa che fa finta di non capire. O forse non fa finta per niente.

Sono anni che mi occupo di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, e ogni
volta mi trovo davanti allo stesso meccanismo. È un po’ come la storia
del lupo e dell’agnello: c’è una conclusione precostituita e, se un
argomento per sostenerla viene meno (“mi intorbidi l’acqua”) se ne
inventa un altro, più specioso ancora (“hai parlato male di me”) e poi
un altro e un altro e un altro, all’infinito. Lo stesso vale per via Rasella,
anche nel caso di Vespa: costretto ad ammettere che i manifesti non ci
furono, si inventa che però i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe
stata la rappresaglia perché i nazisti avevano preavvertito (e non è vero
neanche questo, e risulta dalle parole dello stesso Kappler), poi che i
poveri poliziotti in uniforme nazista erano in realtà degli italiani padri
di famiglia (come se vestire l’uniforme di un esercito occupante non
fosse un’aggravante, per un italiano; e come se l’età media dei poliziotti
del Bozen non fosse in realtà di 33 anni) e via arrampicandosi sugli
specchi pur di non rinunciare all’unica cosa che gli interessa: negare il
significato dell’azione partigiana e con essa di tutta la Resistenza. Per
questo ha ragione Luzzatto quando parla di “dialogo fra sordi”. In
realtà, Bentivegna ascolta e replica, ma dall’altra parte c’è un sordo che
non vuole sentire.

Qui infatti non si tratta solo di banale revisionismo, ma dell’idea di una


continuità storica in

nome dell’”odio” e della “guerra civile” che accomuna le leggi razziste,


la guerra partigiana, gli anni di piombo e l’opposizione a Berlusconi
dentro un unico paradigma: sia i partigiani che attaccavano
militarmente i nazisti sia il centrosinistra che attacca politicamente
Berlusconi sarebbero mossi dagli stessi impulsi. Chiaro che in questa
continuità la Resistenza è una spezzatura: infangare la Resistenza,
dunque, non serve solo a erodere ulteriormente l’eredità
dell’antifascismo ma soprattutto a fare dell’opposizione a Berlusconi
l’espressione di atavismi profondi e irrazionali, il “fiume carsico”
(scrive Vespa) di una guerra civile ora esplosiva, ora strisciante. Come
fa notare Luzzatto nell’introduzione, elencando i titoli delle annuali
strenne di Vespa: “presi uno per uno, i titoli dei libri di Vespa
scandiscono ogni voltga un presunto momento epocale, quando non
suggeriscono un’emergenza nazionale o addirittura una crisi
rivoluzionaria. Presi in serie, viceversa, essi alludono alla consolante
evidenza per cui tutto cambia, più tutto è la stessa cosa…”

Alla fine, Vespa non sa più che pesci prendere, e si limita a ripetere che
“l’attentato di via Rasella fu un gravissimo errore.” La risposta finale di
Bentivegna è tagliente: “Credo nella sua buonafede,” concede, “ma il
problema dei problemi è che lei ha dato una versione non corretta dei
fatti, condita di insinuazioni e ambiguità, perché aveva orecchiato le
consuete mistificazioni e le ha riportate senza la necessaria verifica”.

Intelligentemente, Bentivegna non si limita a rettificare la versione con


corretta dei fatti, ma smaschera anche l’uso non corretto, strisciante,
del linguaggio: contesta il termine “rappresaglia” applicato alle Fosse
Ardeatine (e ha ragione, tecnicamente e giuridicamente: secondo il
tribunale militare italiano, non si trattò di rappresaglia bensì di
“omicidio continuato”), coglie le implicazioni retoriche di espressioni
come il “gesto” che gli viene attribuito, come se non si fosse trattato di
un’azione di guerra ma dell’alzata di capo di un isolato irresponsabile,
smaschera il presupposto implicito secondo cui avrebbe dovuto
“pentirsi” di quello che aveva fatto. E d’altra parte, l’intera modalità
comunicativa di Vespa, dal linguaggio del corpo in TV alla retorica dei
suoi libri, reca nel degrado del linguaggio il segno del danno profondo
che arreca alla nostra cultura. In questo senso, il lavoro di Bentivegna
non è solo l’ennesima doverosa puntualizzazione storica, ma anche un
atto importante di resistenza, sia pure con la minuscola, allo strapotere
egemonico del discorso televisivo: i libri di Vespa sono vangelo non
perché siano attendibili ma perché il loro autore sta in TV. Qualche
tempo fa, sulla metropolitana di Roma, c’era una ragazza sprofondata
nella lettura di uno dei tomi di Vespa, con tanto di evidenziatore. Non
sono riuscito a capire se quello che sottolineava fossero gli sfondoni del
libro, o quelle che lei scambiava per storiche verità o perle di saggezza.
Temo che sia buona la seconda. Il libro di Vespa sulla metropolitana è
l’aggiornamento dei canali attraverso cui si è formato il senso comune
antipartigiano su via Rasella: riviste da parrucchiere, pamphlet fascisti,
dicerie incontrollate. Tutti canali troppo a lungo considerati al disotto
dell’attenzione degli storici seri, e persino della politica seria; per
questo, hanno potuto continuare a diffondersi per decenni, navigando
sotto il radar della vigilanza culturale e del dibattito storiografico.
Temo che Vespa sia la stessa cosa: troppo poco serio perché gli storici
seri si prendano la briga di smontarlo pubblicamente come sarebbe
loro dovere. Anzi, persino rispettabili istituzioni romane hanno
ritenuto opportuno allestire presentazioni e dibattiti, come se questi
libri fossero una cosa seria.

Per fortuna ci sono persone come Rosario Bentivegna. E per fortuna


questo suo libro è accompagnato, stavolta, dall’intervento di uno
storico serio che prende atto del rischio di una memoria storica affidata
agli ignoranti e ai manipolatori. Quella fra Vespa e Bentivegna non è
una battaglia ad armi pari, dato lo strapotere mediatico dell’uno e la
sostanziale solitudine dell’altro. Sarebbe il caso di dare una mano a
Bentivegna, perché qui non è in gioco solo la sua personale
responsabilità, né la moralità della resistenza, ma proprio la nostra
capacità di rapportarci criticamente alla storia e di usare
responsabilmente il linguaggio. Scrive Luzzatto: “Lo scopo del gioco [di
Vespa, ma – aggiungerei io, di tutto quello che lui rappresenta] è la
banalizzazione retrospettiva dei valori e dei disvalori, dei meriti e delle
bassezze, delle ragioni e dei torti. La durata del gioco resta da
determinare; ma finché uomini come Rosario Bentivegna
conserveranno la forza per opporvisi, uomini come Bruno Vespa
faranno bene a non sentirsi la vittoria in tasca.”

da il manifesto, 25 aprile 2006

A L E S A N D R O P O RTE L I | 8 :06 A M 0 C OMME NTI

04 MAGGIO 2006

Una proposta di lavoro culturale


Il lavoro culturale è spinto così dalla logica della non integrazione a
costruirsi le armi per difendere la possibilità di sopravvivere; il
lavoro culturale non può che trasformarsi in lotta politica per propria
difesa e perché la lotta politica diventa il livello più alto di ogni lavoro
culturale.
(Gianni Bosio)

Inaspettatamente, i compagni di Rifondazione Comunista mi hanno


proposto la candidatura come capolista per l’elezione del Consiglio
Comunale di Roma il 28-29 maggio. Dopo averci pensato sopra, ho
deciso di accettare. Per due ragioni:
- per contribuire, come indipendente ma non come isolato, a
un’esperienza positiva di governo della città a cui Rifondazione
Comunista ha dato un contributo positivo di unità nell’autonomia e nel
dialogo;
- per continuare, con qualche strumento in più (per esempio, nella
Commisisone Cultura), il lavoro di organizzazione culturale che ho
svolto in questi anni come consigliere delegato per la memoria storica,
oltre che nell’università, nel Circolo Gianni Bosio, nell’Istituto Romano
per la Storia della Resistenza, nella Casa della Memoria e della Storia.

… questa città ribelle e mai domata…

Il lavoro culturale è lavoro politico soprattutto in tempi in cui


l’offensiva berlusconiana fa del degrado culturale, del revisionismo
storico, della corruzione del linguaggio strumenti diretti di dominio e
di potere. Le condizioni di ogni lavoro culturale, e di ogni piacere
culturale, sono la libertà, l’uguaglianza, la pace, la ricerca della verità.
In due parole: antifascismo e democrazia. La Resistenza è stata anche
una grande esperienza culturale: come dice la canzone partigiana,
Roma non è mai stata una città sottomessa, una città docile, e nella sua
cultura sono radicate le conquiste e i sogni del movimento operaio,
della lotta per la casa, delle lotte sociali e studentesche che hanno fatto
la storia di Roma dal dopoguerra a oggi.

…anche l’operaio vuole il figlio dottore…


(Paolo Pietrangeli)

La cultura non scende dall’alto; la cultura la facciamo tutti, ogni giorno.


Perciò la cultura a Roma sono le grandi istituzioni, i monumenti di cui
siamo tutti orgogliosi, ma sono anche Centocelle, Val Melaina, Donna
Olimpia, Casalotti, Pietralata... ; sono i grandi eventi, l’Auditorium e la
Notte Bianca, ma sono anche la storia orale, la musica popolare dalla
tradizione orale al rock, i saperi del lavoro e della vita quotidiana, le
storie fatte in casa che ci raccontiamo fra noi, che ascoltiamo tutti i
giorni in autobus, in strada o in metropolitana; sono il teatro di
Ascanio Celestini, la musica di Giovanna Marini. Fare cultura significa
lavorare per periferie più vivibili; per un’aria più respirabile e un tempo
meno soffocante; per vite meno precarie; per spazi aperti e accessibili
di creazione e di fruizione di tutte le espressioni culturali; per una
scuola pubblica e un’università capaci di costruire quell’uguaglianza di
possibilità e di speranze che proclama la nostra preziosa Costituzione e
che la destra più arrogante trova ancora scandalose.

… tutto sta scolpito nella memoria…


(Leon Gieco)

Memoria significa ricordare, cioè richiamare al cuore, ai sentimenti, il


valore di quello che siamo stati e quello che vogliamo diventare; ma
significa anche rammentare, riportarlo alla mente, all’intelligenza; e
rimembrare, riportarlo al corpo, ai sensi, rimettere insieme quello che
l’alienazione quotidiana e la manipolazione mediatica hanno
frammentato (“rammendare”?). Nella Casa della Memoria e della
Storia la memoria vivente della Resistenza si incontra con la ricerca
storica e culturale in un lavoro quotidiano che serve più a cambiare che
a conservare, che elabora e trasforma e che prepara, attraverso la
cittadinanza vigile di oggi, la memoria del presente per il futuro.

… nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà…

Roma è una città-mondo, e una città che appartiene al mondo. Roma è


per l’incontro e il dialogo fra le molteplici differenze di cui siamo fatti,
anche quando è difficile e faticoso. La presenza attiva degli immigrati, il
dialogo interreligioso nello stato laico, il ruolo fondamentale della
comunità ebraica hanno trasformato in questi anni i modi e i nodi della
nostra convivenza e fatto crescere la nostra coscienza civile. Lavoro
culturale significa liberare Roma dai razzismi e dalle discriminazioni. E
dire, con la nostra Costituzione e con la nostra coscienza, no alla
guerra.

A L E S A N D R O P O RTE L I | 1 0:2 3 A M 3 C OMME NTI

Chi sono
Sono nato a Roma nel 1942. Di mestiere, insegno letteratura americana
alla Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università la Sapienza. Ho
svolto l’incarico di Consigliere delegato del Sindaco di Roma per la
tutela e la valorizzazione delle memoria storiche della città; ho fondato
e presiedo il Circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la
presenza alternativa delle culture popolari; faccio parte del consiglio
direttivo dell’IRSIFAR (Istituto Romano per la Storia d’Italia dal
Fascismo alla Resistenza) e ho la tessera dell’ANPI. Collaboro al
manifesto fin dal 1972, e ho scritto spesso anche su Liberazione e
l’Unità.
Ho studiato, insegnato e diffuso la cultura dell’America a cui vogliamo
bene – quella di Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, Bruce
Springsteen, di Malcolm X; Martin Luther King, Cindy Sheehan; Mark
Twain, Don DeLillo, Spike Lee, Woody Allen. Ho raccolto le canzoni
popolari e politiche e la memoria storica orale di Roma e del Lazio,
collaborando con il Canzoniere del Lazio, Giovanna Marini, Sara
Modigliani, Piero Brega, Ascanio Celestini. Ho conosciuto i partigiani e
le partigiane di Roma e i familiari degli uccisi delle Fosse Ardeatine, e
dai loro racconti ho messo insieme la loro storia. Ho ascoltato i racconti
delle borgate e dei quartieri popolari, dalle occupazioni delle case degli
anni ’70 alla storia orale di Centocelle. Ho cercato di non limitarmi a
studiare e a scrivere, ma anche di organizzare cultura: mettere in piedi
strutture (dal Circolo Bosio alla Casa della Memoria); fondare e far
vivere riviste; condividere con gli altri, attraverso dischi e libri, quello
che ho imparato; coinvolgere persone più giovani e aprirgli spazi;
organizzare eventi, concerti, incontri. Ho accompagnato gli studenti
romani ad Auschwitz, ho girato decine di scuole per parlare della
memoria, della democrazia, dell’antifascismo. E ho voglia di continuare
a farlo.
Le mie passioni sono l’uguaglianza, la libertà, l’insegnamento, la
musica popolare, la memoria, ascoltare i racconti delle persone, i libri e
i film, e il rock and roll.

A L E S A N D R O P O RTE L I | 9 :34 A M 1 2 C O MME N TI

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