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ALESSANDRO PORTELLI

25 NOVEMBRE 2006

Nassirya e il silenzio. Un'esperienza


Sono uscito sconcertato e un po’ umiliato dalla seduta del consiglio
comunale di Roma oggi, lunedì 20 novembre. E’ stato il punto di arrivo
di diversi giorni in cui mi sono sentito sempre più, e da più parti,
incapace di comunicare e di esprimermi.
Cominciamo dall’inizio. L’altro giorno, anch’io avrei voluto andare a L I N K E C O N TAT T I

manifestare per i diritti del popolo palestinese (non in sostegno dei Chi è Alessandro Portelli
suoi capi e dei suoi gruppi estremisti), per la fine dell’occupazione Una proposta di lavoro culturale
militare e della colonizzazione israeliana, per protestare contro la
Scrivi ad Alessandro Portelli
politica di “errori” (continuati e ripetuti) delle forze armate e del
governo di un paese che rispetto e vorrei poter continuare ad amare.
Non ci sono andato perché mi aspettavo quello che è successo: che una DOWNLOAD
piccola frangia che per il momento chiamerò solo irresponsabile, con
Lezioni di storia: i giorni di Roma - 24
l’aiuto interessato di una stampa opportunistica e ipocrita, avrebbe marzo 1944: Le Fosse Ardeatine
imposto il proprio segno alla manifestazione e azzerato il senso della
Lezioni di storia: Sulla scena di Roma:
presenza di tutti gli altri. Perciò mi sono sentito espropriato tre volte:
Il bombardamento di San Lorenzo
perché non me la sono sentita di andare; perché gli irresponsabili
hanno coperto la voce di chi c’era andato come ci sarei voluto andare
io; perché stampa e politici hanno scelto di amplificare loro e azzittire POST RECENTI
tutti gli altri.
Tutto il giorno di ieri sui media
Poi oggi, all’inizio della seduta, il presidente del consiglio comunale e
rimbalzava una n...
tutti i non molti consiglieri presenti si sono alzati cerimoniosamente
Nel 1950, nel libro La folla solitaria,
per stigmatizzare gli slogan gridati da una parte di manifestanti e per
un testo d...
rendere omaggio ai “martiri” che hanno “dato la vita” a Nassiriya.
Bruce Springtsteen: Born to Run,
Compiaciuto e oleoso, il portavoce di Alleanza Nazionale ha ringraziato
l'autobiografia
e ritirato il suo ordine del giorno, e si è passati ad altro. Anche qui avrei
La scheda, il fucile e Dallas
voluto parlare, ma non ce l’ho fatta.
ILouisiana, Minnesota: il delirio
Avrei voluto dire, in primo luogo, che chiamarli “martiri” è un insulto
dell'onnipotenza
alla memoria di questi uomini uccisi. I martiri testimoniano
https://www.youtube.com
volontariamente di una scelta; questi uomini non hanno scelto di
/watch?v=KwYE2d0h170: semik...
morire (non hanno “dato la vita”, gli è stata tolta). Non sono andati lì a
L'Europa del genocidio respinge i
cercar la bella morte e la gloria del sacrificio, ma - la maggior parte di
migranti
loro almeno - con l’idea di tornarne vivi e magari comprarsi casa e
Joe Hill: 1915-2015
mettere su famiglia coi soldi della missione. Chiamarli martiri è (fatte
le debite proporzioni) come quando chiamiamo “olocausto” la Shoah, "Adua" di Igiaba Scego - il manifesto
sovrapponendo l’immagine di una offerta sacrificale a quella che è una 15.12.2015
strage pura e semplice, quasi attribuendo alle vittime la volontà di Link a una pr esentazione del mio
morte di chi li ha uccisi o di chi li ha messi in condizione di essere libro su Bruce S...
uccisi. Sono morti perché altri li hanno mandati a morire, in una guerra
illegittima, anticostituzionale, insensata, bugiarda – e poi piangono
ARCHIVIO
lacrime di coccodrillo e fanno capitale politico di una morte la cui
responsabilità ricade su di loro. maggio 2006
Avrei voluto dire: e poi, per che cosa avrebbero dato la vita? La luglio 2006
chiamano missione di pace, ma per portare la pace bisogna essere settembre 2006
neutrali, terzi (come forse sarà in Libano), non certo gli alleati più ottobre 2006
fedeli della maggiore potenza belligerante. Guardiamo l’Irak,
novembre 2006
guardiamo l’Afghanistan: non abbiamo portato, non stiamo portando,
dicembre 2006
né pace né democrazia. Se ne sono accorti perfino gli americani.
gennaio 2007
Avrei voluto dire: io penso che inneggiare alle stragi e auspicare che si
febbraio 2007
moltiplichino è moralmente spregevole e politicamente cretino (ma la
stupidità non assolve. Diceva Totò: anche i cretini non debbono marzo 2007

abusare dei loro diritti di cretini). Ma noi che non lo desideriamo, voi aprile 2007
che stigmatizzate, che cosa stiamo, che cosa state facendo per evitare il maggio 2007
rischio di una, dieci, cento Nassiriya? E’ successo, quindi finché stiamo settembre 2007
lì può succedere ancora. Se vuoi bene ai nostri ragazzi in Vietnam, ottobre 2007
cantava Pete Seeger, fai la cosa più semplice: riportali a casa. Se si fosse novembre 2007
fatto come dicevamo noi, come dicevano i milioni di esseri umani che dicembre 2007
hanno marciato contro la guerra, sarebbero ancora vivi.
gennaio 2008
Avrei voluto dire: questa città è piena di svastiche e scritte naziste,
febbraio 2008
persino davanti a via Tasso. In questa città sfilano gridando slogan
marzo 2008
assassini i più beceri estremisti di destra. In questo paese, i ragazzi che
aprile 2008
picchiano e umiliano i loro compagni down scrivono slogan nazisti alla
lavagna. Ma non ho visto il consiglio comunale alzarsi compunto in maggio 2008

piedi e stigmatizzare queste oscenità, e questo silenzio svuota di senso settembre 2008
anche le vostre parole di oggi. Abbiamo commemorato Oriana Fallaci novembre 2008
(pessima giornalista, visto che da anni scriveva falsità) e non una dicembre 2008
parola su Anna Politkovskaja. O su Tiziano Terzani. gennaio 2009
Avei voluto. Perché non l‘ho fatto? Dopo tutto, forse sono stato eletto febbraio 2009
anche perché lo facessi. Ma mi sono sentito soffocare da un senso marzo 2009
avvilente di inutilità che è difficile spiegare a chi non segue questi
aprile 2009
cerimoniali. In questi mesi, mi sono reso conto che se uno si aspetta
maggio 2009
che il consiglio comunale sia il luogo della discussione politica e
giugno 2009
culturale, o almeno una tribuna da cui parlare alla città, farà bene a
luglio 2009
ridimensionare le sue aspettative. C’entra forse l’inadeguatezza del ceto
politico, di cui mi sento anch’io parte (ascoltare le tirate demagogiche e settembre 2009
populiste della destra è istruttivo ma sconfortante; e la maggioranza, ottobre 2009
proprio perché si sente tale, non perde tempo a spiegarsi); c’entra il novembre 2009
fatto che gli schieramenti sono precostituiti e sostanzialmente dicembre 2009
impermeabili; c’entra che i luoghi delle decisioni di fondo sembrano gennaio 2010
collocarsi altrove; c’entrano le mille incombenze quotidiane: che non marzo 2010
sono né inutili né prive di senso (anzi, richiedono un impegno costante
aprile 2010
e una competenza specifica da parte di persone responsabili), ma
volano a tutt’altra quota. Soprattutto (specie dopo una riunione maggio 2010
sospesa perché nessuno stava a sentire chi parlava; oltre tutto, giugno 2010
l’acustica è infame) hai la sensazione che su queste cose non parli a ottobre 2010
nessuno, che al massimo fai teatro per il tuo consenso o per metterti a novembre 2010
posto la coscienza, e non mi interessava. Sono tornato a casa avvilito e,
dicembre 2010
per riprendermi un po’ il diritto e il dovere di parola, ho scritto queste
gennaio 2011
righe.
febbraio 2011
A L E S A N D R O P O RTE L I | 1 :23 PM 1 C OMME NTI
marzo 2011
aprile 2011
maggio 2011
Consigli ai democratici: le elezioni di medio
giugno 2011
termine negli Stati Uniti
agosto 2011
Scrive un’amica dal Kentucky: “Ma chi l’avrebbe mai pensato che settembre 2011
sarebbe stata la nostra, conservatrice, nostalgica Louisville a spostare marzo 2012
l’ago della bilancia e far eleggere un democratico dopo generazioni di aprile 2012
repubblicani in questo stato repubblicano fino al midollo? Cose luglio 2012
sorprendenti succedono sotto il cielo…” Scrive un amico dal Tennessee: novembre 2012
“Ha vinto la classe operaia, dall’Indiana al Kentucky a tutto il nordest
dicembre 2012
industriale e hanno vinto i candidati che hanno parlato di guerra
febbraio 2013
collegandola a lavoro e sanità e scuola”. Chissà se esagera. Comunque,
aprile 2013
scrive un’amica da New York: “Almeno per un po’ respiriamo, poi forse
maggio 2013
non cambierà molto ma un segnale l’abbiamo dato”.
Mi fa effetto che non erano neanche arrivati i dati finali e un sacco di giugno 2013

gente si attaccava al computer per mandare messaggi di sollievo. Si luglio 2013


respirava proprio male negli Stati Uniti da almeno sei anni a questa agosto 2013
parte. Magari non è detto che ci sarà chissà che aria nuova, ma almeno ottobre 2013
tanti americani hanno mandato un messaggio che non permette novembre 2013
equivoci: la vecchia era diventata insopportabile. dicembre 2013
A chi è stato mandato, questo messaggio? A Bush e ai suoi, non c’è gennaio 2014
dubbio (ma non sono sicuro che l’abbiano recepito, visto che
febbraio 2014
continuano a dire che vogliono lasciare l’Irak ma solo dopo aver vinto
marzo 2014
la guerra). Però io credo, spero, che qualche cosa sia arrivata anche ai
aprile 2014
democratici. La grande maggioranza di loro, a partire dalla trionfante
maggio 2014
Hilary Clinton, in questi anni si è affannata a dimostrarsi patriottica
sostenendo o lasciando passare praticamente tutte le nefandezze giugno 2014

antidemocratiche dell’amministrazione Bush – e hanno continuato a agosto 2014


perdere. Adesso hanno vinto non perché si siano armati finalmente di febbraio 2015
coraggio, cosa che è avvenuta in misura molto molto ridotta, ma perché maggio 2015
in un sistema bipolare bloccato gli elettori non avevano altro modo per luglio 2015
dire che quella politica di cui i democratici stessi sono stati complici e novembre 2015
subalterni non la vogliono più. Avranno il coraggio di darsi da fare per dicembre 2015
cambiarla davvero? Adesso che la maggioranza parlamentare è
gennaio 2016
cambiata, la lotta per la pace e contro le scandalose sperequazioni di
maggio 2016
ricchezza e livelli di vita e di istruzione è appena cominciata: bisogna
luglio 2016
che il nuovo congresso si senta sul collo il fiato di milioni di americani ottobre 2016
che vogliono segni chiari di differenza e di novità. aprile 2019
Ma gli elettori stessi ne saranno capaci? E’ certo un bel segno di
normalità democratica il fatto che si siano decisi a votare finalmente
contro il governo che avevano rieletto appena due anni fa. Ma è mai FEED

possibile che per farlo abbiano dovuto aspettare di essere sicuri che
questa guerra non si poteva vincere? E’ mai possibile che i media che
oggi sparano a zero su Bush e Rumsfeld per le loro bugie sull’Irak non
C O L L A B O R AT O R I
lo sapessero già tre anni fa, quando lo sapeva tutto il resto del mondo,
A L ESA ND RO PO RTE L I
che erano tutte falsità? Allora, c’è da sperare che il messaggio questi IVANH AWK
elettori lo abbiamo mandato anche a se stessi, come protagonisti della SE RGIO PO L IME N E
democrazia, soggetto politico sovrano e opinione pubblica: basta con le
deleghe in bianco ai governanti, basta con la subalternità e complicità
dei media nei confronti delle verità della Casa Bianca (e della
subalternità dai cittadini al sistema dominante dei media). Perché se in
Irak sono morti tremila americani e forse seicentomila iracheni, la
colpa non è solo di Bush e Rumsfeld, ma – in una democrazia – è
responsabilità anche loro che li hanno lasciati fare, che dopo
un’elezione rubata gliene hanno regalata un’altra – forse – regolare, e
che quando il loro democratico governo ha legalizzato intercettazioni
clandestine e metodi di tortura non hanno avuto un democratico moto
di repulsione e di protesta. Ed è anche colpa dei media, così lontani in
tutti questi anni da quel mito della libera stampa americana che ci
hanno regalato Hollywood e i filoamericani mitici di casa nostra.
Avranno gli operatori dell’informazione il coraggio, dopo questo voto,
di ritrovare la loro autonomia di coscienza e la loro capacità di cercare
il più possibile la verità, oppure dovremo continuare a consolarci coi
ricordi un po’ sbiaditi di Ed Murrow o Lincoln Steffens?
In gran parte, la passività di cui hanno approfittato Bush e la sua banda
è stata in questi anni il prodotto di uno scoraggiamento profondo, della
convinzione che non si poteva vincere. In un paese dove la parola
“liberal” (che da noi è l’unica ideologia permessa) è diventata un
insulto innominabile, sembrava che solo la destra fondamentalista,
militarista e monopolistico-clientelare avesse il polso della realtà e
della storia. Gli altri erano rappresentati, e un po’ si percepivano, come
nostalgici, passatisti, rassegnati, fuori del tempo… E invece adesso si
renderanno conto che magari non saranno proprio born to win, nati
per vincere (come diceva Woody Guthrie), ma nemmeno a priori nati
per perdere (born to lose, per dirla con Johnny Cash e Ray Charles). Un
po’ meno scoraggiamento al centro e a sinistra, un po’ meno arroganza
e certezza dell’impunità a destra, e si può, umilmente e un gradino per
volta, ricominciare.
E infatti. Non ci facciamo spaventare troppo dal fatto che sette stati
hanno approvato emendamenti contro iol matrimonio fra coppie dello
stesso sesso. Ho sotto mano un comunicato stampa della National Gay
and Lesbian Task Force secondo cui le cose sono meno nere di quanto
si possa pensare. In primo luogo, c’è stato anche un ostato, l’Arizona, in
cui per la prima volta nella storia un emendamento simile non è
passato. Poi, le percentuali anche degli altri stati mostrano un margine
assai più ridotto di quello che si poteva immaginare: nel 2004, solo il
31% degli elettori aveva difeso i diritti dei gay e delle lesbiche; adesso,
in almeno cinque stati la percentuale ha superato il 40% (e se l’Oregon
era immaginabile, al Virginia è proprio una sorpresa). E i candidati più
volgarmente anti-gay sono stti clamorosamente battuti quasi
dovunque. In Wisconsin, Michigan, Ohio, Oregon, sono stati eletti
governatori che avevano preso chiare posizioni antidiscriminazione in
campagna elettorale. Insomma, anche su questo difficile terreno,
qualcosa si muove.
Perciò, ecco un altro messaggio, con echi anche da questa parte
dell’oceano: la mobilitazione politica della destra religiosa può
funzionare per un po’ di tempo ma non può funzionare per sempre. In
parte, perché se mobiliti la gente sul piano dei valori, un po’ ci devi
credere e un po’ li devi praticare; se fai balenare alla gente obiettivi
teocratici irrealizzabili anche in democrazie ammalate come quella
degli Stati uniti e come la nostra, poi si accorgono che ti sei solo servito
di loro e li hai presi in giro. Ma anche, molto, perché in fine questi
famosi fondamentalisti cristiani non sono solo fondamentalisti ma
anche cristiani (e in maggioranza cristiani non ricchi), e tra i valori del
cristianesimo (e dell’occidente) ci sarebbero anche la pace, il non
ammazzare, un minimo di solidarietà e di aiuto ai più deboli. Non è
facile continuare a mobilitare dei cristiani contro questi valori che sono
anche loro.
Sospetto che, nel profondo, la svolta sia cominciata più con Katrina e
New Orleans che con l’Irak: è stato allora che si è visto quanto poco di
cristiano avesse quel governo, e che i media hanno ripreso un po’ di
dignità. Chissà se anche da noi i teo-con e gli atei devoti continueranno
a credere di stare al passo con la storia e con la modernità americana
scimmiottando quel perdente di Carl Rove.

A L E S A N D R O P O RTE L I | 1 :21 PM 0 C OMME NTI

14 NOVEMBRE 2006

La serietà operaia. Vita di Ferruccio Mauri,


comunista ternano
(in corso di pubblicazione nella rivista dell'ICSIM, Istituto
per la Storia d'Impresa, Terni)

Ho incontrato Ferruccio Mauri nella primavera del 1983. Ero


già in una fase avanzata della mia ricerca sulla storia orale di Terni, dei
suoi antifascisti e della sua classe operaia, e mi accorsi subito di
trovarmi di fronte a una figura diversa da quelle che avevo incontrato
fino allora, figure storiche della resistenza e dell’antifascismo, da
Arnaldo Lippi a Remo Righetti a Bruno Zenoni. Basta guardare le date:
Lippi era del 1899, Righetti del 1901, Zenoni del 1908. Ferruccio Mauri,
nato nel 1926, apparteneva a una generazione diversa, che non aveva
memoria diretta delle lotte operaie prima del fascismo, delle
organizzazioni proletarie e della loro cultura.

Perciò la storia che raccontava non era tanto quella di una


tenace opposizione negli anni della dittatura, quanto quella di una
presa di coscienza graduale, di una scoperta delle ragioni di classe e
della democrazia: “A casa mia non ciavevo né fascismo né antifascismo:
facevo la vita del ragazzo in una famiglia che vive per campare, senza
interessarsi a queste grandi problematiche”, raccontava. Anche se non
veniva da una famiglia “non borghese, ma nemmeno poverissima” e
comunque non operaia, respirava la concreta durezza dei rapporti di
classe nella città-fabbrica: “non è che c’era un discriminazione nei
confronti della classe operaia, ma tu sentivi delle chiusure. Si
sentivano, erano corpose; io l’ho inteso come catene.”

Ma l’immaginazione adolescenziale e la pervasiva propaganda del


regime lo portano a sognare vie d’uscita fantastiche e avventurose. La
famiglia, la parrocchia, soprattutto la scuola gli parlano una lingua di
disimpegno da una parte e di “sfrenato nazionalismo” dall’altra, e lui non ha
ancora le risorse per costruirsi discorsi alternativi: “io da ragazzetto avevo
frequentato anche la parrocchia insomma, no; al Sacro Cuore”; “Io stavo in
una scuola, la scuola industriale, frequentata da figli d’operai. Un preside
fascista; anche in modo smodato e scorretto. E gli insegnanti fascisti; e quindi
un’educazione fascista. E poi l’avventura, la guerra, un fatto nòvo che
rompeva il trantran forse.” Sono gli anni dell’impero, della guerra, e come
tanti ragazzi di allora anche Ferruccio Mauri è preso dall’entusiasmo: “Me
ricordo una grossa manifestazione fatta dagli studenti, a corso Tacito, me
ricordo una bara, perché la portavano due ragazzi della mia scuola.”

E tuttavia, ha già imparato, comunque, a guardare le cose con i propri


occhi e misurare i miti sulla stregua di quello che vede. A posteriori,
rintracciava forse ottimisticamente “una carica anticapitalistica, in modo
larvato, da incosciente” persino nella retorica antiplutocratica del regime. E
quando i miti gli sfilano davanti, il suo sguardo è già dissacrante:

Io me ricordo quando tornò a Terni la XXIII Marzo


[dall'Etiopia]. Allora facevo le scòle elementari. Ce fu il ritorno de
questo battaglione; e mi ricordo che co' le scòle ci portarono ad
occupare gli appartamenti che davano su via Roma. Quando
rientravano questi, tutti baldanzosi, e noi a gettàgli i fiori de sopra.
Per me Badoglio era un dio, no; il conquistatore dell' Africa. E la
cosa che lo ricondusse a mortale fu il fatto che mentre era li, a
presenzia' alla manifestazione, si soffiò il naso con un fazzoletto. lo
non potevo immaginare che un dio se soffiasse il naso con un
fazzoletto. Allora andiedi a casa e dissi, "ma porca l'oca, ma come
mai Badoglio se soffia il naso con il fazzoletto come noi?"

Le catene dei rapporti di classe presto indirizzano la sua vita in una


direzione molto diversa e molto più dura. A quattordici anni, Ferruccio Mauri
è apprendista alle acciaierie, dove in un’officina scuola non impara solo un
mestiere e una disciplina di lavoro, ma anche un’altra logica. La fabbrica è
davvero una scuola alternativa:

E lì feci i primi bagni diciamo cosi colla realtà e industriale


e produttiva, vero. Il prim'impatto fu terribile, proprio. Me ricordo
che c'era 'n operaio, un vecchio operaio che si chiamava, io me lo
ricordo ancora, Materazzi; e io gli dissi: "Come so' i capi qui
dentro?" Questo me guardò tutto burbero, me fa: "Ricordete 'na cosa,
barda' - barda', ragazzo, no? dice, - che qui, devi ammazza' quelli più
bòni, e colle budella ce devi strozza' quelli più cattivi". lo rimasi,
dico, allora so' tutti nemici qui intorno?

La lotta di classe è una scoperta graduale. In tempo di guerra, passa


attraverso “la militarizzazione degli operai”, per cui ogni ritardo, ogni errore,
diventa “un sabotaggio verso la produzione bellica”. Ma il vero rito di
passaggio, il momento del cambiamento è un altro. Anche qui, Ferruccio
Mauri, ancora ragazzo, impara dagli operai – dai loro sguardi, dai loro silenzi.
E’ uno dei più bei racconti, anche da un punto di vista proprio “letterario”, che
io abbia mai sentito.

E di quel primo periodo all' acciaieria ricordo che portarono


tutte le maestranze, allora le chiamavano le maestranze, dell'
acciaieria, a piazza Tacito, c'erano gli altoparlanti, la radio che
doveva trasmettere il famoso discorso diciamo di guerra di
Mussolini, no. E la cosa che m'impressionò - qui ci possono essere
delle discordanze, ma quelli che erano vicino a me... lo ero entusiasta
della guerra; io ero ragazzetto, l'avventura. Erano quattro giorni che
stavo all'acciaieria, avevo partecipato come studente a tutte le
manifestazioni pe' la Corsica, pe' la Savoia, pe' la Tunisia, e tutte 'ste
cose qui. lo mi ricordo che entrai all'acciaieria che non vedevo l'ora
che scoppiasse la guerra. Ma, c'era l'ingenuità del ragazzo; e il fatto
della novità, insomma era un fatto nòvo. E andiedi a quest'adunata
d'operai; e intorno a me vidi, mentre sentivo che a Roma si battevano
le mani - ma forse anche a piazza Tacito; ma coloro che erano vicino
a me li vidi fortemente preoccupati. Cioè per la prima volta - questa
non è che faccio poesia - vidi la serietà operaia, la preoccupazione.
Anche se io non riuscivo a capire le cause. Mentre io gioivo, a Roma
si battevano le mani, e attorno a me - perché altri potranno dire, "no,
hanno battuto le mani" ma attorno a me, gli operai che stavano con
me mostravano forte preoccupazione. Forte preoccupazione.

Questa dunque è la storia di come Ferruccio Mauri si trasforma da


ingenuo ragazzo entusiasta della guerra in espressione matura della “serietà
operaia”. Certo, non avviene di colpo, in un momento; ma la grandezza di un
racconto sta proprio nel modo in cui riassume in un simbolo, un’epifania, un
lungo percorso della soggettività.

Ho usato spesso, anche all’università, questo racconto per spigare


come funziona la logica della narrazione in età moderna: non più un narratore
“onnisciente” (il Manzoni dei Promessi sposi, per esempio), che sa la storia
tutta intera ed entra dentro i pensieri e i sentimenti dei personaggi; ma un
narratore parziale, coinvolto e circoscritto. La piazza di Terni descritta da
Ferruccio Mauri somiglia molto a pagine dei grandi romanzi modernisti, a
Henry James o a Joseph Conrad. Il narratore non ci dice com’è, come ragiona
la classe operaia: vede solo i volti, e ci dice in che modo quei volti hanno
cambiato lui.

La sua autorità narrativa viene precisamente dai suoi limiti. Da un


lato, proprio le incertezze, le frasi sospese, le false partenze del racconto
riproducono nell’atto narrativo la difficoltà del processo di cambiamento
vissuto in quel momento dal narratore. Dall’altro, il suo è un racconto fra i
molti possibili (“qui ci possono essere delle discordanze”) ma è un racconto
credibile proprio perché racconta solo quello che vede (“intorno a me…”).
Soprattutto, il modo in cui Mauri interpreta lo spazio, i volti, i silenzi attorno a
sé diventa il cardine della sua nuova coscienza. Basta pensare a come
l’opposizione fra la Roma imperiale da cui viene la voce del Duce, e la Terni
proletaria segnata dal silenzio operaio serve a istituire una continuità fra
l’identità cittadina, l’identità di classe, e l’identità personale in formazione. Da
questo momento, Ferruccio Mauri è uno di quegli operai, e la “serietà operaia”
diventa il tratto centrale del suo carattere.

Mauri non faceva un’epica di se stesso. Sarebbe stato facile, per uno
che a 17 anni era partigiano in montagna, dire che la coscienza ce l’aveva
innata. E invece il suo era un racconto essenzialmente ironico, animato dalla
distanza fra l’uomo maturo che narrava e il ragazzo incerto, in una lunga fase
evolutiva, di cui parlava. L’orgoglio stava proprio in questo processo lungo di
formazione e trasformazione sempre parziale, in cui tutto cambiava e niente
veniva rinnegato. Non è un caso che, nell’altro racconto iniziatico della sua
esperienza partigiana, Mauri invita espressamente chi ascolta a interpretare da
sé la storia raccontata:

Tant' è che io quando - ecco, qui l'esempio poi costruitelo


come ve pare - io andetti in montagna la sera stessa dell'8 settembre.
Dopo ci fu un fatto a Narni: uno di Narni uccise un tedesco, e venne
a rifugiarsi dove stavamo noi, su a San Pancrazio. All'epoca, credo
che fosse nel gennaio o febbraio del 1944. Questo, siccome lo
conoscevo già da Narni, me fece, disse, "qui stiamo bene, posso sta'
sicuro, qui siamo tutti comunisti". "Ma che comunisti, che comunisti,
- dissi, qui no, qui siamo antitedeschi", insomma. Per dirti, io ancora
nel gennaio del '44, pur essendo passato nella trafila della fabbrica,
non riuscivo ad essere - ero un ragazzo de diciassett'anni,
indubbiamente, con tutte le carenze politiche culturali di un ragazzo
de diciassett'anni, ma, non ero un comunista. lo me ricordo 'na cosa:
io la prima sera che andetti a San Pancrazio, sul monte, siccome
venivo da 'n certo tipo de famiglia, non borghese, ma nemmeno
poverissima, ecco, nemmeno poverissima, come educazione, io da
ragazzetto avevo frequentato anche la parrocchia insomma, no; al
Sacro Cuore. E per me la sera si concludeva sempre col nome del
padre e il bacio del padre e della madre prima d'anda' a dormi', no.
Ma io per lunghe notti, le prime notti, a San Pancrazio, non ho mai
dormito perché me vergognavo da fàmmi il nome del padre e fàmme
vede', insomma, no.

Ferruccio Mauri non è comunista all’inizio della sua esperienza


partigiana; ma continua a cambiare. Dopo la liberazione di Terni, si arruola nel
gruppo di combattimento “Cremona” per continuare la guerra di liberazione
fino al nord; e la sua immaginazione è già diversa. Ricorda un momento
difficile, “in cui ci stavamo prendendo un mucchio di botte dai tedeschi, e
stavamo lì lì per scappare”. L’ufficiale grida tre volte “avanti Savoia!” e
nessuno si muove. “S’alzò in piedi un compagno - repubblicano – dice:
‘Avanti Stalin!’ Si spostò tutta la compagnia”.

Quarant’anni dopo, raccontando quest’episodio, probabilmente


Mauri non pensava più a Stalin negli stessi termini di quel momento (e d’altra
parte, sottolineando che il grido veniva da un repubblicano, suggerisce anche
che già allora Stalin appartenesse più all’immaginario che alla politica in
senso stretto). Comunque, non rimuove, non dimentica. La sua storia – che
continua dopo, nell’impegno sindacale, nel partito, nel lavoro, nelle istituzioni
– è tutto il contrario della rigida fissità che abbiamo imparato ad associare con
lo stalinismo: è la storia di una persona che cambia, che impara, che si
trasforma e che si evolve, e che di tutte le vicende che attraversa – la famiglia,
la parrocchia, la scuola, la fabbrica, la resistenza, il partito… - porta dentro di
sé un insegnamento, mai subito ma sempre filtrato da una coscienza critica e
da uno sguardo intelligente. Tanti dicono “la mia vita è un romanzo”; se un
romanzo non è tanto un cumulo di vicissitudini quanto la storia della crescita
di una coscienza, allora poche vite sono più “romanzo” di quella di Ferruccio
Mauri raccontata da lui stesso.

A L E S A N D R O P O RTE L I | 1 0:1 2 P M 0 C OMME NTI


 

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