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ALESSANDRO PORTELLI

19 DICEMBRE 2006

Sfere del sacro. Tra la SS. Trinità di Vallepietra e


Harlan County, Kentucky
Prendiamo due storie miracolose. La prima viene da Vallepietra. Era la
mia prima visita al santuario, a metà anni ’70; facevo interviste più o
meno volanti, e chiedevo se qualcuno aveva notizia o testimonianza di
L I N K E C O N TAT T I
eventi miracolosi. Un uomo di Rieti, autista di autobus, racconta:
Chi è Alessandro Portelli
- Che le dovrei dire – io proprio con esattezza non ne ho visto con Una proposta di lavoro culturale
questi occhi. Cioè un anno, saranno quattro cinque anni fa, cascò una Scrivi ad Alessandro Portelli
pietra, e c’era una bancarella che vendeva dei ricordini, giù al
santuario. Cascò questa pietra e purtroppo prese sopra a un masso
della bancarella e uccise questa persona che vendeva questi santuari, DOWNLOAD

che sarebbe praticamente uno di Vallepietra. Lezioni di storia: i giorni di Roma - 24


Portelli. Che successe? marzo 1944: Le Fosse Ardeatine
. Eh, che successe, purtroppo si staccò questa pietra – adesso, sentir Lezioni di storia: Sulla scena di Roma:
dire la gente, sembra che questo non era divoto a questo santuario. Il bombardamento di San Lorenzo
Portelli. E quindi si fece male?
- E quindi si fece male, cioè no, si fece male – morì, addirittura.
Portelli. Perché non era devoto al santuario? POST RECENTI

- A quello che ho potuto sentir dire io, ma proprio con esattezza non Tutto il giorno di ieri sui media
potrei spiegare perché io maggiormente, vede, non è che vengo qui e rimbalzava una n...
seguo proprio addirittura il santuario. Nel 1950, nel libro La folla solitaria,
un testo d...
Quest’altro racconto viene invece da Wallins Creek, contea di Harlan, Bruce Springtsteen: Born to Run,
nella regione mineraria e molto povera del Kentucky Sudorientale, l'autobiografia
negli Stati Uniti. Il narratore, appartenente alla chiesa Holiness, si La scheda, il fucile e Dallas
chiama Sill Leach, è un ex minatore, nato nel 1925; l’intervista è stata
ILouisiana, Minnesota: il delirio
registrata il 25 agosto 1991. E’ presente anche la moglie, Nellie Leach: dell'onnipotenza
https://www.youtube.com
Sill Leach. E la lavastoviglie s’è bloccata, e era una lavastoviglie quasi
/watch?v=KwYE2d0h170: semik...
nuova. Allora lei va lì e dice, “Signore”, dice, “non ci possiamo
L'Europa del genocidio respinge i
permettere un’altra lavastoviglie. La lavastoviglie, guarda, tu ci devi
migranti
aiutare e la devi aggiustare tu.” Così il Signore – lei si gira, e la
Joe Hill: 1915-2015
macchina riparte, e non s’è più fermata, dopo che lei ci ha pregato
"Adua" di Igiaba Scego - il manifesto
sopra”
15.12.2015
Portelli. Il Signore vi ha riparato la lavastoviglie.
Nellie Leach. Il Signore l’ha riparata, no? Link a una pr esentazione del mio
libro su Bruce S...
Come mostra la mia domanda – un po’ maleducatamente irriverente
nelle intenzioni, ma non percepita come tale dagli interlocutori – l’idea
ARCHIVIO
del Signore Iddio che dal cielo ripara la lavastoviglie può far venire da
ridere. C’è proprio una sproporzione, ai nostri occhi, fa il divino e maggio 2006
l’elettrodomestico. E infatti, se confrontiamo i due racconti ci luglio 2006
accorgiamo che la differenza principale sta proprio nello spazio: settembre 2006
domestico, quotidiano nel racconto americano protestante ottobre 2006
“fondamentalista”; eccezionale, consacrato, in quello italiano cattolico.
novembre 2006
La storia del venditore ucciso dal masso a Vallepietra infatti può essere
dicembre 2006
letta in almeno due modi. Da un lato, la possiamo pensare come
gennaio 2007
punizione del peccatore che si permette di violare lo spazio sacro del
febbraio 2007
Santuario, per di più per vendere la sua merce (mercante nel tempio?
La dissacrazione, anche nell’episodio evangelico, forse non consiste marzo 2007

solo nella mercificazione del luogo sacro, ma anche nell’incongruità di aprile 2007
un’attività “ordinaria” in unno spazio “speciale). Però il narratore, un maggio 2007
autista di autobus proveniente da Rieti, aggiunge che anche lui “non è settembre 2007
che segu[e] proprio il santuario”: se fosse questo il significato, forse ottobre 2007
dovrebbe avere qualche timore anche per se stesso. E poi, forse novembre 2007
l’immagine di una divinità punitiva e vendicativa non si accorda del dicembre 2007
tutto con la natura risanatrice del luogo.
gennaio 2008
Una seconda lettura, forse più complicata ma più suggestiva è quella
febbraio 2008
per cui, in un luogo come Vallepietra – dove gli storpi gettano le
marzo 2008
stampelle e i muti parlano – le leggi naturali sono normalmente
aprile 2008
sospese. In un luogo dove (come dice la canzone che cantano i
pellegrini) i buoi cascano da grande altezza sopra i sassi, e si rialzano e maggio 2008

riprendono a camminare, ci si aspetterebbe che se ti casca un masso in settembre 2008


testa non ti faccia niente. Il prodigio allora consiste nella sospensione novembre 2008
mirata della prodigiosità del luogo: normalmente, qui non vigono le dicembre 2008
leggi normali della gravità e della natura; il miracolo consiste nel gennaio 2009
temporaneo ripristino della normalità. febbraio 2009
Prendiamo altre due storie di miracoli. Ancora una volta, Vallepietra, il marzo 2009
narratore è un pellegrino di Articoli Corrado:
aprile 2009
maggio 2009
Io me ce so’ incontrato, sei sette anni fa, che una bambina ha chiamato
giugno 2009
la mamma, era sordomuta, ha chiamato la prima volta la mamma giù al
luglio 2009
santuario. Stavo lì proprio e lì quando è successo ‘sto fatto, che la
bambina ha chiamato la mamma proprio sotto al santuario, lì so’ stati settembre 2009
commossi tutti perché c’era molta gente, poi ciànno tirato indietro, ottobre 2009
indietro, indietro, e hanno portato questa bambina al pronto soccorso e novembre 2009
lì è stata assistita dai carabinieri. dicembre 2009
gennaio 2010
E Closplint, ancora a Harlan County. Il narratore si chiama Delbert marzo 2010
Jones, ex minatore, nato nel 1930, intervistato il 24.10.1988:
aprile 2010
Mio figlio, aveva dieci anni, era il piccolo della famiglia, e è rimasto maggio 2010
ucciso in un incidente di caccia. E avevamo un frigorifero – adesso non giugno 2010
c’è più, è andato perduto nell’incendio, ma avevamo fatto delle ottobre 2010
fotografie. E quando hanno scattato una foto, hanno scattato la novembre 2010
macchina fotografica, un giorno ci siamo messi a guardare le foto e
dicembre 2010
dico, che è quella cosa sul frigorifero? Abbiamo guardato meglio, e era
gennaio 2011
Johnny. C’è come una stella, un punto luminoso, sul frigorifero. Gli
febbraio 2011
piacevano le fotografie, gli piaceva fare le foto, e quando hanno scattato
marzo 2011
quella lui c’è voluto stare dentro, ci doveva proprio stare, caro mio, e è
comparso sul frigorifero. E’ stato un miracolo. Ce l’avevamo, la foto, aprile 2011

non so che fine ha fatto. Ma mi sarebbe piaciuto fartela vedere. maggio 2011
giugno 2011
L’apparizione sul frigorifero è altrettanto incongrua della sacra agosto 2011
riparazione della lavastoviglie, ma un po’ più sconcertante dato che c’è settembre 2011
di mezzo la morte e non la possiamo buttare a ridere. La foto marzo 2012
miracolosa del ragazzo morto potrebbe essere un ex voto – solo che gli aprile 2012
ex voto stanno nei santuari mentre questa immagine miracolosa sta in
luglio 2012
cucina, su un altro elettrodomestico, e nell’album di famiglia (dando
novembre 2012
per scontato che la foto esista davvero e non sia una proiezione di
dicembre 2012
desiderio e rimpianto da parte dei genitori addolorati).
febbraio 2013
La differenza fra questo miracolo nel quotidiano, e la nostra concezione
del rapporto fra miracolo e spazio sacro è confermata dall’altro aprile 2013

racconto di Vallepietra. L’intera narrazione è dominata dalla deissi: il maggio 2013


miracolo avviene “giù al santuario”, anzi “proprio sotto al santuario”, giugno 2013
l’avverbio di luogo, “lì”, viene ripetuto tre volte; gli astanti sono invitati luglio 2013
insistentemente a farsi “indietro”. Aggiungerei che c’è anche un dato di agosto 2013
eccezionalità del tempo, uno strappo nel tempo ordinario: quando il ottobre 2013
miracolo si conclude e la bambina riprende la parola, il controllo viene novembre 2013
restituito alle agenzie del tempo ordinario, il pronto soccorso e i
dicembre 2013
carabinieri (non so se per proteggerla, o per sottoporla a verifica).
gennaio 2014
Prima di procedere a qualche considerazione interpretativa, vorrei
febbraio 2014
aggiungere un altro racconto di Nellie Leach, che ribadisce la
marzo 2014
consuetudine con questi piccoli miracoli ordinari nella vita di tutti i
giorni, questi microinterventi divini nel quotidiano. aprile 2014
maggio 2014
Una volta era andata alla funzione, abitavamo a cinque miglia dalla giugno 2014
chiesa e sono andata alla funzione e avevo un buco nel serbatoio della agosto 2014
benzina. Usciva la benzina, piano piano. E quando sono ripartita per febbraio 2015
tornare a casa ho detto agli altri, “Pregate per me, per farmi arrivare a maggio 2015
casa,” gli ho detto, “perché non so se mi basta o no la benzina per
luglio 2015
arrivare a casa.” Arrivo verso un terzo della strada fuori città e verso
novembre 2015
casa e la macchina comincia a rallentare, e io comincio a pregare, non
dicembre 2015
avevo soldi, non avevo modo di tornare e fare benzina, era tutto chiuso,
gennaio 2016
e cominciai a pregare e dissi, “Caro Signore, la macchina mi pianta qui
in piena notte e io sto qui da sola, fammi arrivare almeno in paese, maggio 2016

dove ci sono le luci, non ti chiedo di portarmi più in là.” E tenevo il luglio 2016
piede fisso sull’acceleratore, non davo più gas, non lo lasciavo andare. ottobre 2016
E, e so che feci almeno quattro miglia e appena arrivata dentro il paese aprile 2019
la macchina muore. Telefono a mio figlio, dico, “sto qui bloccata al
ponte, ho finito la benzina”, dico, “fin qui ci sono arrivata con la
preghiera.” E lui, “Mamma, che ti piglia?” Dice, “se Dio ti ha portato fin FEED

qui,” dice, “ti può portare pure fino a casa.” E io dico, “Be’, io non gli ho
chiesto di portarmi a casa,” dico; “gli ho chiesto solo di portarmi
dov’erano le luci. E Lui mi ci ha portato. Mi ha portato dov’erano le
C O L L A B O R AT O R I
luci. Ti dico, ha risposto alle mie preghiere.”
A L ESA ND RO PO RTE L I
IVANH AWK
La risposta del figlio è senz’altro irriverente, ma forse anche reverente SE RGIO PO L IME N E
nello stesso tempo. Infatti la sua risposta alla madre (“se Dio ti ha
portato fino a qui, ti può portare pure fino a casa”) è una citazione
letterale dal più amato e famoso dei canti religiosi americani, “Amazing
Grace” (scritto dall’ex capitano negriero John Newfield, di Liverpool,
nel 1700, amatissimo da tutti, bianchi e neri): “E’ stata la grazia di Dio
che ci ha portato fin qui, e la grazia ci porterà fino a casa”. Il figlio di
Nellie Leach si limita a citare la canzone prendendola sul serio, alla
lettera – perché la letteralità è la base del discorso “fondamentalista”
del sacro in generale. Ho chiesto a Dio di portarmi fino alle luce, e Lui
mi ha portato lì e non un metro più in là. Noi prendiamo alla lettera la
parola di Dio perché Dio prende alla lettera le nostre preghiere.
Aggiungerei un altro elemento: il diverso rapporto con la tecnologia. Al
centro dei racconti di Harlan stanno lavastoviglie, frigorifero,
automobile. La capacità protestante di individuare dimensioni
simboliche in ogni oggetto ordinario fa sì che non abbia problemi con
la modernità: negli spiritual, banchi e neri, la radio, il treno, persino il
baseball diventano metafore del rapporto con Dio. Da noi, magari
qualche ex voto ringrazia per essere scampati da un incidente
automobilistico; ma l'ìggetto centrale è il corpo del fedele, non
l'automobile. La macchina resta connotata in senso troppo laico, se non
proprio profano, in un discorso che riguarda realtà essenziali e senza
tempo, la vita e la morte.
Perciò, come diverso è il rapporto con lo spazio sacro, così è diverso il
rapporto coi simboli. Dalle parti di Harlan County, prendono alla
lettera Marco 16:15-20: “nel nome mio scacceranno i dèmoni;
parleranno in lingue nuove; prenderanno in mano dei serpenti…” E in
tante chiese Holiness prendono materialmente in mano i serpenti a
sonagli e i copperheads, e se vengono morsi non chiamano il dottore.
Confrontiamo con il rituale dei serpenti a Cocullo, studiato da Alfonso
Di Nola: lì, alle vipere vengono tolti preventivamente i denti del veleno.
A Cocullo, il serpente è un simbolo; a Harlan, è un rischio e una prova
tangibile. Così, quando “Amazing Grace” dice che la grazia ci porta a
casa (e, nel racconto di Nellie Leach, fino alla luce!), lo intende certo in
senso simbolico, spirituale; ma il punto è proprio che il simbolico non
esclude il letterale, lo spirituale non esclude il mondano. Perché il
mondano è intriso di presenza della spirito.
Qui sta infine il senso profondo di questa differenza culturale. La
nostra tradizione relega il sacro in una sfera a parte. Da un lato, una
liturgia, degli specialisti del sacro, degli asceti che si separano dal
mondo, degli spazi consacrati, degli eventi miracolosi; dall’altro, le
istituzioni del mondo laico e le leggi della natura e della società (il
pronto soccorso, i carabinieri). Perciò il miracolo tende a essere
circondato, in linea di massima, da un’aura di eccezionalità: a parte il
luogo, riguarda comunque la vita, la morte, prove cruciali del ciclo
dell’esistenza (che magari possono essere pure un esame universitario,
che si supera grazie all’intervento speciale di San Giuseppe da
Copertino). Nella tradizione protestante, specie nella sua forme più
radicali, il sacro permea i quotidiano: l’ascesi non appartiene ai
sacerdoti ma a tutti i fedeli, non si pratica in rituali ad hoc ma nel
mondo di tutti i giorni. Se vogliamo, è l’altra faccia – quella ispirata,
non quella repressiva – del fondamentalismo. Dio è davvero in ogni
luogo, compresa la lavastoviglie e il serbatoio della benzina.
Soprattutto, si rovescia il rapporto fra leggi ordinarie del quotidiano e
intervento del sacro. Noi tendiamo a immaginare che il mondo vada
avanti per suo conto, con leggi naturali (“cause seconde”, magari messe
in modo da un “motore immobile” cartesiano), e il miracolo è una
sospensione temporanea e locale: se sei un “buon pastore”, i tuoi buoi
cadono da grande altezza ma non si fanno niente; se sei un
miscredente, ti casca un masso in testa e, inaspettatamente nel luogo
acro, ti ammazza. Il miracolo avviene nel luogo sacro, come nel caso
della bambina che ritrova la parola; o, come nella storia di fondazione
del santuario di Vallepietra, il luogo è riconosciuto come sacro perché è
avvenuto il miracolo (cioè, se c’è successo un miracolo vuol dire che era
uno spazio speciale e lo segniamo erigendoci un santuario e indicendo
un pellegrinaggio). Ricordo vicino Minturno l’apparizione presunta del
viso di Gesù sul cancello di una casa: nell’arco di pochi giorni, il luogo
divenne meta di pellegrinaggi, preghiere e adorazione.
Nessuno è andato a fare pellegrinaggi davanti al frigorifero di Delbert
Jones o alla lavastoviglie di Nellie Leach. Nell’immaginario religioso
popolare dell’America profonda, infatti, le cose stanno al contrario: il
miracolo non è la rottura della quotidianità, ma la sua stessa essenza.
In altre parole, per noi è un miracolo se ci si apre la terra sotto i piedi;
per i fedeli di Harlan, il miracolo è che la terra non si apre. Perché se la
natura avesse il suo corso, sprofonderemmo tutti e subito all’inferno
per i nostri indicibili peccati, personali e originali; ed è solo il
permanente intervento di Dio che impedisce che questo avvenga, o
almeno lo rinvia. La nostra vita è come quando un giocoliere tiene per
aria le palle sempre sul punto di cadere e sempre rilanciate; o come
quando in chiesa prendi in mano il serpente e lo maneggi come
prendendo in mano la vita e la permanente presenza della morte.
Specie a Harlan, detta “la sanguinaria”:
Annie Napier (Cranks Creek, Harlan County, 16 ottobre 1996): Perché
ogni volta che uno va in miniera, come entra lì dentro, lavora tutto il
tempo con questa cosa – “Ehi, questo potrebbe essere il mio ultimo
minuto.” E c’è chi fa quarant’anni e più così, ogni giorno, capisci? Se
uno dura quindici, venti anni in miniera, è un miracolo. E poi muore di
pneumoconiosi e non se ne accorge nemmeno.

E’ un miracolo letteralmente, non per modo di dire. La prima volta che


andai a Vallepietra, incontrai un gruppo di operai della Snia di Rieti
che qualche mese prima erano andati alla grande manifestazione
metalmeccanica di Roma: era come se giocassero su due ruote distinte,
quella laica della lotta e quella sacra della grazia. Per Harlan County, le
due cose sono inseparabili. Dice Delbert Jones: “Se non fosse per il
sindacato, non avremmo le medicine, non avremmo l’assistenza. Mia
moglie aveva bisogno di una sedia a rotelle, non l’avremmo avuta.
Certo, abbiamo anche il Signore, dalla nostra parte”. Anche un
contratto è un miracolo, come una lavastoviglie riparata. Alla fine del
film Harlan County, USA di Barbara Kopple (Oscar per il
documentario, 1977), i minatori vittoriosi cantano “Amazing Grace”:
“E’ stata la grazia che ci ha portati fin qui, e la grazia ci porterà a casa.”

A L E S A N D R O P O RTE L I | 3 :24 PM 0 C OMME NTI

17 DICEMBRE 2006

Il delitto (di stato) perfetto non esiste


dal manifesto, 17.12.2006

La dolorosa morte di Angel Nieves Diaz in Florida segna un altro


capitolo nella complicata e imbarazzante storia della pena di morte
negli Stati Uniti, e forse l’accentuazione di una lenta tendenza al
ripensamento. Dopo la sua morte lenta e tormentata, il governatore Jeb
Bush ha sospeso le esecuzioni capitali (che erano state reintrodotte in
Florida nel 1979). E’ un fatto importante.
Il consenso di principio alla pena di morte è ancora largamente
maggioritario, anche se ci sono segni incoraggianti di una lenta
diminuzione. Ma al di là della lenta crescita del dissenso, qualcosa
suggerisce che esiste un’incrinatura nella armatura stessa del consenso,
al punto che anche i sostenitori e amministratori della pena capitale
non si sentono la coscienza interamente tranquilla: ed è la pretesa che
l’uccisione legale avvenga in modo rapido, indolore, senza spargimento
di sangue né scene imbarazzanti. Non a caso, sulle forme
dell’esecuzione si è sbizzarrito fin dalle origini l’immaginario
tecnologico (con risultati fallimentari che, trattandosi della Florida,
ricordano anche un altro fallimento tecnologico, quello delle modalità
di voto).
“Se la cosa fosse fatta una volta che è fatta, allora sarebbe bene che
fosse fatta rapidamente”, rimugina Macbeth, preparando l’assassinio
del re Duncan. La ricerca dell’uccisione perfetta non mira solo a ridurre
la sofferenza della vittima concentrandola in un solo momento (“A
Mastro Ti’, ‘na botta e via”, dice Rugantino al boia nel musical di
Garinei e Giovannini); serve soprattutto a far passare i mal di pancia al
boia, chiudere il procedimento, restaurare l’ordine e passare ad altro. E
invece, per ammazzare Angel Nieves Diaz ci sono voluti trentaquattro
minuti e un’iniezione supplementare di veleno (oltre a ventisette anni
carcere fra la prima condanna e l’esecuzione): il sangue non s’è visto,
ma il tempo sì.
Perciò l’esecuzione – anzi, come la chiamano i comunicati ufficiali, la
“procedura” - deve essere, come altre operazioni di morte da cui
sollevare la pubblica coscienza, un’operazione “chirurgica” e
“umanitaria”. “Tutti i protocolli dell’esecuzione sono stati seguiti
accuratamente”, dice il comunicato del Department of Corrections
della Florida: è la stessa spiegazione burocratica che giustifica gli
omicidi ai posti di blocco in Irak perché “sono state rispettate le regole
d’ingaggio”. Come se i protocolli e le regole fossero verità assolute ed
eterne e non opera loro. La colpa è sempre del fatto che la vittima si
muove in modo imprevisto o che il suo corpo non si adegua alle
modalità richieste: così, le autorità carcerarie spigano che “la
procedura di questa notte ha richiesto più tempo a cause delle previe
condizioni di salute - come se non avessero avuto Diaz sotto mano
abbastanza a lungo da sapere che aveva problemi di fegato, e come se
fosse compito del condannato tenersi in perfetta salute per facilitare il
lavoro e la coscienza del boia.
Il fatto è che la vita resiste alla liscia procedura della morte; non c’è
uccisione – per bombe, veleno, elettricità, ghigliottina – che non
comporti sofferenza. La maggior parte delle istituzioni americane
sembra ancora restia ad ammettere ripensamenti di principio sul
diritto dello stato di amministrare la morte; ma anche in coscienze che
ci si aspetterebbe impervie, come quella di Jeb Bush, comincia a farsi
strada l’idea che farlo in modo indolore è una chimera. La costituzione
americana che vieta le forme di punizione “crudeli e inusuali” non
enumera quali siano, ma affida la definizione di che cosa sia crudele e
inusuale alla coscienza storica e civile dei tempi e dei luoghi. E molto è
cambiato dal 1789 al 2006. Ne può venir fuori il paradosso per cui è
incostituzionale frustare una persona ma non lo è ucciderla; ma può
diventare senso comune la coscienza che uccidere una persona è
sempre e comunque una punizione crudele.
Negli Stati Uniti, le grandi riforme sono spesso avvenute in questo
modo: non per sfondamento ma per erosione. E’ possibile che rigidità
moralistiche e fondamentaliste, intrecciate con memorie storiche di
epoche di violenza diffusa e con le nuove paure post-11 settembre
rendano ancora per qualche tempo inattaccabile la pena di morte in
linea di principio; ma è anche possibile che l’impossibilità di applicarla
con la certezza di non uccidere innocenti, e di non uccidere anche i
colpevoli in modo inumano, ne limiti gradualmente la sfera di
applicazione fino a renderla obsoleta di fatto. E’ una scommessa su cui
le organizzazioni umanitarie stanno puntando molto in questi tempi.
Nel frattempo, mentre gli Stati Uniti si avvicinano alla messa in mora
della pena di morte, il cattolicissimo governo polacco ne invoca la
restaurazione all’interno dell’unione europea. Mentre gli Stati Uniti
dibattono sulle punizioni inusuali e crudeli (salvo a Guantanamo e
dintorni, ovviamente), il parlamento italiano arriva dopo vent’anni a
fare una legge contro la tortura. Mentre loro dubitano delle esecuzioni
capitali (ma continuano la guerra), noi discutiamo dell’eutanasia e
dell’embrione. Al centro sta sempre la pretesa dei poteri religiosi e
politici di controllare la vita e la morte, esautorando le persone il cui
corpo è in gioco. La sofferenza di chi è costretto a morire e la sofferenza
di chi è costretto a vivere stanno nelle stesse mani.

A L E S A N D R O P O RTE L I | 1 2:1 2 P M 0 C OMME NTI

10 DICEMBRE 2006

Gli schiavi dei Lumi alla presa della


BastigliaRiproposto il volume di C.L.R. James «I
giacobini neri», un classico della storiografia
sociale
Pagine rigorose e avvincenti per ricostruire la rivoluzione antischiavista
che portò alla cacciata dei francesi e alla fondazione della Repubblica di
Haiti. Un grande sommovimento sociale che dai Caraibi si diffuse negli
Usa, cambiando la storia mondiale. Per poi essere rimnosso dalla storia
dei vincitoriAlessandro PortelliCi sono libri che spostano radicalmente
l'idea occidentale della storia, l'immagine che l'Occidente ha di sé, che
mettono il margine e la periferia al centro, in maniera talmente radicale
che la nostra cultura fa praticamente finta che non esistano. Due di
questi libri uscirono sul finire degli anni '30: Black Reconstruction in
America di W. E. B. DuBois, e The Black Jacobins. Toussaint
L'Ouverture and the San Domingo Revolution di C.L.R. James. I loro
autori sono due giganti del ventesimo secolo, ma per la maggior parte
dei nostri storici e politologi potrebbero anche non esistere. E forse non
esistono veramente: dopo tutto, non erano neanche bianchi, e per di
più - ciascuno a modo suo e in tempi diversi - sono stati tutti e due
comunisti e partecipi con un altro comunista, George Padmore
(già:«chi era costui?»), delle origini del movimento panafricano e
anticolonialista.In Black Reconstruction, tuttora mai tradotto in
italiano (ne tratta una piccola e preziosa monografia di Lauso Zagato,
che risale al 1975), W. E. B. DuBois spazzava via la versione
etnocentrica della guerra civile americana: lungi dall'essere
passivamente liberati dalla benevolenza di Lincoln e del Nord, gli
afroamericani hanno avuto un ruolo decisivo nella propria liberazione e
nell'esito della guerra. È stato quello che DuBois chiamava lo «sciopero
generale» degli schiavi, la loro fuga in massa verso le file dei soldati
nordisti, a far crollare l'apparato produttivo del Sud ribelle e decidere
una guerra che il Nord non riusciva a vincere. Gli schiavi, gli
afroamericani, insomma, non sono stati oggetto di una storia
monopolizzata dai bianchi e dalle classi dominanti, ma protagonisti
della propria liberazione e, con essa, della storia intera.Il vento della
libertàTre anni dopo, C. L. R. James fa un passo avanti: è la storia
intera del nostro mondo che ruota attorno alle vicende di un'isola
caraibica, Santo Domingo, e al protagonismo degli schiavi che
conquistarono la libertà e fondarono la prima repubblica africana,
Haiti. I giacobini neri era già uscito molti anni fa, e ritorna oggi nella
traduzione di Raffaele Petrilli rivista e adattata da Filippo Del
Lucchese, con introduzione di Sandro Chignola e una postfazione dello
scrittore americano Madison Smartt Bell (Derive Approdi, pp. 363,
euro 25).Sul finire del '700, spiega James, Santo Domingo era la «più
bella colonia del mondo» e, per questo, un inferno di orrore schiavista.
Grande quasi quanto l'Irlanda, divisa fra la Francia e la Spagna, Santo
Domingo stava all'economia settecentesca dello zucchero e del cotone
un po' come il Bahrein e il Kuwait stanno a quella novecentesca del
petrolio: una fonte apparentemente inesauribile di ricchezza, estratta
con brutalità assoluta tanto nei confronti della terra quanto nei
confronti di quella merce umana importata dall'Africa talmente a buon
mercato che era più conveniente ammazzare uno schiavo irrispettoso e
comprarne un altro che adattarsi a tollerarlo. Ma anche su questa isola
spira sul volgere del secolo il vento della libertà e della rivoluzione. Gli
Stati Uniti hanno appena conquistato l'indipendenza; e la madrepatria
francese è nel pieno della sua grande rivoluzione. James segue con
minuzia rabbiosa gli andirivieni, le contraddizioni, le discussioni di una
Francia rivoluzionaria dove la borghesia rivendica la libertà, le masse
proletarie parigine spingono per l'uguaglianza, e la questione della
schiavitù è la cartina di tornasole su cui si misura la verità della
rivoluzione. Dopo tutto, le navi cariche di schiavi all'andata e di
zucchero al ritorno sono di proprietà dei grandi borghesi rivoluzionari
di Nantes; e persino i bianchi e mulatti schiavisti di Santo Domingo si
identificano con la repubblica. Ma i veri «giacobini», suggerisce James,
non stanno a Parigi, ma nelle piantagioni e nelle montagne di Haiti.
Qui, come più tardi in Virginia e in Georgia, saranno proprio gli schiavi
- analfabeti, appena arrivati dall'Africa, trattati da subumani e
semiselvaggi - a incarnare, a portare fino in fondo e a rendere possibili
quei valori di libertà che i loro padroni rivendicano per sé fingendo di
ritenerli universali (subito dopo la dichiarazione d'indipendenza, in cui
Thomas Jefferson e i coloni americani proclamavano che «tutti gli
uomini sono creati uguali», furono inondati di lettere e petizioni dei
loro schiavi e dei neri liberi che dicevano, in sostanza: benissimo,
d'accordo, quando si comincia? Naturalmente, ci volle una guerra, e
non bastò nemmeno).C.L.R. James racconta una storia complicata,
spesso confusa, di alleanze e rotture, tanto fra bianchi, mulatti e neri a
Santo Domingo quanto fra le diverse anime di classe della rivoluzione
in Francia (con in mezzo i tentativi dell'Inghilterra, patria della libertà,
di inserirsi e mettere le mani sulla più ricca colonia del mondo). È una
guerra senza esclusione di colpi, di massacri e tradimenti da tutte le
parti, durata dodici anni finché ogni compromesso è spazzato via e ai
neri ribelli non resta altra scelta che l'indipendenza e la repubblica.Un
immenso sommovimentoAl centro dell'analisi di James sta una difficile
relazione: da un lato, i fattori di classe, trattati con rigore marxiano
d'altri tempi, ma tuttora sostanzialmente persuasivi nel disegno
generale; dall'altro, una personalità eccezionale, Toussaint
L'Ouverture, un altro di quei grandi protagonisti della storia umana di
cui la nostra cultura finge di ignorare l'esistenza.Anche per questo,
avrei preferito che invece del sottotitolo che gli è stato dato
nell'edizione italiana La prima rivolta contro l'uomo bianco fosse stato
mantenuto quello originale: Toussaint L'Ouverture e la rivoluzione di
Santo Domingo. Un po' perché questa rivoluzione ha cercato fino
all'ultimo di non avere come antagonista «l'uomo bianco» (ce n'erano
diversi fra i consiglieri e gli aiutanti di Toussaint) ma un'istituzione e
un rapporto di classe: la schiavitù. Soprattutto, perché il nodo
problematico su cui James insiste è proprio quello del rapporto fra il
singolo «grande uomo» Toussaint e un immenso sommovimento
sociale collettivo, una grande vicenda di masse. «Non fu Toussaint a
fare la rivoluzione - scrive infine James -, ma la rivoluzione a fare
Toussaint»; c'è una copla di fandango rivoluzionario andaluso che dice,
«qui ci vorrebbe un Fidel come a Cuba, ma dobbiamo sapere che un
popolo che sa quello che vuole partorisce un proprio Fidel»). Io
aggiungerei che la rivoluzione ha fatto Toussaint perché altrimenti non
poteva fare se stessa.Toussaint aveva quarant'anni e si chiamava
Toussaint Breda quando, non senza esitazioni, si unisce alla rivolta
iniziata dal cimarron voodoo Boukman, prende il nome di L'Ouverture
come a dire che adesso si apre un'epoca nuova, e presto ne diventa il
capo carismatico indiscusso. C'è qualcosa di doloroso quando James
osserva che senza le straordinarie circostanze storiche in cui si
trovarono a vivere, grandi protagonisti come Toussaint, Christophe,
Dessalines avrebbero vissuto e sarebbero morti inosservati, trattati fino
alla fine solo come fidati, innocui subalterni e servitori. (Nel 1821,
ispirata in gran parte dalle vicende di Haiti, si prepara a Charleston,
South Carolina, una rivolta di schiavi. Quando Rolla, uno dei capi, è
arrestato, il suo padrone disse: non ci posso credere; era il mio schiavo
più fidato, gli ho tante volte affidato la mia famiglia. Gli chiede: ma che
intenzioni avevi? E Rolla: piantarti la spada nella pancia e tagliarti la
testa, a te e a tutti i tuoi. Senza quel tentativo di rivolta, anche Rolla
sarebbe stato ricordato solo come un fedele e fidato domestico. Quanto
furore si annida nell'anima di tanti oppressi che non incontrano le
circostanze adatte?).Una personalità socialeLa Francia rivoluzionaria
abolisce la schiavitù in ritardo, quasi per caso e un po' pentendosene;
Napoleone la restaura ma ormai è troppo tardi, e gli eserciti che manda
per domare Santo Domingo vengono distrutti dalle febbri e dai ribelli
neri (Toussaint paga con la libertà e la vita l'essersi fidato della Francia
rivoluzionaria; e Dessalines completerà il lavoro senza scrupoli e senza
pietà). Ed è qui che il mondo gira attorno alla centralità di Haiti.
Ricordiamoci: la Francia era allora padrona della ricca e fertile valle del
Mississippi, da New Orleans (Orléans, appunto) al confine canadese
(attraverso luoghi chiamati Saint Louis, Louisville, D'etroits, Sault
Sainte Marie, Des Moines...) e non si era ancora rassegnata alla recente
perdita del Canada. Il recupero di Santo Domingo è allora la pietra
angolare di un disegno imperiale francese dai Caraibi al circolo polare
artico, attraverso la valle del Mississippi e il Canada riconquistato nella
guerra contro gli inglesi. Sono gli schiavi neri di Haiti a far saltare
questa visione: senza la preziosa Santo Domingo, non ne vale più la
pena. Guardate: nel 1802, Haiti è indipendente; nel 1803, Napoleone
svende tutta la valle del Mississippi ai neonati Stati Uniti, per quattro
centesimi l'acro. Sconfitta dai suoi schiavi, la Francia abbandona il
Nord America. Il resto - la frontiera, l'espansione, l'egemonia degli
Stati Uniti - è la storia dell'Occidente fino a noi. Ma attorno ad Haiti
ruota una storia controfattuale che sarebbe piaciuta a Philip K. Dick: e
se Haiti avesse perso, sarebbe il francese oggi la lingua egemone?Gli
schiavi fuggiaschi della Georgia, gli schiavi rivoluzionari di Santo
Domingo non hanno scritto episodi marginali, magari entusiasmanti,
della nostra storia. L'hanno fatta loro. Post scriptum. Sulle pagine
culturali di Repubblica del 3 novembre, un corrispondente letterario da
New York commemora William Styron scrivendo che «Nelle
Confessioni di Nat Turner affrontò l'abominio della schiavitù attraverso
gli occhi di un personaggio immaginario di un afro-americano che
tentò una ribellione nei confronti dei "padroni"». A parte le inspiegabili
virgolette (i padroni erano letteralmente tali: proprietari degli schiavi),
forse vale la pena di informarlo che Nat Turner non è «immaginario»
per niente: si è ribellato, ha terrorizzato il Sud, è stato sconfitto ed è
stato giustiziato nel 1831 lasciando una memorabile narrazione di sé.
Ma Nat Turner è altrettanto inconcepibile di Toussaint e Dessalines, e
di George Padmore: semplicemente, ci rifiutiamo di accettare la loro
esistenza, la loro rivolta, la loro intelligenza. D'altronde, questo è lo
stesso critico che anni fa sulle stesse pagine sbeffeggiava intellettuali
neri come Henry Louis Gates, Jr. e Kwame Appiah perché la loro
Encyclopaedia Africana dava troppo spazio, pensate, al «giocatore di
cricket» C. L. R. James
A L E S A N D R O P O RTE L I | 9 :42 PM 0 C OMME NTI

06 DICEMBRE 2006

Pete Seeger in Italia


Mercoledì 13 Dicembre ore 18

CASA DELLA MEMORIA E DELLA STORIA


Via San Francesco di Sales 4

Il CIRCOLO GIANNI BOSIO


presenta
"PETE SEEGER IN ITALIA"
nuovo CD prodotto in collaborazione con IL MANIFESTO

Interverranno:
DARIO TOCCACELI - curatore del CD
GINO CASTALDO, FELICE LIPERI, ALESSANDRO PORTELLI

Musica dal vivo con DARIO TOCCACELI, MARIANO DE SIMONE,


LUIGI GRECHI, FRANCIS KUIPER, ANDREA CARPI.

Proiezione di filmati e documenti audiovisivi inediti.

Ingresso libero
Info 06/68135642
www.circologiannibosio.it

IVAN H AW K | 2 : 0 4 PM 0 C OMME NTI

02 DICEMBRE 2006

Per un incontro fra laici e credenti a Ravenna


Il 2 dicembre avrei dovuto partecipare a Ravenna a un incontro su
"Uguaglianza, identità e differenze. Quale dialogo per un mondo
comune", organizzato dall'Università per la formazione permanente
degli adulti "Giovanna Bosi Maramotti", con Khaled Fouad Allam
dell'unviersità di Trieste e la pastora valdese letizia Tomassone.
All'ultimo momento non sono potuto andare, e per farmi un poco
perdonare ho mandato a Paola patuelli, organizzatrice dell'incontro,
questo testo.

Cara Paola, e carissime amiche e amici,


Non trovo le parole per scusarmi abbastanza del fatto che ragioni che
davvero non controllo mi sottraggano a un incontro a cui tenevo molto,
e che molto mi incuriosiva. Conto sulla vostra comprensione, e su
un’altra occasione che fisseremo presto.
Mi incuriosiva questa occasione, come anche quelle a cui ho avuto il
privilegio di partecipare a Monte Giove, per una domanda elementare:
come c’entro io, che non riesco a trovare in me neanche una traccia di
tensione verso la religiosità, in esperienze di dialogo come la vostra, o
come Monte Giove? Ed è una domanda che rivolgo in primo luogo a me
stesso: come mai sono così contento quando mi capita di esservi
coinvolto? Proverò a ragionarci sopra con alcune considerazioni e una
storia.
Partirei da una definizione che ho trovato nelle vostre lettere di
preparazione a questo incontro, e in cui credo di riconoscermi:
Laicità: non solo essere consapevoli dell’esistenza di altre differenze,
ma esserne curiosi, con passione, sapendo di essere portatori di una
parziale differenza, come ci ricorda Enzo Bianchi nel suo recente La
differenza cristiana. Senza dimenticare la necessità di un mondo
comune, che non è immediatamente, naturalmente, politicamente
senz’altro dato, ma che è, se c’è, risultato voluto e costruito.
Ecco, mi accorgo che la stessa parola che ho già usato due volte –
curiosità – ritorna nella vostra definizione di che significa essere laici:
essere curiosi con passione, desiderio di conoscere ciò che noi non
siamo. E’ anche per questo che passo il mio tempo facendo ricerca sul
campo in luoghi diversi, che leggo e studio culture e lingue diverse dalla
mia. Proprio il fatto di essere lontano dall’esperienza religiosa mi porta
ad esserne un appassionato curioso, ascoltatore, indagatore. Certe volte
ho pensato che di fronte all’esperienza e al discorso religiosi mi sento
come una persona senza orecchio musicale portata a un concerto: c’è
qualcosa nell’aria che io non sento ma gli altri sì, e magari se potessi
capire di che si tratta mi divertirei di più. Aggiungo subito che lo stesso
vale in direzione inversa: anche chi non ha orecchio per la laicità (e
sono in tanti, anche fra i laici, a non avercelo!) rischia di chiudersi in
una fortezza fideistica e non sentire cose preziose che sono nell’aria.
Allora forse una delle ragioni che mi commuovono e mi entusiasmano
in questi contesti di dialogo è il fatto che ci ascoltiamo fra noi non
nonostante, ma proprio perché esistono fra noi dei terreni non
condivisi. Le molte cose che ci uniscono – la pace, la non violenza,
l’uguaglianza… quel neminem ledere di cui parlate, che credo voglia
dire non solo non fare male a nessuno ma anche cercare il bene di tutti
– queste cose sono il terreno condiviso che ci permette di incontrarci su
quelle che non abbiamo in comune: la fede degli uni, la distanza dalla
fede degli altri; capire come fondazioni etiche differenti possono
portare a valori comuni; e creare, su queste condivisioni e queste
differenze, quel “mondo comune” di cui parla Enzo Bianchi, un mondo
che è non solo necessario ma anche, speriamo e col nostro contributo,
possibile. Senza conversioni, anche perché se gli altri diventano come
noi qualcosa si perde. C’è una canzone di Giovanna Marini in cui dice
che vorrebbe che Dio regalasse un altro pianeta a chi “non vuole né
vincere né costringere né convincere, ma solo vivere, vivere, vivere con
l’altra gente e tanto spazio attorno a sé.” Ecco, questo è quel pianeta
che certi nostri incontri provano a prefigurare già su quello in cui
stiamo adesso. Come scrive Morelli, “muoversi liberamente fra le
meravigliose diversità del mondo”.
Una delle parole chiave del nostro tempo, e non solo, è senz’altro
dialogo. Ma proprio perché è una parola lunga e vasta, ha bisogno di
ragionamenti. Dialogo di chi, con chi, come? Dialogo, dialogo
interreligioso, dialogo ecumenico… Ho trovato al tempo stesso
commoventi e sconcertanti le immagini televisive del Papa a Istanbul.
Commoventi perché qualunque incontro di pace lo è, qualunque
momento in cui ci si parla oltre le barriere; e perché dire che è peccato
uccidere in nome di Dio (o, come direi io, è un delitto uccidere, in
qualunque nome) è un’affermazione che va ascoltata non solo a
Oriente, ma anche in quell’Occidente dove i presidenti dicono che Dio
gli ha detto di bombardare l’Irak. Sconcertanti perché mentre mi pare
logico che il Papa e i suoi interlocutori agissero e dialogassero nel loro
ambito interreligioso, mi pareva che i nostri media presentassero il
dialogo interreligioso come l’unico dialogo possibile fra le culture -
come se quindi le civiltà si riassumessero nelle rispettive religioni. E io?
Con chi parlo, chi parla con me?
Di qui, due cose. La prima è che non mi riconosco in quei laici, tra cui
leader politici a cui sono vicino, che ritengono che per poter dialogare
col mondo cattolico devono annunciare in pubblico una loro privata
tensione religiosa, una loro “ricerca di Dio” che li legittimi agli occhi dei
credenti. In questo modo, infatti, smettono di dialogare da laici non
credenti, impoveriscono il dialogo e smettono di rappresentare chi non
condivide la loro ricerca (se questa esiste davvero).
La seconda è che le tavole di dialogo interreligioso che si aprono da
varie parti, fra cui con aspetti molto interessanti a Roma, sono realtà
necessarie e importanti, ma che dobbiamo stare attenti a non prevenire
i rischi di stato confessionale costruendo uno stato pluriconfessionale.
E’ questa, per esempio, una parte importante dell’esperienza degli Stati
Uniti. La separazione fra stato e chiese infatti non deriva storicamente
da una laicità dello stato (l’invocazione a Dio è presente anche sui
biglietti di banca) ma dal fatto che al momento della costituzione erano
presenti molte chiese diverse, per cui lo stato sceglie di non
riconoscersi in una ma in tutte (aggiungendo poi nel secondo
dopoguerra, il riconoscimento della presenza ebraica e, più
recentemente, omaggi formali all’Islam intrecciati con la sua
demonizzazione). Il risultato è che in questo stato così formalmente
separato dalle chiese la dialettica politica si gioca continuamente su
rivendicazioni di fede spesso estreme e dogmatiche, e che dichiararsi
fuori dal discorso religioso significa negli Stati Uniti mettersi in
condizioni di minorità (o spingere a estremi un po’ assurdi una
correttezza politica laicista tutta formale, come in certe campagne
contro il presepe negli uffici postali).
Il dialogo di cui mi sento partecipe è, dunque, quel dialogo ecumenico
di cui parlano i vostri documenti: un dialogo, cioè, che coinvolge tutti,
senza pregiudiziali a priori, e che tutti ci trasforma e arricchisce.
(Restando ancora a Roma: l’esistenza di due “tavoli” separati, uno per il
dialogo interreligioso e uno per la laicità può essere funzionale per un
po’ di tempo ma andrà alla fine superata). Sulla base dell’esperienza di
Camaldoli, definite dialogo ecumenico come “apertura all’altro, silenzio
e meditazione, fuga da un mondo che si è fatto sistema tritatutto,
consumista e distruttore della natura.” E qui viene la storia che vi
voglio raccontare.
Da circa tre decenni vado tutti gli anni in una zona marginale,
periferica, povera degli Stati Uniti, la contea di Harlan, nel Kentucky. E’
una contea con una lunga, e oggi quasi cancellata, storia di conflitto
sociale (spesso sanguinoso: la chiamano Bloody Harlan, Harlan la
sanguinaria), oggi lacerata da violenze contro l’ambiente che
avvelenano l’acqua e l’aria e fanno a pezzi gli alberi, la terra e le
persone; e da un’endemica, tragica diffusione di droghe. Nel
microcosmo di Harlan, sono presenti tutte le varietà dell’esperienza
religiosa cristiana, dalle più liberali alle più estreme –da cattolici e
anglicani ai pentecostali maneggiatori di serpenti. Ma quella che dà il
segno decisivo è senza dubbio la variante evangelica o pentecostale che
oggi riassumeremmo sotto l’etichetta di “fondamentalista”:
interpretazione letterale della Bibbia, senso del sacro nell’esperienza
ordinaria, narrazioni diffuse di visioni e miracoli, applicazione di
norme religiose alla vita quotidiana (per esempio: divieto alle donne di
tagliarsi i capelli), e così via.
Nei miei soggiorni a Harlan, sono generalmente ospitato presso
famiglie di questo tipo. Vivo con loro, e con loro faccio una cosa che
non mi viene mai di fare quando sono a casa: vado in chiesa. Vado in
chiesa perché ci vanno loro, perché è quasi l’unico spazio sociale che
esiste, perché vi si pratica musica coinvolgente e oratoria emozionante.
E ogni volta, quando arriva il momento, dopo avermi salutato e dato il
benvenuto, mi si chiede di “testimoniare”. E’ un momento sempre
imbarazzante: lo sanno benissimo che non sono “salvato”, molti sanno
o sospettano che sono comunista (cosa per loro quasi totalmente
incomprensibile), ma mi conoscono, sanno che gli voglio bene e me ne
vogliono in cambio. Così, navigo in questi miei interventi sulla lama di
rasoio di un discorso che loro possano condividere, senza però fingere
una religiosità che non sento. Parlo della distruzione degli alberi e delle
montagne, contro cui anche questi cristiani fondamentalisti si
organizzano e lottano; parlo della pace, in una piccola città che ha in
questo momento 115 uomini in Irak; parlo delle cose di cui parliamo fra
noi. Solo una volta hanno cercato di convertirmi (ed era una
predicatrice venuta da fuori, che non mi conosceva); ma, anche
sapendomi “non salvato”, mi hanno sempre accolto fraternamente
nelle loro piccole chiese.
Se devo pensare alla mia più intensa esperienza di dialogo ecumenico,
penso alla vecchia signora malandata e con le gambe piagate,
incontrata nella chiesa di legno di Cranks Creek, che vedendomi
straniero mi disse: “Tu vieni da oltre le acque, ma non sei un russo?”
“Anche i russi sono persone”, dissi io. E lei: “E allora perché ci vogliono
uccidere?” Ecco, cercai di spiegarle che non era vero, e lei mi stette a
sentire.
La cosa profonda per cui ci vado però è ancora un’altra: le chiese dei
miei amici spesso non hanno nessuno sull’altare; o, se sull’altare c’è
qualcuno, è qualcuno che fa lo stesso mestiere e la stessa vita,
contadino o minatore, dei fedeli sui banchi. Sono piccolissime
comunità di poveri, in cui si parla, si canta, si testimonia a turno,
soprattutto si sta insieme, e si evocano vibrazioni profonde delle
emozioni più radicali, in cui la disperazione, la sofferenza, l’alienazione
sono momentaneamente sospese dalla fratellanza. Non c’è niente da
idealizzare, ci mancherebbe altro; fra loro ci sono ipocrisie, gelosie,
falsità, razzismo come in ogni altro luogo. Ma nei momenti migliori con
queste persone con cui non ho quasi niente in comune (fra l’altro non
sono sicuro nemmeno di come votano) ha vissuto quello che voi
chiamate dialogo ecumenico: “apertura all’altro”, cioè me; “silenzio e
meditazione”, nei lunghi momenti di preghiera individuale; “fuga da un
mondo che si è fatto sistema tritatutto, consumista”, e autodifesa
collettiva contro un sistema “distruttore della natura.”
E c’è dell’altro: quelle vibrazioni della sensibilità religiosa che in me
non sento, le ho percepite fra loro in certi momenti assai più che in
tutte le liturgie con cui sono cresciuto. E’ un tipo di fervore, di apertura
emotiva, di comunicazione fatta con la parola e con tutto il corpo, con
la danza e con la trance, che mi mette un po’ paura e mi lascia fuori, ma
che poi scorre sotto certi momenti entusiasmanti del meglio della
cultura americana – per esempio, in certi culmini fusionali nei grandi
momenti di partecipazione politica e magari in certi concerti rock.
Quando Martin Luther King parla a Washington della liberazione degli
afroamericani con lo stile anaforico, formulaico, ritmico, pieno di
risonanze bibliche (i fiumi, le valli, le montagne) fa irrompere nella
politica la passione profonda che ha imparato a esprimere nella sua
chiesa battista di Montgomery. Quando Bruce Springsteen nel suo
concerto a New York fa propria la modalità oratoria dei predicatori
tradizionali e invoca “un battesimo rock and roll, un bar mitvah rock
and roll”, traduce nel nostro mondo laico e un po’ trasgressivo quel
fervore autentico che le chiese povere, bianche e nere, hanno
tramandato come strumento di sopravvivenza e di umanità di fonte
all’emarginazione, al razzismo, alla schiavitù, all’oppressione.
Nella sua lettera, Paola Patella ricorda di avermi conosciuto attraverso
un mio scritto su Toni Morrison. Toni Morrison è venuta pochi giorni
fa, con nostra grande emozione, a un convegno a lei dedicato a Penne,
vicino Pescara. E ha detto qualcosa che risuona con certi vostri discorsi.
I vostri documenti parlano della necessità di apprendere i principi della
comunionalità, dell’amore, della convivenza, del dialogo. Non sono
cose istintive, sono il risultato di un lavoro. Specularmente, Toni
Morrison ha detto a Penne: “il razzismo, il pregiudizio, c’è bisogno di
impararli” – nel senso che anche questi non sono atteggiamenti
spontanei, con cui nasciamo, ma prigioni mentali in cui veniamo
rinchiusi dal discorso violento che respiriamo ogni giorno. E allora, se
razzismo e violenza sono cose che si imparano, possiamo rispondere a
questa didattica spaventosa imparando, come qui si sta cercando di
fare, il loro contrario.
E poi c’è un’altra cosa in Toni Morrison, uno dei momenti altissimi in
cui il discorso religioso si fa davvero universale perché non ci vuole “né
costringere né convincere”, ma solo aiutarci a guardare noi stessi fra gli
altri. E’ il momento in cui Baby Suggs, santa, ex schiava, predicatrice
senza ordinazione, sale su una grande pietra al centro di una radura,
insegna agli oppressi, agli spezzati, ai frustati, ai marchiati, agli
inseguiti, agli esuli, ai disprezzati a piangere e a ballare, e ad amare se
stessi - a non tradurre la loro pena in odio, violenza, autodistruzione.
Vorrei che Paola lo leggesse alla fine di questo intervento. Intanto, vi
ringrazio per avermi invitato, vi ringrazio per avermi, spero, perdonato,
e vi ringrazio per la pazienza di stare a sentire.

Qui, diceva, in questo posto qui, noi siamo carne, carne che piange e
che ride, carne che balla a piedi nudi sull’erba. Amatela. Amatela tanto.
Laggiù non amano la vostra carne. La disprezzano. Non amano i vostri
occhi – sono capaci di strapparveli come se niente fosse. E non amano
nemmeno la pelle della vostra schiena. Quelli laggiù ve la strappano. E
miei cari, non amano le vostre mani. Loro le usano e basta, le
stringono, le mozzano, le lasciano vuote. Amate le vostre mani!
Amatele! Alzatele e baciatele. Usatele per toccare gli altri, battetele,
accarezzatevi la faccia, perché non amano nemmeno quella. Siete voi
che la dovete amare, voi. E no, non vogliono bene alla vostra bocca.
Quelli ve la spaccano e poi ve la spaccano ancora. Non ascoltano quello
che dice. Non ascoltano quello che grida. Quello che ci mettete dentro
per nutrire il vostro corpo, ve lo rubano e in cambio vi danno gli avanzi.
No, non amano la vostra bocca. Dovete amarla voi. E’ della carne che vi
parlo, adesso. Carne che ha bisogno di essere amata. Piedi che hanno
bisogno di riposare e di ballare, schiene che hanno bisogno di sostegni,
spalle che hanno bisogno di braccia, di braccia forti, vi dico. E statemi a
sentire, miei cari, statemi a sentire. Quelli non amano il vostro collo,
bello, diritto, e senza cappio. Perciò amate il vostro collo, metteteci la
mano sopra, trattatelo bene, accarezzatelo e tenetelo dritto. E tutte le
parti interne, che quelli butterebbero ai porci, dovete amare anche
quelle. Il fegato scuro, scuro – amatelo, amatelo, e anche il cuore che
batte, batte sempre, amate anche quello. Più degli occhi e dei piedi. Più
dei polmoni che non hanno ancora mai respirato aria libera. Più del
ventre che racchiude la vita e delle parti intime che danno la vita,
ascoltatemi, amate il vostro cuore. Perché questa è la cosa più preziosa
che avete.

A L E S A N D R O P O RTE L I | 2 :04 PM 0 C OMME NTI

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