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BIOMATERIALI METALLICI
4.1 Introduzione
I materiali metallici rappresentano quasi il 30% dei biomateriali e trovano applicazione principalmente
nella fabbricazione di protesi e impianti per ortopedia, per odontoiatria e come costituenti di parti di impianti
come, ad esempio, valvole cardiache e protesi endovascolari (“stent” aortocoronarici). Di notevole
importanza è anche il loro utilizzo nella realizzazione degli strumentari chirurgici.
Il grande impatto dei metalli nel settore dei biomateriali è legato soprattutto alle loro caratteristiche
meccaniche:
gli elevati moduli elastici (100-200 GPa) e gli elevati carichi di snervamento (300-1000 GPa)
permettono la realizzazione di protesi capaci di sopportare carichi elevati senza grandi deformazioni ne’
elastiche, ne’ plastiche;
l’elevata resistenza a fatica ne permette l’impiego in applicazioni dove sono previsti carichi ciclici;
l’ampia versatilità per quanto riguarda le tecniche disponibili per la lavorazione e per la modifica delle
proprietà.
Gli svantaggi principali dei metalli sono legati alla loro elevata densità ed agli aspetti di biocompatibilità.
Questi ultimi sono di estrema importanza perché i metalli vanno incontro a corrosione nell’ambiente
biologico, che risulta particolarmente ostile a questo riguardo. La conseguenza primaria della corrosione a
carico di un impianto metallico è la perdita di materiale con conseguente indebolimento dell’impianto e, più
importante, presenza di prodotti della corrosione che portano ad effetti indesiderati nei tessuti contaminati.
Molti metalli come Fe, Cr, Co, Ni, Ti, Ta, Mo e W, usati per fabbricare impianti, possono essere tollerati
dall’organismo solo in minime quantità. Anche elementi metallici presenti naturalmente nell’organismo e
indispensabili per alcune funzioni biologiche come, ad esempio, il Fe nell’emoglobina o il Co nella sintesi
della vitamina B12, possono essere tollerati solo se presenti in piccolissime quantità.
Numerose di citazioni storiche permettono di delineare lo sviluppo cronologico dell’uso dei metalli nelle
applicazioni medico-chirurgiche e mostrano come, fino al XX secolo, i progressi in chirurgia furono lenti e
intrecciati con la superstizione.
1565: Petronio discute la riparazione di un palato fesso mediante una piastra d’oro.
1650: Hyeronimus Fabricius descrive l’uso di fili d’oro e bronzo per suture.
1775: Icart, chirurgo favorevole all’uso di fili d’acciaio per riparare le fratture ossee, era incorso in infezioni,
ma cita il lavoro di due colleghi francesi che invece avevano ottenuto successo.
Come già osservato, le infezioni e le infiammazioni che spesso occorrevano nella fase postoperatoria
impedivano di stabilire una relazione fra le proprietà del materiale ed il successo o l’insuccesso dell’impianto.
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1860: Lister sviluppa le tecniche asettiche e rende possibile l’individuazione dei metalli più adatti per gli
impianti.
1886: Hansmann applica piastrine metalliche forate (acciaio rivestito di nickel) per l’inserimento di viti
nell’osso.
1895: Scoperta dei raggi X, fondamentali per osservare il riconsolidamento osseo.
Diventarono evidenti le caratteristiche critiche legate alla compatibilità tissutale, alla corrosione ed alle
proprietà meccaniche. I metalli più nobili, quindi più resistenti alla corrosione, come l’oro, l’argento ed il
platino, risultavano troppo malleabili; l’ottone, il rame e l’acciaio, pur avendo resistenza meccanica migliore,
non erano idonei in relazione agli altri due requisiti. Il magnesio era troppo reattivo ed inoltre era necessario
fare attenzione agli accoppiamenti fra metalli differenti.
1900: Si fabbricano le piastrine Sherman (Sherman Vanadium Steel) in acciaio al vanadio. Anche se negli
anni ’20 sarà ritrattato per la bassa biocompatibilità, rappresenta a quel tempo il migliore materiale
metallico in quanto a caratteristiche meccaniche e resistenza alla corrosione.
1926: Vengono introdotti gli acciai inossidabili nelle protesi.
1930: Scoperte le prime reazioni elettrochimiche nel corpo:
viti in acciaio su una piastrina di magnesio producevano il drammatico risultato che questa
scompariva prima che la frattura si fosse risarcita;
accoppiamenti di rame con zinco e di viti in ottone con piastrine di alluminio rivelarono alta
reattività.
1936: Si scopre che il titanio è inerte nell’organismo, tuttavia la sua introduzione, insieme con le sue leghe,
avviene soltanto negli anni ’60.
1950: Viene sperimentato il tantalio, ma si riscontrano reazioni tessutali negative.
1970: Entrano nell’uso comune il titanio e le sue leghe.
Le classi di materiali metallici che trovano impiego come biomateriali (soprattutto in ortopedia ed in
odontoiatria) sono molto limitate. Le motivazioni che inducono tale restrizione dipendono dalla necessità di
avere contemporaneamente elevate caratteristiche meccaniche e buona resistenza alla corrosione. Così,
mentre da un lato devono essere esclusi i metalli termodinamicamente nobili (oro, platino ed argento) per
inadeguate caratteristiche meccaniche, dall’altro molti metalli e leghe non possono essere utilizzati perché
non biocompatibili a causa di insoddisfacente resistenza alla corrosione (a tal riguardo si ammette come
parametro di soglia che il tasso di corrosione nell’ambiente fisiologico umano non debba essere superiore al
valore di 0,03 mg/cm2d).
I metalli attualmente usati possono essere raggruppati in quattro categorie:
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2. le leghe di cobalto al Cr-Mo oppure al Cr-Ni-W (e/o Mo);
3. il Titanio puro o leghe Ti-Al-V;
4. il Tantalio.
La Tab. 4.1 riporta la composizione chimica percentuale delle principali leghe utilizzate in bioingegneria
secondo le norme ASTM.
Tabella 4.1 - Composizione chimica percentuale delle principali leghe utilizzate in bioingegneria
Cobalto-Cromo-
Acciaio Cobalto-Cromo- Cobalto- Nichel- Titanio-Alluminio-
Lega Tungsteno-Nichel
inossidabile Molibdeno (fusa) Cromo-Molibdeno Vanadio
(lavorata)
ASTM ASTM ASTM AST
Specifica
F139-71 F75-74 80-68 F136-70
Vitallium Vitallium
Virillium Hynes HS25 MP35N
Sigle AISI 316L Ti-6Al-4V
Illium D L605 Protasul 10
Protasul 2 WF 11
Carbonio C 0,03 max 0,35 max 0,05-0,15 0,025 max -
Cromo Cr 17-20 27-30 19-21 19-21
Molibdeno Mo 2-4 5-7 - 9,5-10,5 -
Nichel Ni 10-14 2.5 max 9-11 35-37
Tungsteno W - - 14-16 - -
Silicio Si 0,57 max 1 max 1 max 0,15 max -
Manganese Mn 2 max 1 max 2 max 0,15 max
Zolfo S 0,03 max - - 0,01 max
Fosforo P 0,03 max - - 0,015 max
Ferro Fe Resto 0,75 max 3 max 1 max 0,3 max
Cobalto Co - Resto Resto Resto -
Titanio Ti - - - - Resto
Alluminio Al - - - - 5,5-6,8
Vanadio V - - - - 3,5-4,5
Gli acciai comuni furono sperimentati in applicazioni ortopediche nei primi del ‘900, ma vennero quasi
subito sostituiti dagli acciai inossidabili (inox) (1912) e, nel corso dei decenni successivi, da ulteriori loro
evoluzioni che condussero, durante al Seconda Guerra Mondiale, al tipo 316L, usato tutt’oggi. Gli acciai
inossidabili sono caratterizzati da una percentuale di cromo superiore al 12%, che garantisce la compattezza
allo strato passivante di ossido di cromo che si forma sulla superficie del materiale in ambiente aerato,
rendendolo resistente ai processi corrosivi. La struttura austenitica di questi acciai (cubica a facce centrate,
CFC) è quella che resiste meglio alla corrosione. Ad oggi le norme ASTM prevedono l’uso soltanto di tre
classi di questi acciai:
Gli inox austenitici di qualità normale sono variazioni degli AISI 316 (con C < 0,08%) ed AISI 316L (con
C < 0,03%), con tenori più alti di Cr (17 19%) e di Ni (12 14%). Gli acciai di qualità speciale devono
avere, in aggiunta, tenori controllati di impurezze (P max = 0,025% e Smax= 0,010%).
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Il Mo degli inox per usi ortopedici è del 2 3% per aumentare l’efficacia dello strato passivante.
Una maggiore resistenza a corrosione può essere ottenuta con una struttura omogenea a singola fase.
Per questo scopo vengono effettuati opportuni trattamenti termici a 1050 1100 °C, seguiti da rapido
raffreddamento per mantenere i carburi in soluzione. Se la velocità di asportazione del calore non è
sufficientemente elevata, il cromo precipita sottoforma di carburo, Cr 4C, sul bordo dei grani, impoverendo la
matrice e causando corrosione intergranulare. Questo fenomeno negli inox è conosciuto come
sensibilizzazione.
Tra i materiali utilizzati nelle applicazioni ortopediche, gli acciai inox sono quelli economicamente più
vantaggiosi.
L’AISI 316L è un inox austenitico “low carbon”, cioè a bassa percentuale di carbonio essendo infatti C <
0,03%. La percentuale di carbonio inferiore a quella di sensibilizzazione rallenta la formazione dei carburi e
diminuisce quindi la suscettibilità verso questo fenomeno.
Viene usato largamente per impianti temporanei, ma trova applicazioni anche per impianti permanenti.
La sua resistenza a corrosione nei fluidi corporei non è eccezionale, tuttavia risulta accettabile in molti
casi e, se il materiale viene lavorato a freddo, le sue proprietà meccaniche sono buone.
Il contenuto in Cr, Ni e Mo rimane quello espresso precedentemente.
Gli acciai inox austenitici sono non ferromagnetici, caratteristica che evita interazioni pericolose con i
campi magnetici e consente l’effettuazione di indagini diagnostiche mediante risonanza magnetica. Per
questo motivo, oltre che per la bassa resistenza a corrosione, devono essere evitati gli acciai ferritici, nonché
tutte le leghe ferromagnetiche.
La resistenza a corrosione degli inox austenitici può essere aumentata con elettropulitura, che rimuove i
difetti superficiali i quali possono fungere da innesco di cricche o pitting, e conduce alla formazione sulla
superficie di un film protettivo compatto e continuo.
Un altro metodo per impedire la corrosione è la pre-passivazione dell’acciaio in ambiente fortemente
acido ed aerato (HNO3, 30% vol. a 60 °C per 30 min).
Più di recente è stato proposto l’impiego di un acciaio inossidabile austeno-ferritico ad alto tenore di
azoto noto come acciaio duplex 27Cr-7Ni-4Mo-0,5N che pare resistere, secondo test in vitro, a corrosione
localizzata nel corpo umano, soprattutto a pitting e corrosione in fessura. Le caratteristiche meccaniche sono
superiori ai tradizionali inox austenitici ed i costi competitivi con le leghe di cobalto e di titanio. Sono
attualmente in corso prove in vivo su tale materiale.
Le leghe cobalto-cromo vennero studiate a partire dal 1885 ed impiegate già nei primi del ‘900 per
l’aeronautica e l’ortopedia per la buona resistenza a corrosione ed usura, unitamente ad elevate
caratteristiche meccaniche.
Le leghe usate attualmente si distinguono in:
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- leghe dal fuso (in getto) (Co-Cr-Mo)
- leghe semilavorate (Co-Cr-Ni-W e/o Mo)
Il cobalto esiste in due forme allotropiche: cubica a facce centrate (CFC) al di sotto di 450 °C e
esagonale compatta (EC) al di sopra di 450 °C, tuttavia a temperatura ambiente si trovano solitamente
strutture cristallografiche miste.
Le leghe Co-Cr vengono rinforzate tramite metalli refrattari in soluzione solida come Mo o W che
precipitano sottoforma di carburi finemente dispersi. I carburi che si riscontrano sono vari (il principale risulta
il Cr23C6, ma si trova anche il Cr7C3) e provvedono ad un rafforzamento della struttura, ma la loro presenza in
agglomerati riduce il limite di fatica.
L’aggiunta di Ni nelle leghe semilavorate stabilizza la struttura CFC ed aumenta la duttilità.
Le leghe Co-Cr sono in genere conosciute con i nomi commerciali: Stellite, Vitallium, Protasul, Ticonium,
che differiscono di poco dalla composizione sopra riportata. La prima esiste in due forme: la Stellite 21
(HS21), per getti, e la Stellite 25 (HS25), per lavorazione plastica. La Stellite 21 conserva le due strutture CFC
() e EC (). Si presenta al microscopio con grani abbastanza ampi, che possono addensare sul loro bordo
fasi fragili e molti microvuoti, che indeboliscono il materiale. Queste due caratteristiche dipendono
ovviamente dalle modalità di esecuzione dei trattamenti termici. La Stellite 25 invece è rinforzata dalla
deformazione, geminazione (twinning) e dalla più piccola dimensione dei grani, qualità precipue della
lavorazione plastica e che possono essere esaltate, insieme alla dispersione dei carburi, per esempio tramite
pressatura isostatica a caldo.
Per ridurre le dimensioni dei grani e favorire la dispersione delle fasi che causano infragilimento, si può
ricorrere ad una riduzione del contenuto di carbonio (C < 0,17%) che può essere ripristinato tramite
trattamenti termochimici, così da incrementare la durezza superficiale.
Le specifiche ASTM per le leghe dal fuso (F75) indicano Co ≈ 60%, Cr = 27 30%, Mo = 5 7%, Ni =
2,5% (max), piccole percentuali di Fe, Mn, C e Si. Il loro carico di rottura supera i 665 MPa. Esse sono
caratterizzate da un’eccezionale resistenza alla corrosione localizzata, non posseduta da nessun’altra lega
usata in ortopedia; tuttavia sono dure, difficilmente lavorabili e, qualora non vengano trattate
opportunamente, presentano delle proprietà meccaniche modeste in particolare per quanto concerne il limite
a fatica.
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Recentemente si è trovato che è possibile incrementare le caratteristiche meccaniche delle leghe Co-Cr-
Mo mediante lavorazioni a caldo (a temperature di 1100 1200 °C), unite a successivi trattamenti termici,
che le rendono confrontabili con quelle delle leghe semilavorate senza peggiorarne il comportamento a
corrosione. In particolare il trattamento di pressatura isostatica a caldo riesce a migliorare nettamente il
comportamento a fatica e corrosione-fatica delle leghe in getto, poiché determina uno schiacciamento delle
porosità e dei microvuoti che si generano durante la solidificazione della lega e che fungono da innesco di
microcricche.
Sono stati effettuati anche studi sulla sinterizzazione di leghe Co-Cr-Mo partendo da polveri molto fini (d
< 5 m). Si riesce a superare l’inconveniente della dimensione del grano, con aumento della resistenza a
fatica, ma si incontra il problema della di precipitazione dei carburi che avviene alla temperatura di
sinterizzazione (1159 1300 °C).
Di recente è stata sviluppata una nuova lega di cobalto lavorata per deformazione plastica (F 562), che è
composta da: Co ≈ 33%, Ni = 33 37%, Cr = 19 21%, Mo = 9 10,5%. Questo materiale rimane
austenitico se deformato sopra i 650 °C, conservando le proprie caratteristiche meccaniche, mentre se
deformato sotto tale temperatura parte dell’austenite si trasforma in martensite lungo i piani di scorrimento,
inducendo un cospicuo incremento della resistenza meccanica a fronte di un leggero aumento della fragilità.
Si ha quindi un rafforzamento causato da una trasformazione di fase che avviene per deformazione: infatti si
passa da una struttura CFC ad una EC, che fa balzare il carico di snervamento da 414 MPa a ben 2128
MPa. Successivamente si opera un trattamento di invecchiamento a circa 500 °C per 4 ore, inducendo la
precipitazione dei Co3Mo.
Un’altra lega di cobalto che raggiunge elevatissime caratteristiche meccaniche è la lega ASTM F563,
con Co ≈ 47%, Ni = 15 25%, Cr = 18 22%, Fe = 4 6%, Mo = 3 4% e W = 3 4%.
Le leghe di titanio sono materiali relativamente nuovi rispetto agli acciai ed alle leghe di cobalto.
L’interesse per il titanio iniziò solo nel 1790 nonostante sia il nono elemento più comune sulla crosta
terrestre, presentandosi combinato come ossido TiO 2, o come ilmenite FeOTiO2.
E’ forte come l’acciaio, ma denso circa la metà ( = 4,5 g/cm3): questa combinazione lo ha subito reso
un materiale interessante per usi militari. Può essere prodotto facilmente, ma devono essere eliminate le
contaminazioni con idrogeno, ossigeno ed azoto e quindi si incontrano alcune difficoltà tecnologiche che lo
rendono costoso. Il processo Kroll nel 1936 rese possibile l’estrazione del titanio ed una produzione
industriale di spugne: esso comporta la clorurazione del minerale per ottenere tetracloruro di titanio (TiCl 4),
ridotto poi con magnesio in un reattore, sigillato con atmosfera inerte, da cui, tramite asportazione del MgCl 2,
si ottiene titanio spugnoso, che deve essere successivamente depurato dalle contaminazioni di cloro e di
magnesio.
Titanio con maggiore purezza può essere prodotto per decomposizione termica del tetraioduro di titanio
(TiI4) o per elettrolisi.
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Il primo impulso nello sviluppo di questo materiale si ebbe verso la metà del XX secolo, a causa delle
sue interessanti caratteristiche per gli usi militari, e solo negli anni ’60 venne introdotto in chirurgia dove,
dalla metà del decennio successivo, ha assunto un ruolo di interesse crescente.
Oggigiorno il titanio puro trova limitate applicazioni in ortopedia (in rivestimenti, o dove non si hanno
carichi elevati). Si è diffuso invece l’uso delle leghe che permettono di ottenere proprietà meccaniche molto
migliori. I materiali a base di Ti si distinguono in tre categorie (in relazione ad una trasformazione allotropica,
che per il titanio avviene a 882 °C):
Il titanio puro che si trova in commercio ha struttura di tipo e le sue caratteristiche dipendono dal
tenore di azoto ed ossigeno disciolti, mentre la lega Ti-6Al-4V, la lega più famosa usata in ortopedia, è
bifasica. Aggiunte selettive di Al, O, Zr, Sn favoriscono la fase , mentre V, Mo, Nb, Fe, Cr, Co, Ni ed Mn
sono -stabilizzanti.
Le leghe non trovano generalmente applicazioni in ortopedia, anche se alcuni produttori le stanno
prendendo in considerazione. Sono metastabili e vengono prodotte tramite aggiunta di elementi di lega che
stabilizzano tale fase a temperatura ambiente.
Le leghe di tipo sono più malleabili e saldabili, ma risultano limitate dal fatto che le loro caratteristiche
meccaniche non possono essere migliorate con trattamenti termici.
Le leghe bifasiche, invece, possono usufruire dei vantaggi ottenibili da tali trattamenti; ad esempio, la
lega bifasica Ti-6Al-4V viene difatti raffreddata bruscamente da una temperatura di equilibrio per la fase
(+), seguito da un invecchiamento attraverso il quale si ottiene un precipitato fine e ben disperso delle
particelle ad alto modulo nella matrice a basso modulo. Tale configurazione migliora nettamente la
resistenza a fatica rispetto al Ti puro.
Sono in corso anche studi tesi ad incrementare la biocompatibilità di questa lega, cercando di sostituire il
vanadio, reputato citotossico, con niobio, oppure sostituendola con la Ti-5Al-2,5Fe.
I materiali a base di titanio presentano un modulo elastico di circa 120 GPa, molto inferiore a quello delle
leghe di cobalto (circa 225 GPa) o degli inox (circa 200 GPa) e ciò, secondo alcuni, penalizza tutti quei casi
in cui è fondamentale una elevata rigidità dell’impianto metallico. Secondo altri, invece, il minor valore del
modulo elastico permette un interfacciamento più compatibile con l’osso.
Il titanio e le sue leghe possiedono un’ottima resistenza a corrosione in fessura, tuttavia sono
estremamente soggetti a corrosione per sfregamento; questo è il principale limite di tali materiali, soggetti a
fratture fragili e per fatica che scaturiscono dalle imperfezioni superficiali che si generano.
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Per quanto riguarda la lavorazione, sia il titanio che le sue leghe tendono a reagire con l’ossigeno ad alte
temperature, cosicché le lavorazioni meccaniche devono essere condotte in atmosfera inerte ed i processi di
fusione sotto vuoto. Anche le lavorazioni per asportazione di truciolo sono difficoltose, quindi sono indicati
metodi elettrochimici, come l’elettroerosione.
Il Tantalio e diversi altri metalli sono stati utilizzati per applicazioni molto specializzate.
Il Tantalio è un elemento che mostra un’elevatissima resistenza alla corrosione, ma rimane quasi
inavvicinabile per il suo costo. Trova soltanto applicazioni sporadiche, essendo inoltre dotato di proprietà
meccaniche non particolarmente elevate ed una notevole densità (16,6 g/cm 3).
Anche il Platino ed altri metalli nobili dello stesso gruppo hanno elevate resistenze alla corrosione, ma
scarse proprietà meccaniche. Essi trovano applicazioni soprattutto per la realizzazione di elettrodi per
pacemaker.
La corrosione degli impianti metallici è ritenuta critica perché riesce ad indurre effetti sfavorevoli sia sulla
compatibilità biologica, sia sull’integrità meccanica. Come abbiamo visto, a seguito dell’inserimento di un
impianto non devono manifestarsi reazioni avverse nell’organismo, il dispositivo deve rimanere stabile ed in
grado di espletare le proprie funzioni. Attraverso i fenomeni corrosivi l’impianto metallico rilascia ioni metallici
che possono disturbare anche gravemente l’equilibrio biologico e non di meno provocare il fallimento
dell’impianto stesso. Perciò i metalli usati nel corpo umano devono essere caratterizzati da un’eccellente
resistenza alla corrosione e non possono essere sottoposti a trattamenti termici, meccanici, chimici che
alterino questa peculiarità. La degradazione dei metalli e delle leghe costituenti i dispositivi ortopedici è
solitamente dovuta ad una combinazione di effetti meccanici ed elettrochimici.
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4.4.1 L’ambiente fisiologico
Sappiamo che nel caso di un dispositivo impiantato non si può prescindere da reciproche interazioni
impianto-organismo. Ciò è particolarmente vero nel caso dei materiali metallici, per i quali l’ambiente
corporeo risulta particolarmente ostile. Un impianto chirurgico viene ad essere costantemente a contatto con
i fluidi fisiologici costituiti sostanzialmente da acqua contenente elettroliti, composti complessi, ossigeno ed
anidride carbonica. La maggior parte dei fluidi esistenti nel corpo (plasma, sangue, linfa…) ha un contenuto
in ioni cloruro di 5 20 g/l ed un pH variabile a seconda del tipo di fluido (Tab. 4.2).
Gli elettroliti presenti in maggiore quantità sono gli ioni sodio Na + e cloruro Cl, seguono gli ioni
bicarbonato HCO3 e tracce di ioni potassio, calcio, magnesio, solfato e di acidi organici. I composti
complessi includono fosfolipidi, colesterolo, grassi naturali, proteine, zuccheri ed amminoacidi.
Figura 4.1 – Sollecitazioni meccaniche ed effetti corrosivi a cui è soggetta una protesi articolare nel corpo umano:
W – attrito (meccanico e/o depassivazione); B – flessione (corrosione a fatica);
T – torsione; G – corrosione generalizzata o localizzata
Dopo un incidente o un’operazione chirurgica le caratteristiche chimiche dei fluidi corporei risultano
alterate. Come naturale conseguenza di un trauma dovuto ad una frattura ossea il pH locale diminuisce fino
a 5,3 5,6 per poi aumentare gradualmente con il processo di cicatrizzazione, fino a riportarsi a valori
normali.
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Tabella 4.2 - Valori di pH di vari fluidi biologici
Fluido pH
Gastrico 1,0
Urina 4,5 6,0
Intracellulare 6,8
Extracellulare 7,4
Interstiziale 7,0
Sangue 7,15 7,35
Quando si inserisce un dispositivo interno per congiungere i lembi della frattura, si favorisce
ulteriormente la tendenza al decremento locale del pH a causa degli interstizi che si vengono a creare tra
impianto e tessuto osseo, (fenomeno legato alla corrosione in fessura) dove la deficienza nell’apporto di
ossigeno dall’ambiente circostante si può tradurre in valori del pH prossimi all’unità.
Con il fissaggio interno, il disturbo che si ha nell’apporto di sangue all’osso è spesso accompagnato da
cambiamenti severi e patologici che possono condizionare la cicatrizzazione ed alterare lo stato di equilibrio
elettrochimico dell’organismo.
Dal punto di vista elettrochimico, l’accelerazione dei fenomeni corrosivi può essere dovuta alle anomale
condizioni ambientali che si instaurano in prossimità della superficie metallica e che possono essere causa
della formazione di celle elettrochimiche, accompagnata da dissoluzione attiva del metallo in modo non
omogeneo all’interfaccia impianto - fluido corporeo.
Tuttavia la reazione del tessuto ospite al dispositivo metallico risulta influenzata da molti altri fattori,
inclusi la taglia e la forma dell’impianto, l’eventuale movimento relativo tra gli stessi, l’estensione dell’attacco
corrosivo, l’attività biologica dei sottoprodotti della corrosione e la degradazione generale della superficie
dell’impianto.
Anche gli ematomi, che sono soliti concentrarsi intorno al dispositivo, provocano una diminuzione del
pH: il valore di 4,0 nelle ferite in via di cicatrizzazione di solito persiste fin quando, dopo varie settimane, gli
ematomi non siano stati riassorbiti.
Dunque, quando si inserisce chirurgicamente un dispositivo dentro il corpo umano, l’ambiente interno
viene ad essere gravemente disturbato e da quanto detto finora risulta ovvio che le condizioni corporee,
generalmente abbastanza ostili, provochino reazioni differenziate dell’organismo nei confronti dell’impianto a
seconda dell’entità del trauma e delle infezioni associate alla procedura di impianto. Nel caso di dispositivi
metallici, ove l’evento più probabile di risposta tissutale è la corrosione ed il conseguente rilascio di ioni
metallici, spesso tossici e difficilmente eliminabili, si possono avere anche pericolosi effetti sistemici, cioè
non localizzati nella zona di rilascio bensì diffusi, qualora vengano trasportati dalla corrente ematica.
Particolare cura va inoltre riservata agli impianti percutanei, che per il loro scopo precipuo attraversano
permanentemente la cute o le mucose (drenaggi, fili metallici per la trazione di arti, impianti dentali endo-
ossei etc.), impedendo la riparazione della lesione cutanea.
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4.4.1.1 I fluidi interstiziali ed extracellulari
I fluidi interstiziali sono fluidi in contatto diretto con le cellule dei tessuti e possono incontrare svariati tipi
di impianti chirurgici. Ad esempio, le superfici interne delle ristrutturazioni dei denti sono in diretto contatto
con la dentina e con l’osso, i cui fluidi sono più simili in composizione ai fluidi interstiziali che alla saliva.
I fluidi extracellulari (plasma, linfa, liquido sinoviale, ecc.) hanno un contenuto di composti inorganici
simile a quello dei fluidi interstiziali, ma diverso contenuto di composti organici: la concentrazione di proteine
(albumina, globuline e fibrinogeno) nel plasma, per esempio, è più elevata che negli altri fluidi biologici.
Per tutti i fluidi, interstiziali o extracellulari, il contenuto di composti inorganici è quello descritto nella Tab.
4.3.
Le cellule dei tessuti, essendo in contatto ravvicinato con il dispositivo impiantato, possono permettere al
fluido intracellulare di permeare nel materiale attraverso la membrana cellulare. A differenza dei fluidi
extracellulari, quelli intracellulari contengono più potassio ed anioni organici: il sodio è rimpiazzato dal
potassio (K+), il cloruro dall’ortofosfato (HPO42-). Gli effetti di tali fluidi sulla corrosione sono fortemente
dipendenti dall’abilità che hanno i grossi anioni inorganici di attraversare le membrane cellulari, le quali sono
solitamente molto selettive. Dunque, nella maggior parte dei casi, spetta ai fluidi extracellulari interagire con i
dispositivi biomedici.
La cavità orale è un ambiente complesso, in cui i tessuti duri e molli (denti, palato e gengive) sono
costantemente bagnati dalla saliva e, al contempo, soggetti a carichi variabili durante la masticazione e la
deglutizione13.
La saliva, il liquido che caratterizza questo ambiente corporeo, è molto variabile in composizione e pH
non solo da persona a persona, ma anche di ora in ora per un dato individuo. Comprende una miscela di
anioni inorganici (prevalentemente cloruri e fosfati), acidi organici, enzimi, batteri e secrezioni gastriche
come la mucina (glicoproteina presente nel muco ed in altre secrezioni umane). La salinità della saliva è
molto simile a quella dell’acqua di mare e, di per sé, tenderebbe ad essere gravemente corrosiva verso la
maggioranza dei metalli non nobili.
La saliva è una miscela incolore di fluidi prodotti da varie ghiandole salivari (la parotide, la
sottomascellare e la sottolinguale) e, in misura minore, da altre ghiandole accessorie del cavo orale. Il liquido
secreto da ciascuna ghiandola risulta diverso in composizione e variabile in quantità a seconda dell’intensità
e la durata dello stimolo; quindi la miscela che ne deriva non è costante nel tempo e differisce da individuo
13
Per poter riparare o sostituire i denti con altri materiali occorre valutare efficacemente la resistenza meccanica necessaria. Le forze
totali che vengono esercitate durante la masticazione dipendono dall’età, dalla muscolatura, e da altri fattori fisiologici del paziente
connessi alla dentizione esistente. Tipicamente, per un individuo con dentatura sana si è stimato un valore dello sforzo nell’intervallo 3
17 MN/m2 a seconda del tipo di cibo masticato.
115
ad individuo. Volendo descriverne le caratteristiche chimiche medie, la saliva risulta lievemente alcalina,
peso specifico di 1,0005 g/cm 3, costituita per il 95% da acqua, il 3% da sostanze organiche (essenzialmente
mucina, che impartisce la viscosità, e ptialina o amilasi salivare, enzima che inizia la digestione degli amidi),
il 2% da sali minerali. La quantità giornaliera prodotta si aggira su 1 litro, anche se non è distribuita
uniformemente sull’arco delle 24 ore; infatti la portata del flusso salivare è mediamente molto bassa (0,004
ml/min), con picchi durante le fasi masticatorie ed abbassamento durante le ore notturne.
Gli ioni inorganici presenti in maggiore quantità (Tab. 4.4) sono: K+, Cl-, PO43-, HCO3-, Na+, SCN-, Ca2+,
Mg2+; sono inoltre presenti in tracce: SO 42-, Fe2+, Sn2+, F-, I-, Br-, NO2-.
Il potenziale redox della saliva indica che ha proprietà riducenti.
Proteine
Glicoproteine 45
Amilasi 42
Lisozima 14
Albumina 2
Gamma globuline 5
116
acido formico, acido acetico, sali di ammonio. L’anidride solforosa e l’idrogeno solforato sono gas reattivi,
mentre i sali di ammonio abbassano la tensione superficiale nelle soluzioni saline. Anche se la maggioranza
di tali specie effettivamente viene resa inattiva prima che causi processi degradativi agli impianti dentali,
certamente l’aria atmosferica deve essere considerata fonte potenziale di inserimento di specie corrosive
nell’ambiente orale.
Paragonando il fluido orale con quelli interstiziale ed extracellulare, si può osservare che sono tipici di
entrambi i tipi di fluido problemi di aerazione differenziale e generazione di acidità negli interstizi vicini
all’impianto, che innescano corrosione in fessura, così come le condizioni meccaniche di sforzi ciclici che
danno luogo a fenomeni di usura, fatica, erosione. Mentre i fluidi interstiziali appaiono sottoposti a variazioni
marcate di pH e di PO2 in prossimità dell’impianto, la saliva appare più suscettibile a differenze in qualità
piuttosto che in quantità dei suoi costituenti. Infine, è di fondamentale importanza notare che il contenuto di
ioni cloruro nei fluidi interstiziali è circa 7 volte superiore a quello nella saliva, caratteristica questa che ha
varie implicazioni sull’elettrochimica dei processi corrosivi.
Sono state formulate nel corso degli anni numerose soluzioni artificiali con lo scopo di simulare la saliva
umana e che vengono usate per testare il comportamento dei biomateriali metallici. Alcune contengono solo
composti inorganici, altre anche organici (a base prevalentemente di mucina).
Vi sono inoltre soluzioni in cui è disciolta una miscela dei gas CO 2 /O2 /N2 per simulare un controllo di pH
ed una capacità tamponante dominata dalla coppia redox CO 2/HCO3-.
Tutte le composizioni hanno elevata percentuale di cloruri (di sodio, potassio e calcio) e varie forme di
fosfati. Ingredienti aggiuntivi possono essere solfuri, bicarbonato e carbonato, tiocianato, citrato, acidi
organici, idrossidi ed urea.
La Tab. 4.5 illustra la composizione di una soluzione artificiale tipica per la saliva, paragonata alla
soluzione di Ringer, che è una soluzione salina fisiologica usata per imitare il fluido interstiziale. Si nota che
solfati, fosfati ed urea sono presenti soltanto nella saliva artificiale.
NaCl 40 82-90
KCl 40 2,5-3,5
CaCl2.2H2O 79,5 3,0-3,6
NaH2PO4.H2O 69 -
Na2S.9H2O 0,5 -
Urea 100 -
117
4.4.2 Elettrochimica della corrosione
La corrosione è un processo elettrochimico risultante da due reazioni elettrodiche, cioè da reazioni che,
oltre a specie chimiche, coinvolgono elettroni provenienti da un metallo (elettrodo). Come è noto, tali reazioni
si chiamano semireazioni, più precisamente si ha:
dove n indica il numero di ossidazione dello ione metallico e, quindi, anche il numero di elettroni liberati da
ciascun atomo del metallo che si ossida.
Alcuni esempi di semireazioni che comportano l’ossidazione di un metallo sono i seguenti:
Fe Fe2+ + 2e-
Ni Ni2+ + 2e-
Cr Cr3+ + 3e-
Al Al3+ + 3e-
Cu Cu+ + e-
Cu Cu2+ + 2e-
- riduzione dell’idrogeno:
2H+ + 2e- H2 che avviene in ambiente acido;
2H2O + 2e- H2 + 2OH- che avviene in ambiente basico o neutro (si può ottenere dalla
precedente semplicemente aggiungendo 2OH- ad entrambi i
membri)
- riduzione dell’ossigeno:
1/2O2 + 2e- + 2H+ H2O che avviene in ambiente acido;
1/2O2 + 2e- + H2O 2OH- che avviene in ambiente basico o neutro.
118
Di solito le interfacce su cui avvengono le due semireazioni sono a contatto fra loro o sono intimamente
compenetrate. Ciò significa che il passaggio degli elettroni avviene a livello microscopico.
La reazione complessiva è una reazione di ossido-riduzione (red-ox) data dalla “somma” delle due
semireazioni effettuata avendo cura di mantenere l’elettroneutralità, che richiede l’uguaglianza fra il numero
di elettroni liberati dalla semireazione di ossidazione ed il numero di elettroni utilizzati dalla semireazione di
riduzione. Così, ad esempio:
Fe Fe2+ + 2e-
1/2O2 + 2e- + H2O 2OH-
Fe + 1/2 O2 + H2O Fe2+ + 2OH-
ed anche:
Al Al3+ + 3e- X2
1/2O2 + 2e- + H2O 2OH- X3
2Al + 3/2 O2 + 3H2O 2Al3+ + 6OH-
E’ importante osservare che, poiché le due semireazioni devono avvenire contemporaneamente ed alla
stessa velocità, è possibile inibire il processo di corrosione inibendo una sola delle due.
La possibilità che un processo di corrosione possa avvenire è legata ai valori di potenziale elettrochimico
associati alle semireazioni coinvolte. E’ noto che ad ogni semireazione del tipo:
X + ne- ⇄Y
considerata di equilibrio, è associabile un potenziale, E, dato dalla legge di Nernst:
RT a X 0,0591 a X
E E0 ln E0 ln
nF aY n aY
fra specie tutte in condizioni standard (attività unitarie e pressioni pari a 1 atm).
In generale, si può stabilire se una reazione può avvenire o meno confrontando i valori dei potenziali
delle semireazioni scritte entrambe come riduzioni. Così, ad esempio, per la reazione:
Cu + Zn2+ Cu2+ + Zn
119
0
E Cu 2
/ Cu
0,342 Volt
0
E Zn 2
/ Zn
0,761 Volt
per cui, svolgendosi come riduzione la semireazione avente il potenziale di riduzione maggiore, si avrà:
Cu2+ + 2e- Cu
Zn Zn2+ + 2e-
Cu2+ + Zn Cu + Zn2+
cioè avverrà la reazione opposta a quella iniziale, la quale invece non avrà luogo.
Quanto ora esposto fornisce un criterio per stabilire se un processo di corrosione, dal punto di vista
termodinamico, potrà avvenire o meno. Calcolando i valori dei potenziali di riduzione delle reazioni catodiche
in varie condizioni di pH si ha, infatti:
EH
/ H2
EH0
/ H2
0 ,0591
2
log H
2
0 ,0591 pH 0 ,473 Volt, si potrà avere corrosione di
specie il cui potenziale di riduzione è minore di -0,473 Volt cioè, con riferimento alla Tab. 4.6, tutti i
metalli successivi a Fe;
di specie il cui potenziale di riduzione è minore di -0,414 Volt cioè tutti i metalli successivi a Cd;
corrosione di specie il cui potenziale di riduzione è minore di -0,307 Volt cioè tutti i metalli successivi
specie il cui potenziale di riduzione è minore di 0 Volt cioè tutti i metalli successivi a Cu.
corrosione di specie il cui potenziale di riduzione è minore di 0,756 Volt cioè, con riferimento alla
Tab. 4.6, tutti i metalli successivi a Ag;
si potrà avere corrosione di specie il cui potenziale di riduzione è minore di 0,815 Volt cioè tutti i
metalli successivi a Pt;
120
in condizioni acide con pH = 5,2 si ha
EO 2 / H2 O 1 ,229 0 ,0591 5 ,2 0 ,922 Volt,
si potrà avere corrosione di specie il cui potenziale di riduzione è minore di 0,922 Volt cioè ancora
tutti i metalli successivi a Pt; se fosse pH = 0, cioè [H+]= 1M, si avrebbe:
EO 2 / H2 O 1 ,229 0 ,0591 0 1 ,229 Volt,
e si potrà avere corrosione di specie il cui potenziale di riduzione è minore di 1,229 Volt cioè tutti i
metalli successivi a Au.
I valori ottenuti negli esempi su esposti sono ovviamente indicativi perché calcolati facendo riferimento
ad una temperatura di 25 °C anziché di 37 °C, che è quella fisiologica.
121
Inoltre, in condizioni fisiologiche non si osservano praticamente mai situazioni non aerate perché
l'ossigeno è sempre in qualche modo presente disciolto nei fluidi biologici. Semmai, ciò di cui occorrerebbe
tenere conto nel calcolo dei potenziali è che la pressione parziale dell'ossigeno può essere diversa da quella
atmosferica.
Indicando con Ec il potenziale della reazione catodica (di riduzione dell'idrogeno o dell'ossigeno) e con
Ea il potenziale della reazione anodica (di ossidazione del metallo), entrambe scritte come riduzioni, allora il
processo di corrosione avviene se è verificata la condizione:
Ec > Ea
mentre se è:
Ec < Ea
il processo di corrosione è termodinamicamente impossibile ed in tal caso si parla di immunità.
La differenza Ec – Ea prende il nome di lavoro motore ed è in relazione alla quantità di energia che può
essere spesa nel processo di corrosione.
La semireazione anodica produce elettroni che vengono utilizzati dalla semireazione catodica.
Consideriamo ad esempio la corrosione di un campione di Zinco che avviene in ambiente acido non aerato.
La semireazione anodica è:
Zn Zn2+ + 2e-
I
a
Z n Z n +
2
H +
e –
H 2
e – +
H
I c
La convenzione sui segni si traduce nel fatto che Ia fluisce nel verso metallo ambiente, mentre la Ic nel
Se A è l'area della superficie del metallo esposta alla corrosione, si definiscono le densità di corrente
(per unità di superficie):
Ia Ic
ia ic
A A
e la densità di corrente di corrosione
122
i corr i a i c
(valida ovviamente se si può ritenere che l'area della superficie interessata ai due processi, di riduzione e di
ossidazione, sia la stessa).
Considerando un metallo M che si ossida secondo la reazione
M Mn+ + ne-
e se A è l'area della superficie esposta al processo di corrosione, il numero di moli del metallo che si
ossidano in un tempo dt è (Fig. 4.3):
A
d x
La vcorr si esprime solitamente in mm/anno. Ad esempio, per il Ferro (W = 55,85 g/mole; = 7,87 g/cm3)
con icorr = 0,1 A/m2 si ottiene:
v corr
0,1 55,85 10 3 12
2 96485 7,87 10 3 3,677 10 m / s 0,116 mm / anno
dN 0,1 10 4
5,18 10 11 moli/s = 1,63 10 3 moli/anno
dt 2 96485
oppure, in termini di numero di ioni Fe2+:
dN' dN
NA 6 ,023 10 23 1,63 10 3 9 ,84 10 20 ioni/anno
dt dt
Volendo utilizzare il tasso di corrosione, r, che indica la velocità di perdita di massa del metallo per unità
di superficie, si ha:
123
1 dm 1 dV 1 Adx dx
r
A dt A dt A dt dt
cioè:
r v corr
Il tasso di corrosione r si esprime di solito in mg/cm 2d. Ad esempio, nel caso del Ferro con vcorr = 0,116
mm/anno si ha:
v corr 0,116 mm / anno 3,178 10 5 cm / d
e quindi:
r 7 ,87 10 3 3 ,178 10 5 0 ,25 mg / cm 2 d
Viceversa, il massimo valore accettabile di 0,03 mg/cm 2d per il tasso di corrosione corrisponde per il
Ferro a:
r 0 ,03 10 3
v corr cm / d 0 ,0139 mm / anno
7 ,87
Una relazione empirica per la dipendenza del potenziale dalla corrente fu ricavata da Tafell (1905). In
una forma semplificata tale relazione si può scrivere come:
i
E E eq b log
i eq
dove ieq è la densità di corrente quando E=Eeq, ed il segno cambia a seconda che si consideri la corrente
anodica (+) o quella catodica ( ). Il coefficiente “b” si chiama pendenza di Tafell ed è un parametro specifico
per ogni meccanismo elettrodico.
Le curve E-log(i/ieq) sono in realtà delle rette e si chiamano curve caratteristiche (Fig. 4.4). Dovendo
essere i a i c , l’intersezione della curva caratteristica anodica con la curva caratteristica catodica dà il
valore del potenziale di corrosione, Ecorr, e della corrispondente densità di corrente di corrosione, icorr.
124
Ec
Ecorr
Ea
icorr
log(i/ieq)
Figura 4.4 – Andamento delle curve caratteristiche potenziale-corrente.
Dal grafico si può anche osservare che, a parità di potenziale catodico, se Ea aumenta, cioè se
diminuisce il lavoro motore, la corrosione avviene ad intensità minore (icorr diminuisce). Viceversa, se Ea
diminuisce la corrosione avviene con intensità maggiore.
Si osserva anche che se Ea>Ec, cioè la situazione di immunità, viene rappresentata sul diagramma
potenziale-corrente dall’assenza di intersezione fra le curve anodica e catodica (Fig. 4.5).
Ea
Ec
log(i/ieq)
Figura 4.5 - Situazione di immunità rappresentata sul diagramma potenziale-corrente.
4.4.2.4 Passivazione
125
corrente di corrosione che scende ad un valore, ip, molto basso. La corrente rimane tale finché il potenziale
anodico rimane entro un intervallo di valori che individua la cosiddetta zona di passività. Oltre un valore
limite, indicato con Et, si entra in una zona detta di zona di transpassività in cui la corrente aumenta di nuovo
a causa dell’ossidazione del metallo a stati di valenza superiori.
La caratteristica anodica dei materiali con comportamento attivo-passivo (e quindi i valori di Ep, Et, ip e icp)
dipendono dalle condizioni ambientali. In particolare, un aumento di temperatura, di acidità e di
concentrazione di specie ioniche quali i cloruri, hanno l’effetto di diminuire l’ampiezza della zona di passività
e di aumentare il valore di icp.
Vale la pena osservare che, mentre nel caso di un comportamento solo attivo, un piccolo lavoro motore
è associato a bassi valori della i corr, nel caso di un comportamento attivo-passivo un potere ossidante troppo
contenuto (indicato con Ec’ in Fig. 4.6) può corrispondere ad una velocità di corrosione (i’) maggiore rispetto
a quella associata ad un potenziale ossidante maggiore (Ec”) per il quale si innesca la passivazione.
zona di
Et transpassività
E”c
zona di
E’c passività
Ep
zona di
attività
Ea
ip i’ icp log(i/ieq)
Figura 4.6 – Andamento della curva caratteristica anodica nel caso di comportamento attivo-passivo.
L’ossigeno che partecipa ai processi di corrosione è quello disciolto nei fluidi. La reazione di corrosione
determina un consumo di ossigeno che deve essere rimpiazzato continuamente. La velocità con cui la
reazione catodica consuma ossigeno tende ad essere maggiore della velocità con cui le molecole di
ossigeno, per diffusione, riescono a muoversi verso la superficie del metallo. Per tale motivo si ha che la
velocità di corrosione, tipicamente, è limitata dal trasporto di ossigeno ad un valore i’corr minore di quello
teorico (Fig. 4.7).
126
Ec
Ea
i’corr icorr
Figura 4.7 – La diffusione dell’ossigeno limita la velocità di corrosione ad un valore i’corr minore di quello teorico.
Il parametro di gran lunga più importante per la valutazione degli effetti della corrosione sull’organismo è
la quantità di ioni metallici presenti.
Se A indica l’area della superficie efficace dell’impianto metallico soggetta a corrosione e se r è il tasso
di corrosione, la quantità:
R r A
indica la velocità con cui gli ioni vengono rilasciati dal metallo ed entrano nei tessuti (Fig. 4.8). L’organismo,
a sua volta, ha la capacità (variabile a seconda del tipo di ione) di eliminare l’eccesso di ioni attraverso
meccanismi fisiologici. La velocità di eliminazione si indica con Re.
Q(t)
R Re
organismo
Figura 4.8 – Schema per il calcolo del tenore degli ioni metallici nell’organismo.
Se Q0 indica la quantità fisiologica dello ione e assumendo una velocità di eliminazione proporzionale alla
variazione rispetto alla quantità fisiologica, cioè:
R e k Q Q 0
127
si ha:
dQ R k Q Q 0 dt
Q( t ) Q0
R
k
1 e kt
il cui andamento è rappresentato in Fig. 4.9.
Il coefficiente k prende il nome di coefficiente di eliminazione ed ha le dimensioni dell’inverso di un
tempo. Il valore di 1/k rappresenta il tempo necessario per raggiungere i 2/3 del valore asintotico Q=Q0+R/k
a partire da Q0.
Nelle tabelle 4.7 e 4.8 si riportano a titolo di esempio i dati relativi ad un acciaio inox e ad una lega Co-
Cr-Mo per le quali si considera un valore di r pari a 0,015 mg/cm2d (la metà di quella massima consentita) ed
un’area superficiale di 400 cm2 (quindi, complessivamente R=6 mg/d).
Q0+R/k
Q(t
)
Q0
0 1/k 20 40 60
t
Figura 4.9 - Andamento della quantità di ioni metallici nel tempo.
Tabella 4.7 – Calcolo delle quantità di ioni rilasciati da un acciaio inox (*)
composizione
Ione R (mg/d) Q0 (mg) k (d-1) Q (mg) Q/Q0
(%)
Fe 61 3,66 4000 0,0010 7660 1,92
Cr 20 1,20 6 0,0011 1097 182,83
Ni 14 0,84 10 0,0010 850 85
Mo 3 0,18 5 0,139 6,3 1,26
Mn 2 0,12 20 0,040 23 1,15
Totale 100 Totale 6
* r=0,015 mg/cm2d; A=400 cm2
Tabella 4.8 – Calcolo delle quantità di ioni rilasciati da una lega Co-Cr-Mo (*)
composizione
Ione R (mg/d) Q0 (mg) k (d-1) Q (mg) Q/Q0
(%)
Co 61,3 3,68 3 0,07 55,57 18,5
Cr 30 1,80 6 0,0011 1642 274,73
Mo 7 0,42 5 0,139 8 1,6
Fe 0,7 0,04 4000 0,0010 4040 1,01
Ni 1 0,06 10 0,0010 70 7
Totale 100 Totale 6
128
* r=0,015 mg/cm2d; A=400 cm2
Si può osservare come per certi ioni di metalli come ad esempio il Cr ed il Ni nel caso dell’acciaio, ed il
Co, il Cr ed il Ni nel caso della lega Co-Cr-Mo, la particolare combinazione di valori di R e di Q0 può portare a
rapporti Q/Q0 estremamente elevati e quindi a situazioni difficilmente sopportabili dall’organismo.
Quella generalizzata è un tipo di corrosione che avviene normalmente quando un metallo, privo di
specifiche protezioni, si trova a contatto con una soluzione elettrolitica. Le fluttuazioni locali e temporanee di
concentrazione degli elettroliti fanno si che alcune zone del metallo diventino anodiche rispetto ad altre (Fig.
4.10).
La posizione delle zone anodiche rispetto a quelle catodiche sulla superficie varia in continuazione con
la conseguenza che tutta la superficie del metallo viene interessata dal fenomeno (Fig. 4.11).
M 2e-
129
La corrosione generalizzata è di solito un tipo di corrosione di entità modesta perché modeste sono le
fluttuazioni di concentrazione degli elettroliti. La presenza di proteine, tuttavia, può aumentare la velocità del
fenomeno da 2 a 10 volte per effetto di adsorbimenti non uniformi che facilitano il crearsi di differenze nel
comportamento superficiale del metallo.
La corrosione per aerazione differenziale deriva da una diversa concentrazione dell’ossigeno a contatto
con la superficie del metallo. Si genera così una pila a concentrazione, formata da due semielementi a
ossigeno cortocircuitati dal metallo, per la quale vale la reazione:
O2(g) + 2 H2O + 4e ⇄ 4OH-
La zona a maggiore concentrazione di O2 si comporta da catodo, mentre quella dove la concentrazione di O2
è minore si comporta da anodo (Fig. 4.12).
O2
(conc. più bassa) O2
H2O (conc. più alta)
M2+
4e-
L’origine della diversa concentrazione di ossigeno sta nel diverso spessore che lo strato d’acqua
presenta fra la periferia e la zona centrale. A causa del maggior spessore nella zona centrale l’ossigeno, per
diffondere verso il metallo, impiega un tempo maggiore rispetto a quanto riesce a fare nella zona periferica.
Ciò si traduce, in definitiva, in una differente concentrazione di ossigeno nelle due zone.
Al catodo, cioè alla periferia della goccia, si avrà la riduzione dell’ossigeno:
130
O2(g) + 2 H2O + 4e 4OH-
All’anodo costituito dal metallo della zona interna della goccia, se il potenziale di riduzione del metallo è
minore di quello dell’ossigeno (+0,401 Volt, per il valore standard), come avviene ad esempio per il Cu, Ni,
Co, Fe, la reazione di ossidazione non sarà:
4OH- O2(g) + 2 H2O + 4e
ma quella di ossidazione del metallo:
M M2+ + 2e
Situazioni di aerazione differenziale si presentano frequentemente quando si hanno difetti negli strati
protettivi del metallo, oppure quando il metallo è solo parzialmente a contatto con l’elettrolita.
La corrosione galvanica, detta anche corrosione per contatto galvanico, avviene nel caso di contatto fra
due metalli con differenti potenziali elettrochimici: il metallo con potenziale (di riduzione) inferiore si corrode
ad una velocità tanto maggiore quanto più è grande la differenza fra i potenziali dei due metalli. Tale velocità
è, di solito, più alta di quella della corrosione generalizzata.
Il verificarsi della corrosione galvanica è stato messo in evidenza nel passato da varie esperienze di
fallimento di impianti: fra esse si può citare il caso di placche di alluminio con viti di ottone per il fissaggio
dell’omero.
L’impianto di protesi contenenti metalli diversi deve quindi essere effettuato con estrema attenzione. Il
fenomeno si può presentare anche a seguito di contaminazioni derivanti da processi tecnologici che
introducono nel materiale metallico delle impurezze superficiali di metalli diversi.
Se l’impurezza è costituita da un metallo più nobile (cioè da un metallo con un potenziale elettrochimico
di riduzione maggiore) del metallo in lavorazione (M), essa funziona da catodo (Fig. 4.13). La reazione
anodica del metallo avviene nelle zone limitrofe all’impurezza e se quest’ultima ha una estensione limitata, la
velocità complessiva di corrosione può essere modesta.
Figura 4.13 – Schema del meccanismo di corrosione galvanica: impurezza più nobile del metallo M.
Se l’impurezza è meno nobile del metallo M, funzionerà da anodo e sarà essa a corrodersi mentre il
metallo M agirà da catodo (Fig. 4.14, 4.15). Anche se la velocità del processo può essere inizialmente
modesta, la dissoluzione dell’impurezza crea una cavità che può fungere da innesco per altri tipi di
corrosione (vaiolatura).
131
O2 O2- M’2+ M’2+ H2 H+
2e- M’ 2e-
impurezza
Figura 4.14 – Schema del meccanismo di corrosione galvanica: impurezza M’ meno nobile del metallo M.
E’ dunque importante evitare il più possibile accoppiamenti fra metalli diversi sia nella realizzazione di un
impianto, sia durante i processi tecnologici per la sua produzione, sia nella sua manipolazione come oggetto
finito. Non è raro che lo stesso tipo di metallo presenti zone di “nobiltà” diversa a causa, ad esempio, di
lavorazioni che portano a stati di tensione per deformazioni plastiche.
La corrosione per vaiolatura è un tipo di corrosione localizzata a cavità (“pit”) di dimensioni molto piccole,
di solito fra 100 m e 2 mm. A seconda della forma, le cavità prendono il nome di ulcere, crateri, caverne,
punte di spillo, ecc.
La corrosione per vaiolatura si manifesta al verificarsi di tre condizioni:
1. materiale con comportamento attivo-passivo;
2. presenza di ioni specifici (ioni cloruro o altri alogenuri);
3. ambiente ossidante.
I cloruri (e gli alogenuri in genere) modificano la struttura dello strato di passivazione del metallo. Tali
alterazioni si manifestano a livello della curva caratteristica con due principali effetti (Fig. 4.16):
- la curva si sposta verso destra, cioè nel verso di valori maggiori di icorr;
132
- l’intervallo di passività si riduce facendo diminuire il valore del potenziale di transpassività, Et, fino ad
un valore, Er, detto potenziale di rottura.
Il valore di Er aumenta con il crescere del tenore di Cromo, Nikel e soprattutto di Molibdeno. Gli alogenuri
sono contrastati nella loro azione di abbassamento di Er anche da altri anioni quali solfati, nitrati, cromati e
ossidrili.
in assenza
di cloruri
Et in presenza
di cloruri
Ec
Er
Ea
log(i/ieq)
L’innesco del fenomeno della vaiolatura avviene dove lo strato passivante è debole o presenta dei difetti
(Fig. 4.17a). Qui si crea la zona anodica dove gli atomi del metallo iniziano ad ossidarsi, mentre l’area
circostante funziona da zona catodica.
La riduzione dell’ossigeno provoca una alcalinizzazione locale che preserva lo strato passivante da
ulteriore indebolimento; in tal modo la corrosione prosegue interessando gli atomi del metallo sempre più
all’interno di una cavità con apertura fissa (Fig. 4.17b). Da qui deriva la forma tipica che caratterizza la
vaiolatura.
Il processo anodico e quello catodico giungono ad interessare superfici con aree molto diverse fra loro: il
rapporto fra le due densità di corrente può raggiungere anche valori di 10 4-105.
Con il procedere del fenomeno, nella cavità si ha un aumento della concentrazione di ioni M 2+ e si
assiste al verificarsi di altri effetti:
- l’aumento della concentrazione di ioni M2+ richiama ioni Cl- presenti nel mezzo circostante;
- l’aumento della concentrazione di ioni M2+ induce la reazione di idrolisi:
M2+ + 2 H2O → M(OH)2 + 2 H+
che provoca una diminuzione del pH (aumento di acidità) e favorisce la dissoluzione del metallo;
- nella cavità si crea un ambiente caratterizzato da una composizione diversa da quella del mezzo
circostante; in particolare si hanno maggiori concentrazioni di H + e Cl- e assenza di O2, sia per la piccola
apertura della cavità, sia per la scarsa solubilità dell’ossigeno in soluzioni ioniche concentrate.
L’ossigeno pertanto si riduce solo sulla superficie esterna.
133
La pericolosità della vaiolatura è dovuta al fatto che, anche se la quantità di metallo che si corrode può
essere relativamente piccola, la profondità della cavità può essere notevole e giungere ad interessare anche
l’intero spessore del materiale. Nel caso di materiali sollecitati meccanicamente, le cavità possono costituire
l’innesco di cricche e portare rapidamente a rottura per fatica.
1/2O2+H+ H2O
M2+
2e-
Cl-
M2+
b
L’aspetto puntiforme di questo tipo di attacco corrosivo comporta che le cavità vengano facilmente
mascherate da depositi presenti sulla superficie metallica ed che il processo, quindi, possa sfuggire anche
ad un controllo accurato (Fig. 4.18).
La corrosione in fessura è un tipo di corrosione che inizia in una fessura fra due parti adiacenti di un
metallo con comportamento attivo-passivo. Un esempio tipico è l’interstizio fra vite e placca per il fissaggio
osseo. Le fessure che potenzialmente producono questo tipo di corrosione devono essere molto sottili,
tipicamente fra 25 e 100 m.
134
Il meccanismo inizia sulle pareti della fessura con attacco allo strato passivante debole o danneggiato
per sfregamento. Si ha un iniziale consumo di ossigeno nella fessura per cui la reazione catodica si sposta
velocemente verso la superficie esterna, mentre quella anodica continua all’interno (Fig. 4.19, 4.20). In
maniera analoga a quanto visto per la corrosione per vaiolatura, all’interno della fessura si crea una zona
povera di ossigeno, ricca di ioni M2+ e di anioni Cl- (richiamati per elettroneutralità) e si ha ancora la reazione
di idrolisi:
1/2O2+2H+ → H2O
2e 2e
- -
2
M
+
M2+
In un materiale metallico chimicamente omogeneo l’effetto dei bordi di grano sul comportamento alla
corrosione è di solito trascurabile. Tuttavia, in presenza di disuniformità chimiche derivanti da trattamenti
termici, meccanici, ecc., le zone vicine al bordo del grano possono diventare più attaccabili del resto. Un
esempio è costituito dall’acciaio inox che deve la sua resistenza alla corrosione ad un tenore di Cromo
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superiore al 12%. Se in seguito a trattamenti termici si ha la precipitazione di carburi di Cromo ai bordi del
grano, le zone immediatamente adiacenti si impoveriscono di Cr. Se il tenore di Cromo scende localmente
sotto il 12% tali zone non sono più in grado di passivarsi e si innesca la corrosione intergranulare (Fig. 4.21,
4.22).
grano
grano
Anche se la perdita di materiale può essere limitata, la diminuzione delle proprietà meccaniche può
essere invece rilevante a causa dello scollamento fra i grani. Processi come le saldature rappresentano
tipiche procedure capaci di causare questo tipo di corrosione.
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Non è un tipo di corrosione propriamente detto, ma è legato ad un meccanismo di rimozione o
distruzione continua dello strato passivante che il metallo tende a formare sulla propria superficie.
Nell’erosione si ha la presenza di un fluido che rimuove gli ioni man mano che si formano; nello sfregamento
(Fig. 4.23) lo stesso effetto si produce dallo sfregamento fra due superfici soggette a carico di compressione
con presenza di micromovimenti locali.
Figura 4.23 - Esempio di corrosione per sfregamento a carico della testa di una vite.
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