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INTRODUZIONE

Fin dai tempi più remoti l’uomo ha sempre ricercato sostanze in grado di rendere,
attraverso la loro assunzione, la vita bella e possibilmente eterna, ma che non
provocassero danni fisici e psichici, nè la schiavitù di un uso continuativo.

Pertanto, le motivazioni alla ricerca e all’impiego di tali sostanze sono state nei
secoli: i loro potenziali effetti curativi, nonchè quelli di esercitare effetti positivi
su psiche e corpo sani per migliorarne ulteriormente le prestazioni; di fruire di una
visione diversa della realtà; di indurre stati di piacere e di euforia e di inibire
sensazioni spiacevoli, quali tensione e dolore; di indurre sonno; di aiutare a
esplorare la mente e a conoscere la divinità; di potenziare e trascendere le funzioni
percettive e la conoscenza del reale e dell’irreale e moltissime altre. In altre
parole, l’uso delle droghe era ed è un mezzo per superare i limiti relativi alla
condizione umana.

Tuttavia, l’uomo si è rapportato nei confronti delle droghe in modo diverso a


seconda del paese e dell’epoca.

Nelle civiltà primordiali e fino al XIX secolo, l’uso delle droghe era circoscritto
ad un cerchia ristretta di persone. Esso era, infatti, gestito dal potere con proprie
modalità, e per propri fini mistici, religiosi, terapeutici, bellici, politici, e perfino
come strumento di delitto o di genocidio. La persona, che le usava al di fuori di
tali modalità e fini, era considerato”strega” o “mago”, veniva allontanato dalla
comunità e talora condannato a morte.

Nell’Ottocento, al contrario, l’uso libero di droghe si diffuse in tutto il mondo


occidentale, soprattutto negli ambienti artistici e alla moda.

Poi, nel XX secolo gli Stati Occidentali le proibirono dichiarandole illecite


confinandole nella clandestinità.

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Intorno al 1960, l’uso delle droghe si diffuse tra i giovani che contestavano i
valori fondamentali della cultura dominante e diedero vita ad una nuova e
particolare controcultura.

Dagli anni ’90 in poi, l’uso di droghe è diventato globale: le antiche suddivisioni
di razza, di paese di origine, di cultura, di ambiente non esistono più. Il consumo
di sostanze stupefacenti, non sembra piu connotato culturalmente e/o associato a
forme di contestazione delle ideologie dominanti, ma legato a mode che hanno
come destinatari fasce sempre più giovani della popolazione

Il consumo di droghe a partire dalla metà del XX secolo, è stato, inoltre,


avversato o sostenuto da gruppi diversi di persone che avevano e hanno interessi
diametralmente opposti.

I primi sono contrari all’uso di sostanze stupefacenti per motivi etici. per gli
enormi costi sociali e sanitari; i secondi. al contrario, ne esaltano solo gli effetti
positivi e invocano il libero arbitrio.

Per quanto riguarda l’ecstasy, uno dei sostenitori più convinti della
liberalizzazione del suo uso è sicuramente la psicoterapeuta Ann Schulgin, moglie
del biochimico Alexander Schulgin che risintetizzò la MDMA. La signora
Schulgin sostiene che l’ecstasy è una penicillina per l’anima perché attraverso
l'abbassamento delle difese e il miglioramento della relazione tra paziente e
terapeuta è in grado di risolvere numerosi problemi psicologici e esistenziali
dell'uomo (R. Metzner,1992).

Lo scopo di questo lavoro è quello di verificare, attraverso l’analisi degli effetti


prodotti da questa sostanza, l’attendibilità dell’affermazione della dottoressa
Schulgin.

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CAPITOLO I
 
ALCUNE TEORIE SULLA TOSSICODIPENDENZA

 
 
La tossicodipendenza è una condizione caratterizzata dall’interazione di fenomeni
estremamente diversi e complessi e lo sforzo di ricondurla all’interno di un
modello eziologico unico è riduttivo e fuorviante.
Le teorie esistenti sull’abuso e sulla dipendenza dalle droghe sono molte e frutto
di prospettive diverse. Tuttavia, esse possono essere ricondotte a due grandi
paradigmi teorici: quello medico e quello adattivo che comprende diverse teorie
sviluppate in differenti ambiti disciplinari.
Il paradigma medico interpreta l’addiction come il risultato di una predisposizione
individuale che può avere una base biologica e/o psicologica che si manifesta
seguito all’esposizione alla droga. In quest’ottica, la tossicodipendenza è una
malattia cronica e recidivante.
Le teorie più importanti che fanno parte del paradigma medico sono due: la prima
è focalizzata sulla "predisposizione individuale", mentre la seconda è centrata
sull’"esposizione" alle droghe.
 
 
 
Le teorie sulla “predisposizione” individuale alla dipendenza
 
Le teorie sulla “predisposizione “ individuale alla dipendenza sostengono che
essa sia il risultato di un’ alterazione genetica; di un deficit psicologico che risale

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all’infanzia; di entrambi questi fattori o di specifici tratti di personalità. L’idea di
fondo è che se una persona “predisposta”, viene a contatto con la droga o ha avuto
esperienze di disagio, sarà più verosimilmente coinvolta nel consumo e avrà
maggiori probabilità di diventare dipendente.
Questa modalità di interpretazione della dipendenza è condivisa da
Goldstein(1991, 1997) che ipotizza nel soggetto dedito all’uso di eroina
l’esistenza di anomalie neurochimiche cerebrali, a loro volta geneticamente
determinate, che sarebbero antecedenti alla prima assunzione della sostanza e che
renderebbero il potenziale tossicodipendente estremamente vulnerabile.
Secondo la teoria degli impulsi, la tossicomania è il frutto appunto di impulsi che
si attivano per tutelare il benessere biologico e psicologico dell’individuo. Gli
impulsi si manifestano attraverso sentimenti di urgenza e di compulsività e hanno
un andamento ciclico: l’assunzione è seguita da stati di appagamento, ma quando
questa sensazione diminuisce o scompare si ripresenta il bisogno compulsivo di
assumere la sostanza.
Gli impulsi sono ritenuti la causa dell’addiction perché:
- la droga può alterare il modo in cui un impulso “naturale” agisce tanto da
adattarlo gradualmente all’assenza dell’agente additivo. Tale adattamento può
verificarsi in rapporto sia all’uso che all’ astinenza dalla droga. Ad esempio,
la mancanza di nicotina, in alcuni fumatori, fa aumentare l’appetito quindi il
bisogno compulsivo di fumare può dipendere da un disturbo nel meccanismo
della fame o un “drive mechanism” più generale. L’aumento del bisogno
compulsivo è funzione diretta della tolleranza che è acquisita in relazione
all’uso cronico di una droga;
- la droga produce un nuovo impulso che di per sé non ha alcun legame con gli
impulsi preesistenti. La semplice ripetizione di un comportamento crea un’
abitudine per cui gli sforzi per astenersi da esso si uniscano a quelli per
iniziarlo(R.West, “The psychological basis of addiction” in “International
Review of Psychiatry” 1989, pp. 71-72).

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 Eysenck (1965) propone una spiegazione del fumo del tabacco in relazione
dell’attivazione corticale, alle differenze individuali ed alle caratteristiche
farmacologiche della nicotina. Egli sostiene che le motivazioni che spingono a
fumare siano tante e che dipendano soprattutto dal tipo di personalità
dell’individuo. Gli estroversi, caratterizzati da un livello di attivazione corticale
minore rispetto agli introversi, ricercano stimolazioni in grado di incrementarlo.
Gli introversi, invece, per abbassare il loro livello di attivazione corticale fumano
per sentirsi più tranquilli quando devono affrontare situazioni stressanti.
Similmente, individui ansiosi ed emozionalmente instabili solitamente rispondono
alle situazioni stressanti con reazioni emozionali più intense rispetto ad individui
emozionalmente stabili, e fumano di più in situazioni stressanti.
Studi più recenti hanno cercato di individuare le caratteristiche della “personalità
predisposta” all’abuso e alla dipendenza. Secondo Ausubel(1980), essa è quella
che per esprimersi e adattarsi alle richieste del mondo esterno ha bisogno del
sostegno della droga.
Greaves (1980) sostiene, invece, che coloro che utilizzano le droghe sono
individui disforici che cercano di sperimentare stati di euforia e di alterazione
della coscienza che non sono in grado di provare attraverso attività ludiche e
sessuali.
 

 Le teorie centrate sulla”esposizione”alla droga


 
Queste teorie attribuiscono un’importanza fondamentale alle proprietà
farmacologiche fondamentali delle droghe e interpretano l’addiction come un
effetto specifico dell’uso; le caratteristiche farmacologiche e/o gli effetti della
sostanza inducono delle modificazioni fisiologiche oppure dei processi di
condizionamento spingono a continuare il consumo e a aumentare le assunzioni.
Secondo quest’approccio con l’uso continuativo di una droga l’organismo, non

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solo si abitua alla presenza di un agente additivo, ma sperimenta uno stato di
disagio in relazione alla sua assenza.
Le teorie del rinforzo ritengono che l' addiction sia causata dagli effetti di processi
di condizionamento attivati dall’uso di sostanze. In questa prospettiva, tutti i
comportamenti sono frutto di processi d’apprendimento e possono essere studiati
in relazione a specifici stimoli che incidono sull’organismo e alle risposte
dell’organismo stesso. Anche l’abuso di sostanze è un comportamento appreso
attraverso l’associazione che viene a stabilirsi fra la droga assunta e specifici
effetti da essa provocati. Pertanto, gli effetti indotti dalla droga si associano a
diversi possibili elementi rinforzanti come, ad esempio, alcuni stati corporei:
sentimenti, percezioni, atteggiamenti, comportamenti dell’assuntore, nonché alle
reazioni del suo ambiente di vita. Gli effetti positivi sperimentati rinforzano il
consumo e quanto più un individuo ottiene gli effetti desiderati, tanto più è
probabile che egli continui ad usare una data droga; inoltre, quanto più le
assunzioni sono frequenti, tanto maggiore è il rinforzo che ne deriva.
Altre teorie interpretano la tossicodipendenza come la risultante di rinforzi
negativi: le droghe sono assunte perché sono in grado di prevenire e/o
neutralizzare i sintomi negativi dell’astinenza. Secondo la teoria generale
dell’addiction elaborata da Lindesmith (1980) esiste dipendenza solo quando i
sintomi dell’astinenza sono interpretati e attribuiti dall’assuntore alla mancanza di
droga. Numerosi esperimenti sono stati effettuati per sostenere quest’ipotesi. In
uno di questi, Nichols (1965) indusse uno stato di dipendenza fisica in un gruppo
di ratti iniettando loro della morfina. Successivamente, li divise in due gruppi:
sperimentale e di controllo e interruppe la somministrazione della droga a tutti
fino alla comparsa dei sintomi dell’astinenza. Per alleviarli, al gruppo di controllo
iniettò morfina mentre costrinse il gruppo sperimentale a bere morfina mista ad
acqua. La quantità di morfina era la stessa, ma il gruppo di controllo la riceveva
passivamente mentre quello sperimentale la ricercava attivamente. Quindi sospese
nuovamente la somministrazione per far ricomparire i sintomi dell’astinenza.
Questa volta per attenuarli diede ai due gruppi la possibilità di bere o una

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soluzione d’acqua e morfina o solo acqua I ratti del gruppo sperimentale scelsero
la soluzione di acqua e morfina, quelli del gruppo di controllo scelsero l’acqua.
Mc Auliffe e Gordon (1980), due degli autori della “ teoria del rinforzo e degli
effetti combinati”, sostengono che non esiste un punto preciso in cui inizia la
dipendenza: l’addiction è un processo subdolo che cambia continuamente. I due
studiosi distinguono il concetto di dipendenza fisica da quello di addiction e
sostengono che la prima non determina necessariamente la seconda. Un qualche
grado di addiction è già presente quando il consumatore usa regolarmente la droga
prima ancora che si manifestino episodi di dipendenza fisica. L’addiction, secondo
Mc Auliffe e Gordon, è determinata soprattutto dagli effetti rinforzanti della
droga, dal sostegno dato dagli altri consumatori, ma anche dal rinforzo negativo
che deriva dall’evitare attivamente gli effetti dell’astinenza. L’uso di queste
sostanze rappresenta una risposta condizionata che tende a diventare più forte in
relazione alla qualità, al numero e al tipo di rinforzi che la seguono. In
quest'ottica, quindi, l’adddiction inizia a svilupparsi già dopo la prima assunzione
di droga (oppiacei soprattutto), quando tale risposta diventa abbastanza forte, il
consumatore inizia a percepire il desiderio sempre più compulsivo di continuare
ad usare la droga.
La teoria dei processi contrastanti messa a punto da Solomon (1980) afferma che
la dipendenza da una droga deriva dal modo in cui certe reazioni emotive sono
condizionate da particolari stimoli o situazioni. Secondo questa prospettiva,
esistono degli stimoli, come per esempio le droghe, in grado di produrre una
reazione immediata non appresa di benessere o di malessere. Uno stimolo in grado
di indurre questo effetto è definito da Solomon “stimolo non condizionato”. Tale
risposta emotiva è il “il processo A” ed è seguita, dopo breve tempo, dal “
processo B”. L’autore afferma che si attiva un processo omeostatico in cui le
sensazioni di piacere sono seguite da altre di dolore che, a loro volta sono seguite
da altre di benessere e così via. Nelle prime fasi dell’assunzione di droghe sono
presenti soprattutto “processi di tipo A” mentre in quelle successive prevalgono
“processi di tipo B”, lo stato B agisce come rinforzo negativo. Gli stati A e B

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possono diventare “risposte condizionate” in presenza di certi stimoli ambientali a
cui si associano: il fatto di incontrare un altro tossicodipendente, di vedere una
siringa, o di trovarsi in un luogo in cui è stata assunta la droga possono indurre
sia uno stato di sollievo anticipato in relazione al desiderio di assumere la droga,
sia di provare nuovamente le sensazioni da essa prodotte.

 
Il paradigma adattivo

Questo paradigma, non interpreta l’abuso di droga come una sorta di malattia o di
patologia, ma come il tentativo di fronteggiare attraverso l’uso di sostanze stati di
disagio, situazioni particolarmente impegnative ed eventi stressanti. Questa
prospettiva comprende diversi orientamenti: teorie cognitive, teorie
psicoanalitiche e psicodinamiche, la teoria dello stress e quella del ciclo della vita
e la teoria dell’apprendimento sociale.
L’idea centrale dell’approccio cognitivista è che i processi di consumo e gli effetti
percepiti dalle diverse sostanze sono significativamente influenzati da fattori
cognitivo-motivazionali come gli atteggiamenti, le aspettative e le credenze.
Distorsioni ed errori cognitivi, attese irrealistiche relativamente a se stessi e agli
altri, razionalizzare o minimizzare il significato, la portata di determinati eventi o
altri fattori possono contribuire ad aumentare il coinvolgimento nel consumo di
droghe. Ad esempio, considerarsi dipendente può aiutare a ridimensionare i
sentimenti di insuccesso e di responsabilità personale sperimentati dall’assuntore
di droga quando si rende conto di non riuscire a smettere.
E’ possibile, anche, che un individuo decida di provare una droga perché si
considera meno a rischio e più immune da eventuali conseguenze negative rispetto
alle altre persone; perché sopravvaluta le sue capacità pensando di poter
facilmente controllare la propria abitudine o perché sovrastima l’entità della
diffusione di fenomeni di consumo.

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Le teorie psicoanalitiche fino agli anni ’60 hanno interpretato l’addiction come il
risultato di un disturbo della personalità caratterizzato da fissazione orale,
narcisismo, disturbi maniaco-depressivi e istinti distruttivi.
Freud (1905) dedicò al problema della tossicodipendenza solo alcune osservazioni
sottolineando le componenti regressive che caratterizzano chi usa la droga. Egli
afferma che essi sono vittime di una fissazione orale che li rende incapaci di
staccarsi da un oggetto d’amore che li nutre e attenua il dolore per la mancata
soddisfazione dei bisogni primari. Tale fissazione, secondo Freud, intensifica la
sensibilità della zona erogena labiale che, se continua nel tempo, determina in età
adulta la propensione a bere a fumare.
Adler (1912/1933), inizialmente, mise in evidenza che le persone che sono affette
da inferiorità d’organo tendono a compensare tale inferiorità.
Il sentimento di inferiorità è, per Adler, fisiologico nel bambino; si trasforma in
complesso nell’adulto se le condizioni ambientali non consentono di superarlo.
L’individuo tende costantemente verso l’alto, spostandosi dalla posizione vissuta
come inferiore verso la meta di superiorità: è questa la "volontà di potenza" e
fornisce la spiegazione del motivo per cui l’individuo tende a reagire alla
propria inferiorità spostandosi verso l’alto e usando artifici nevrotici nel suo
cammino.
Tuttavia, se il rapporto con le figure dei genitori soprattutto con la madre è stato
viziante nel senso che il bambino ha sempre ottenuto quello che desiderava e non
si è mai attivato per conseguire degli obiettivi, il bisogno di mantenere vie
facilitate e superare il sentimento di inferiorità può indurrlo alla dipendenza da
sostanze nelle sue varie forme.
Adler evidenzia quattro “falsi scopi” che un bambino può perseguire nel tentativo
di inserirsi e dove trovare, mediante un comportamento o piacevole o esasperato
una propria collocazione e precisamente:
- attenzione indebita:
- lotta per il potere;
- retribuzione e vendetta;

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- totale inadeguatezza.
Drogarsi, sempre secondo Adler, è una finzione perchè fornisce al soggetto una
percezione ingannevole del mondo che equivale ad uno stato sognante, a una fuga
dalla realtà.
Inoltre, si tratta di uno stato momentaneo che dura il tempo dell’effetto della
sostanza e che scompare nel momento in cui questo effetto finisce, lasciando il
posto , soprattutto nel caso di alcune sostanze, a sequele negative come malessere
e depressione.
Questa alternanza di stati emotivi trasmette un messaggio preciso e mantiene lo
stato di finzione perchè il soggetto che fa uso di sostanze è consapevole del fatto
che quelle sostanze agiscono su di lui e che le sensazioni percepite sono indotte da
esse.
In quest’ottica, anche le sensazioni di benessere nella relazione interpersonale
che possono essere ottenute sotto l’effetto della marijuana e delle altre sostanze
cosiddette “empatogene” : non consentono al soggetto di risolvere i problemi che
lo affliggono ma, al contrario lo spingono a continuare l’uso per sperimentare
quella sensazione di benessere effimero indotto dalla sostanza (Sanfilippo B.,
Fulcheri G. , Anglesio A. , “La Prospettiva Adleriana” in Psicoterapie delle
Tossicodipendenze”, Franco Angeli, Milano, 2000, P. 66)
Rado(1926) condivide la posizione espressa da Freud e definisce la tossicomania
come una strategia contro la sofferenza e una sorta di “orgasmo alimentare”.
L’addiction, secondo Rado, è presente in individui che reagiscono alle frustrazioni
con un alto grado di angoscia e sono intolleranti al dolore.
Nel 1965, Rosenfeld affermava che il tossicomane usa meccanismi di
idealizzazione, negazione, scissione e proiezione e fa ricorso alla droga perché gli
consente di difendersi dall’angoscia e di sperimentare fantasie di gratificazione
allucinatoria.
La teoria “life theme”(1980) elaborata da Sports e Shontz legge l’abuso cronico
di droga sia come un tentativo di compensare carenze dell’Io prodottesi in fasi
precedenti dello sviluppo che di sperimentare stati interiori particolari. Secondo i

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due autori, un individuo è dipendente quando la droga diventa per lui l’unico
oggetto di attaccamento e il simbolo dell’Io ideale .
Gli studi più recenti ad orientamento psicodinamico spiegano la dipendenza da
sostanze, non in termini di controllo delle pulsioni e di istinti distruttivi, ma in
rapporto alle relazioni oggettuali e alle identificazioni che caratterizzano i processi
di costruzione dell’identità.
Oliverstein(1981) ritiene che l’assunzione di droghe sia strettamente legata alla
relazione madre-bambino. Secondo quest’autore chi diventa tossicodipendente
durante l’adolescenza non ha superato una fase di sviluppo da lui definita “fase
dello specchio”. Durante tale periodo, trai sei e i diciotto mesi, il bambino scopre
di essere un individuo separato dalla madre e cerca di liberarsi dallo stato di
simbiosi con lei. Se la madre attraverso lo sguardo, lo specchio, è in grado di
comunicare al bambino un senso di riconoscimento della sua esistenza separata e
autonoma la fase potrà essere superata, se invece la madre esprime una richiesta
capovolta di riconoscimento, l’individualità del bambino non potrà svilupparsi e
la sua crescita sarà basata sulle proiezioni della madre. Oliverstein sostiene che il
futuro tossicodipendente è rimasto intrappolato tra lo stadio dello specchio
"riuscito" e lo stadio dello specchio "impossibile": egli percepisce la possibilità di
una futura autonomia, ma allo stesso tempo intravede nello specchio un’immagine
frammentata di sé che lo fa sentire indifferenziato e fuso con la madre. Questo
meccanismo di funzionamento psichico non gli permette di trovare e strutturare le
difese contro l’angoscia e solo gli effetti della droga lo fanno sentire individuato e
autonomo.
Anche Kohut (1984) ritiene che l’addiction sia riconducibile alla rapporto madre-
bambino. Egli, infatti, afferma che se tale relazione è stata molto frustrante può
causare un grave disturbo di identità e il bisogno compulsivo di usare sostanze
psicotrope. L’Io del bambino, indebolito dal tentativo di mantenere inalterata la
primitiva immagine idealizzata della madre, non è in grado di tollerare le
frustrazioni, né la condizione di dipendenza da un genitore vissuto come
onnipotente ma non in grado di alleviare la sua sofferenza. Il soggetto, ad un certo

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punto della sua vita, scopre che i suoi sentimenti di inadeguatezza possono essere
fronteggiati ricorrendo ad un oggetto esterno, ritenuto controllabile: la droga.
Kenberg, a sua volta, sostiene che la tossicodipendenza sia legata a problemi
verificatesi durante la fase di “separazione – individuazione” descritta dalla
Mahler.
Infine, L. Zoja ritiene che la tossicodipendenza sia: “ un tentativo di “iniziazione”
carente già nella premessa per la mancanza di consapevolezza. Le tappe del
processo si potrebbero riassumere così: 1) situazione di partenza da trascendere
perché insignificante [...] 2) morte iniziatica con accettazione di una fase di
chiusura al mondo […] 3) rinascita iniziatica favorita psicologicamente dalla
condivisione dell’esperienza con altri [….] . Il tossicodipendente della nostra
società fallisce nel processo complessivo, non tanto per le modalità con cui
consuma la droga, quanto perché salta interamente la seconda fase. In questo
modo, mostra di essere già in partenza intossicato, non da una sostanza, ma dal
non ammettere rinunce, depressioni, spazi psichici vuoti. Egli non dispone
insomma dello spazio interiore che, insieme ai rituali esterni, deve fungere da
contenitore per l’esperienza di rinnovamento”. (L. Zoja, “Nascere non basta.
Iniziazione e tossicodipendenza”, Cortina, Milano, 1985, pp. 7-8)
 
 
Gli studi sulle famiglie
 
Questi studi attribuiscono un ruolo più importante ai fattori relazionali e
contestuali più che a quelli intrapsichici. L’osservazione delle famiglie di
tossicodipendenti effettuata nella seconda metà degli anni ’70 da un gruppo di
terapeuti americani ha mostrato che il tossicodipendente non è dipendente solo
dalla droga, ma è dipendente dal nucleo familiare in misura maggiore a quella dei
soggetti di controllo. E’ stato anche riscontrato che la struttura della sua famiglia
è molto peculiare: il padre è di solito, una figura assente ed emotivamente distante
mentre la madre è particolarmente coinvolta, indulgente, spesso simbiotica; in

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molti casi l’asse figlio-madre-nonna ostacola la funzione genitoriale. Secondo
questi terapeuti, la tossicodipendenza è un sintomo dello squilibrio del sistema
familiare ed è funzionale alla stabilità del sottosistema coniugale. La
tossicodipendenza svolge, infatti, un ruolo omeostatico distogliendo l’attenzione
dei coniugi dai propri conflitti, consentendo loro di ritrovare la solidarietà
necessaria per affrontare i problemi posti dal figlio. Quest’ultimo, d’altra parte,
ricerca attraverso la tossicodipendenza quello “stato di malattia” che gli consente
di porsi al centro delle attenzioni della famiglia. Shanton(1970) afferma che la
dipendenza tra il fra il tossicodipendente e i suoi genitori continua nel tempo
perché si instaura un meccanismo di “pseudoindividuazione “. Da un lato il figlio,
attraverso l’uso di droghe e altri atteggiamenti trasgressivi, vorrebbe staccarsi ed
emanciparsi dai genitori, ma l’instaurarsi della dipendenza dalla droga lo rende
sempre più asservito alla famiglia che lo mantiene e cerca di trovare una soluzione
per disintossicarlo. Dall’altro lato, la famiglia del tossicodipendente appare
incapace di far fronte all’angoscia di separazione.
Secondo Eiguer(1989) le famiglie dei tossicodipendenti, come quelle dei
delinquenti e delle anoressiche, sono caratterizzate da comportamenti perversi
perché i legami e le relazioni tra i membri non sono fondati su un solido e
reciproco investimento emotivo, ma sembrano essere basate su sentimenti
ingannevoli, su un clima di sensazioni forti e d’eccitazioni. Eiguer sostiene,
inoltre, che nelle famiglie dei tossicodipendenti manca quel Sé familiare, fatto di
miti e di rappresentazioni condivise dai diversi membri che fa riferimento alle
generazioni precedenti. La maggior parte di queste famiglie, inoltre, ritiene che
gli stati di disagio debbano essere immediatamente alleviati ricorrendo ai farmaci.
Nella prospettiva di Cirillo e colleghi (1996) la tossicodipendenza non è il
risultato di un semplice eccesso di accudimento materno e di una figura paterna
distante e marginale, ma è il risultato di una trasmissione di esperienze
traumatiche e carenti mai adeguatamente elaborate dai soggetti coinvolti. Ciò che
caratterizza la famiglia dei tossicodipendenti sono le esperienze intense e durevoli
di sofferenza che esistevano già prima della tossicodipendenza.

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Cancrini(1993), utilizzando una prospettiva clinico-psichiatrica basata sullo studio
dei sintomi e dei comportamenti osservabili, afferma che l’abuso di farmaci è un
tentativo individuale di fronteggiare livelli di sofferenza percepiti come
intollerabili. Secondo il suo punto di vista, esistono quattro tipologie
tossicomaniche che esprimono situazioni diverse accomunate dal tipo di rimedio
scelto per affrontarle:

Tipo A: Tossicomanie traumatiche.


Spesso il tossicodipendente di questo tipo è il figlio o la figlia “modello”,
esemplare, che non parla dei propri problemi perché impegnato nel risolvere
quelli degli altri membri della famiglia. Il sintomo si manifesta in corrispondenza
di un grave trauma (lutto, malattia, separazione, delusione, ecc.). Se questi
individui, non trovano un punto di riferimento per la verbalizzazione
dell’esperienza nella delicata fase di elaborazione del trauma possono crollare e
diventare tossicodipendenti. Dal punto di vista clinico, la tossicodipendenza
sconvolge rapidamente il normale stile di vita, l’abitudine è distruttiva, teatrale,
con dosaggi rapidamente elevati e rischio di overdose. Il paziente può usare i
sintomi d’astinenza, i danni fisici, la disapprovazione sociale, per coprire il
sentimento di colpa provocato dal trauma.
 
Tipo B: Tossicomanie da nevrosi attuale
In questa tipologia il comportamento tossicomanico è “utilizzato” all’interno di
una situazione conflittuale nella famiglia. Dal punto di vista della struttura
familiare si nota un forte coinvolgimento del genitore del sesso opposto e un
ruolo marginale dell’altro genitore. Le relazioni familiari si strutturano sottoforma
di “triangolo perverso” in cui i confini tra i sottosistemi genitori-figli non sono
definiti. Il tossicodipendente cattivo è spesso contrapposto ad un altro figlio
“buono”.
 

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Tipo C: tossicomanie di transizione
 
Il contesto familiare è spesso analogo a quello del paziente designato anoressico,
il tentativo di non definire le relazioni è sostenuto da frequenti messagggi
paradossali o incongrui, si fa, spesso, ricorso alla mistificazione sia nelle relazioni
interne alla famiglia che in quelle esterne e alla disconferma dei messaggi altrui.
Entrambi i genitori, molto coinvolti nella tossicodipendenza del figlio, si trovano
spesso in uno “stallo “ di coppia; ci sono, inoltre, polarizzazioni tra i fratelli, del
tipo fratello “riuscito”, fratello “fallito”. Dal punto di vista clinico, la tossicomania
di tipo C corrisponde ad un’organizzazione di personalità di transizione poiché
caratterizzata dalla presenza contemporanea e alternativa di meccanismi nevrotici
e psicotici. La droga viene assunta per stordirsi, per attenuare temporaneamente lo
stato di disagio e per sperimentare una condizione di libertà interiore e di
benessere simile a quello provato dal soggetto quando il rapporto con la madre lo
liberava da angoscia persecutoria e depressiva.

Tipo D: tossicomanie sociopatiche


 
Le famiglie in cui si sviluppa questo tipo di tossicodipendenza, sono spesso
economicamente e culturalmente deprivate. Sono famiglie “disimpegnate”
caratterizzate da un alto livello di disorganizzazione in cui ogni componente
sembra vivere per conto proprio, da inconsistenza e inadeguatezza delle funzioni
genitoriali, da assenza di confini tra i sottosistemi familiari e da reazioni rigide e
lente in relazione alla sofferenza espressa dai suoi membri. Segnali di
“disintegrazione” si manifestano inizialmente nel contesto scolastico e
successivamente con comportamenti antisociali. La tossicodipendenza si inserisce,
quindi, all’interno della devianza. Dal punto di vista clinico, il comportamento
violento è presente prima dell’inizio della tossicodipendenza. L’assimilazione del
ruolo sociale di tossicodipendente è rapida e il comportamento è quello
provocatorio di chi si definisce come incapace di chiedere e ricevere affetto e vede

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gli altri come ostili. Il tossicodipendente parla della dipendenza in modo
distaccato e afferma di usare la sostanza come anestetico.
 Dalle teorie sopra accennate emerge che nella famiglia dei tossicodipendenti, di
solito, il padre è “distante” e ha un ruolo marginale rispetto alla madre, oppure
assolve le funzioni ed il ruolo di questa . Ad ogni modo, in queste famiglie sembra
che manchi un soggetto in grado di orientare il futuro tossicodipendente a vivere
al di fuori della famiglia. Infatti, nel momento in cui l’adolescente dovrebbe
procedere verso una progressiva individuazione ed al parallelo distacco dalla
famiglia si trova invischiato nella relazione con la madre che può disapprovare i
suoi tentati di individuazione.
Sembra che le madri dei tossicodipendenti, a loro volta, non abbiano mai risolto
un storia di dipendenza infantile nei confronti della propria madre e questo
impedirebbe loro di ritrovare nel proprio passato bisogni e vissuti analoghi a
quelli del figlio (Berrini, Cambiaso, 1992). In questo contesto, un padre ”assente”.
marginale, deludente non è in grado di spezzare il rapporto accuditivo-simbiotico
che si è venuto a creare tra madre e figlio, nè di contenere l’angoscia di
separazione di entrambi e di rafforzare contemporaneamente il vincolo di coppia.
Il padre , infatti, è emarginato anche in quanto marito poichè è il figlio che
soddisfa i bisogni relazionali e narcisistici della madre.
Anche quando il padre sembra autorevole, si tratta di un tipo di autorevolezza
rigida, dogmatica, moralistica, perfezionistica, caricaturale, fondata
sull’esasperazione e la santificazione del lavoro (Gerra, 1994), Queste
caratteristiche vengono sistematicamente demolite dalla moglie privandole di
qualsiasi valore per la strutturazione del sè del figlio. Secondo Ferreira (1978) tali
modalità di disconferma del padre da parte della madre sembrano caratterizzare in
modo particolare le famiglie dei tossicodipendenti con Disturbo Antisociale di
Personalità. Sempre, secondo Ferreira, si potrebbe parlare di un vero e proprio
“doppio legame scisso” in cui le incongruenze della comunicazione, invece, di
essere riunite in una sola persona sono divise fra i due genitori, creando una
conseguente confusione ed un comportamento disordinato nel figlio.

16
Sembra che, frequentemente, questi padri con caratteristiche di autorevolezza
caricaturale abbiano alle spalle un passato di abbandono, di precoce iper-
responsabilizzazione con scarsi o nulli rapporti con la famiglia di origine, spesso
emigrati in giovane età in cerca di migliori condizioni di vita, frequentemente
allevati da genitori rigidi e incapaci di dare affetto. Secondo, Berrini e
Cambiaso/1992),questi vissuti paterni non permettono al figlio di individuarsi e di
separarsi.

Le teorie sociologiche

Secondo la maggior parte delle teorie sociologiche la tossicodipendenza è un


tentativo di risposta individualistica e anestetizzante adottata dai singoli contro gli
aspetti più disumani e insopportabili della vita che sono costretti a vivere.
 
La “strain theory”
La “strain theory”, elaborata da Merton nel 1949, sostiene che la devianza sia
dovuta alla tensione a cui è sottoposto il comportamento individuale quando le
norme accettate dal soggetto entrano in conflitto con la realtà sociale. Nella
società industrializzata i valori generalmente accettati enfatizzano il “farsi strada”,
il “fare soldi”, il successo materiale. Si suppone che il raggiungimento di tali
obiettivi avvenga attraverso l’autodisciplina e il duro lavoro. In realtà non è quello
che succede perché la maggior parte di coloro che partono svantaggiati ha poche
possibilità di affermarsi. Questi ultimi tentano, con tutti i mezzi legittimi e
illegittimi di “farsi strada” . Secondo Merton, la diffusione della devianza sociale
dipende dal grado di accessibilità dei suoi membri ai mezzi legittimi, per
raggiungere certi scopi e dal grado in cui tali scopi sono valorizzati dai diversi
gruppi sociali. In accordo con questo modello, l’uso di droghe è una modalità di
adattamento rinunciataria e deviante. In altre parole, i consumatori di sostanze,
pur condividendo le mete proposte dalla società non sono in grado di perseguirle

17
né con mezzi leciti che illeciti. L’esperienza di insuccesso sperimentata spinge
questi soggetti ad abbandonare a rinunciare all’idea di impegnarsi e a decidere di
risolvere il conflitto attraverso l’uso di droghe che permettono loro di evadere e di
partecipare ad una sottocultura dove possono acquisire status e approvazione

 La teoria dello “stress-coping"


La teoria “stress-coping” (Lazarus, 1966) afferma che il soggetto si sente
psicologicamente stressato ogni volta che si rende conto che c’è uno squilibrio fra
le richieste provenienti dal suo ambiente di vita e le risorse, spesso insufficienti, di
cui dispone per dare loro una risposta adeguata. Il far fronte ad un evento o ad una
situazione stressante è un processo complesso che ha lo scopo di ripristinare una
situazione di equilibrio che permette al soggetto di difendere o di incrementare
l’autostima, l’efficacia e la stabilità personale. Gli eventi stressanti sono
sostanzialmente di tre tipi:
- grandi eventi della vita (lutti, gravi malattie, separazioni, ecc) che si verificano
all’improvviso e provocano una situazione di shock iniziale che richiede un
profondo riaggiustamento;
- difficoltà nell’ambiente di lavoro o interpersonale che si protraggono nel tempo
e che si rivelano difficili da risolvere;
- problemi legati alla routine quotidiana.
Il verificarsi di ognuno di questi eventi aumenta la probabilità di assumere
droghe per cercare di fronteggiarli in qualche modo.
E’ stato ipotizzato che la relazione tra eventi stressanti e l’uso di droghe
non sia lineare, ma sia influenzata da alcune variabili intervenienti disposizionali e
situazionali fra le quali sono comprese anche le risorse personali del soggetto. Tali
fattori, infatti, influenzano il modo in cui lo stress è percepito e la misura in cui il
soggetto si sente in grado di affrontarle con successo.
 
Bakalar e Grinspoon(1984) affermano che chi diventa dipendente da una droga lo
fa nel tentativo di ridurre ad uno solo i problemi della vita, per non essere

18
costretto ad effettuare delle scelte e per non essere coinvolto nelle vicissitudini
emotive dell’esistenza. Quest’ultima diventa così un insieme di atti prevedibili e
ripetitivi che danno al tossicodipendente una sensazione di stabilità.

 Le teorie relazionali-comunicative

Le teorie relazionali-comunicative elaborate da un gruppo di studiosi di Palo Alto


(California) sostengono che le funzioni organiche possano essere influenzate da
interazioni comunicative. In quest’ottica, il comportamento deviante è l’unica
reazione possibile in un contesto comunicazionale assurdo e insostenibile.
Esempio eclatante di tale rapporto interattivo-comuncativo è “il doppio legame”.
Il doppio legame è una modalità di comunicazione patologica perché non consente
di cogliere la vera intenzione del messaggio e di individuare la discrepanza tra i
significati manifesti e quelli latenti e chi lo riceve si trova in una situazione in cui
la sua capacità di discriminazione fra tipici logici diversi viene meno:
“ 1. L’individuo è coinvolto in rapporto intenso in cui egli sente che è
d’importanza vitale saper distinguere con precisione il genere del messaggio che
gli viene comunicato in modo da poter rispondere in modo appropriato.
2. Inoltre, l’individuo si trova prigioniero di una situazione in cui l’altra persona
che partecipa al rapporto emette allo stesso tempo messaggi di due ordini: uno che
nega l’altro.
3. Infine, l’individuo è incapace di analizzare i messaggi che vengono emessi. Al
fine di migliorare la sua capacità di discriminare a quale ordine di messaggio
debba rispondere; cioè egli non è in grado di produrre un enunciato
metacomunicativo. (G. Bateson, “Verso un’ecologia della mente”, Armando,
Roma, 1982, p. 252).

19
CAPITOLO II

PROFILO FARMACOLOGICO DELL’AMFETAMINA

DELLA MDMA

Introduzione

Amfetamina è il nome comune della β-Fenilisopropilamina. Esistono due forme


stereoisomeriche: D-amfetamina (destroamfetamina), nome commerciale
Dexidrina e la L-amfetamina (levoamfetamina). La D-amfetamina è più potente
della L-amfetamina nel produrre la maggior parte degli effetti comportamentali.
Molte altre amfetamine e amfetaminici come la metamfetamina, la fenmetrazina e
il metilfenidato sono stati successivamente commercializzati. Il primo di questi fu
la 2,5-dimetossi-4-amfetamina (DOM) “SPT”. Più recentemente sono state
introdotte la 3,4 metilendiossiamfetamina (MDA) ”love drug”, metilen-diossi-
etil-amfetamina (MDE) "Eve" e la N,etil-3-4-metilendiossifenilisopropilamina
(MDMA) “ecstasy”. Il numero di analoghi amfetaminici psicoattivi continua ad
aumentare. E’ stato calcolato che possano esistere circa 700 composti
amfetamino-simili e MDA-MDMA-simili che non sono compresi tra le sostanze
proibite anche se le loro caratteristiche e quindi la loro pericolosità è ben poco
differente dalle sostanze principali. Infatti, la sostituzione in un composto
amfetaminico di un radicale_CH3 con un radicale_CH2CH3, come per la MBDB
rispetto alla MDMA, modifica ben poco le proprietà della molecola che si riduce
ad una piccola differenza nella solubilità lipidica, superabile con una modifica del
dosaggio.

20
L’alcaloide naturale “Cathinone”, è contenuto in un arbusto, il khat, che cresce
spontaneamente o viene coltivato nell’Africa dell’Est e nella penisola arabica. Il

21
22
masticare foglie di khat, colte di recente, produce effetti simili a quelli
dell’amfetamina.

Recenti rapporti riferiscono che il Cathinone è stato prodotto illegalmente negli


USAe venduto per strada come alternativa all’amfetamina o alla metamfetamina

23
(in R. S. Feldman, J. S. Meyer, L. F. Quenzer, “Principles of Neuropsycho-
pharmacolgy”, Sinauer, 1997).

Un altro composto amfetamino–simile è l’efedrina presente in molte piante.


E’stata usata in Cina a scopo terapeutico per almeno 5000 anni, prima di essere
introdotta nella medicina Occidentale nel 1924. L’amfetamina fu sintetizzata nel
1887 da Edeleano e nel 1927 da Gordon Alles in forma volatile; da allora è stata
usata estensivamente in quelle condizioni cliniche in cui fossero desiderate le
azioni sia periferiche che centrali dei farmaci simpaticomimetici. Con il nuovo
nome di benzedrina, l’amfetamina per inalazione divenne molto popolare. Si
tenne, tuttavia in pochissimo conto il potenziale abuso di questo farmaco. Nel
1932 la benzedrina era presente in quantità significative in preparati contenenti
composti da inalare a scopo decongestionante nelle iperemie della mucosa nasale.
Gli inalatori per la benzedrina furono venduti su larga scala senza prescrizione
medica, e, in brevissimo tempo, i consumatori scoprirono che essi potevano essere
aperti e se ne poteva ingerire tutto il contenuto per via orale. Essi si dimostrarono
efficaci nel temporaneo sollievo della congestione naso-bronchiale e quando
vennero usati raramente non si verificarono effetti collaterali. Tuttavia, un uso
ripetuto determinò l’aumento a spirale dei sintomi e, in seguito all’assunzione di
dosi elevate, qualche usatore sperimentò episodi allucinatori e altri fenomeni
visivi bizzarri.

L’amfetamia in compresse fu fabbricata la prima volta nel 1935 per il trattamento


dei disordini del sonno.

24
Intorno agli anni ’40 l’amfetamina diventò quasi universalmente usata dai medici
e ne furono descritti 39 ipotetici usi clinici.

Un considerevole abuso di amfetamine fu fatto anche dalle forze armate di molti


Paesi coinvolti nella seconda guerra mondiale. L’esercito tedesco somministrava
amfetamine ai propri piloti prima dei raid aerei notturni sull’Inghilterra, e anche
l’esercito inglese dispensava compresse di amfetamine ai suoi soldati.

In Giappone, non soltanto i militari fecero uso di amfetamine, ma queste furono


somministrate sistematicamente anche ai civili per incrementare la produttività
nell’industria bellica. Dopo la fine della guerra, le case farmaceutiche giapponesi,
impazienti di vendere le numerose scorte che erano rimaste, pubblicizzarono le
amfetamine come farmaci utili per eliminare la sonnolenza, aumentare la fiducia
in se stessi e sollevare il tono dell’umore.

Gli effetti euforizzanti di tali sostanze piacquero a molti giapponesi il cui morale
era molto basso nel dopoguerra; ma, alla fine degli anni ’40 esplose, la prima
importante epidemia d’amfetamine: circa il 5% della popolazione giapponese
compresa tra i 16 e i 25 anni mostrava segni di dipendenza.

L’amfetamina ha, anche, avuto una grande importanza nella ricerca. Per un certo
periodo si è ritenuto che soprattutto se modificata potesse essere responsabile di
alcune forme di pazzia, in particolare della schizofrenia, perché simile come
struttura chimica alla DA.

Negli anni ’70 il consumo di amfetamina si diffuse anche tra gli studenti, che
desideravano restare svegli e mantenere un alto livello di concentrazione prima
degli esami e tra i camionisti, tanto che la subcultura di questi ultimi, coniò una
nuova terminologia: la “St. Louis” permetteva di percorrere metà continente
americano, mentre la “West Coast Turnabouts” era sufficiente per un viaggio
transcontinentale.

25
Un ulteriore segno dell’accettazione dell’amfetamina da parte della cultura fu
l’apparizione di canzoni popolari come “Chi mise la benzedrina nell’ovomaltina
della signora Murphy?”.

L’apice del consumo di amfetamina negli USA fu registrato negli anni ’70
quando la sua produzione legale oltrepassò i 10 miliardi di compresse e
un’indagine stimò che approssimativamente il 25% dei giovani maschi avevano
usato psicostimolanti e composti simili in una o più occasioni. Per questo motivo
la fabbricazione, il commercio e l' uso dell'amfetamina fu dichiarato illegale ed
essa fu inserita nel secondo elenco di farmaci sotto il controllo federale.

Farmacologia

L’amfetamina può essere somministrata sia oralmente che per via endovenosa e
sottocutanea. L’amfetamina solfato U.S.P. (benzedrina) è una polvere bianca
idrosolubile disponibile in compresse da 5 e da 10 mg e in capsule ad
assorbimento lento da 10 mg. L’isomero D è disponibile come
“destroamfetamina” solfato U.S.P. “dextroamfetamina” (1mg/ml) e in capsule ad
assorbimento lento da 5-10 a 15 mg.
I nomi di strada dell’amfetamina sono: “Uppers”, “Ups”, “Beennies”, “Dexies”,
“Black beauties”, e “Diet pills”.
L’amfetamina è una base debole con un pka approssimativamente di 9.9. Di
conseguenza l’assorbimento in seguito ad assunzione orale è lento poiché quasi
tutta la droga è saturata positivamente nell’ambiente acido dello stomaco e perciò
non può passare attraverso le membrane della mucosa gastrica. Ciò nonostante i
suoi effetti sono sperimentati entro 30 minuti dopo una tipica dose orale di
10/15mg. La via endovenosa produce un effetto soggettivo molto più
intenso(HIGH) rispetto alla via orale. Una somministrazione unica di amfetamina

26
a scopo stupefacente è nota come “run”, fuga o “speed run”, fuga veloce. Durante
un “run”, la droga è solitamente iniettata ogni 2 ore per un periodo che va dai 3 ai
6 giorni o più a lungo. Durante questo lasso di tempo si assume poco cibo e si
dorme poco. Alla fine, il consumatore è esausto e dorme per molte ore. Qualche
volta vengono usati barbiturici o altri farmaci depressivi per attenuare gli effetti
stimolanti del “run” e conciliare il sonno. Iniezioni endovenose ripetute sono
anche autopraticate per ottenere il “rush”, una reazione simile all’orgasmo, seguita
da una sensazione di marcata euforia. Un altro modo per amplificare l’effetto
stimolante dell’amfetamina e della metamfetamina endovenosa è la cosiddetta
bomba “speedball” una miscela di amfetamina o di metamfetamina e eroina.
La metamfetamina, dal punto di vista chimico, è strutturalmente relata
all’amfetamina e all’efedrina ma produce effetti stimolanti più potenti sul SNC e
per questo motivo è preferita dagli usatori di psicostimolanti.
I nomi di strada della metamfetamina sono: “speed”; “crystal”; “crank”; e “go”.
Oltre ad essere assunta oralmente o per iniezione, la metamfetamina può essere
fumata. La metamfetamina cloridrato e sotto forma cristallina (ICE) sono
particolarmente adatte a questo scopo. Il fumo può essere effettuato sia con una
pipetta di vetro sia riscaldando la metamfetamina in un foglio di alluminio. I
livelli di metamfetamina nel plasma raggiungono il picco più rapidamente
quando essa viene fumata piuttosto che quando viene assunta oralmente. La
metamfetamina cloridrato e sotto forma di ICE iniziò ad essere fumata nelle
Hawaii, poi si diffuse in California e successivamente in tutti gli USA.
L’amfetamina e i suoi congeneri sono metabolizzati sia pur lentamente dal
fegato(fig.1). L’amfetamina e la metamfetamina vengono eliminate con le urine in
parte intatte, in parte modificate, in parte sotto forma di acido benzoico (dopo
deaminazione a livello epatico) e in piccolissima parte sotto forma di catabolita
idrossilidato (sempre a livello epatico).
L’acidificazione delle urine diminuisce l’emivita e aumenta la quantità di
amfetamina che viene espulsa immodificata. La metamfetamina cloridrato e
l’isomero D sono disponibili in compresse a lento assorbimento da 5-4 a 15 mg.

27
Fig. 1 - VIE DEL METABOLISMO DELL’AMFETAMINA.

Il metabolismo epatico dell’amfetamina avviene mediante -idrossilazione, -


idrossilazione e deaminazione. Per determinare la quantità di ogni metabolita espulso ai
soggetti furono somministrati 5 o 20 mg di amfetamina solfato e le urine furono raccolte
durante le successive 24 ore. La percentuale media della dose originaria di ogni
metabolita è mostrata tra parentesi. La somma delle percentuali non è pari a cento perché
l’eliminazione dell’amfetamina continua per diversi giorni in seguito alla

28
somministrazione di una singola dose.(Dati: Dring e Williams, 1970 e Caldwell e
Williams, 1972; rappresentazione grafica: Morgan, 1979).

Il meccanismo d’azione dell’amfetamina

L’amfetamina è un agonista indiretto dei sistemi catecolaminergici e, a forti dosi,


anche di quello serotoninergico. L’attività di agonista comprende sia la sua
capacità di aumentare il rilascio di catecolamine e, in misura minore. di serotonina
dalle terminazioni nervose presinaptiche sia il blocco della loro ricattura e, (ad alte
dosi) l’inibizione del loro metabolismo ad opera delle MAO soprattutto quelle di
tipo A.
Diversi studi hanno dimostrato che l’amfetamina è un potente agente del rilascio
di DA dalle terminazioni nervose. (Arnold, Molinoff e Rutledge,1977; Azzaro,
Ziance, e Rutledge,1974; Raiteri ed altri 1975).
La misura in cui l’amfetamina induce il rilascio di NE (neopinefrina) non è ancora
chiaro anche se alcuni esperimenti, che hanno utilizzato il metodo
dell’incubazione statica di sinaptosomi o di fettine di cervello, hanno dimostrato
un chiaro rilascio di NE indotto dall’amfetamina. (Arnold, Molinoff e
Rutledge,1977; Azzaro, Ziance, e Rutledge,1974); tuttavia, in queste condizioni il
rilascio può essere difficile da distinguere dall’inibizione della ricattura.
Contemporaneamente, altri esperimenti hanno dimostrato che l’amfetamina
inibisce competitivamente la cattura della dopamina nel corpo striato e della
neopinefrina nella corteccia cerebrale( Azzaro, Ziance e Rutledge, 1974; Harris e
Baldasserini,1973) e, ad alte dosi, quello della serotonina (Taylor, e Ho,1978).
Da allora, sono state sviluppate diverse procedure per differenziare questi
processi come il doppio etichettamento di Bonnet, Lemasson, e Costentin (1984) e
il sistema della superfusione di Raiteri et al. (1995). Nel sistema della
superfusione i sinaptosomi sono esposti ad una fonte di vapore che si sposta
continuamente nell’ambiente di incubazione per minimizzare la ricattura dei

29
neurotrasmettitori rilasciati dai terminali nervosi. Usando questo approccio il
gruppo di Raiteri rilevò una stimolazione relativamente bassa del rilascio di NE
(Raiteri, Levi e Federico, 1974; Raiteri et al., 1975). .
Il rilascio di DA, indotto dall’amfetamina in vitro e misurato con la microdialisi in
vivo, presenta le stesse caratteristiche del suo rilascio naturale; è infatti Ca2 +
indipendente sensibile all’AMT e relativamente insensibile alla reserpina.
(Arnold, Molinoff e Rutledge,1977; Parker e Cubeddu, 1986a).
Altri esperimenti di microdialisi hanno ulteriormente dimostrato che la
prevenzione degli impulsi nervosi mediante la somministrazione di tetrodotossina
non riesce ad annullare il rilascio di DA nello striato e quindi il rilascio di DA
indotto dall’amfetamina è indipendente dal meccanismo fisiologico di conduzione
dell’impulso nervoso(Nomikos e altri, 1990; Westerink e altri, 1987).
Robertson, Damsma, e Fibiger(1991) hanno dimostrato che l’amfetamina
aumenta il rilascio spontaneo di DA, non solo dai terminali dei nervi
dopaminergici in aree come lo striato, ma anche dai dendriti dei neuroni
dopaminergici della nigra. Poiché, questo rilascio somatodendritico di DA non
avviene nelle vescicole sinaptiche e non richiede la generazione di potenziali
d’azione delle cellule, uno dei principali effetti dell’amfetamina sembrerebbe
essere l’elicitazione del rilascio di DA dal citoplasma in una modalità. attività-
indipendente.
E’ stato, anche, riferito che l’amfetamina aumenta la fuoriuscita di DA stimolo-
evocato anche se il significato di questa scoperta non è ancora completamente
chiaro(Parker e Cubeddu, 1986b).
La risposta dei sistemi dopaminergici all’amfetamina è diversa: nello striato basse
dosi di amfetamina inducono l’aumento della sintesi di DA, il blocco della sua
ricattura e, alte dosi, inibiscono il suo metabolismo da parte delle MAO (Connor e
Kuczenski, 1986; Elverfors e Nissbrandt, 1992; Nielsen, Chapin e Moore, 1983;
Uretsky, Kamal, Snodgrass, 1979).
In contrasto, altre aree dopaminergiche, come il nucleus accumbens, il tubercolo
olfattorio e la corteccia mostrano poca o nessuna stimolazione della sintesi di DA

30
indotta dall’amfetamina. (Nielsen, Chapin, Moore, 1983; Tyler e Galloway 1992;
Westerink e Vanputten, 1987). Inoltre, le stesse dosi che inducono l’aumento della
sintesi di DA nello striato, causano una riduzione nel tasso della sua sintesi nella
substantia nigra, la localizzazione delle cellule del corpo del sistema nigro-
striatale. (Elverfors e Nisbradt, 1992). E’ stato, anche, dimostrato che una sola
iniezione di amfetamina induce una temporanea desensibilizzazione dose-
dipendente del recettore della DA D2 che inibisce l'adenil ciclasi nello striato ma
non nei terminali delle aree mesolimbiche(Barnett e Kuczenski. 1986; Rorberts-
Lewis et al.,1986).
I primi studi hanno dimostrato che l’amfetamina è un inibitore dell’attività delle
MAO in vitro (Mann, Quastel, 1940). L’inibizione è reversibile e preferenziale
per le MAO di tipo A (Mann, Tipton e Garrett, 1976). Benchè, l’inibizione del
metabolismo delle catecolamine e della serotonona potrebbe contruibire agli
effetti di agonista indiretto della amfetamina, questo meccanismo non viene
considerato importante in vivo(R.S. Feldman, L.F. Quenzer, J.S. Meyer; op. cit.,
p.555).
Durante gli ultimi 20 anni sono stati compiuti sostanziali progressi nel tentativo
di chiarire la neurobiologia dell’amfetamina e di altri farmaci d’abuso e i loro
effetti non soltanto sui recettori dei neurotrasmettitori e molecole responsabili
della ricattura, ma anche sui sistemi di secondi, terzi, quarti messaggeri
intracellulari (Self et al., 1995).
Molti farmaci d’abuso agiscono attraverso recettori accoppiati alla proteina G.
Tali proteine G sono frequentemente accoppiate al sistema dell’AMPc e attraverso
la fosforilazione di diverse proteine intracellulari si verifica una serie di
modificazioni a cascata nel nucleo e nel DNA.
I geni ad espressione precoce come “C-fos” e “C-jun” vengono attivati e sono
seguiti dalla regolazione di altri geni che producono importanti effetti sulla
trascrizione di proteine che può portare alla deregolazione (down regulation) del
numero dei recettori e alla sovraregolazione (up regulation) dei sistemi dei
secondi messaggeri. Ad esempio, è stato dimostrato che i neuroni output striatali

31
che ricevono connessioni sinaptiche dirette dai termnali nigro-striatali
dopaminergici rispondono al trattamento con l’amfetamina aumentando la
trascrizione del gene pre-protachichinino che codifica la sostanza P e del gene ad
espressione precoce “C-fos”(Graybiel, Moratalla e Robertson, 1990).
Relativamente al rilascio di DA indotto dall’amfetamina, attualmente si ritiene che
esso avvenga attraverso due meccanismi (fig.2): l' “exchange diffusion model”
(Fischer e Cho, 1979, Liang, Rutledge, 1982; Raiteri et al.,1979) e l’ “weak base
model”(Sulzer e Rayport, 1990; Sulzer, Maidment e Rayport, 1993). Il primo
avrebbe luogo solo con basse dosi di amfetamina, il secondo invece sarebbe
attivato da alte dosi della sostanza.
La teoria della diffusione inversa (exchange diffusion model) ipotizza che
l’amfetamina extracellulare si leghi al carrier di DA e venga portata nei terminali
nervosi e rilasciata nel citoplasma dove si può legare alla molecola intracellulare
di DA. Successivamente, questa molecola di DA viene trasportata nella direzione
opposta alla normale ricattura e rilasciata nella fessura sinaptica. Secondo questa
prospettiva, l’amfetamina diversamente da altri inibitori della ricattura, non solo
blocca l’azione del trasportatore e ne inverte la direzione del trasporto ma è anche
substrato per esso.
La teoria delle basi deboli (“weak base model”) sostiene che l’amfetamina e le
altre basi deboli per la loro liposolubilità quando sono elettricamente neutre
possono penetrare nelle vescicole delle catecolamine. Poiché l’interno delle
vescicole è abbastanza acido rispetto al citoplasma, il gruppo amminico della
molecola di amfetamina tende ad essere protonato. Questo fa si che l’amfetamina
rimanga confinata dentro le vescicole. Inoltre, la riduzione nella concentrazione di
ioni H+ liberi riduce il gradiente del ph della membrana vescicolare. Ciò inibisce
la cattura e favorisce la fuoriuscita di catecolamine, seguita dal trasporto inverso
del trasmettitore attraverso la membrana plasmatica(Sulzer et al, 1993). Si ritiene,
anche, che il grande aumento dei livelli citoplasmatici di catecolamine modifichi
il gradiente di concentrazione della membrana plasmatica, Pertanto, il modello

32
della base debole, al contrario di quello della diffusione inversa, non si basa sulla
cattura della droga mediata dal trasportatore e sembra spiegare adeguatamente gli

Fig. 2 - POSSIBILI MECCANISMI IMPLICATI NEL RILASCIO DI DOPAMINA


INDOTTO DALL’AMFETAMINA.
(a) Alcuni dei normali processi che hanno luogo nei terminali dopaminergici compreso il
rilascio di DA per esocitosi,. La cattura della dopamina da parte delle terminazioni
nervose attraverso il trasportatore di membrana plasmatica (DAT) e la cattura della DA da
parte delle vescicole sinaptiche mediante il trasportatore vescicolare di monamine
(VMAT). Possibile meccanismo d’azione dell’amfetamina: la cattura dell’amfetamina
mediata dal trasporto di membrana associata al rilascio citoplasmatico di DA.(diffusione
inversa). (b-d); l’amfetamina entra nel terminale nervoso attraverso la diffusione
passiva(c-d); l’amfetamina entra nelle vescicole attraverso la mediazione del trasportatore
vescicolare e/ o attraverso la diffusione passiva (c-d) e il rilascio vescicolare di DA(c-d).

33
Seiden e colleghi hanno ipotizzato che i processi esemplificati in b-d avvengano in ordine
sequenziale in relazione all’aumento della dose di amfetamina( per esempio a basse dosisi
verifica solo la diffusione inversa); tuttavia. questa ipotesi deve essere ancora
dimostrata(Seiden, Sabol e Ricaurte. 1993).
effetti del rilascio delle catecolamine indotto da basi lipofiliche deboli che non
sono substrati per il trasportatore di membrana plasmatica.
Anche, il professor G.L. Gessa, ritiene che gli effetti dell’amfetamina siano
dovuti alla liberazione di dopamina dalle terminazioni nervose dopaminergiche: “
Questo effetto è la conseguenza di due principali azioni dell’amfetamina: 1)
inibizione del trasportatore vescicolare e 2) inibizione della monoaminossidasi
(MAO). Il carrier vescicolare è normalmente deputato a trasportare DA (di nuova
sintesi o comunque presente nel citoplasma) dal citoplasma del neurone alle
vescicole nelle quali la DA viene immagazzinata. La MAO metabolizza l’eccesso
di DA che si trovi libera nel citoplasma del neurone. Il blocco del carrier da parte
dell’amfetamina impedisce che la DA venga trasportata nelle vescicole;
conseguentemente essa si accumula nel citoplasma, anche perché non può essere
metabolizzata dalle MAO. A questo punto interviene un altro meccanismo, il
trasporto di membrana(reuptake mechanism); nella membrana del neurone è
presente un carrier che normalmente trasporta la DA dallo spazio sinaptico al
citoplasma(da dove poi la DA viene sequestrata nelle vescicole). Quando la
concentrazione di DA nel citoplasma è superiore a quella nello spazio sinaptico il
carrier di membrana inverte la direzione del trasporto: la DA è trasportata dal
citoplasma verso lo spazio sinaptico (G. L. Gessa, “Ecstasy: meccanismo d’azione
e neurotossicità”, in “Medicina delle Tossicodipendenze”, settembre, 1994, anno
II, numero 4, p. 44)

La sintesi e il metabolismo delle catecolamine

L’influenza dell’amfetamina sulla sintesi delle catecolamine è stata studiata


soprattutto relativamente al sistema DA nello striato (nucleus caudatus). E ‘ stato

34
constatato che basse concentrazioni o dosi di amfetamina tendono a far aumentare
la sintesi di DA in quest’area cerebrale(Connor e Kuczenski, 1986; Elverfors e
Nissbrandt, 1992; Nielsen, Chapin e Moore, 1983; Uretsky, Kamal e Snodgrass,
1979). Poiché, quest’effetto può essere bloccato dagli inibitori della cattura di DA,
esso potrebbe essere causato da una riduzione nell’inibizione finale della tirosina
idrossilasi indotta dal rilascio di dopamina amfetamino-stimolato. D’altro lato,
alte concentrazioni o dosi di amfetamina possono o inibire la sintesi di DA nello
striato(Connor e Kuczenski, 1986, Uretsky, Kamal e Snodgrass,1979) o non
produrre nessun effetto(Elverfors e Nissbrandt, 1992; Nielsen, Chapin e Moore,
1983).
La minore sintesi di DA potrebbe essere dovuta a due processi: 1) il progressivo
spostamento della DA vescicolare che aumenterebbe le concentrazioni
citoplasmatiche di DA e faciliterebbe l’inibizione del prodotto finale e 2) la
ricattura di DA che attiverebbe l’inibizione della sintesi degli autorecettori pre e
postsinaptici, mediati da un feedback che sopprime il “firing” delle cellule
dopaminergiche. Al contrario, in altre aree dopaminergiche come il nucleus
accumbens e il tubercolo olfattorio e la corteccia frontale è stata rilevata una lieve
o nessuna stimolazione della sintesi della DA in seguito alla somministrazione di
amfetamina (Nielsen, Chapin e Moore, 1983; Tyler e Galloway, 1992; Chapin e
Moore,1983; Westerink e Van Putten, 1987). Inoltre, le stesse dosi di amfetamina
che aumentano la sintesi di DA nello striato causano una riduzione nella
percentuale della sintesi di DA nella substantia nigra, la localizzazione delle
cellule del corpo del tratto nigro-striatale (Elverfors e Nissbrandt, 1992). Si ritiene
che queste risposte diverse dipendano da meccanismi diversi che regolano la
sintesi di DA in particolare aree di proiezione e nelle cellule del corpo
diversamente da ciò che avviene nelle terminazioni nervose.
I primi studi dimostrarono, come abbiamo accennato, che l’amfetamina è un
inibitore dell’attività delle MAO in vitro (Mann e Quastel, 1940). L’inibizione è
reversibile ed è preferenziale per le MAO di tipo A rispetto a quelle di tipo
B(Mantle, Tipton e Garrett, 1976). Benché l’inibizione, del metabolismo delle

35
catecolamine ad opera delle MAO potrebbe contribuire agli effetti agonisti
indiretti dell’amfetamina, questo meccanismo non è stato generalmente ritenuto
importante in vivo. Tuttavia, Miller, Stole e Clarke (1980) hanno dimostrato che
il pre-trattamento con dieci mg/kg di amfetamine dei ratti diminuiva
significativamente la successiva inattivazione delle MAO striatali attraverso
l’inibitore irreversibile, la fenilazina. Poiché, questo effetto era specifico sull’
isomero D e si verificava soltanto con le MAO A, fu ipotizzato che fosse dovuto
all’interazione dell’amfetamina con l’enzima in vivo. Pertanto, l’inibizione delle
MAO potrebbe avere un ruolo marginale nella risposta all’amfetamina
particolarmente ad alte dosi (R. S. Feldman, J. S. Meyer, L. F. Quenser; op. cit. p.
33).

Effetti elettrofisiologici

L’amfetamina provoca anche cambiamenti elettrofisiologici in alcune zone del


cervello: deprime l‘attività elettrica (firing) dei neuroni dopaminergici,
noradrenergici e ad alte dosi anche di quelli serotoninergici. Questi effetti
sembrano essere mediati dall’attivazione degli autorecettori somatodendritici o
dalla stimolazione di una retroazione negativa soprattutto nel sistema
dopaminergico. (Bunney, et al.1973; Engberg e Svensson, 1979; Graham e
Aghajanian, 1971; Rebec, Curtis, Zimmerman,1982). L’inibizione di neuroni DA
A10, mediata dagli autorecettori, è desensibilizzata dal trattamento cronico con
l’amfetamina (White e Wang,1984a), oppure in seguito ad un breve periodo di
continua esposizione in vitro (Seutin et al., 1991).
L’amfetamina produce anche complessi effetti elettrofisiologici nello striato.
L’eccitabilità dei terminali nervosi viene diminuita dall’attivazione degli
autorecettori presinaptici (Groves et al., 1989). Inoltre, la somministrazione
sistemica di amfetamina negli animali “freely moving” tende a stimolare i neuroni

36
striatali che sono caratterizzati come aventi un tasso di “firing” base
relativamente alto e risposte eccitatorie movimento-associate (Haracz et al.,
1993). Al contrario, è stato riscontrato che la somministrazione di amfetamina
abbassa ulteriormente il basso “firing” spontaneo di alcune cellule (Groves et al.
1989).

Effetti comportamentali e fisiologici indotti dall’amfetamina nell’uomo

Gli effetti farmacologici principali dell’amfetamina sono: spiccata attività


simpatico-mimetica; stimolazione del sistema nervoso centrale, stimolazione dei
centri respiratori e vaso motori

Effetti simpatico-mimetici

L’amfetamina somministrata oralmente aumenta la contrazione del muscolo


cardiaco isolato in termini di tensione ma di durata ridotta; aumenta il flusso
ematico circolatorio, della pressione arteriosa sistolica e diastolica, aumenta il
tono vagale con risultante rallentamento della frequenza cardiaca che può essere
anche molto accentuato, in particolari casi si possono verificare aritmie cardiache.
Tuttavia, la gittata cardiaca non diminuisce in proporzione perché l’accresciuto
ritorno venoso può aumentare la gittata sistolica.
Relativamente agli effetti cardiovascolari l’isomero L è leggermente più potente
dell’isomero D.
L’amfetamina, come gli altri psicomimetici, induce il rilasciamento della
muscolatura liscia gastro-intestinale.
Induce il rilasciamento della muscolatura dell’utero e questo effetto può essere
clinicamente utile durante la gravidanza.

37
Produce un effetto contrattile nello sfintere urinario della vescica e per questo è
stata usata nel trattamento dell’enuresi e dell’incontinenza.
Promuove l’attività enterica e può causare il rilasciamento e il rallentamento del
contenuto intestinale. Se l’intestino è già rilasciato può produrre l’effetto
contrario.
Rilascia la muscolatura bronchiale ma in modo non significativo dal punto di vista
terapeutico.
L’amfetamina stimola il centro del respiro aumentando il metabolismo e il
consumo di ossigeno.
Si ritiene che gli effetti simpatico-mimetici siano collegati al rilascio di NE o
all’inibizione della sua ricattura, oppure all’attivazione dell’efflusso simpatico
centrale indotto dall’amfetamina (R. S. Feldman, J. S. Meyer, L. F. Quenser; op.
cit., p. 557).

Effetti sul sistema nervoso centrale

Gli effetti farmacologici più eclatanti dell’amfetamina si rilevano a livello del


sistema nervoso centrale. Nell’uomo una dose orale da 10 a 30 mg/kg produce:
- Una diminuzione del senso di fatica, della noia, della fame e del sonno;
- Un aumento del livello dell’attenzione, dell’autostima, della capacità di
concentrazione, del tono dell’umore, dell’esecuzione di compiti
psicomotori ripetitivi, delle capacità mnemoniche, dello stato di vigilanza e
del flusso verbale.
- Un aumento del lavoro svolto ma anche del numero degli errori commessi.
- esaltazione ed euforia
Gli effetti dell’amfetamina sono soggettivi, dipendono dallo stato emotivo e fisico
del soggetto, dalla dose, dalla modalità e dalla frequenza della somministrazione

Affaticamento e sonno

38
I numerosi studi sulla prevenzione dell’affaticamento indotto dall’amfetamina,
hanno dimostrato che essa prolunga la durata di un adeguato esercizio fisico,
migliora le prestazioni e il rendimento soprattutto in soggetti affaticati e insonni.
L’amfetamina, inoltre, attraverso la riduzione della frequenza dei tempi in cui
l’attenzione è diminuita, migliora l’esecuzione di prove che richiedono
un’attenzione sostenuta.
Il ritardo o la soppressione del sonno indotto dall’amfetamina è temporanea;
tuttavia, quando l’assunzione della droga viene sospesa, il pattern del sonno non si
normalizza prima di due mesi.

Effetti collaterali

Effetti centrali: agitazione, vertigini, tremore, iperriflessia, loquacità, tensione,


irritabilità, debolezza, insonnia, febbre e talvolta euforia.
Possono essere sperimentate soprattutto dalle persone che soffrono di patologie
mentali: confusione, aggressività, aumento della libido, ansia, delirio,
allucinazioni paranoiche, panico e tendenze suicide o omicide. Tuttavia, questi
effetti psicotici possono manifestarsi in ogni individuo se vengono assunte
quantità sufficienti di amfetamina per un periodo prolungato. La stimolazione del
SNC è di solito seguita da fatica e da depressione.
Effetti cardiovascolari: cefalea, senso di freddo, pallore o vampate, palpitazioni,
aritmie cardiache, dolore anginoso, ipertensione o ipotensione e collasso
cardiocircolatorio. Si può verificare anche una sudorazione eccessiva.
Effetti sul sistema gastro-intestinale: secchezza della bocca, sapore metallico,
anoressia, vomito, nausea, diarrea e crampi addominali.
Le intossicazioni fatali generalmente terminano in convulsioni, coma ed
emorragie cerebrali.

39
Infine, l’uso cronico di amfetamina per via endovenosa, oltre agli stati psicotici,
può indurre, usando siringhe contaminate, le stesse complicanze settiche delle
iniezioni di eroina. Una lesione tipica secondaria all’uso ripetuto e protratto
dell’amfetamina è l’arterite necrotizzante che può interessare numerose arterie e
portare ad emorragie cerebrali fatali o all’insufficienza renale.

Usi terapeutici

L’amfetamina e gli psicostimolanti amfetamino-simili sono usati terapeuticamente


per tre scopi principali:
1) Il trattamento della narcolessia
2) Come coadiuvanti della perdita di peso
3) Nel trattamento della sindrome da deficit dell’attenzione e di iperattività

La narcolessia

E’ un disordine caratterizzato da uno o più dei seguenti sintomi: ricorrenti e


irresistibili colpi di sonno durante le ore del giorno, catalessia ossia un’improvvisa
perdita del tono muscolare mentre il paziente rimane cosciente, paralisi del sonno,
che avviene durante la transizione tra lo stato di veglia e quello di sonno e
allucinazioni ipnagogiche (allucinazioni vivaci che si verificano durante la
transizione tra il sonno e la veglia).
Sia l’amfetamina che il metilfenidato sono stati usati con successo per il
trattamento della narcolessia. Sfortunatamente, sono necessarie alte dosi perché
siano efficaci terapeuticamente e così i pazienti corrono il rischio di diventare
dipendenti dalla droga. Inoltre, i trattamenti stimolanti cronici possono avere
effetti collaterali non desiderati come: anoressia, perdita di peso, ipertensione,
irritabilità e rottura del normale pattern del sonno.
L’eziologia della narcolessia e il meccanismo sottostante l’efficacia terapeutica
degli stimolanti del SNC dev’essere ancora determinata. Tuttavia, in seguito alla

40
scoperta che i cervelli di alcuni animali narcolettici avevano elevate
concentrazioni di DA e di un metabolita della DA, l’acido diidrossifenilacetico, è
stato ipotizzato che questi animali avessero un livello più basso di utilizzazione di
DA e un livello più alto di deterioramento intra-neuronale rispetto agli animali
normali (Mefford et al.,1979).

Obesità

Un secondo uso terapeutico dell’amfetamina è quello del trattamento dell’obesità.


Molti studi clinici hanno dimostrato che l’amfetamina è un agente anoressico;
ma, i suoi effetti sono quasi interamente addebitabili alla riduzione della quantità
di cibo ingerita o alla soppressione dell’appetito e solo in misura minore ad un
aumentato metabolismo(Grinspoon e Bakalar, 1979; Silverstone, 1981). Il sito
d’azione è probabilmente il cosiddetto “centro della fame” che si trova nell’
ipotalamo laterale. Infatti, un’iniezione in quest’area sopprime l’assunzione di
cibo.
L’amfetamina e la metamfetamina sono state molto popolari storicamente nel
trattamento dei pazienti obesi; tuttavia, il loro effetto è insufficiente a ridurre il
peso continuativamente senza una restrizione dietetica. Inoltre, la loro
somministrazione cronica può causare tolleranza e dipendenza. Benché,
l’amfetamina sia ancora prescritta per il trattamento dell’obesità, essa è stata
quasi completamente sostituita da anoressici non amfetaminici come il
dietilpropione e la fenmetrazina o dalla droga serotoninergica dexfluramina.

Sindrome da deficit dell’attenzione e di iperattività

Un terzo uso clinico degli stimolanti, in particolare del metilfenilato, è quello del
trattamento dei disordini della sindrome da deficit dell’attenzione e di iperattività.
I bambini che soffrono di questo disturbo mostrano gradi estremi di distrazione, di
impulsività e di ipercinetismo. Essi sono in grado di mantenere l’attenzione per

41
periodi molto brevi poi impulsivamente la rivolgono a qualsiasi cosa
nell’ambiente. Altre caratteristiche comportamentali comprendono: bassa
tolleranza alla frustrazione, ostinazione, mancanza di sensibilità nei confronti dei
bisogni degli altri, mancanza di risposta alla disciplina. Nei casi più gravi si può
verificare distruttività, furti, menzogne, piromania e acting out sessuale. Il
bambino è frequentemente distruttivo, dirompente in classe e ha problemi di
apprendimento. I problemi si verificano anche nelle interazioni del bambino con i
suoi genitori e con altri membri della famiglia. Per molti anni si è ritenuto che la
sindrome da deficit dell’attenzione, e di iperattività fosse circoscritta alla
fanciullezza e all’adolescenza; tuttavia, successive prove cliniche hanno mostrato
che, in alcuni casi, i sintomi persistono anche nell’età adulta. Gli adulti che ne
soffrono mostrano sintomi di distraibilità, impulsività, ipermotilità, agitazione e
problemi nel lavoro e nelle relazioni interpersonali. Inoltre, tali individui sono ad
alto rischio di sviluppare altri disordini del comportamento come: disordini di
personalità antisociale o problemi di abuso di sostanze(Gittleman-Klein et al.,
1985).
La rilevanza dell’uso di stimolanti nel trattamento della sindrome da deficit
dell’attenzione e di iperattività è che queste droghe paradossalmente producono
un effetto calmante. Questo fenomeno fu inizialmente rilevato da Bradley nel
1937 e in seguito è stato osservato da molti altri autori (Brown e Cooke, 1994;
Oades, 1987). L’amfetamina, il metilfenilato e la pemolina sono usualmente
prescritti per questi disordini. Tuttavia, per ottenere migliori risultati è consigliata
una psicoterapia e un counseling per i genitori.
Più del 55% dei pazienti rispondono positivamente al trattamento con la droga.
Nella maggior parte dei casi tutte e tre le droghe sono ugualmente efficaci, benché
alcuni pazienti rispondano selettivamente ad una di esse (Zametkin e
Rapaport,1987) . Possono verificarsi effetti collaterali come quelli descritti per il
trattamento della narcolessia.
Un recente studio ha confermato che anche gli adulti possono essere trattati con
successo con gli psicostimolanti(Wilens et al., 1995).

42
Benché, il metilfenilato, come l’amfetamina, sia un’ agonista indiretto delle
catecolamine, si differenzia da quest’ultima in diversi modi; il metilfenidato è più
potente come inibitore della cattura di DA piuttosto che come agente del suo
rilascio, blocca soltanto debolmente la cattura vescicolare di dopamina e la sua
fuoriuscita metilfenidato-evocata dipende dall’attività neuronale e dall’integrità
delle vescicole(Ferris , Tang e Maxwell, 1972).
Feldman, Meyer e Quenzer(1997), in base a questi risultati, hanno ipotizzato che
il metilfenidato blocchi la cattura e in misura minore promuova il rilascio di DA
dalle vescicole ma non dal citoplasma.
La capacità degli stimolanti psicomotori di attenuare i sintomi della sindrome da
deficit dell’attenzione e di iperattività sembrerebbe implicare che i disordini
potrebbero avere origine da una sottostante patologia del sistema
catecolaminergico. Questa ipotesi viene sostenuta dai lavori di Porrino e
Lucignani (1987) che hanno mostrato che il trattamento dei ratti con basse dosi di
metilfenidato stimola l’utilizzazione di glucosio nel nucleus accumbens e nel
tubercolo olfattorio due aree bersaglio nella via mesolimbica della DA. Inoltre,
alcuni studi clinici hanno rilevato bassi livelli del metabolita della dopamina,
l’acido omovanilico (HVA) o del metabolita della NE (Oades., 1987), 3,4,-
metossi-idrossi-fenil-glicolo (MHPG), in un sottogruppo di bambini che soffrono
di questa sindrome. Tuttavia, in alcuni casi le già basse concentrazioni del
metabolita diminuiscono ulteriormente in seguito al trattamento con degli
stimolanti. Perciò non è chiaro se esistono distinti sottotipi neurochimici della
sindrome da deficit dell’attenzione e di iperattività perché alcuni pazienti
mostrano una normale attività catecolaminergica.

Effetti acuti dell’amfetamina sugli animali

Gli stimolanti psicomotori come l’amfetamina inducono un’attivazione senso


motoria più organizzata rispetto agli stimolanti esclusivamente motori.

43
L’opinione predominante è che basse dosi di amfetamina aumentino la motilità
mentre dosi elevate inducano il manifestarsi di comportamenti stereotipati. Nei
roditori e in altri animali questa attivazione si manifesta mediante un aumentato
comportamento locomotorio, diverse attività stereotipate e alterati tassi nella
pressione della leva(Segal e Kuczenski, 1994). Una singola dose di
amfetamina(0.25-1.0 mg/kg i.p.) somministrata ai ratti induce: un’aumentata
attività locomotoria, sollevamento, annusamento leggero e movimenti rapidi della
testa. Al contrario, l’aumento graduale della dose fino a 10 mg/kg determina una
diminuzione dell’attività locomotoria e di sollevamento e il manifestarsi di
stereotipie in aree circoscritte della gabbia.. Le stereotipie indotte dall’amfetamina
dipendono dalla specie, dalle condizioni ambientali, dal tempo trascorso dopo
l’iniezione e dalle esperienze precedenti. I gatti trattati con l’amfetamina quando
vengono testati in gabbia mostrano comportamenti di annusamento mentre
all’aperto muovono rapidamente la testa e fissano gli oggetti in modo diverso dal
normale. Tali movimenti cessano se i soggetti vengono bendati confermando così
che il comportamento in natura è senso motorio e non semplicemente motorio. Gli
stereotipi nelle scimmie consistono nel fissare, masticare, protundere la lingua,
muovere il collo a scatti, muovere le spalle in modo ondulatorio e cercare di
afferrare le sbarre della gabbia (Randrup e Munkvad, 1967; Ridley e Baker, 1982,
Wallach, 1974).
Alcuni aspetti dell’attività locomotoria e del comportamento stereotipato indotti
dall’amfetamina sono probabilmente una conseguenza della liberazione di DA
dalle terminazioni nervose dopaminergiche anche se non è ancora chiaro quali
siano i recettori DA che mediano questi effetti; tuttavia, recenti ricerche
suggeriscono il coinvolgimento dei recettori D1 e D2 (Petri et al. 1993). Questa
ipotesi è confermata dal fatto che l’inibizione della tirossina idrossilasi da parte
dell’ AMPT antagonizza questi effetti (Weissman, Koe e Tenen, 19879). D’altro
canto, alcuni laboratori hanno dimostrato che il pre-trattamento con la reserpina
non è in grado di bloccare le stereotipie amfetamino-indotte e può persino

44
aumentare il verificarsi di tali comportamenti (Callaway, Kuczenski e Segal,
1989; Hong, Jenner e Marsden, 1987).
Questo fenomeno, secondo, Callaway, Kuczenski e Segal (1989), non è dovuto
ad un aumento del rilascio di dopamina, e, pertanto, potrebbe essere causato da
qualche altro fattore, come una supersensibilità del recettore in seguito al
trattamento con la reserpina.

Comportamenti programmati

L’influenza dell’amfetamina e degli stimolanti psicomotori sui comportamenti


programmati e controllati sono stati studiati estensivamente. L’amfetamina tende
ad aumentare la risposta base dei ratti ma a deprimerla quando il ritmo è
alto(Dews e Wenger, 1977). Questi effetti sono stati dimostrati attraverso gli
esperimenti a intervalli fissi programmati: la somministrazione di amfetamine
aumenta la risposta durante l’intervallo, ma la diminuisce o non produce nessun
effetto su quella successiva.
Per quanto riguarda l’azione dell’amfetamina sui substrati anatomici, la
prospettiva sviluppata negli ultimi 15 anni sostiene che la stimolazione
dell’attività dopaminergica indotta dall’amfetamina causi il manifestarsi
dell’attività locomotoria nel nucleus accumbes e di stereotipie nel caudato e nel
putamen. Le prove a sostegno di questa ipotesi sono:
- L’amfetamina e la stessa DA inducono l’attività locomotoria quando
vengono microiniettate direttamente nel nucleus accumbens ma non nel
caudato(Elkhawad e Woodruff, 1976; Pijnenburg et al.,1976; Stanton e
Solomon1984).
- L’amfetamina microiniettata nel caudato ma non nell’accumbens induce
comportamenti stereotipati(Kelley. Lang e Gauthier, 1988; Stanton e
Solomon, 1984);

45
- La stimolazione locomotoria attivata da basse dosi di amfetamine, è
bloccata da lesioni 6-OHDA nel nucleus accumbens ma non nel
caudato(Kelley. Seivour e Iversen, 1975);
- Il comportamento locomotorio amfetamino-indotto è anche antagonizzato
dalla iniezione di aloperidolo, un bloccante dei recettori DA, nel nucleus
accumbens ma non nel caudato(Pijnenburg, Honig e Van Rossum, 1975b);
- Le stereotipie indotte dall’amfetamina sono annullate da lesioni 6-OHDA
nel caudato ma non nell’accumbens(Creese e Iversen, 1974; Joyce e
Iversen, 1984; Kelly. Seviour e Iversen, 1975).
Studi più recenti sostengono che ci sia una correlazione tra i comportamenti
elicitati dall’amfetamina e i cambiamenti regionali nella fuoriuscita di DA
misurata con la microdialisi.
Sharp e colleghi(1987) hanno osservato che, aumenti nelle concentrazioni
extracellulari di DA nel caudato in seguito alla somministrazione di 0.5, 2.0
mg/kg di amfetamina iniettata sottocutaneamente, erano correlate all’attività
locomotoria, mentre le stesse dosi iniettate nel caudato erano significativamente
correlate all’intensità dei movimenti streotipati e della zampa anteriore. Benché,
questi risultati si correlino bene con quelli ottenuti con la microiniezione e la
lesione, altri esperimenti non sono riusciti a dimostrare una chiara relazione tra i
comportamenti indotti dall’amfetamina e i cambiamenti delle concentrazioni
cerebrali di DA.

Effetti di discriminazione dello stimolo prodotto dall’ amfetamina

E’ stato dimostrato che l’amfetamina è un potente agente nella discriminazione


dello stimolo in diverse specie (Fischman, 1987). Una delle tecniche usate per
studiare questi effetti comportamentali è il test per discriminare le droghe come
nell’esperimento effettuato da Kuhn, Appel e Greenburg(1974). In questo studio,
ratti deprivati, d’acqua vennero addestrati a premere dieci volte la leva appropriata

46
per ottenerla Durante la prima fase dell’esperimento, 30 minuti prima dell’inizio
del test, in giorni diversi,agli animali venne somministrata o una soluzione salina
oppure 1mg/kg di D-amfetamina. Gli animali, verosimilmente, iniziarono a
discriminare l’amfetamina dalla soluzione salina dalla tredicesima sessione e,
infine, raggiunsero il plateau del 90% di risposte corrette. Nella seconda fase,
vennero somministrate loro dosi più elevate o meno elevate della dose di
addestramento. Fu constatato che una dose di 0.50 mg/kg sostituiva efficacemente
la dose di addestramento; 0.25 mg/kg elicitavano soprattutto risposte casuali
(“random”), mentre la dose più bassa(0.0625 mg/kg) produceva risposte miranti
ad ottenere la soluzione salina(fig.3).
Studi sulla generalizzazione dello stimolo effettuati usando questo paradigma,
hanno dimostrato che dosi appropriate di metamfetamina, di altri composti N-
sostuiti amfetamino-simili, di cocaina e metilfenidato sostituivano completamente
lo stimolo dell’amfetamina(Huang e Ho, 1974; Kuhn, Appel e Grenburg, 1974;
Young e Glennon, 1986). Tuttavia, è stato anche dimostrato che un certo numero
di anologhi dell’amfetamina, come la mescalina, l’LSD 25, il
9tetraidrocannabinolo, la fenfluramina, la nicotina e la caffeina non producevano
la generalizzazione dello stimolo alle dosi testate(Kuhn, Appel, e Greenburg,
1974; Schechter e Rosencranz, 1983; Young e Glennon, 1986); pertanto, è stato
ipotizzato che il processo di discriminazione dello stimolo indotto
dall’amfetamina non sia causato da un semplice effetto stimolante.
Chat, Uhlenbuth e Johansen (1984) hanno messo a punto un metodo per testare gli
effetti di discriminazione dello stimolo nell’uomo. L’applicazione di questa
tecnica ha mostrato che i soggetti verosimilmente discriminavano una dose orale
di 10 mg della droga dal placebo.
Anche gli effetti sulla discriminazione dello stimolo sembrano che siano legati
all’azione dell’amfetamina sui sistemi dopaminaergici centrali(Nielsen e Shul-
Kruger,1986).

47
Fig.3 LA DISCRIMINAZIONE DELLO STIMOLO DELL’ AMFETAMINA
TESTATO NEI RATTI.
(a) Acquisizione della risposta di discriminazione. I soggetti furono inizialmente
addestrati a premere la leva per ricevere il rinforzo(l’acqua) in un pogramma VI/FR( per

48
ottenere il rinforzo il soggetto doveva effettuare dieci risposte sulla leva appropriata dopo
un intervallo medio di un minuto). La discriminazione dello stimolo dell’amfetamina fu
instaurato mediante iniezioni giornaliere di 1mg/kg di d-amfetamina oppure di soluzione
salina. In meno di 3-4 settimane gli animali iniziarono verosimilmente a discriminare
l’amfetamina dalla soluzione salina con una precisione approssimativamente del 90%. (b)
La discriminazione dello stimolo dell’amfetamina in relazione alla dose. Dopo che che la
fase di acquisizione fu completata, i soggetti, furono testati per la generalizzazione dello
stimolo di discriminazione a diverse dosi di amfetamina. Dosi simili a quella di
addestramento di 11mg/kg elicitavano la risposta approriata all’amfetamina, mentre dosi
più basse elicitavano risposte miranti, soprattutto ad ottenere la soluzione salina(Kuhn,
Appel e Greenburg, 1974).

Effetti rinforzanti dell’amfetamina

L’amfetamina, come altri psicostimolanti, ha potenti effetti rinforzanti considerati


una delle maggiori cause dell’abuso. Questi effetti sono stati dimostrati
dall’autosomministrazione endovenosa di amfetamina e/o di metamfetamina da
parte di ratti, gatti, uistiti e scimmie rehesus e babbuini.
Yokel ( 1982) ha riferito che un gruppo di animali che aveva un accesso
illimitato alla droga mostrava periodi alternati di assunziome e di astinenza. I
periodi di assunzione erano caratterizzati dalla comparsa di comportamenti
stereotipati, riduzione dell’assunzione di cibo e della durata del sonno o sua
soppressione totale. Al contrario, comportamenti di consumo di cibo e di riposo
potevano verificarsi nei periodi di non risposta. Nonostante, il fatto che
l’assunzione di droga fosse discontinua, l’accesso illimitato all’amfetamina
produsse un alto tasso di effetti fatali dovuti a consistenti perdite di peso,
convulsioni e altri effetti tossici(Pickens, Miesch e Thompson, 1978, Yokel,
1987). Al contrario, gli animali che avevano un accesso limitato alla droga,
conservarono il loro stato di salute.
Piazza e colleghi (1989) notarono che un gruppo di ratti si differenziavano nello
autosomministrarsi basse dosi di amfetamina. Per determinare se la vulnerabilità
all’autosomministrazione di amfetamina potesse essere correlata a qualsiasi
comportamento pre-esistente, questi studiosi testarono il tempo impiegato dai
ratti nell’abituarsi ad un ambiente nuovo. Gli animali che si abituavano

49
lentamente agli ambienti nuovi (animali che producevano elevate risposte) si
autosomministravano basse dosi di amfetamina, al contrario quelli che si
abituavano rapidamente ai nuovi ambienti (animali che producevano basse
risposte) non riuscivano a somministrarsi la droga(fig.4). Ulteriori esperimenti
hanno mostrato che quattro iniezioni di amfetamina a tre giorni di intervallo
prima dell’inizio del test eliminavano le differenze tra i gruppi(fig.5). In base a
questi risultati si potrebbe ipotizzare che la reattività ai comportamenti pre-
esistenti e l’esposizione pre-esistente alla droga potrebbero contribuire al

Figura 4-5 FATTORI CHE INFLUENZANO L’AUTOSOMMINISTRAZIONE DI


BASSE DOSI DI AMFETAMINA.
(a) Ratti che producono alte risposte alle novità :si autosomministrarono numerose
basse dosi di amfetamina (10 mg per infusione); mentre i ratti che producono basse
risposte si autosomministrarono poche basse dosi di amfetamina; (b)dopo che i soggetti

50
furono sensibilizzati da quattro iniezioni di1.5mg/kg di amfetamina, entrambi i gruppi si
autosomministrarono le stesse dosi di amfetamina(Piazza et al., 1989).

potenziale abuso di una particolare droga. Anche i risultati ottenuti con il


paradigma della preferenza condizionata per ambienti confermano l’effetto
rinforzante di queste droghe (Hiroi e White,1990,1991; Hoffman. 1989). Tuttavia,
è stato anche dimostrato che quando vengono iniettete dosi più basse di droga e ci
sono molti intervalli tra le sessioni di addestramento, l’amfetamina può indurre
l’evitamento della preferenza condizionata per ambienti (Wallet al., 1990). Poiché
la somministrazione intermittente di amfetamina sensibilizza gli animali ai suoi
effetti attivanti, questi risultati sembrano indicare che tale sensibilizzazione
produca effetti avversi.
I diversi studi effettuati per determinare i meccanismi neurochimici che si attivano
nell’autosomministrazione della droga hanno esaminato gli effetti che diversi
antagonisti producono sulla risposta alla droga.
In questi esperimenti fu rilevato che piccole dosi di un antagonista appropriato, in
generale, aumentavano il tasso di risposte quando l’animale tentava di sopperire,
alla diminuita efficacia del “basso rinforzo”, assumendo più droga. Tuttavia,
quando l’animale aveva assunto una dose sufficientemente alta, questa strategia
diventava inefficace e il tasso delle risposte diminuiva. Questo modello di
risposta è stato osservato anche in seguito al trattamento con AMPT o con altri

51
antagonisti dei recettori della dopamina (McGregor e Roberts, 1994; Jokel, 1987).
Poiché, tali effetti non furono notati con bloccanti degli adreno-recettori α o β
sembrerebbe che la dopamina aumenti gli effetti rinforzanti della amfetamina nel
paradigma della auto-somministrazione. Conclusioni simili sono state raggiunte
dal paradigma delle preferenze condizionate per ambienti(Hiroi e White, 1990,
1991; Hoffman, 1989).
Il tentativo Ritz e colleghi(1989) di dimostrare che l'inibizione della cattura delle
monoamine indotto dall’amfetamina è correlato ai suoi effetti rinforzanti non ebbe
successo. Questi ricercatori cercarono di correlare l’efficacia dell’amfetamina e
vari analoghi nell’auto somministrazione con l’efficacia dei trasportatori di DA,
NE, e 5-HT. Non fu ottenuta nessuna correlazione positiva per nessuno dei
trasportatori benché una modesta tendenza fu notata per i trasportatori di legame
DA. Gli autori notarono, anche, che l’amfetamina era più efficace nei suoi effetti
sul comportamento di quanto si sarebbe potuto ipotizzare se si fosse tenuto conto
solamente dei suoi effetti bloccanti la cattura di DA. Così, gli effetti del rilascio di
DA indotti dall’amfetamina potrebbero essere abbastanza importanti per
alimentare l’autosomministrazione.
Il principale sito neuronale degli effetti rinforzanti dell’amfetamina sembra
essere il nucleus accumbens. I ratti si autosomministrano amfetamine direttamente
in queste strutture (Hoebel et al.,1983) ma non in altri terminali dopaminergici
come il nucleo caudato o la corteccia prefrontale mediana(Carr e White, 1986). Il
gruppo Di Chiara ha sviluppato questa ipotesi sostenendo che il trattamento con
amfetamina aumenta preferenzialmente la fuoriuscita di DA nel nucleus
accumbens piuttosto che nel caudato(Carboni et al.,1989).
Benché, alcuni laboratori(Kuczenski e Segal, 19992a; Robinson e Camp, 1990)
non siano riusciti a confermare questi risultati, si ritiene che il sistema DA
mesolimbico svolga un ruolo importante nell’attività rinforzante dell’amfetamina.

52
Il ruolo dei trasmettitori diversi dall’amfetamina

La NE e la 5-HT potrebbero essere coinvolte negli effetti comportamentali


amfetamino- indotti. Per esempio, alcuni ricercatori hanno fornito delle prove sul
fatto che il sistema noradranergico contribuisce agli effetti che stimolano l’attività
locomotoria elicitati dell’amfetamina (Cole, 1978; Tessel, 1990). D’altro lato,
manipolazioni farmacologiche del sistema serotoninergico suggeriscono che la 5-
HT antagonizza gli effetti locomotori indotti dall’amfetamina così come le
autosomministrazioni della sostanza (Lucki e Kuhar, 1979; Segal, 1976). E’
ancora poco chiaro, invece, in che modo i sistemi serotoninergici e
catecolaminergici interagiscano nel modulare il comportamento nei soggetti
trattati con l’amfetamina. Una risposta univoca a questa domanda è
particolarmente importante soprattutto relativamente agli effetti del rinforzo della
droga perché agonisti serotoninergici appropriati, per esempio inibitori della
ricattura come la fluoxetina, potrebbero avere un valore terapeutico rilevante nel
trattamento di individui che abusano di amfetamina e di altre droghe(Yu et
al.,1986).

Tolleranza e sensibilizzazione all’amfetamina

Nonostante, la tolleranza (è un fenomeno biologico per cui l'individuo


consumatore deve aumentare progressivamente le dosi di una droga per ottenere
lo stesso effetto gratificante, piacevole, euforizzante) non sia più usata come uno
dei criteri per diagnosticare la tossicodipendenza, essa è uno degli effetti cronici
prodotto dall’assunzione di amfetamina.
E’ stata osservata tolleranza agli effetti anoressici, ipertermici, cardiovascolari, e
rinforzanti dell’amfetamina e la sua influenza dirompente nella risposta operante
nel rinforzo del cibo. La tolleranza all’amfetamina non è, di solito, una
conseguenza dell’aumentato metabolismo della droga o della clearance(Kuhn e

53
Schangerg, 1978; Perez-Reys et al.,1991) benché; una possibile eccezione possa
verificarsi nell’ uomo come nei casi di anoressia estrema indotta dalla droga, nella
quale la risultante acidificazione delle urine accelera l’espulsione di amfetamina
non metabolizzata. Pertanto, si ritiene che i meccanismi cellulari e
comportamentali svolgano un ruolo importante nelll’eliciare la tolleranza.
Tuttavia, i risultati delle ricerche non hanno ancora risposto in modo univoco
sulla modalità in cui la tolleranza all’amfetamina si sviluppa a livello cellulare.
Demellweek e Goudie (1963)sostengono che dal punto di vista comportamentale
la tolleranza all’amfetamina può essere spiegata come una reazione adattiva alla
rottura di un pattern comportamentale e alla risultante perdita del rinforzo.
Per quanto riguarda la tolleranza agli effetti euforizzanti indotti dall’amfetamina
sull’uomo, i dati attuali sono contrastanti. Uno studio recente non ha scoperto
alcun cambiamento significativo nella risposta soggettiva all’amfetamina in
seguito a 14 dosi giornaliere di 10 ml di droga in una preparazione a rilascio lento
(Perez-Reyes et al., 1991). Al contrario, studi su consumatori cronici di strada
hanno mostrato che si verificava tolleranza agli effetti euforizzanti(Grenspoon e
Hedblom, 1975; Kramer, Fischman e Littlefield, 1967). Infatti, il numero delle
dosi aumentò in modo esponenziale persino durante un singolo “run”.Tale
esposizione a dosi estremamente alte di amfetamina può indurre reazioni
psicotiche.
L’assunzione cronica di amfetamina, in alcuni casi, può indurre lo sviluppo della
tolleranza inversa o sensibilizzazione (condizione di aumentata sensibilità verso
l'effetto di un farmaco risultante da ua precedente esposizione al farmaco stesso).
Diversi studi su animali da laboratorio hanno dimostrato che quando l’amfetamina
viene somministrata con una modalità ripetuta e intermittente i soggetti diventano
sensibili piuttosto che tolleranti agli effetti stimolanti la locomozione e le
stereotipie (fig.6). Tuttavia, la sensibilizzazione all’amfetamina non si sviluppa
nei confronti di tutti i comportamenti stereotipati; essa può durare molto a lungo
dopo la somministrazione della droga(fino ad un anno o più); una singola
iniezione di una piccolissima dose può sensibilizzare a una seconda esposizione

54
alla droga e, infine, trattamenti ripetuti di amfetamina e ripetute esposizioni allo
stress possono provocare una sensibilizzazione crociata (la capacità di un farmaco
di sopprimere le manifestazioni di dipendenza fisica indotte da un altro farmaco e
di mantenere lo stato di dipendenza fisica) (Robinson e Becker, 1986).
La sensibilizzazione alle stereotipie amfetamino-indotte avviene non solo negli
animali ma anche negli esseri umani. Alcuni dei comportamenti stereotipati riferiti
dai consumatori cronici di amfetamina comprendono movimenti bizzarri degli
arti, mordersi le unghie in continuazione, leccarsi le labbra e camminare senza
meta (Schiorring,1981). Altri comportamenti possono essere compresi nella
categoria del “punding”, un termine coniato dallo psichiatra svedese Rylander.
Il “punding” può essere descritto come la continua manipolazione di un solo
oggetto piccolo o lo smistamento compulsivo di molti oggetti piccoli come sassi e
persino lo smontare e rimontare dispositivi come radio o apparecchi televisivi
(Ellinwood, Sudilowski e Nelson1973; Ridley e Baker, 1982). In molti casi la
comparsa di questa modalità comportamentale sembra essere collegata allo
sviluppo di una psicosi indotta dalla amfetamina.

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56
Fig. 6 SENSIBILIZZAZIONE A RISPOSTE COMPORTAMENTALI
STEREOTIPATE IN SEGUITO A RIPETUTE SOMMIINISTRAZIONI
INTERMITTENTI DI AMFETAMINA.
A dei ratti furono somministrati 3mg/kg di amfetamina intraperitonalmente una volta ogni
3-4 giorni. Usando scale di valutazione standard, gli osservatori accertarono la
manifestazione di comportamenti stereotipati in seguito alla prima, alla terza, alla quinta e
alla nona iniezione. L’annusamento stereotipato e i movimenti della testa e degli arti
aumentarono in modo significativo in seguito a ripetute somministrazioni di amfetamina,
mentre i movimenti della bocca rimasero immutati(Robinson e Becker, 1986).

Studi sui recettori hanno dimostrato che l’abuso cronico di farmaci che possono
produrre tolleranza, dipendenza e sensibilizzazione può avere associati effetti sul
numero dei recettori e/o sul mumero dei trasportatori. Studi sul flusso sanguigno e
sulla utilizzazione di glucosio hanno dimostrato che l’abuso acuto di farmaci è
associato a sostanziali riduzioni dell’attività metabolica centrale e che la velocità
di modificazione è correlata agli effetti di rinforzo esercitati dai farmaci di cui si
abusa.

Dipendenza dall’amfetamina

Oltre alla tolleranza, l’altro criterio classico per determinare la tossicomania era la
dipendenza fisica che si manifesta attraverso la sindrome di astinenza in seguito
alla brusca interruzione dell’uso della droga. In base a questo criterio, la
prospettiva iniziale era che le amfetamine e gli altri psicostimolanti non
producessero dipendenza e perciò non fossero tossici. Attualmente, si ritiene
invece che le amfetamine inducano un forte stato di dipendenza psicologica che

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determina il cosiddetto “craving” che si manifesta come l’impellente e
irresistibile voglia del farmaco. Tuttavia, in alcune interviste, un campione
rappresentativo di consumatori cronici di amfetamina ha affermato di aver
sperimentato, nel corso dell’astinenza, reazioni sia psicologiche che somatiche
come: esagerata letargia, difficoltà di concentrazione, mancanza di motivazione,
ansia, sonno prolungato con presenza di sogni causati dal rebound
REM(Grinspoon e Heldblom,1975: Kramer, Fischman e Littlefield, 1967). Come
era facilmente prevedibile, dalle suddette interviste è anche emerso che il grado
della sintomatologia dovuta all’astinenza variava a seconda della durata dell’uso
della droga e alla dose assunta. In alcuni casi. i gravi sintomi hanno portato a
formulare una diagnosi di depressione clinica.
Ci sono delle prove ottenute in alcuni studi che suggeriscono che la depressione,
la disforia e il craving associati all’astinenza da una varietà di sostanze di abuso
potrebbero essere collegate al ridotto rilascio di DA da parte dei neuroni
mesolimbici (Rossetti, Hmaidan e Gessa, 1992).

Psicosi causate dall’amfetamina

Connel e colleghi (1958) hanno descritto un tipo di reazione psicotica che si


verifica in un grande numero di consumatori di forti dosi di amfetamina. Questa
reazione solitamente consiste in allucinazioni visive e uditive, disordini
comportamentali e lo sviluppo di stati paranoidei con manie di persecuzione. Nei
casi gravi, il consumatore è convinto di essere infestato da parassiti sottocutanei.
Tali allucinazioni parapsicologiche inducono a grattarsi freneticamente nel futile
tentativo di liberarsi dall’immaginario flagello. I consumatori di amfetamina
riferiscono che la paranoia e le allucinazioni iniziano dopo il secondo o il terzo
giorno di “speed run”(Kramer, Fischman e Littlefield, 1967) e che di solito non si
verificano durante la prima esposizione alla droga ma soltanto con l’abuso
cronico. Ciò nonostante, i consumatori che avevano sperimentato una reazione

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psicotica erano più suscettibili alla ricaduta, perfino dopo un lungo periodo di
astinenza dalla droga(Sato et al.,1983). Molti dei sintomi delle psicosi amfetamino
indotte sono molto simili a quelli della schizofrenia paranoidea e i consumatori di
amfetamina sono stati spesso, erroneamente, diagnosticati come schizofrenici.
Anche prima di raggiungere uno stato di inconfondibile psicosi, chi fa uso di
amfetamina sviluppa una vaga diffidenza, che peggiora gradualmente fino al
punto che il soggetto sente che ogni cosa che accade nell’ambiente circostante ha
una particolare attinenza con lui. Si tratta di un ossessione che gli psichiatri
definiscono “idee di riferimento”. Quando le idee di riferimento peggiorano, si
verificano delusioni: il soggetto comunica a pensare che sia circondato da nemici
che complottano contro di lui. Forse la similitudine più importante tra la psicosi
indotta dall’amfetamina e la schizofrenia classica è che i sintomi sono attenuati
dai neurolettici antischizofrenici meglio di qualsiasi altro intervento terapeutico.
Pertanto, le psicosi amfetamino e cocaino indotte sono ritenute come uno dei
migliori modelli disponibili della schizofrenia. Per studiare la possibile eziologia
della schizofrenia alcuni laboratori hanno sviluppato alcuni modelli animali che
comportano o iniezioni intermittenti di amfetamina o un’esposizione continua
sottocutanea. I contrastanti resoconti di Robinson e Becker(11986) dimostrano che
il dibattito continua su quale sia il modello migliore per elicitare gli effetti
neurologici comportamentali e schizofrenico-simili.
Attualmente si ritiene che gli effetti psicotici indotti dall’amfetamina siano legati
alla liberazione di 5-HT dai neuroni triptaminergici nel sistema mesolimbico.

Gli effetti neurotossici dell’amfetamina

Gli effetti neurotossici dell’amfetamina sono stati pienamente dimostrati.


Gli studi animali che comportavano ripetute somministrazioni di amfetamina
hanno rilevato concentrazioni consistentemente ridotte di DA e dell’attività della
tirosisa idrossilasi nel nucleo caudato(Koda e Gibb, 1973; Seiden, Fischman e

59
Schuster, 1975, 1976). Successivamente. gli studi di Ellison e colleghi(1978)
hanno evidenziato che la continua esposizione all'amfetamina produce lo
svuotamento di molti assoni contenenti catecolamine nel caudato.
Poiché, un effetto simile fu riscontrato in seguito alla soministrazione della
neurotossina delle catecolamine 6OHDA, alcuni ricercatori hanno ipotizzato che il
trattamento con l’amfetamina danneggi le fibre dopaminergiche nel tratto nigro-
striatale.
Oltre ai risultati sopra citati, altre prove della neurotossicità indotta
dall’amfetamina nei sistemi dopaminergici comprendono: la ridotta densità dei
trasportatori di sito della dopamina (Wagner et al.,1980) e segni istologici delle
degenerazioni dei terminali dei nervi dopaminergici (Ricaurte et al, 1982;
Ricaurte, Seiden e Schuster,1984). Gli indici più gravi della neurotossicità sono
stati rilevati nel nucleo caudato mentre le vie mesolimbiche e mesocorticali
sembrano essere meno danneggiate. Al contrario, si ritiene che i neuroni DA
ipotalamici siano completamente risparmiati (Ellison et al., 1978; Morgan e Gibb,
1980; Ricaurte, Schuster e Seiden, 1980; Ricaurte et al.,1982). Nonostante, i gravi
danni ai terminali DA nel tratto nigro striatale, sembra che le cellule del corpo
nella sostanza nigra rimangano intatte(Ricaurte et al., 1982). Tuttavia, risultati
recenti indicano che il danno cellulare può verificarsi con concentrazioni molto
alte di metamfetamina (Bennet.et al., 1993).
Diversi studi hanno ipotizzato che la neurotosssicità dell’amfetamina e della
metamfetamina non sia limitata al sistema dopaminergico, ma che interessi, sia
pure in misura minore, anche il sistema serotoninergico, mentre sembra che i
sistemi noradrenergici, colinergici e gabaerbici siano solo relativamente
danneggiati (Hotchkiss, Morgan,e Gibb, 1979; Morgan e Gibb, 1980; Wagner et
al.,1980)
Inoltre, il trattamento continuo con l’amfetamina sembra indurre degenerazione
assonale e perfino cellulare in alcune aree della neocorteccia dei ratti (Ryanet al.,
1990).

60
Il possibile meccanismo sottostante la neurotossicità dell’amfetamina e della
metamfetamina è stato studiato soprattutto relativamente al sistema DA. Le
degenerazioni dei terminali DA del caudato amfetamino-indotte possono essere
prevenute da un pretrattamento con AMPT o da inibitori della cattura di DA e
questo effetto si correla bene con l’ipotesi che la neurotossicità sia causata dal
rilascio di DA indotto dalla diffusione inversa (Fuller e Hemrick-Luecke, 11980;
Hotchkiss e Gibb, 1980; Ricaurte, Seiden e Schuster,1984).
In realtà recenti risultati suggeriscono che l’amfetamina o la metamfetamina
inducono i loro effetti neurotossici aumentando in maniera esponenziale le
concentrazioni extracellulari di DA (O’Dell, Weihmuller e Marshall, 1993;
Sonsalla, Riordan e Heikkila, 1991). Meno chiari sembrano essere i risultati che
dimostrano che gli antagonisti dei recettori dell’amfetamina o della NMDA
bloccano la tossicità dell’amfetamina nel nucleo caudato(Marshall, O’Dell e
Weihmuller, 1993; Sonsalla, Riordan e Heikkila, 1993). Tuttavia, il gruppo di
Marshall(1993) afferma che questi agenti esercitano un’azione neuroprotettiva
attenuando gli effetti di iniezioni multiple di metamfetamina
Benchè, le possibili cause della degenerazione dei terminali dopaminergici non sia
stata ancora individuata, recenti teorie sostengono che esse siano da ricercare nei
processi di formazione dei radicali liberi dell’ ossigeno(Cadet et al., 1994
Cubelles et al.,1994); e nei cambiamenti del metabolismo energetico(Chan et al.,
1994).
Infine, ci si interroga se i risultati di alcuni studi effettuati con animali da
laboratorio, che hanno dimostrato che il trattamento con l’amfetamina e la
metamfetamina producono danni cerebrali soprattutto nel sistema motorio
extrapiramidale, possano essere estesi agli abusatori umani di queste droghe.
Attualmente, non ci sono prove clinche di deficit nel sistema nigrostriatale nei
consumatori cronici di amfetamina e metamfetamina. Tuttavia, poiché il danno
indotto dalla droga in questo sistema è solo parziale, infatti, perfino gli animali
trattati con metamfetamina non mostrano deficit comportamentali a meno che
non siano indotti farmaceuticamente, è verosimile che gli effetti neurotossici

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latenti si manifestino successivamente sia come aumentata vulnerabilità alla
malattia di Parkinson o ad un suo inzio precoce.
I dubbi su un’eventuale perdita dei siti di trasporto di DA indotta dall’abuso di
amfetamina potrebbero essere fugati, secondo gli autori, utilizzando l’audiografia,
mentre quelli sugli effetti neurotossici della droga sul sistema nigrostriatale
umano potrebberero essere risolti usando la tomografia ad emisssione di
positroni(Feldman R.S., Meyer J.S., Quenzer L.F., “Principles of
Neuropsychopharmacology”, op.cit.1997).

La MDMA

La MDMA (3,4 metilendiossi-N- amfetamina) è una fenilalchilamina


strutturalmente legata all’amfetamina e alla mescalina, il principale composto
attivo del cactus allucinogeno peyote. Per questo motivo alcuni studiosi hanno
incluso la MDMA in una nuova classe di farmaci: gli entactogeni. Gli entactogeni,
o empatogeni, come la MDA, la MDE e la MBDB, a differenza delle
amfetamine, uniscono effetti eccitanti ad effetti di natura psichedelica.
La MDMA è un mix semisintetico ottenuto dal safrolo, uno degli oli essenziali
presenti nel sassofrasso, nellla noce moscata, nel macis, nel prezzemolo, nello
zafferano, nella vaniglia, nella radice di acoro e in altre specie vegetali.
La MDMA esiste nella versione levogira e destrogira. Tuttavia, è l’isomero D che
è attivo, mentre quello L non produce alcun effetto.
I nomi di strada della MDMA sono “E”, “Adam”, “X”, “XTC”, “Stacy”,
“Lover’speed”, “Empathy”, e “Ecstasy”.
La MDMA fu sintezziata nel 1914 in Germania e, pur essendo stata brevettata
dalla Merck come anoressante, non fu mai messa in commercio.

62
Sembra che durante la prima guerra mondiale fu somministrata ai soldati della
prima linea per combattere la fame e la sete.
Poi scomparve e riapparve nel 1953 nei laboratori dell’università del Michigan
dove, su commissione del’esercito americano, fu studiata in modo sistematico.
Tuttavia, i risultati non sono mai stati resi noti
Sparì di nuovo per circa 20 anni e nel 1970 il biochimico Alexander Schulgin la
risentitizzò nel suo laboratorio.
Successivamente, la MDMA si diffuse negli ambienti “underground” californiani
e statunitensi. Nello stesso periodo alcuni psichiatri dell ’West Coast
cominciarono ad usarla nelle sedute terapeutiche con pazienti ansiosi, boderline e
con difficoltà di verbalizzazione e di comunicazione.
Durante gli anni tra il 1977 e il 1984 il numero di persone che usava la MDMA su
se stesse e sugli altri era ancora limitato. Da un lato, c’erano, come accennato,
alcuni terapeuti sperimentali, come Ann Schulgin. che la somministravano ai
pazienti nelle sedute di gruppo e individuali. Dall’altro, c’erano alcuni esponenti
della controcultura degli anni ’60 che la usavano soprattutto “per espandere la
coscienza”.
Quindi, la MDMA si diffuse, anche, tra gli yuppies e tra gli studenti.
Nel 1985, la DEA (Drug Enforcement Administration) inserì la MDMA nella
categoria delle droghe sottoposte a controllo legale giustificando il provvedimento
con l’assenza di una applicazione medica documentabile, la diffusione dell’uso
ricreativo e il rischio di neurotossicità.
Dopo il 1985, la MDMA iniziò ad essere prodotta clandestinamente e distribuita
dalla rete degli spacciatori.
L’uso ricreazionale della MDMA iniziò tra i partecipanti ai “raves” e tra i
frequentatori dei clubs più esclusivi di Chicago, New York, San Francisco e
Detroit dove si stava cominciando a sperimentare un nuovo tipo di musica: la
“house music” e il suo sottogenere “la “garage music”. Ma fu con l’avvento della
“tecno music”, una versione molto aggressiva della “house music” totalmente
computerizzata da 140/160 battute al minuto, che il matrimonio tra la MDMA e la

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dance music diventò indissolubile. Dall’America la “house music”, la “tecno” e
la MDMA arrivarono ad Ibiza e a Valencia le capitali dell’”entertainment”
europeo, quindi a Londra e a Manchester e poi in tutta Europa.
In Italia la dance music, i “raves” e la MDMA inziarono a diffondersi nel 1988. Il
primo “rave” importante ebbe luogo presso la discoteca “Doing” di Aprilia nel
1990.
Da allora, l’uso ricreativo di ecstacy è aumentato in modo inarrestabile in tutto il
mondo occidentale. Questo fenomeno dipende da molti fattori:
- l’ecstacy è ritenuta la sostanza che più di altre risponde alla maggior parte dei
requisiti che caratterizzano le cosìddette “designer drugs” di cui è considerata la
principale esponente;
- per i consumatori essa, come altre droghe prodotte in laboratorio, veicola
un’immagine rassicurante, pulita, quasi innocua, e quindi è più accettata e meno
temuta della cannabis e degli oppiacei la cui immagine è legata alla raffinazione di
materie prime provenienti da paesi percepiti come meno sviluppati e lontani da
ogni forma di civiltà.
L’ecstacy, inoltre:
- risponde a una crescente richiesta di rendimento e di efficienza nel lavoro e nel
tempo libero; a bisogni diffusi di successo, di eccitazione, di espandere gli stati di
coscienza, di facilitazione sociale, di appartenenza e di sfida;
- è funzionale alle nuove modalità di divertimento e di aggregazione;
- aiuta a ridurre gli stati di disagio, ad accettarsi e ad essere accettati, ad inserirsi
nel gruppo dei pari;
- favorisce la ricerca di autonomia, di nuove sensazioni, di emancipazione, il
passaggio dallo stato di preadolescente al quello di giovane adulto.
Inoltre, per molti, inclusi alcuni professionisti, l’assenza apparente di effetti
secondari immediati e la possibilità di evitarli mediante determinate
precauzioni(ad esempio bere acqua, riposare periodicamente, non assumere
contemporaneamnte altre sostanze, ecc.), ha fatto sì che sorgesse nei consumatori
l’illusione di potere usare questa droga senza alcun problema.

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Per il mercato illecito, la MDMA è un affare colossale da tutti i punti di vista. Il
suo commercio è fonte di enormi profitti, la sua produzione è poco costosa e
rischiosa. Infatti, rispetto all’eroina e alla cocaina che necessitano di milioni di
ettari da coltivare, l’impiego di migliaia di coltivatori, raffinatori e trasportatori
con elevati rischi; la fabbricazione, in pochi giorni, di milioni di pasticche di
ecstacy è molto più semplice: è sufficiente una piccola cucina, un chimico di non
elevato spessore e precursori poco costosi e facilmente reperibili sul mercato.

Epidemiologia

Il Consiglio d’Europa ha stimato che, dopo la cannabis, la MDMA sia la droga


più consumata e che l’età della prima assunzione si sia abbassata a 11 e perfino a
12 anni.
Relativamente all’ Italia, il prefetto Pietro Soggiu, commissario per il governo per
il coordinamento delle politiche antidroga nell’unione europea, il 21 novembre
2003 ha dichiarato che nel nostro paese il business delle droghe sintetiche,
amfetamina e ecstacy, ha un fatturato di 65 miliardi di dollari con profitti che
arrivano al 3000% per una quota di consumatori aumentata del 70% negli ultimi
cinque anni( Il Messaggero. 22 novembre, 2003, p.13).
Da diverse ricerche, emerge che i consumatori medi di MDMA non sono degli
emarginati; essi, infatti, provengono da tutte le classi sociali, sono per lo più
maschi, studiano o lavorano nei settori di punta, hanno buoni stipendi che in parte
investono nel tempo libero, prendono l’ecstacy in discoteca, allo stadio, quando
partecipano ai “raves” o a gli “afterhours” e molti di essi sono poliassuntori.
Per quanto riguarda il numero di decessi riconducibili all’uso di MDMA, i dati
disponibili sono contrastanti. N. Saunders, uno dei maggiori sostenitori europei
dell’uso di ecstasy ha affermato che questa droga non ha provocato alcun decesso
e che: “c’è un rischio di morte 300 volte maggiore nel concedersi una sciata

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nell’ weekend rispetto al consumo di una pastiglia di ecstacy”( N. Saunders, “ E
come ecstacy”, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 84)).
In Inghilterra, Lifeline (un’associazione benefica che ha lo scopo di aiutare
persone che hanno problemi correlati all’uso di droghe), stima che ci siano circa
5000 consumatori di MDMA settimanali e che dall’nizio del fenomeno a oggi si
siano verificati circa 70 decessi legati all’uso di ecstacy. Nella maggior parte dei
casi, la morte era causata da ipertermia.
L’ecstasy consumata in Italia proviene, soprattutto, dall’Olanda ma anche dai
paesi dell’Est, dalle Repubbliche Baltiche con la complicità della mafia russa e di
chimici disoccupati degli ex -paesi socialisti (DEA, “Traffico e abuso di
amfetamine e di MDMA in Europa”, 2000).
Per quanto riguarda il numero dei decessi riconducibili al consumo di ecstasy nel
nostro paese, non esistono dati certi, tuttavia sembra che non superino la decina.

Farmacologia

La dose di ogni singola compressa di MDMA è variabie ma, in genere oscilla tra i
75 e 150 mg/kg e solitamente viene assunta per via orale. Tuttavia, alcune persone
la sbriciolano e poi la sniffano, altre se la iniettano per velocizzare gli effetti. Un’
altra modalità che sta riscuotendo molto successo è quella di berla, dopo averla
fatta sciogliere in qualche bevanda.
L’assorbimento della MDMA somministrata oralmente è rapido e il picco
plasmatico si raggiunge in circa 2 ore. L’emivita del farmaco è intorno alle 6-7 ore
ed in 72 ore il 72% della dose somministrata è eliminata con le urine.
Nel ratto l’emivita è stimata in circa 70 minuti per l’isomero destrogiro ed in
circa 100 minuti per quello levogiro.
Le compresse di MDMA vendute dagli spacciatori contengono circa 50-100mg di
principio attivo; ovviamente, la produzione illecita non prevede controlli della
qualità per cui esse sono caratterizzate da un’ampia variabilità di purezza ed

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effetti farmacologici. Le pastiglie di ecstasy, molto spesso, contengono, oltre a
sottoprodotti e intermedi di reazione, polvere, sabbia, stricnina e veleno per topi.
Il tipo e la qualità delle impurezze dipendono dal metodo di sintesi, dalla qualità e
dalla provenienza dei precursori, dal tempo di reazione, dalla temperatura, dalla
condizione di idrolisi degli intermedi e dalle procedure di purificazione. La
maggior parte delle impurezze sono debolmente basiche o neutre e, in generale,
sono presenti a livelli inferiori al 2-3%.
Per rendere l’uso delle compresse di MDMA più appetibile, esse sono
commercializzate in colori e forme diverse e di solito contengono la riproduzione
delle iniziali del consumatore o di persone a lui care, oppure una grande varietà di
disegni.
L’aspetto esteriore della pastiglia può trarre in inganno perché il contenuto può
essere diverso da quello di pastiglie con l’aspetto simile assunte in precedenza. In
alcune discoteche è stato istutuito un servizio di controllo del contenuto delle
compresse in modo che il consumatore possa avere almeno un’indicazione di ciò
che sta per prendere. In Inghilterra è stato messo in commercio un kit diagnostico
con il medesimo scopo.

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Il meccanismo d’azione della MDMA

La MDMA è generalmente considerata un agonista monoaminergico indiretto che


induce sia il rilascio che l’inibizione della ricattura della 5-HT e in misura minore
delle DA. Tuttavia, studi recenti sostengono che gli effetti più importanti indotti
dalla MDMA siano quelli legati all’inibizione della cattura della 5-HT (Travani et
al., 2000) e non quelli che elicitano l’aumento del suo rilascio (Liecti et al.,2000).
Si ritiene che il meccanismo d’azione della MDMA sul sistema serotoninergico
sia simile a quello dell’amfetamina sul sistema dopaminergico. La MDMA entra
nel terminale sinaptico probabilmente in scambio con la 5-HT e blocca il carrier
per il trasporto del neurotrasmettitore all’interno delle vescicole che si trovano
nel bulbo terminale dell’assone serotoninergico. Contemporaneamente essa
inibisce le MAO soprattutto quelle di tipo A. In questo modo la concentrazione
della 5-HT nel citoplasma supera quella nello spazio sinaptico e si determina
un’inversione di trasporto del carrier di membrana per cui la 5-HT accumulata nel
citoplasma si riversa con meccanismo calcio–indipendente nello spazio
intersinaptico (A. Vendramin, A. M. Sciacchitano, “MDMA ed Ecstasy: breve
viaggio fra falsi miti e preoccupazioni reali”, in MTD- It./ 22- 23 . marzo- giugno,
1999, pp.10-18) (Fig. 1-2).
Questa teoria sul meccanismo d’azione della MDMA è confermata dai risultati
ottenuti mediante la microdialisi cerebrale su animali svegli o liberi di muoversi.
Essa ha, infatti, dimostrato che la MDMA induce un significativo aumento della
concentrazione extracellulare di serotonina nello striato e nella corteccia
cerebrale. Tale incremento, il cui andamento ben si correla alla durata degli effetti
attbribuibili alla MDMA, è dose-dipendente e risulta esser potenziato dal
pretrattamento con un precursore della 5-HT come il 5-idrossitriptofano(5HTP).
Esso, è, inoltre, diminuito dalla cosomministrazione di un inibitore della ricattura
della 5-HT come la fluoxetina, mentre, non è influenzato dalla
cosomministrazione di un bloccante il potenziale d’azione come la tetrodotossina.

72
73
Fig. 1

74
75
Fig. 2

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La microdialisi cerebrale ha, anche, evidenziato che la MDMA induce, sia
direttamente che indirettamente mediante la sua azione sul recettore postsinaptico
5-HT2AIC, modificazioni neurochimiche nel sistema dopaminergico provocando
l’aumento della concentrazioni extracellulari di DA. Oltre, che a causa del
meccanismo sopraelencato, l’aumento della concentrazione extracellulare di DA
indotto dalla MDMA avviene, anche, per azione della 5-TH sul recettore
postsinaptico 5-HT2a/c posto su un interneurone inibitore GABA. La
stimolazione di questo recettore diminuisce la trasmissione gabaergica che
incrementa la sintesi e il rilascio della DA(Vendramin e Sciacchitano , art. cit.,
p.112).
La MDMA, in una prima fase, come accennato, provoca l’aumento della
trasmissione serotoninergica e poi la blocca. Durante le prime 4-6 ore dopo
l’assunzione l’incremento di serotonina è rilevante ma dopo essa diminuisce
drasticamente e questa fase può durare sino a 3-4 giorni. Si ritiene che il blocco
della trasmissione serotoninergica sia causato dall’inibizione della triptofano
idrossilasi(TPH) e dalla diminuzione della concentrazione dell’acido 5-
idrossindoloacetico(5HIAA).
Nei ratti una singola dose di MDMA(10mg/kg) produce un effetto bifasico. Nella
prima fase si registra una deplezione acuta della 5-HT 3-6 ore dopo la
somministrazione e normalizzazione delle concentrazioni di serotononina entro 24
ore. La seconda fase della deplezione della 5-HT si verifica una settimana dopo il
trattamento con la droga ed è accompagnata da una diminuzione delle
concentrazioni dell’acido 5-HIAA, dell’attività della triptofano idrossilasi e della
densità dei siti della ricattura della 5-HT.
Secondo i ricercatori del CNR di Pisa, l’ecstasy e la cocaina agiscono
direttamente a livello del DNA trasformandolo e provocando mutazioni. Inoltre,
considerata la stretta relazione tra mutagenesi e cancerogenesi, essi hanno
ipotizzato che tali droghe potrebbero causare neoplasie(ANSA, 5 dicembre 2003).

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Effetti prodotti dalla MDMA nell’uomo

La MDMA, aumentando il rilascio della 5-HT, potenzia in modo rilevante le


funzioni controllate da questo neurotrasmettitore.
Gli effetti prodotti dall’ecstasy 20 minuti –1 ora dopo l’assunzione sono: euforia,
eccitazione, aumento della vigilanza, della sensualità, delle prestazioni cognitive e
del tono dell’umore, forte sensazione di benessere, diminuzione della fame, del
sonno, della fatica, del senso del pericolo e della sete.
La sostanza produce anche effetti empatogeni come: aumento della fiducia in se
stessi, delle percezioni sensoriali, della tendenza a comunicare e della profondità
dei sentimenti, migliora la comuncazione intrapsichica e l’ apertura verso nuove
idee, favorisce la capacità di immedesimarsi nei pensieri e negli stati d’animo
degli altri, annulla i confini tra il sè e il mondo esterno, e altera la percezione del
tempo.
Gli effetti dell’ecstasy riassunti nella tabella 1 giustificano la sua reputazione di
“social entertainer”, di “emotional , spiritual arouser”(Sollowj et al., 1992).
I consumatori di ecstasy riferiscono che dopo gli effetti gratificanti si
manifestano altri effetti simili a quelli del “crash”: dolori muscolari, fatica
depressione, irritabilità, difficoltà a concentrarsi e mal di testa.
Gli effetti positivi sono indotti dall’aumento del rilascio di 5-HT mentre quelli
indesiderati dalla diminuzione della sua sintesi.
Dopo assunzione acuta possono verificarsi anche una serie di manifestazioni
somatiche, irrequietezza, alterazione della coscienza, iperiflessia, mioclono,
pallore cutaneo, convulsioni, piloerezione, midriasi, bruxismo, trisma, andatura
instabile, secchezza alle fauci e sintomi gasrointestinali tipo nausea e diarrea.
Nei casi più gravi si osserva asistolia, aritimia, acidosi metabolico, stroke
cerebrale, aumento o sbalzi della pressione sanguigna, a volte respirazione
difficoltosa per eccessiva concentrazione di ossigeno nei polmoni, convulsioni,

78
coma, rabdomiolisi con mioglobinuria, trombocitopenia, coagulazione
intravascolare disseminata, insufficienza renale acuta e, talvolta, ipertermia. Il
fegato è un ulteriore bersaglio della tossicità acuta della MDMA, come dimostrato
dai casi di insufficienza epatica di grado abbastanza grave associata all’assunzione
di ecstasy (Ellis et al., Jones&Simpson, 1999).Tuttavia, l’epatopatia può
svilupparsi, anche, in assenza di altre manifestazioni tossiche acute da ecstasy, e
non è sempre associata a ipertemia(Milroy et al., 1996). Un recente studio ha
evidenziato un meccanismo di stress ossidativo nella patogensi della fibrosi
epatica da ecstasy. La deplezione di glutatione e la produzione di acqua ossigenata
aumenta, infatti, la capacità del’ecstacy di indurre la sintesi in vitro di collagene
da parte delle cellule stellari epatiche(Vrela-Rey et al., 1999).
Tuttavia, per molti di questi effetti manca una chiara correlazione con la dose di
sostanza assunta.
Una possibile spiegazione di questo fenomeno si basa sulla constatazione che il
metabolismo della droga è svolto dal citocromo P450 2D6 (Tucker et al., 1994,
Lin et al., 1997) un enzima carente nel 5-9% dei soggetti di origine caucasica
(Gonzales & Meyer, !991). Si ritiene, pertanto, che in questi soggetti dosi
“normali” di MDMA elicitino livelli plasmatici del farmaco inappropriatamente
elevati( Glenn et al., 1995). Questa ipotesi è ulteriormente sostenuta dalle recenti
osservazioni che sostengono che la tossicità della MDMA sia potenziata dagli
inbitori delle proteasi dell’HIV-1 (Hampton et al., 1999, Happy et al., 1988). Tale
potenziamento sarebbe da attribuirsi al fatto che questi chemioterapici antivirali
sono dei potenti inbitori del citocromo P-450 .
Relativamente, agli aumenti dell’attività farmacologica delle sostanze psicoattive
e delle amfetamine in particolare in ambienti surriscaldati è stato dimostrato che il
rilascio di neurotrasmettitore da parte dell’amfetamia e delle sostanze
amfetamino-simili è facilitato da un aumento della temperatura ambientale (Sabol
&Seiden, 1998; Clausing et al., 1995; Mallberg & Seiden 1999). In particolare è
stato osservato che dosi relativamente elevate di (MDMA (20-40 mg.), alla
temperatura di 26-30° C., ma non a quella di 20-24° C, producono diffuse lesioni

79
delle terminazioni serotoninergiche nella corteccia e nello striato (Malberg &
Seiden, 1999). Poichè l’ipertemia facilita la formazione di radicali liberi (Globus
et al., Kil et al., 1996) è verosimile che il danno neuronale sia potenziato
dall’aumento della temperatura e, al contrario ridotto dall’induzione della
ipotermia (Colado et al., 1999).

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81
Effetti teratogeni

In merito alla possibilità che l’amfetamina e l’ecstasy inducano effetti teratogeni,


numerosi studi clinico-epidemiologici e sperimentali, hanno evidenziato casi di
morte intrauterina, malformazioni(mielomeningocele), ritardo di crescita
intrauterina, elevato tasso di prematurità alla nascita con alterazione di parametri
auxometrici quali peso corporeo, altezza, circoferenza cranica(Eriksson et al.,
1976, Bost et al., 1989).
Durante il primo anno di vita sono state osservate iponutrizione, scarsa vivacità e
apatia, talvolta, le alterazioni compaiono successivamente e sono caratterizzate da
aprassia oculomotoria, distonia parkinsoniana, tremore intenzionale, emiparesi
(Dixon, 1989).
Nonostante, siano ancora pochi gli studi finalizzati alla caratterizzazione degli
effetti prodotti dalle cosiddette “designer’ drugs” sull’organismo in via di
sviluppo, i risultati di recentissime ricerche hanno dimostrato che l’esposizione
dell’embrione di pollo alla MDMA produce alterazioni motorie, modificazioni
della vocalizzazione, tremori, alterazioni posturali e perdita del riflesso di
raddrizzamento (Bronson et al., 1994).
E’ stato, infine, dimostrato che l’esposizione alla MDMA, durante il periodo
postnatale induce, nel ratto, deficit nel test di apprendimento spaziale (labirinto di
Cincinnati) e una ridotta capacità di orientamento nel labirinto acquatico di Morris
(Vorhees,1997).

Effetti neurotossici della MDMA

Molti autori ritengono che la MDMA sia una potente neurotossina selettiva della
5-HT in una varità di specie di mammiferi compreso il primate non umano. Da
quasi tutti gli esperimenti effettuati è emerso che la MDMA causa degenerazione
delle terminazioni nervose su cui essa esercita l’azione rilasciante(Seiden &

82
Sabol, 1996). Uno stress ossidativo, fonte del danno, sarebbe innescato dalla
capacità della sostanza di prevenire la formazione dei depositi di serotonina nelle
terminazioni sinaptiche. Infatti, la MDMA incrementa la formazione di sostanze
reattive all’acido tiobarbiturico. Ciò provocherebbe il mantenimento in
permanente stato di attivazione dei sistemi di trasporto vescicolari e presinaptici
dei neurotrasmettitori coinvolti. Ne risulterebbe un deficit energetico, testimoniato
dal rapido depauperamento delle scorte gliali di glicogeno, con conseguente
impossibilità da parte della terminazione di provvedere a processi di regolazione
omeostatica, quali la prevenzione dello stress ossidativo, appunto, ma anche il
mantenimento dei gradienti ionici transmembrana e la compartimentalizzazione
intracellulare dello ione calcio(Huether et al., 1997). Questa ipotesi sembra
confermata dal fatto che il reagente “spin trap,” a-fenil-N-ter-butyl-nitrone, che
inattiva i radicali liberi, previene la neurodegenerazione indotta dalla MDMA.
Secondo Sprague et al.(1998), al contrario, la lesione delle terminazioni
serotoninergiche potrebbe essere conseguenza della formazione di radicali liberi
formatesi in seguito alla inappropriata cattura di dopamina da parte di tali
terminazioni.
Anche secondo Vendramin e Sciacchitan, il danno assonale e l’ inattivazione del
TPH non possono essere attribuiti né ai prodotti metabolici della MDMA, né a
quello della 5-HT. Essi sostengono che la DA è chiaramente implicata nel
meccanismo neurotossico della MDMA poichè:
- esiste una correlazione lineare tra il rilascio acuto di DA e danno a lungo termine
delle terminazioni serotoninergiche,
- il pretrattamento con -metil-paratirosina, inibitore della sintesi di DA, attenua
l’alterazione degli assoni serotoninergici,
- la distruzione delle teminazioni nervose dopaminergiche con la neurotossina
6.OH-DA determina la completa protezione dalla neurotossicità dellla MDMA,
Inoltre, i due studiosi hanno osservato un aumento della neurotossicità indotta
dalla MDMA in seguito a pretrattamento con L-DOPA e che la preventiva
somministrazione di triptofano(TP) o 5-idrossitriptofano(5-OHPT) previene,

83
invece, che aumentare la neurotossità (Vendramin, A. M. Sciacchitano, art. cit.,
p.15).
In merito alla neurotossicità della MDMA per i sistemi serotoninergici, ci sono
prove istologiche che essa produce effetti neurotossici nei neuroni che originano
dal rafe dorsale(Seiden e tal., 1993), ma non in quelli del raphe mediano. La
degenerazione dei terminali assonali dei neuroni serotoninergici inizia poche ore
dopo l’ultima somministrazione della droga e perdura per molti mesi. Essendo
risparmiati i pirenofori, gli assoni sono in grado di rigenerarsi. La reinnervazione,
come dimostrato dall’autoradiografia dei siti di cattura della 5-HT e dallo studio
immunocitochimico degli assoni reattivi del ratto albino e soprattutto della
scimmia scoiattolo, è caratterizzata da riorganizzazione delle loro proiezioni
assonali ascendenti serotoninergiche con denervazione della neocorteccia dorsale
e iperinnervazione di amigdala e ipotalamo. Da tutti i modelli sperimentali, ad
eccezione del topo con il quale i risultati ottenuti da diversi esperimenti non sono
sempre stati univoci, è emerso che la somministrazione di un’unica dose elevata
di MDMA o trattamenti ripetuti con la sostanza producono una diminuzione di 5-
HT cerebrale, di 5-HIAA liquorale e dell’attività triptofano-idrossilasica. La
perdita del contenuto cellulare di 5-HT avviene in due fasi. La prima coincide con
il rilascio acuto di 5-HT dopo il quale le concentrazioni si rinormalizzano
nell’arco delle 24 ore. La seconda fase corrisponde alla diminuzione a lungo
termine del contenuto di 5-HT; essa si instaura nell’arco di tre giorni e persiste per
oltre un anno. Nel primate non umano gli effetti neurotossici della MDMA si
manifestano anche dopo somministrazione orale e piccoli aumenti di dose causano
incrementi cospicui della deplezione di 5-HT. Le diminuzioni più rilevanti, come
confermato da immagini PET, del cervello del babbuino, si verificano nella
neocorteccia, nello striato e nell’ippocampo, quelle più lievi si riscontrano nel
tronco encefalico e nell’ipotalamo.
Gli effetti comportamentali indotti dalla neurotossicità serotoninergica sono stati
analizzati anche in molti altri animali da laboratorio . Animali trattati con dosi di
MDMA che determinano una riduzione fra il 35% ed il 70% dei livelli di 5-HT

84
nello striato e nell' ippocampo non hanno evidenziano cambiamenti, ad esempio,
in “emergence”, “hot plate responce”, nel test del nuoto e in quello del labirinto a
otto bracci radiali. E’ stato, invece dimostrato che diminuiscono le vocalizzazioni
ultrasoniche dei piccoli dei ratti dopo la separazione dalla madre.
Tuttavia, questi modelli comportamentali potrebbero essere influenzati dall’azione
di altri neurotrasmettitori.
Pertanto, è difficile stabilire la percentuale di neurotossicità indotta dalla MDMA
ed estendere questi dati all’uomo.
Ciononostante, conferme indirette di un deficit del sistema serotoninergico sono
state ottenute anche nell’uomo, in soggetti che utilizzano cronicamente la MDMA
e’ stato infatti, dimostrato che: dosi elevate di ecstasy somministrate ripetutamente
sono correlate ad una diminuzione del 25% dei livelli di 5-HIAA nel liquido
cerobrospinale.
Un’altra tecnica utilizzata per valutare indirettamente il potenziale neurotossico
della MDMA è quella di somministrare ai consumatori di questa droga antagonisti
della 5-H.
Anche la tomografia a emissione di positroni (PET) ha evidenziato una ridotta
densità del trasportatore della serotonina e dellla captazione del glucosio in varie
aree cerebrali di consumatori pregressi di MDMA(McCann et al., 1999, Obroki et
al., 1999).
Per quanto riguarda le eventuali conseguenze funzionali di tali lesioni, l’utilizzo
della elettroencefalografia a 128 canali , la cui risoluzione spaziale risulta molto
vicina a quella della PET, ha permesso di evidenziare in giovani consumatori di
MDMA un aumento dell’attività ad alta frequenza (alfa e beta) e la diminuzione
dell’attività a bassa frequenza (delta). Poiché tali fenomeni sono tipicamente
osservati nell’età avanzata, Dafters et al. (1990) hanno avanzato l’ipotesi che
l’aumento dell’attività alfa sia connesso con una riduzione dell’attività corticale
secondario agli effetti neurotossici dell’ecstasy. Tuttavia, deve essere ancora
verificato in che misura queste affermazioni si correlino con deficit di memoria

85
ripetutamente osservati nei giovani consumatori di ecstasy (Bolla et al.,1998: Mc
Cann et al., 1999; Morgan, 1999).
Il professor Nencini (1999) ritiene che le le alterate risposte endocrine ed emotive
a stimoli serotoninergici osservate nei consumatori di ecstasy, siano meglio
correlabili con le lesioni del sistema serotoninergico che non con quelle del
sistema dopaminergico.
Tuttavia, i dati attualmente disponibili sulle risposte endocrine non sono
univoche:
Price et al.(1994) hanno riferito che la L-triptofano induce un aumento nelle
concentrazioni di prolattina in controlli sani ma non nei consumatori di ecstasy
ricreazionale.
Studi più recenti hanno dimostrato che sia la risposta della prolattina che quella
del cortisolo, alla D-fenfluramina erano significativamente attenuate in coloro che
usavano solo ecstasy rispetto ai soggetti del gruppo di controllo che non avevano
fatto uso di ecstasy per tre settimane (Gerra et al., 1998). Inoltre, dopo un anno di
astinenza, benché le risposte del cortisolo si fossero normalizzate quelle della
prolattina rimasero significativamente attenuate (Gerra et a., 2000).
Al contrario, Verkes et al., riferirono di aver rilevato significative riduzioni nel
rilascio di cortisone ma non di prolattina.
Infine, McCann et al.(1999b) hanno riscontrato che sia le risposte della prolattina
che quelle del cortisolo alla m-clorofenilpiperazina erano significativamente
attenuate nei forti consumatori di ecstasy rispetto ai non consumatori.
Tuttavia, la metodologia utilizzata in alcuni degli studi sopracitati, secondoM.J.
Morgan (2000) è discutibile, infatti, i ricercatori non hanno analizzato a fondo la
durata dell’uso di altre droghe da parte dei consumatori di ecstasy. Questo
pregiudica l’attendibilità dei risutati ottenuti poiché, la maggior parte dei
consumatori di ecstasy sono policonsumatori, pertanto qualsiasi differenza tra essi
e i controlli che non avevano mai fatto uso di droghe illecite può essere attribuita
a qualsaisi altra droga usata dai consumatori di ecstasy( M.J. Morgan, “Ecstasy: a

86
review of its possible persistent psychological effects”, in “Psychopharmacology,
2000) .
Recentemente prove più dirette della neurotossicità indottta dall’ecstasy sui
sistemi serotinergici cerebrali sono emerse da studi di neuroimmagini. E’ stato
dimostrato nei forti consumatori di ecstasy (che non avevano assunto la droga per
3-147 settimane) un significativo decremento del trasportatore di membrana della
5-HT (misurato alla PET mediante l’MCN-5652 radio ligando sellettivo per il
carrier) rispetto ai non consumatori e questa diminuzione si correlava con la
durata del precedente uso di ecstasy(McCann et al., 1988),
Altre prove delle persistenti deplezioni dell’attività della 5-HT centrale indotte
dalla MDMA sono state ottenute paragonando i potenziali uditivi evocati di forti
consumatori di ecstasy con quelli di due gruppi di controllo, un gruppo di non
consumatori e un gruppo di usatori di cannabis (Tuchtenhangen et al., 2000).
Solo i consumatori di ectstasy (che si erano astenuti dal consumo della droga per 7
giorni all’anno) mostrarono un aumento nell’estensione dell’attività della fonte
tangenziale NIP2 con intensità dello stimolo più alta(Hergel e Jackel, 1993).
La neurotossicità indotta dalla MDMA, anche, nel sistema dopaminergico è stata
dimostrata da Ricartue e collaboratori(2002) che hanno riconsiderato il problema
della selettività serotoninergica dell’azione neurotossica della MDMA
somministrando a due specie di scimmie dosi di farmaci compatibili con quelle
assunte in discoteca(2mg/kg per tre volte ogni tre ore), ma inferiori a quelle di
solito responsabili di lesioni delle vie serotoninergiche. I risultati hanno mostrato
un’elevata vulnerabilità del sistema dopaminergico a questi dosaggi di MDMA e
un minore livello di lesioni nel sistema serotoninergico. In particolare, le
autoradiografie hanno evidenziato una profonda perdita di terminazioni assonali
dopaminergiche nello striato. Nelle due scimmie la somministrazione del farmaco
è stata sospesa dopo la seconda dose a causa della comparsa di evidenti difficoltà
deambulatorie. Secondo gli autori, questi risultati ripropongono l’importanza del
metabolita dell’MDMA 2-(metilamino)-1(2,4,5-tridrossifeni) propano che, in

87
quanto analogo della 6-idrossidopamina, potrebbe essere responsabile della
degenerazione delle terminazioni dopaminergiche.
Gli effetti neurotossici a lungo termine della MDMA vengano indotti negli
animali da laboratorio o dall’ assunzione di una singola dose (20mg/kg o di più) o
da dosi più basse di solito di 5mg/kg somministrata due volte al giorno per quattro
giorni consecutivi (Battaglia et al., 1988, Ricartue et al., 1988; Colado et al., 1993;
O’Sea et al.,1998). E’ stato dimostrato che la durata degli effetti neurotossici è
diversa a seconda della specie. Nei ratti essi persistevano anche fino ad un anno
dopo la somministrazione della droga (Battaglia et al.), mentre nei primati non
umani duravano fino a sette anni (Hatzidimitrou et al, 1999). Questo dosaggio è
alto e più frequente di quello tipico dei consumatori di ecstasy. Tuttavia, è stato
calcolato che una dose di 5mg/kg di MDMA somministrata ad una scimmia uistiti
è equivalente a 1.4 mg/kg assunta dall’uomo(Ricartue et al., 1992). Inoltre,
poiché da diverse ricerche è emerso che un terzo dei consumatori di ecstasy
ricreazionale usa una modalità di assunzione “binge” ingerendo diverse compresse
contemporaneamente per diverse ore o giorni, le differenze tra le dosi usate
dall’uomo e quelle somministrate agli animali da laboratorio sarebbero quasi
inesistenti (Toppet al.,1999).
Ci sono, anche, prove che esistono differenze regionali nella sensibilità alla
neurotossicità della MDMA: aree ricche di terminali della 5-HT come la corteccia
cerebrale mostrano gravi deficit rispetto ad altre regioni che contengono fibre di
passaggio (per esempio l’ipotalamo) o cellule del corpo (tronco cerebrale).
(Commins et al., 1987; Steele et al., 1994). In particolare, è stato constatato che
ripetute somministrazioni di MDMA producono soprattutto la degenerazione a
lungo termine degli assoni serotoninergici e la diminuzione delle concentrazioni
cerebrali di 5-HT e 5-HIAA in molte regioni del proencefalo (la neocorteccia,
l’ippocampo, il nucleo caudato il putamen e molti nuclei talamici) (Klevin et al.,
1989; Ricartue et al., 1992; Fischer et al., 1995; Lew et al., 1996; Sabol et al,,
1996; Aguire et al., 1997; Hatzidimitrou et al., 1999). Alcuni esperimenti hanno
dimostrato che gli assoni della 5-HT che proiettano nel proencefalo si rigenerano

88
poco o non si rigenerano del tutto, mentre le proiezioni in aree più vicine come
l’ipotalamo si rigenerano completamente o in eccesso ( Fischer et al., 1995).
Fisher et al., hanno anche dimostrato che modalità di reinnervazione alterate si
verificano molto più frequentemente nei primati che nei roditori trattati con
MDMA. Altre ricerche che hanno utilizzato la PET hanno mostrato un evidente
aumento della rigenerazione dei trasportatori della 5-HT nell’ipotalamo e una
diminuzione persistente nella corteccia.
Infine, Hatzidimitriou et al.(1999) hanno riferito che, i risultati di un recente
studio su delle scimmie che ha comportato l’osservazione delle conseguenze
neuroanatomiche dell’esposizione all’ecstasy(otto dosi in quattro giorni), hanno
mostrato che i cervelli di questi animali evidenziavano un’ anormale innervazione
serotoninergica con una marcata riduzione della densità degli assoni
serotoninergici in aree quali la neocorteccia, l’ippocampo e lo striato associato ad
un aumento di tale densità nel globo pallido e in alcuni nuclei talamici, mentre
pressochè immodificata appariva la densità assonale serotoninergica nell’
ipotalamo e nella maggior parte delle regioni limbiche.
Questi risultati hanno fatto ipotizzare che una ripetuta somministrazione di
MDMA potrebbe produrre una diminuzione dell’attività serotoninergica a lungo
termine e la degenerazione dei neuroni serotoninergici nell’uomo. Questa ipotesi è
sostenuta dall’aumentata sensibilità a tali effetti e dalla minore tendenza alla
reinnervazione nel sistema coticale 5-HT nei primati(Morgan M.J., op. cit., 2000).
L’ipotesi che la MDMA sia l’agente causale di disturbi motori parkinson-simili
sembra essere confermata da due casi di disturbi motori parkinson-simili riferiti
da Mintzer et al. (1999) e da Kuniyoshi e Jankovic(2003). Questi ultimi affermano
che in ragazzo di 19 anni, che sei mesi prima aveva assunto ecstasy due volte alla
settimana, erano comparsi tremori alla mano destra estesi quindi all’arto inferiore
omolaterale. I sintomi si erano progressivamente aggravati con difficoltà al
mattino nell’alzarsi dal letto e deterioramento della precisione nel battere a
macchina. Poiché il padre e uno zio paterno del giovane presentavano una storia
di morbo di Parkinson relativamente precoce, gli autori hanno ipotizzato che

89
l’ecstasy avesse accelerato il processo di depauperamento della riserva
dopaminergica già compromessa su base ereditaria, raggiungendo quindi quel 70-
80% di perdita neuronale considerato critico perché si menifestino i sintomi della
malattia.
Infine, ci sono prove che può verificarsi atrofia cerebrale in seguito all’uso
cronico di ecstasy. La spettografia a risonanza magnetica protonica ha, infatti,
evidenziato che che le concentrazioni di mioinositolo erano elevate nella materia
bianca parietale dei forti consumatori di ecstasy rispetto a quelle dei non
consumatori(Chang et al.2000).

Effetti neuropsichiatrici

La MDMA, in base ad un numero crescente di “case report”, sembra indurre


anche sintomi psichiatrici come: depersonalizzazione; sintomi ossessivi
compulsivi; flashbacks; attacchi da panico; psicosi; e depressione. Questi sintomi
sembrano diversi dagli effetti psichiatrici acuti più comuni indotti dall’ecstasy
poichè essi non sono associati alla dose, sono cronici e persistono a lungo anche
dopo l’interruzione del consumo di ecstasy. Tuttavia, tali prove presentano diversi
problemi di intrepretazione. In primo luogo, il loro carattere aneddotico rende
difficile determinare il rischio che il consumatore medio di ecstasy ha di
sviluppare tali disordini. I dati epidemiologici, inoltre, suggeriscono che tutti
questi disordini si verificano con una frequenza abbastanza alta, anche, nella
popolazione globale. Pertanto, potrebbero essere semplicemente dovuti ad una
coincidenza, per di più, poiché il consumatore di ecstasy è di solito un
policonsumatore, i disordini potrebbero essere associati all’uso di qualsiasi altra
droga. Infine, essi potrebbero essere causati da una predisposizione genetica o da
patologie psichiatriche precedenti l’assunzione della droga. Lo studio di Schifano
e colleghi(1988) ha utilizzato una valutazione psichiatrica oggettiva di 150
policonsumatori che avevano usato MDMA almeno in una occasione. Più della

90
metà di essi(53%) era affetto da uno o più problemi psicopatologici. I più
frequenti erano: depressione, episodi di bulimia, disturbi psicotici, disordini del
controllo degli impulsi, disturbi cogntivi, disturbi da panico e fobia sociale . Fu
rilevato, anche, che i policonsumatori che avevano consumato una media di 150
compresse di MDMA nell’arco della vita erano a più alto rischio di sviluppare
disordini psicopatologici rispetto agli altri che avevano assunto un numero
inferiore di pastiglie per un periodo più breve e meno frequentemente.
ll professor Schifano presenta, anche, il caso di un paziente che aveva sviluppato
una psicosi cronica atipica parallelamente ad un complesso profilo
comportamentale dopo assunzioni di MDMA: ” un uomo di 24 anni è stato inviato
al centro per il trattamento delle tossicodipendenze di Padova dopo aver assalito la
propria madre. Da quattro anni assumeva MDMA ed ha riferito di averne fatto uso
in circa 150 occasioni. Il dosaggio tipico quotidiano era di 100-300 mg;
presupponendo un dosaggio medio quotidiano di 200 mg, questo
corrisponderebbe a 2,8mg/kg. Faceva passare 1-14 giorni tra le varie assunzioni
di MDMA e prendeva sempre la sostanza sottoforma di compresse. Ha riferito
l’assunzione occasionale di altre sostanze(alcool, benzodiazepine, cannabis,
cocaina). Fino a quando ha iniziato ad usare la MDMA non ha mai lamentato
disturbi psicologici, ma come confermato dai suoi parenti, negli ultimi 3 anni si è
convinto che la gente lo fissasse e lo prendesse in giro quando usciva da un posto.
Ha sofferto di allucinazioni ipnagogiche e di inversioni del ritmo sonno veglia (i
sintomi erano inziati circa 4 anni prima). La perdita dell’appetito si è
accompagnata ad un forte perdita di peso e negli ultimi 2 anni, ha avuto episodi
intermittenti d forte desiderio di alimenti che contenessero cioccolata. Ha riferito
una marcata diminuzione dell’attività sessuale per un anno. Negli ultimi 3 anni ha
sofferto di frequenti cambiamenti di umore, anche se non sufficientemente
importanti da un punto di vista clinico da diagnosticare un disturbo affettivo. Nei
parenti di primo e secondo grado non si sono riscontrati disturbi di natura
psicotica. Aveva causato 5 gravi incidenti automobilistici che erano correlati ad
episodi di ingestione acuta di MDMA. nel corso dei quattro anni precedenti si

91
erano registrati vari episodi di aggressività. L’esame del suo stato mentale
mostrava deliri paranoidei, alti livelli di ansia, e deliri relativi a modifiche
coporee(il suo cervello era stato rubato; gli occhi non erano i suoi) ed era convinto
di avere l’AIDS. Gli esami di routine, la tomografia assiale computerizzata del
cervello e i test sul siero alla ricerca della sifilide e HIV sono risultati normali. Al
momento dell’invio i test delle urine risultavano positivi solo allla cannabis. Sulla
base del DSM-III-R è stata fatta una diagnosi di psicosi cronica atipica. Il paziente
è stato ricoverato per un breve periodo di tempo in una unità psichiatrica in cui gli
sono state somministrate decanoato di flufenazina, clotiapina e promazina. Nel
corso dei 3 mesi successivi ha continuato ad assumere una terapia neurolettica ma
il suo stato mentale non è migliorato; i test delle urine sono risultati a volte
positivi per la MDMA.
Sebbene non si possa escludere la possibilità che nel paziente la psicosi sia stata
accelerata dalla sua pesante e prolungata assunzione di MDMA e/o
dall’assunzione di altre sostanze, noi riteniamo che la MDMA possa avere indoto
di nuovo la psicosi cronica(forse attraverso le vie dopaminergiche e/o
serotoninrgiche). Il paziente ha mostrato anche notevolissimi cambiamenti in
varie aree funzionali in cui è implicata la serotonina, e cioè, il sonno, il
comportamento sessuale, la regolazione del tono dell’umore, l’appetito e le
preferenze alimentari. Non ci risulta che tale complesso quadro clinico associato
all’assunzione di MDMA sia mai stato descritto in precedenza. Tenendo presente
che nel nostro paese l’ecstasy gode dell’immagine di sostanza “sicura”, la
presente relazione risulta particolarmente preoccupante”.(nel “Bollettino delle
farmacodipendenze e alcolismo”, 1994).

Effetti a lungo termine dell’uso ricreazionale di MDMA

Ci sono un numero crescente di studi basati su prove “self-report” che sostengono


che un elevato uso di ecstasy sia associato ad una persistente depressione

92
dell’umore; ad un persistente aumento dell’ansia (Perot el al., 2000) e ad un
minore grado di impulsività( McCann et al., 1994) , ad una elevata ricerca di
novità e di sensazioni, ad una durata del sonno totale minore a quella normale e a
soppressione di quello REM, a deficit selettivi nelle prestazioni di memoria,
dell’attenzione, nella memoria di lavoro, nello span della memoria spaziale e nel
ragionamento logico, ad un aumento dell’aggressività e dei sentimenti di
ostilità(McCann et al., 1994).
Tuttavia , secondo Morgan M.J. (2000) nonostante, l’interpretazione dei dati
sopraelencati presenti i seguenti problemi:
- poca rappresentatività del campione e affidabilità delle storie “self report”;
- procedure per la rilevazione di droghe non standardizzate;
- campionamento inadeguato
- nessun controllo sulla purezza e potenza della droga assunta;
- determinazione delle cause dei problemi psicologici osservati
le analisi delle urine hanno confermato le dichiarazioni dei consumatori di
MDMA.
Inoltre, anche in recenti studi, è stato osservato che la somministrazione
dell’agonista serotoninergico mCPP produceva una ridotta espressione degli
affetti emotivi: preoccupazione, tristezza o, addirittura, attacchi di panico –
(McCann et al., 1999b).

Tolleranza e dipendenza

Si ritiene che la tolleranza all’ecstasy si sviluppi subito. Se si interrompe l’uso


anche la tolleranza scompare. Anche, dopo uso cronico , la sospensione non dà
luogo a sintomi di astinenza pertanto, l’ecstasy non produce dipendenza fisica.
Attualmente, al contrario di quanto sostenuto in passato, si ritiene che la MDMA
causi una forte dipendenza psicologica . Secondo il professor Schifano.” Parlare
di dipendenza fisica o psicologica è comunque un colloqualismo, anche perché la

93
dipendenza psicologica è comunque caratterizzata da un deficit di dopamina a
livello di alcuni sistemi. E’ più corretto parlare di voglia di ripetere l’esperienza, il
cosiddetto “craving” . Ad esempio, quando si vuole smettere di fumare (nicotina)
non è che si manifestino sintomi fisici di astinenza. Però si ha una gran voglia di
fumare. Questo è il tratto costitutivo dell’astinenza e della dipendenza e vale per
tutte le sostanze. In alcuni casi, e penso all’eroina si aggiungono sintomi di natura
fisica, in altri no, con la cocaina gli aspetti fisici dell’astinenza sono limitati o
addirittura inesistenti. Allora è meglio parlare della cosiddetta "dipendenza
psicologica" perché comunque sono presenti profonde alterazioni
neurobiologiche anche in questo caso. Si provano manifestazioni di desiderio e
astinenza molto importanti: si tende a ripetere le assunzioni di frequente, ad avere
sensazioni di “down” piuttosto forti, a commettere atti criminali per procurarsi la
sostanza , si passa la giornata a rimuginare sugli effetti dell’assunzione”(in F.
Bagozzi “Generazione in Ecstasy”, Edizioni Gruppo Abele, Torino. 1996, pp.61-
62).
Infine, secondo il professore Paolo Nencini(1999), l’assenza di una componente
fisica nello stato di dipendenza orienta il trattamento di divezzamento dall’ecstasy
o dalle altre amfetamine verso un approccio psicosociale finalizzato ad una
svalutazione del prestigio della sostanza d’abuso.

L’uso della MDMA in psicoterapia

L’uso della MDMA in psicoterapia, prima che essa fosse dichiarata illegale come
abbiamo accennato sopra, è iniziato negli USA intorno agli anni ’70 perché
secondo alcuni psicoterapeuti le catteristiche di entactogenità della molecola
favorirebbero il dialogo e migliorerebbero la comunicazione e la capacità di
introspezione, libererebbero dall’angoscia e dalla depressione, rafforzerebbero
l’alleanza tra medico e paziente facilitando l’apertura aumentando la fiducia”.

94
Successivamente, la MDMA fu usata, come coadiuvante dell’intervento
psicoterapeutico, anche in Europa, soprattutto in Svizzera e in Germania.
Durante una tipica seduta di psicoterapia, la MDMA era generalmente assunta in
una prima dose compresa tra 50 e 200 mg(solitamente 100-150 mg), alcune ore
dopo quando l’effetto stava diminuendo il paziente riceveva una seconda dose di
50-75 mg. La frequenza delle sedute di psicoterapia con la somministrazione di
MDMA era di solito quindicinale, ma dipendeva dai terapisti e dal paziente(Esner
B., “Ecstasy: The MDMA Story”, Berkeley. 1989, p. 30).
Da uno studio pubblicato nel 1986 emergono le sensazioni provate dai pazienti
durante e dopo sessioni di psicoterapia condotte con l’utilzzazione dell’ecstasy: ”
tutti i 29 soggetti coinvolti nell’esperimento hanno descritto variazioni positive
nel modo di porsi verso la realtà esterna e nelle reazioni emotive. Per ventidue
soggetti gli effetti positivi sono stati nell’ambito conoscitivo e sono stati definiti
come: “ampliamento della prospettiva mentale”, approfondimento delle
caratteristiche e dei problemi personali, potenziamento dell’autoanalisi o delle
capacità di “comunicazione intrapsichica” o di “risoluzione dei problemi”.
In tutti i pazienti sono stati osservati, anche, effetti non desiderati come:
affaticamento, trisma, nausea, temporanea alterazione dell’andatura e sintomi
simpaticomimetici (L. Garau, “Ecstasy: dall’uso in psicoterapia all’abuso in
discoteca” in “Medicina delle Tossicodipendenze”, settembre 1994, anno II,
numero 4, pp.34-37).
Il dottor Widmer, psicoterapeuta tedesco, ha scritto due libri sul suo lavoro dai
quali N. Saunders ha estrapolato i seguenti casi clinici:
1)Al dottor Widmer venne chiesto di curare un’anoressica quattordicenne. Il padre
non mostrava alcun sentimento e la madre non esisteva autonomamente, vivendo
apparentemente solo attraverso gli altri membri della famiglia, quest’ultima entità
comunicava solamente a livello razionale, non esprimendo mai emozioni, eccetto
verso il figlio minore che i genitori consideravano “quello difficile”. Il dottor
Widmer e sua moglie curarono la figlia e i genitori in sessioni separate. Il dottor
Widmer si occupava dei genitori e sua moglie della ragazza. Nonostante la

95
giovane età decisero ugualmente di tenere una sessione in MDMA con genitori e
figlia assieme, alla presenza di entrambi i terapeuti.
Durante la sessione, padre e figlia parlarono per la prima volta dei sentimenti
reciproci, mentre la madre si rese conto della paura che provava verso se stessa.
Per la figlia questa fu una svolta: avendo messo a fuoco la causa del suo problema
accettò di diventare una donna e aumentò di peso, terminando poco tempo dopo il
trattamento. Per i genitori, invece, quello fu l’inizio della terapia.
Il dottor Widmer commenta che questo cambiamento improvviso, facilitato dalla
MDMA, probabilmente sarebbe avvento ugualmente , ma che la sostanza aveva
accelerato il processo.
2) un intellettuale attivo nella professione medica si recò per curiosità a una
sessione di MDMA: riteneva di non avere problemi psicologici, nonostante la
recente rottura del suo matrimonio. L’effetto della MDMA fu di scoprire
sentimenti narcisistici dei quali non era cosciente, che comprendevano anche
l’odio verso i genitori. Il risultato fu un maggior contatto con sé stesso; e, anche,
capire che la terapia gli avrebbe giovato”( in N. Saunders, op. cit. pp. 115-116)

96
CAPITOLO III

ALCUNE FORME DI TRATTAMENTO PSICOTERAPEUTICO


E RIABILITATIVO DELLA TOSSICODIPENDENZA

Introduzione

Benchè attualmente non esistano forme di trattamento psicoterapeutico e


riabilitativo della tossicodipendenza connotate da un grado di efficacia e di
specificità paragonabile a quello di altri disturbi, esse sono comunque molto utili
soprattutto se supportate da un adeguato trattamento farmacologico.
La psicoterapia, secondo l’ American Psychiatric Association, è: ”un processo nel
quale una persona che desidera un alleviarsi dei sintomi o risolvere problemi
relativi all’esistenza o chi è alla ricerca di una crescita personale sottoscrive un
contratto implicito o per interagire con uno psicoterapeuta a seconda delle
modalità prescritte”. (Nel DSM III-R , Manuale diagnostico e statistico dei
disturbi mentali, Masson, Milano,1990).

Le psicoterapie sono quindi diverse dalle terapie somatiche in cui l’effetto deriva,
nella maggior parte dei casi, dalla somministrazione di uno o più farmaci, anche
se la mediazione del medico svolge un ruolo fondamentale.
Dal punto di vista storico, le prime forme di psicoterapia facevano probabilmente
riferimento a riti mistico-religiosi officiati dallo sciamano.
In età classica il sogno era interpretato come un “regalo” degli dei e parte
integrante della guarigione.
La funzione catartica, liberatoria della parola fu teorizzata da Socrate e Aristotele
e anche dal sacramento cristiano della confessione-penitenza.

97
L’introspezione come una forma di conoscenza di sé e il ruolo della suggestione
nel processo di guarigione sono forse i contributi più significativi della filosofia al
campo psicologico nel corso del medioevo.
Il primo psicoterapeuta moderno può essere considerato Anton Mesmer, medico e
ipnotista, che elaborò la teoria del magnetismo animale. L’ipnosi come tecnica
suggestiva fu impiegata nel trattamento delle nevrosi, oltre che da Mesmer. da
Charcot, Lièbault, Bernheim e da Freud.
Nell’Ottocento e anche nel Novecento apparvero diversi, e spesso antitetici,
orientamenti psicoterapeutici che si ispiravano a diversi paradigmi psicologici e
psichiatrici: l’indirizzo psicologico-dinamico (Freud, Jung, Adler); quello
psicologico-comportamentistico o riflessologico(Pavlov, Watson, Skinner,
Eyesenck); l’indirizzo fenomenologico-esistenziale (Binswanger, Minkowski) e
quello sociologico- culturale (Laing, Fromm, Cooper), ognuno con proprie
modalità di intervento.
Gli indirizzi psicoterapeutici, non si differenziano solo sulla base dei criteri
teorici cui fanno riferimento, ma anche per certe caratteristiche che accomunano
interventi anche molto diversi come: il numero dei soggetti, la durata del
trattamento, il grado di introspezione e analisi dei sentimenti e delle emozioni del
paziente(ma anche del terapeuta), la scelta di strategie terapeutiche legate a diversi
tipi di patologie.
Il primo criterio permette di individuare due ampi orientamenti: le psicoterapie
individuali(psicoanalisi, e psicoterapie ad orintamento psicoanalitico, analisi
junghiana e adleriana, analisi esistenziale, psicoterapie brevi, psicoterapia non
direttiva di Roger, ipnosi, terapie di rilassamento, training autogeno, ecc.) e quelle
di gruppo(psicoanalisi e psicoterapie analitiche di gruppo, psicodramma,
psicoterapia della famiglia o della coppia, Gestalt, gruppo bioenergetico,
ludoterapia, ergoterapia, ecc.).
Per quanto riguarda la durata del trattamento, si possono individuare terapie in cui
l’intervento si protrae anche per diversi anni (ad esempio la psicoanalisi); quelle la
cui durata va da uno a più giorni, da pochi mesi fino ad un anno o poco più.

98
Le psicoterapie “del profondo”, le psicoterapie non analitiche, quelle non direttive
o direttive si differenziano per il diverso grado di introspezione e di analisi, delle
emozioni e dei vissuti del paziente a seconda che il transfert faccia parte della
relazione come elemento suscettibile di essere spiegato o meno.
Infine, diversi tipi di psicoterapie vengono utilizzate a seconda della patologia .
Quelle impiegate nel trattamento delle patologie gravi (schizofrenia, disturbi gravi
della personalità come le terapie ad orientamento analitico o le psicoterapie della
famiglia), e quelle relative a malattie meno gravi (alcune forme di nevrosi e di
disturbi dell’umore: terapie del comportamento, di rilassamento, ecc. Gli elementi
che renderebbero efficace la psicoterapia, secondo Rosenzweig (1936), sono:
- la capacità del terapeuta di ispirare il paziente e di liberare le sue risposte
assopite;
- interpretazioni plausibili che sappiano offrire un punto di vista alternativo sul
problema;
- aiuto a migliorare in qualche area di funzionamento.
Più recentemente, Frank (1973) ha suggerito quattro fattori terapeutici comuni a
tutti i trattamenti efficaci:
.- relazione genuina e fiduciosa,
- setting che sappia promuovere le aspettative di aiuto del paziente:
- un razionale che sappia offrire una spiegazione ed un percorso plausibile al
sollievo e
- un rituale che richieda la partecipazione atttiva del terapeuta e del cliente.
Per quanto riguarda le psicoterapie centrate sulla tossicodipendipendenza,
attualmente, la maggior parte dei terapeuti a qualunque paradigma teorico si
ispirino, ritengono:
- che le disfunzionalità comportamentali manifestate dal tossicodipendente non
siano solo riconducubili all’abuso di sostanze stupefacenti ma, anche, a storie di
disadattamento e di sofferenza;
- che la tossicodipendenza sia un aspetto di un più generale quadro nosologico
definibile come ”sindrome multi-impulsiva”(Lacey, Evans, 1986).

99
In merito ai percorsi evoltutivi, alle caratteristiche individuali e familiari dei
tossicomani, numerose ricerche hanno evidenziato che il passato di questi
soggetti è contrassegnato da un un insieme di comportamenti e di problematiche
come: il disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività, diversi disturbi della
condotta, il disturbo oppositivo-provocatorio, il disturbo da ansia da separazione,
il disturbo di evitamento della fanciullezza o dell’adolescenza, il disturbo post
traumatico da stress, il fumo di tabacco, il fallimento e il disinvestimento
scolastico, i disturbi alimentari, l’epilessia, la depressione infantile, la presenza di
nuclei familiari fortemente disturbati o spezzati da separazioni o divorzi,
inadeguatezza, lutti(Marcelli,1982; Gerra, 1994).
In generale, l’infanzia dei futuri tossicomani sembra essere stata caratterizzata da
un pattern di attaccamento “insicuro-evitante", “insicuro-disorganizzato” e
“insicuro- ambivalente”(Ammaniti, Stern,1992; Holmes, 1993). Secondo Liotti
(1993c), tali esperienze relazionali possono essere considerate come
genericamente predisponenti a successivi disturbi psicopatologici. Inoltre, le
famiglie di questi soggetti, come sostenuto da alcune teorie sulla
tossicodipendenza presentate nel primo capitolo, di solito, sono per lo più
disturbate e/o caratterizzate dalla mancanza dell’interesse e delle risorse
necessarie per fronteggire il disagio del figlio. In questi casi, alcuni psicoterapeuti
interpretano l’influenza dei genitori come una vera e propria vulnerabilità nei
confronti di sostanze che inducono dipendenza .
Gli psicoterapeuti odierni, oltre alle variabili psicosociali, prendono in
considerazione anche quelle genetiche, biochimiche e neuropsicologiche correlate
all’esposizione intrauterina all’alcool e alle droghe(Bohman et al., 1981). E’ stato
dimostrato da alcune ricerche che i figli di alcoldipendenti rispetto ai figli di non
alcolisti presentano le seguenti caratteristiche:
1) maggiore rilassamento o minore tensione dei muscoli scheletrici in posizione
di riposo in risposta all’assunzione di etanolo(Schuckit et al., 1981);
2) minore sensazione soggettiva di intossicazione(simile ad una tolleranza innata)
a uguali livelli di alcool nel sangue(Schuckit, 1980);

100
3) aumento della risposta alfa lenta all’alcool (Pollok et al., 1983);
4) aumento dell’effetto “normalizzante” e sincronizzante sull’attività carente di
onde alfa lente nei figli degli alcolisti maschi attraverso una diminuzione delle
risposte alfa veloce;
5) livelli più alti di prolattina sierica (associati con una diminuzione dello stress)
dopo il consumo di alcool (Schuckit et al.,1983);
6) migliore memoria, migliori tempi di reazione, equilibrio e prestazione
percettivo-motoria dopo l’assunzione di alcool rispetto ai gruppi di controllo, a
parità di assunzione di alcool, mentre i figli di famiglie “normali” diventano
trasandati, i bambini di alcool-e tossicodipendenti, che sono generalmente timidi e
asociali diventano audaci e sicuri di sé(Wilson, 1982)
7) minore capacità di controllare l’uso di droghe basandosi sui segnali omeostatici
interni del corpo;
8) aumentata sensibilità al dolore nei figli eroinomani, ma ciò potrebbe anche
dipendere da una diminuzione della produzione di endorfine, dovuta all’uso
prolungato di eroina (Kumpfer, 1987).
Oltre, ad una generica predisposizione all’assunzione di alcool, sono state anche
riscontrate le seguenti caratteristiche comportamentali nei campioni dei figli di
alcool-e di tossicodipendenti:
1) iperattività;
2) minor tempo di estensione dell’attenzione e possibile deficit dell’attenzione
(Tarter et al., 1984);
3) maggiore labilità emotiva ed ipersensibilità; minore controllo emotivo, bassa
tolleranza per le frustrazioni, immaturità emotiva, variabilità d’umore e
depressione, punteggi più elevati nelle scale Hs, Hy e D dell’Mpi dei minori
delinquenti figli di alcolisti (Tarter et al., 1984);
4) maggiore gregarismo e minori inibizioni sociali in bambini che diverranno
alcolisti, combinati con a) consapevolezza dell’impressione prodotta negli altri; b)
empatia; c) capacità di comprensione intuitiva nelle relazioni interpersonali;

101
5) eccessiva attività di onde ad alta frequenza in figli di alcool dipendenti di
dodici anni (Gabrielli et al., 1984);
6) minore durata del sonno;
7) quoziente di intelligenza più basso nei bambini dai tre ai sette anni figli di
madri a mantenimento metadonico (Kumpfer,1987);
8) profilo scolastico inferiore;
9) minori capacità verbali (Gabrielli, Mednick; op. cit.1983);
10) ritardo nello sviluppo mentale (Herjanic et al.,1979):
11) maggior numero di mancini tra gli adolescenti inclini all’abuso di alcool (Lee-
Feldstein, Harburg, 1982);
12) minore capacità di astrazione e di risoluzione dei problemi.
A livello dell’attività scolastica sono stati individuati molti segni premonitori di
una futura alcoldipendenza e tossicodipendenza come:
- un minore senso di appartenenza alla scuola e maggiore emarginazione da parte
dei compagni di scuola;
- minore soddisfazione legata al lavoro e alle attività scolastiche;
- minore frequenza scolastica con ritardi e assenze ingiustificate;
- aumento dei problemi di rendimento e comportamentali;
- aumento dell’inserimento in scuole speciali; aumento delle bocciature e di
abbandoni della scuola:
I vissuti sopraelencati contribuiscono a far sì che questi giovani percepiscano
una tale routine come noiosa e limitante. La scuola, inoltre, per i
tossicodopendenti è molto frustrante perché non permette loro di esprimere le loro
potenzialità. Questo insieme di fattori li porta ad avere una bassissima autostima e
a sviluppare sentimenti di rabbia e di risentimento che li predisporrebbero alla
dipendenza dall’alcool e/o dalle droghe (Kumpfer, 1987).
Inoltre, è stato anche riscontrato che questi comportamenti devianti sono spesso
rinforzati dall’incontro con i primi paterns attirati da alcune modalità relazionali
trasgressive o predisposti ad instaurare legami in cui possono rivestire il ruolo di
soccorritori e di salvatori(Cambiaso, Berrini, 1992).

102
L’altro orientamento condiviso da numerosi psicoterapeuti odierni è, come
accennato, la teoria della "sindrome multi-impulsiva unitaria" secondo la quale,
esiste un substrato biopsicologico comune a tutti i comportamenti caratterizzati
dal’impulsività e dalla compulsione come: il gioco d’azzardo patologico,
l’anoressia, e la bulimia, l’attaccamento compulsivo al lavoro, ad un ideale, alla
sessualità o ad uno sport, la cleptomania, la piromania, l’assunzione patologica di
farmaci e alcool. Alla luce di questa teoria sembra maggiomente comprensibile il
passaggio, l’alternanza o la compresenza nei tossicodipendenti e nei loro familiari
dei molteplici problemi sopraelencati. Butterfield(1988), ad esempio, ha
riscontrato ampie sovrapposizioni tra i profili cognitivi di donne anoressiche ed
induividui tossicodipendenti, mentre Jonas et al.(1987) hanno rilevato nel
campione di 259 cocainomani una presenza del 32% di problemi alimentari
precedenti l’insorgenza della tossicodipendenza.
La psicoterapia del tossicodipendente è difficile non solo per i motivi
sopraesposti, ma, soprattutto perché è necessario che il soggetto interiorizzi la
convizione che può sperimentare stati di piacere e di evitamento del dolore in altri
modi senza ricorrere all’uso della droga. Ma il raggiungimento di questo
obiettivo è particolarmente arduo, non soltanto a causa dei potenti meccanismi di
rinforzo e della sensazione di gratificazione indotta dalla droga, ma anche perché
“il ricordo del piacere derivato dalla sostanza stupefacente potrà essere annullato
solo da piaceri più grandi, autentici, profondi e duraturi" (Mammana G. “ Il
piacere dell’identità”, Dite Edizioni Scolastiche, Foggia.1993, p.30) .
Inoltre, la psicoterapia è resa ancor più difficile perché nei tossicodipendenti si
riscontrano frequentemente sia disturbi mentali sia manifestazioni
psicopatologiche pre-esistenti e/o determinate dall’assunzione di sostanze. Infatti,
numerosi test clinici hanno mostrato che nei tossicodipendenti la presenza di
psicopatologia è molto elevata fra il 60% ed il 100% (Alterman, 1985, Craig,
1988, Clerici1993, Jainchill et al., 1985, Pope, 1979).
Da una recente ricerca condotta da Clerici (1993) su 275 soggetti in trattamento
ambulatoriale e comunitario nel periodo compreso fra il 1981 ed il 1986 è

103
emerso che oltre il 90% di essi presentava una diagnosi psicopatologica
aggiuntiva a quella di abuso di sostanze psicoattive (DSM III-R. 1990). I disturbi
più diffusi, seguendo i criteri diagnostici del DSM III-R, sembrano concentrarsi
in cinque clusters:
1) area schizofrenica: 16%. Sono compresi i disturbi psicotici in senso stretto ed i
disturbi di personalità in possibile diagnosi differenziale rispetto alla schizofrenia:
disturbo Paranoide, Schizoide e Schizotipico di personalità
2) Disturbo Istrionico, Narcisistico, Antisociale e Borderline di Personalità: 25%;
3) Un’area eterogenea ma caratterizzata dai sintomi dell’ansia e della depressione,
comprendente i disturbi di Evitamento, Dipendente, Ossessivo Compulsivo e
Passivo-Aggressivo di Personalità: 30%;
4) Diagnosi meno frequenti: 5%;
5) Comportamento Antisociale Adulto, differenziabile, seppure con difficoltà, dal
disturbo Antisociale di Personalità:12%;
I disturbi di personalità, rilevati nel 60% dei casi erano distribuiti nel seguente
modo:
1) Paranoide, Schizoide , Schizotipico:7.3% :
2) Istrionico, Narcisistico, Antisociale, Borderline: 14%;
3) Evitamento, Dipendente, Ossessivo Compulsivo, Passivo-Aggressivo: 27,6%;
4) Atipico, Misto, altro: 1.1%.
Dai dati di questa inchiesta e da quelli di molte altre sembrerebbe che i disturbi
più diffusi tra i tossicodipendenti siano quelli depressivi-ciclotimici e di
personalità. Mentre quelli meno frequenti sembrano essere le nevrosi e le psicosi,
anche se, come accennato nel secondo capitolo di questo lavoro, elevate dosi di
amfetamina e di ecstasy elicitano la comparsa di una forma di psicosi molto simile
alla schizofrenia classica.

104
Le psicoterapie ad orientamento psicodinamico

S. Freud, come è noto, con la psicoanalisi elaborò una delle teorie più complesse e
articolate del funzionamento psichico. Questa teoria introduce un elemento del
tutto nuovo per la comprensione del pensiero e del comportamento umano:
l’inconscio. Pur in una visione causale , infatti, la psicoanalisi ipotizza l’esistenza
di un’attività mentale che trascende l’organizzazione cosciente della psiche. E’,
appunto, attraverso la comprensione dei significati inconsci, di atti, pensieri e
produzioni fantastiche in chiave spesso simbolica che la psicoanalisi, servendosi
principalmente delle libere associazioni, fornisce una spiegazione dei disturbi del
paziente(conflitti) e ne inizia la cura grazie all’interpretazione e all’elaborazione
dei desideri, delle resistenze e del transfert che il paziente sviluppa nei confronti
del terapeuta. Le strategie sopraelencate dovrebbero, sempre secondo Freud,
innescare l’inizio di alcuni processi psichici che dovrebbero far sperimentare al
paziente la “nevrosi di transfert” ossia una riedizione della nevrosi infantile la cui
chiarificazione e risoluzione dovrebbe portare all’eliminazione dei suoi disturbi.
Se inizialmente Freud riteneva che la guarigione derivasse dalla scarica affettiva
ottenuta attraverso la rievocazione di vicende traumatiche per mezzo dell’ipnosi
(abreazione), successivamente la tecnica venne limitata ad una semplice
esposizione dei pensieri che si presentano spontaneamente alla mente(metodo
delle libere associazioni).
Freud si accorse comunque che il ricordo di certe situazioni (quelle patologiche)
veniva impedito da una forza(la resistenza) e che questa si esprimeva quando il
paziente manisfestava emozioni nei riguardi dell’analista(tranfert).
Il transfert può essere descritto come una proiezione non consapevole sullo
psicoterapeuta, da parte del paziente, di stati d’animo o desideri, da questi vissuti
inizialmente in figure fondamentali di riferimento della propria infanzia(padre
madre, fratelli, sorelle, ecc.).

105
Lo psicoterapeuta, a sua volta, sviluppa verso il paziente un atteggiamento
emotivo in relazione al materiale transferale che il paziente ha espresso
(controtransfert) e la cui comprensione risulta fondamentale per la successiva
interpretazione.
La psicoanalisi, in quanto terapia, ha come scopo principale quello di arricchire
l’Io del paziente, il quale recupera le energie istintuali e le potenzialità sottratte
dalla “malattia “.

La prospettiva adleriana

Adler, pur riconoscendo la validità delle strategie terapeutiche della psicoanalisi,


non codivide, come accennato nel primo capitolo di questo lavoro, alcuni
postulati dela toria freudiana.
L’ autore afferma che la base psicodinamica della dipendenza è la stessa delle
nevrosi e delle perversioni in quanto si tratta sempre di soggetti che hanno una
concezione sbagliata della vita e della società (Adler op. cit.,1992).
Egli sostiene che le persone che fanno uso di sostanze lo fanno per cancellare il
loro sentimento di inferiorità. Solo che non riescono a superarlo seguendo questa
strada perchè l’idea di cancellare il sentimento di inferiorità è illusoria.
L’obiettivo del terapeuta, non è quello di coprire il sentimento di inferiorità , ma di
riuscire ad evidenziarlo, riconoscerlo e lavorare per superarlo.
Fare questo può essere fonte di molta sofferenza, soprattutto, per il
tossicodipendente che tende ad evitare il dolore. L’individuo che ha uno stile di
vita viziato tende, inoltre, a resistere alla terapia.
Nello stabilire un rapporto terapeutico col tossicodipendente(di qualsiasi tipo di
dipendenza si tratti) è importante, sempre secondo Adler, tenere presente che
l’essere viziato è la conseguenza dell’azione altrui. Quindi il tossicomane non è
colpevole, anche se i suoi atteggiamenti e le sue pretese sono disturbanti: egli è

106
comunque rimasto prigioniero di un sistema educativo sbagliato. Spesso dietro
l’ex-bambino viziato c’è una madre che non ha lasciato spazio, che si è sempre
posta tra lui e il mondo, che non gli ha concesso autonomia.
L'approccio adleriano si caratterizza per i suoi tentativi mirati ad incoraggiare il
paziente. Perfino lo smascheramento dell’inganno che sottolinea la contraddizione
tra ciò che il paziente “vuole” fare e ciò che “può” fare, tra le sue intenzioni palesi
e la sua incapacità di soddisfarle, alla fine aiuta ad incoraggiarlo poiché egli si
rende conto che i suoi insuccessi non sono dovuti al suo carattere debole ma sono
frutto di attribuzioni sbagliate sulla natura delle sue intenzioni( (Adler A, “ La
psicologia individuale- Prassi e teoria della psicologia individuale”, Newton
Compton, Roma, 1992).
Tuttavia, dai dati del servizio pubblico emerge che solo raramente il problema
del tossicodipendente dipende dall’essere stato viziato, nella maggior parte dei
casi si tratta di bambini trascurati. Tuttavia, è verosimile che questi dati siano
legati alla tipologia delle persone che si rivolgono ai Servizi. Infatti, le famglie dei
pazienti delle strutture pubbliche, spesso, sono caratterizzate da un’incoerente
livello di funzionamento in cui sono presenti contemporaneamente atteggiamenti
frutto di opposte strategie educative(Nizzoli U., “Le Psicoterapie nei Servizi per le
Tossicodipendenze”, Regione Emilia-Romagna, 1992).
Un’approfondita verifica amnestica , soprattutto nei casi che hanno difficoltà a
collaborare alla terapia e che non ottengono risultati, può chiarire se esiste un
problema di "viziatura". Inoltre, bisogna prendere in considerazione il fatto che
potrebbe essere un caso di viziatura “relativa”. Esemplificativo è il caso di un
giovane tossicodipendente che ha raccontato di aver trascorso l’infanzia nel
terrore del padre alcolista cronico che lo picchiava e lo maltrattava. Tuttavia, nel
corso della terapia è, anche, emerso che la madre lo aveva sempre protetto dal
padre viziandolo: questo è all’origine del suo attuale comportamento disturbato,
caratterizzato da grande instabilità , da incapacità di assumersi responsabilità e da
un bisogno continuo di soddisfare i propri desideri. La stessa madre,
continuamente presente nella scena in modo prevaricante , continua ad essere a

107
sua disposizione e a viziarlo, impedendogli ogni forma di maturazione”
(Sanfilippo B., G..Fulcheri, Anglesio A., in “Psicoterapia delle Tossicodipendenze
e dell’Abuso di Sostanze” Franco Angeli, Milano, 2000, p. 75).
Anche Drekurs e Cassell sostengono che lo strumento principe nel trattamento
psicologico della tossicodipendenza sia, come sostenuto da Adler,
l’incoraggiamento ossia aiutare il soggetto a riacquistare la capacità di avere
fiducia in se stesso e negli altri.
I due autori affermano che i seguenti punti siano in grado di reinfondere coraggio
nel tossicomane:
1) aspirare a ottenere un miglioramento, anche minimo, senza ricercare la
perfezione;
2) apprezzare più l’impegno che i risultati conseguiti;
3) dimostrare fiducia;
4) non considerare gli errori come se fossero degli insuccessi;
5) stimolare il soggetto, ma non spingerlo oltre le sue reali capacità;
6) la lode non ha lo stesso valore dell’incoraggiamento;
7) aiutare l’individuo ad accettare di non essere perfetto;
8) ricordare che lo scoraggiamento è contagioso:
9) vincere il pessimismo e tendere ad un approccio ottimistico con la vita
(Dreikurs e Cassel,“Disciplinasenzalacrime”, Ferro, Milano, 1972).
Dreikurs già negli anni ‘30 affermava che la predisposizione alla dipendenza è
un’inferiorità d’organo e che pertanto sia necessario trovare delle
supercompensazioni incoraggianti che riescano a colmare questo deficit. Questo
obiettivo, sempre secondo Dreikurs, può essere facilmente conseguito attraverso il
lavoro nei gruppi di auto-aiuto. L’autore ha constatato che, ad esempio, nei
cocainomani e morfinomani il senso di responsabilità consente di acquisire
interesse nei confronti del destino degli altri e dei loro progressi. La
partecipazione ai programmi di gruppo propone obiettivi vissuti come
valorizzanti, tra cui la possibilità di diventare conduttori dei gruppi. Inoltre, la
partecipazione al gruppo offre un modello di cooperazione che il soggetto affetto

108
da dipendenza non ha mai sperimentato nella vita per motivi legati alle sue
caratteristiche di personalità (essere viziato), oppure nell’ambiente (essere stato
maltrattato, aver vissuto in ambienti ad alto livello di conflittualità, essere stato
emarginato socialmente).
Parenti F.(1983) afferma che una guarigione in senso psicologico dovrebbe
coincidere con l’attenuazione della distanza che esisteva tra il tossicodipendente e
il resto dell’umanità e con un migliore appagamento dei tre compiti vitali per
l’uomo: amore, lavoro, amicizia.
Il terapeuta “incoraggiante”, sempre secondo la Parenti, per svolgere bene la sua
funzione dovrebbe:
a. essere in grado di stabilire una buona alleanza con il paziente;
b, sapere “controllare “, attraverso il riesame , il controtransfert;
c. evitare la dogmatizzazione del modello di approccio prescelto;
d. tenersi aggiornato sugli aspetti innovativi della ricerca, in campo teorico-
clinico, metodologico, strategico e operativo;
e. avere, inoltre, come indicato nelle “Linee Guida di comportamento
Etico”(1998), come obiettivo prioritario del suo ruolo quello di personalizzare il
trattamento alle “individualità” del singolo e non viceversa.
Infine, Pienkowski e Stein dell’ Istituto adleriano di San Francisco, rifacendosi a
una loro casistica, indicano che il primo obiettivo del trattamento è quello di
raggiungere la completa astinenza. Secondo questi due autori, poiché raramente si
raggiunge questo obiettivo in una situazione extra-ospedaliera, è necessario un
periodo di ricovero. Al termine del periodo di astensione dall’uso, se il paziente si
è liberato dall’effetto di sostanze e si è sufficientemente stabilizzato si può iniziare
una terapia vera e propria articolandola in varie fasi a seconda dei casi.
Gli stessi protocolli americani prevedono un periodo in comunità di almeno 12
mesi , cui deve seguire un periodo di presa in carico per il reinserimento e l'inizio
della psicoterapia secondi gli schemi di intervento che si usano per le nevrosi.

109
La psicoterapia cognitivo-comportamentale

La psicologia cognitivo-sperimentale si ispira, in parte, a quel ramo della psicolgia


sperimentale che è incentrata sull’apprendimento. Secondo tale prospettiva, come
è noto, l’ apprendimento è in parte determinato da meccanismi di
condizionamento. Tale apprendimento può soprattutto essere di due tipi:
1) rispondente che si verifica quando ” uno stimolo”(detto condizionato SC)
accoppiato ad un secondo stimolo(detto incondizionato (SI), arriva ad elicitare una
reazione(detta reazione condizionata:RC) simile a quella eliciatata solo dal
secondo stimolo(detta reazione incondizionata; (RI) (Melamed,Siegel.1980);
2) operante, ossia qualsiasi comportamento che l’organismo compie
sull’ambiente per risperimentare alcuni effetti positivi o per far cessare quelli
negativi.
Un esempio di apprendimento per condizionamento nel campo della psicoterapia
dei tossicodipendenti può essere, per esempio, la reazione di attacco/fuga(RC) che
alcuni di essi attivano nei confronti dei tentativi (SC) di entrare in rapporto con
loro.
Questi soggetti, nella maggior parte dei casi, hanno spesso vissuto in ambienti in
cui le persone significative si sono avvicinate a loro con intenzioni manipolative,
violente o comunque che hanno prodotto un effetto emotivamente disturbante
(SI). La frequente associazione fra avvicinamento dell’altro significativo e il
comportamento disturbante fa sì che la risposta di attaco/fuga venga poi elicitata
dal tentativo stesso di entrare in rapporto con loro, anche se compiuto da persone
che non hanno niente a che fare con la figura di riferimento e senza che queste
abbiano alcuna intenzione negativa,
L’esempio più eclatante di condizionamento operante nei tossicodipendenti è
rappresentato dall'assunzione stessa di sostanze stupefacenti. Questi soggetti
hanno, infatti, imparato che utilizzando determinate sostanze possono ottenere un
rapido risultato gratificante: evitamento di una condizione dolorosa e/o
godimento psicofiiologico(Melamed e Siegel, op. cit.;1980).

110
La psicoterapia utilizza queste due modalità fondamentali di apprendimento per
modificare comportamenti precedentemente acquisiti o per crearne dei nuovi.
I principali interventi riabilitativi e terapeutici sono, infatti, basati sul
condizionamento rispondente: 1) l’estinzione e 2) il controcondizionamento.
La tecnica dell’estinzione consiste nel presentare ripetutamente ad un soggetto lo
stimolo(SC) che elicita la risposta che ci si prefigge di modificare, facendo sì che
allo SC non segua mai lo SI. In questo modo lo SC perde gradualmente il suo
potere di elicitare la RC. Nel caso del comportamento di attacco/fuga si
effettuerebbe un intervento di estinzione entrando in relazione con il
tossicodipendente senza mai motivare realisticamente una reazione di
attacco/fuga(cioè al tentativo di entrare in relazione con il soggetto non segue un
comportamento negativo da pate del terapeuta) (Melamed e Siegel, op. cit.1980).
Tuttavia, si potrebbe verificare che lo stesso comportamento disadattivo impedisca
il processo di estinzione in quanto il soggetto si potrebbe sottrarre alla relazione.
In questo caso si può utilizzare una versione diversa dell’estinzione: una tecnica
di tipo implosivo o “flooding”. Attraverso questa strategia è possibile presentare
in modo reale o immaginario lo SC ponendo il soggetto in condizione di non
potere evitare(se non con reazioni estreme) lo SC stesso fornendogli
contemporaneamente sicurezza circa la propria incolumità.
Il “flooding” dovrebbe essere usato con cautela poiché in alcuni casi invece di
produrre estinzione porta alla sensibilizzazione nei confronti dello SC (Melamed e
Siegel, 1980); l’effetto esercitato dall’estinzione non è inoltre profondo
soprattutto se l’associazione SC- RC è molto forte (Meazzini, 1984). Gli
psicoterapeuti a orientamento cognitvo-comportamentale sostengono pertanto che
il “flooding” non dovrebbe essere mai impiegato come tecnica esclusiva per il
trattamento di un comportamento disattivo, poiché non si può mai escludere
completamente l’eventualità di un recupero spontaneo.
Il principio di controcondizionamento, invece, sostiene che si riduce
l’associazione fra SC e RC se si associa sistematicamente allo SC una nuova RC
antagonista.

111
La tecnica più nota che utilizza il controcondizionamento è la desensibilizzazione
sistematica.
La desensibilizzazione sistematica, come è noto, consiste nella ripetuta
associazione fra uno stimolo ansioso-immaginato e una reazione antagonista .
solitamente il rilassamento psicofisiologico al fine di produrre una progressiva
“inibizione reciproca” fra stimolo e risposta (Wolpe, 1969). Conseguentemente,
l’individuo sviluppa, gradualmente una reazione più controllata nei confronti di
determinati stimoli o contesto. Questa strategia rappresenta non solo il
raggiungimento di un obiettivo ma contemporeneamente anche un mezzo per la
produzione di apprendimenti maggiormente adattivi, efficaci e creativi.
La desensibilizzazione sistematica è efficace nel trattamento dei tossicodipendenti
poichè incide in modo fondamentale sui vissuti di ansia ed inadeguatezza di
questi pazienti.
Il controcondizionamento viene appllicato anche solo a livello comunicazionale,
per esempio, se un tossicodipendente vive negativamente alcune sue
caratteristiche perché hanno ripetutamente elicitato negli altri atteggiamenti di
rifiuto, in questo caso si può spezzare l’associazione esistente reagendo alle
medesime caratteristiche in modo completamente diverso. Anche lo stesso
raccontarsi avrà, quindi, un risultato controcondizionante se sarà seguito, per
esempio, dall’accettazione da parte del terapeuta piuttosto che dal rifiuto, dal
disgusto o dalla critica (Zanusso G., Giannantonio M. “Tossicodipendenza e
Comunità Terapeutica”, Franco Angeli, Milano, 2000).
Esiste anche una forma di controcondizionamento detto ”avversivo” che prevede
l’associazione fra una risposta, avversiva appunto, ed uno stimolo che
precedentemente elicitava risposte gratificanti ma disadattive. Un esempio a
livello non direttamente osservabile potrebbe essere l’insegnare ad un
tossicodipendente ad associare sistematicamente alla fantasia di assumere
sostanze stupefacenti (stimoli con valenza positiva) una conseguenza
estremamente spiacevole derivante dalla messa in atto di tale fantasia (reazione
avversiva).

112
Il fenomeno dell’estinzione non riguarda solo il il condizionamento rispondente
ma anche quello operante. Secondo il modello dell’apprendimento operante, una
risposta di un soggetto viene mantenuta o modificata se rinforzata, Il rinforzo,
come è noto, è l’aumento delle probabilità che una risposta si ripeta, in seguito
alla presentazione di un evento contingente positivo o ad eliminazione di uno
negativo. Di conseguenza se si vuole eliminare un comportamento disfunzionale è
necessario non rinforzarlo più, ossia facendo in modo che non sia seguito né da
eventi positivi, né dall’eliminazione di una condizione vissuta negativamente.
Anche il tentativo di condurre una vita senza l’aiuto di sostanze è fondato sul
meccanismo dell’estinzione operante. La prescrizione di una astinenza totale da
sostanze psicoattive ha lo scopo di produrre l’estinzione della risposta di
assunzione.Tuttavia, tale strategia terapeutica, dovrebbe essere integrata da molti
altri interventi perché la scomparsa del rinforzo in questione è facilmente
aggirabile dal tossicodipendente(Zanusso G., Giannantonio M., op. cit.; 2000).
Il paziente dovrebbe anche essere orientato all’estinzione di quei rinforzi negativi
che lo hanno portato a comportamenti di evitamento. Oltre agli stupefacenti ad
alla manipolazione, infatti, molte caratteristiche del comportamento tossicomanico
sono orientate all’ottenimento di rinforzi negativi. La fuga, il comportamento
impulsivo, l’aggressività, lo stordimento con mezzi diversi, la mancanza di
progettazione, sono tutti comportamenti spesso utilizzati per evitare sensazioni
ansiogene, assunzioni di responsabilità, affrontare persone e sensi di colpa,
posticipare illusoriamente i problemi, e così via.
Un’altra tecnica che ha lo scopo di ridurre la frequenza dei comportamenti basata
sul condizionamento operante è la “punizione” le cui varianti sono due: 1)
somministrazione di stimoli avversivi; 2) eliminazione degli stimoli positivi,
Il primo tipo di “punizione” ha il grande vantaggio di ridurre drasticamente
l’emissione di un comportamento disfunzionale, ma contemporaneamente può
produrre numerosi effetti collaterali negativi: come fuga, paura, comportamenti di
evitamento magari autolesionistici, l’apprendimento osservativo, atteggiamenti
aggressivi, ecc, Inoltre, poiché la punizione di per sé dice cosa non fare ma non

113
cosa fare e essa dovrebbe essere necessariamente integrata da altre tecniche di
cambiamento del comportamento (Zanusso G., Giannantonio M., op.cit. 2000)
Oltre alle due modalità fondamentali di apprendimento a cui abbiamo appena
accennato, Bandura (1969) sostiene che si può imparare anche solamente
attraverso l’osservazione di un modello (nella realtà o immaginativamente) e delle
conseguenze che derivano dal suo comportamento.
Nell’apprendimento osservativo o sociale sono distinguibili due momenti:
l’osservazione propriamente detta e la prestazione. Nella prima fase risultano
essere variabili determinanti lo status del modello e la somiglianza fra
quest'ultimo modello e l’osservatore. Un modello autorevole avrà maggiori
possibilità di incidere col proprio esempio comportamentale. Allo stesso modo,
quanto più il modello è simile all’osservatore(sesso, età, caratteristiche
psicologiche e culturali, ecc.), tanto maggiore è l’eventualità che si verifichi un
apprendimento duraturo. Le conseguenze successive all’emissione del
comportamento da parte del modello, fanno sì che quanto osservato venga
ritenuto meritevole o meno di essere appreso e applicato.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale dei disturbi d’abuso e dipendenza è
un processo sequenziale in cui il passaggio da una fase ad un’altra è determinato
dal superamento di quella precedente(Beck, 1993; Mascetti, 1996).
Gli obiettivi da raggiungere sono stabiliti congiuntamente dal paziente e dal
terapeuta che sottoscrivono una sorta di contratto terapeutico.
Le prime fasi della terapia sono orientate alla comprensione dei problemi del
paziente, nella consapevolezza che molti comportamenti apparentemente
inspiegabili, non sono tanto il risultato di patologie sottostanti o dell’attivazione
di inconsci meccanismi di difesa, quanto piuttosto la prova di un precario ed
instabile equilibrio inter-ed intra-personale.
Inoltre, poiché, di solito, l’abuso di una sostanza psicoattiva è difficilmente
considerato dal soggetto un problema, l’obiettivo primario della pima fase della
psicoterapia è l’analisi di problematiche correlate, e la trasformazione della

114
domanda in una richiesta di aiuto e di disponibilità personale per un problema
personale piuttosto che per una malattia.
Successivamente, a prescindere dal fatto che il paziente si mostri estremamente
convinto di voler smettere o manifesti dubbi sul fatto di volerlo o poterlo fare,
vengono analizzati e valutati congiuntamente gli aspetti positivi correlati a non
assumere più la sostanza. Pertanto il paziente viene stimolato ad esprimere il
proprio punto di vista sulle sue esperienze atttuali in cui è fondamentale il
rapporto con la droga (Beck, 1993; Mascetti, 1996).
Questo processo di autoanalisi e autosservazione, oltre a permettere di aprire uno
spiraglio nella percezione rigida e dicotomica che spesso il paziente presenta
rispetto al suo comportamento d’abuso, dovrebbe consentire al terapista di
formulare le prime ipotesi sulla natura e sulla gravità del deficit di monitoraggio
metacognitivo (Lucchini et al., op. cit. 2000).
Una volta compiuto questo percorso, vengono individuate le tematiche
significative per il cliente attraverso le quali, il terapista dovrebbe essere in grado
di stimolare le funzioni deficitarie evitando sia
l’emergere di traumi o carenze profonde che, se affrontate in questa fase
potrebbero generare un’angoscia insopportabile, nei confronti della quale la droga
si ripresenterebbe come l’unica strategia di “coping” conosciuta, sia di essere
eccessivamente coinvolto nella relazione terapeutica (che in questa fase è
percepita dal tossicomane come pericolosa e inutile).
Quindi, dopo un’analisi approfondita delle tematiche attuali, vengono analizzate
l‘ambivalenza e il conflitto come si erano manifestati nel passato, A questo punto
il terapeuta dovrebbe essere in grado di formulare le prime ipotesi di
collegamento tra situazioni di vita attuali, prospettive future e le aspettative
passate (Lucchini et al., op. cit, 2000).
L’ambivalenza e il conflitto vengono, infine , analizzati e evidenziati attraverso
l’analisi della discrepanza fra le intenzioni del passato ed effettivi risultati
conseguiti, nonché fra intenzioni fra loro inconciliabili.

115
L’inevitabile tensione emotiva generata da tale bilancio sarà attenuata o resa
accettabile da una riflessione a livello metacognitivo del proprio stato mentale.
Alla fine del processo di monitoraggio metacognitivo, la dimensione del futuro,
di solito, inizia ad assumere un ruolo fondamentale nel trasformare le motivazioni
estrinseche in intrinseche e nell’orientare i processi di regolazione del
comportamento in senso adattivo (Lucchini et al., op. cit., 2000).
I programmi di trattamento recenti contro la tossicodipendenza fanno ricorso alle
tecniche comportamentali in misura diversa. Il National Institute of Drug Abuse
negli Stati Uniti ha promosso nel 1992 un piano decennale per lo sviluppo e la
verifica di Behavior Therapy (BT), articolato in tre fasi.
La prima fase preliminare ha permesso di testare e mettere a punto una serie di
procedure di B.T.
Nella seconda i ricercatori hanno prodotto dei programmi di trattamento con i
relativi manuali e hanno cercato di individuare l’efficacia delle singole
componenti della B,T.
La terza fase prevede l’effettiva valutazione e le verifiche dei risultati conseguiti
dai protocolli dei manuali in studi clinici controllati (in Lucchini et al., op.cit.,
2000).
Un notevole sforzo è stato, inoltre, fatto nell’area della prevenzione delle ricadute,
e l’attenzione è attualmente rivolta a prolungare il mantenimento dei risultati
(Marlatt, 1996).
Il problema maggiore nella lotta alla tossicodipendenza è, infatti, ancora oggi il
mantenimento nel tempo dell’astensione dagli abusi.
La ricerca e la sperimentazione comportamentale hanno evidenziato che nelle
procedure di decondizionamento si possano incontrare comportamenti e risposte
condizionate con elevata resistenza all’estinzione. La stessa natura dei
condizionamenti comporta, inoltre, la possibilità di recuperi spontanei del
comportamento appreso (Lucchin et al., op. cit., 2000).
Tali fattori potrebbero svolgere un ruolo rilevante nei trattamenti di estinzione
delle risposte condizionate correlate all’abuso di sostanze e spiegare in parte le

116
difficoltà che si incontrano nel raggiungere l’astensione dai consumi e nel
mantenerlo nel tempo. Le ricadute nell’abuso, dopo periodi di trattamento con
farmaci sostitutivi agonisti, e periodi “drug free”, comportano il contatto con gli
Stimoli Incondizionati Sostanze che oltre, a produrre Rinforzi elevati, riattivano
con forza tutti gli Stimoli Condizionati e quindi tutte le Risposte Condizionate
precedentemente indebolite(in The International Journal of Addictions, 1977, 12-
1-16).

Le psicoterapie interattive brevi

I presupposti teorici delle psicoterapie interattive brevi sono riconducibili a quei


paradigmi che, come abbiamo accennato nel primo capitolo di questo lavoro,
attribuiscono alla comunicazione un ruolo terapeutico e di cambiamento. Sono
definite brevi in quanto prevedono l’uso di un numero limitato di sedute, da sei a
quindici, ma in generale meno di dieci, con intervalli da una a sei settimane
(Simon et al., 1985).
Esse derivano fondamentalmente dall'approccio sistemico sviluppato dal Brief
Therapy Center di Palo Alto(Weaklland, Fish , Watzlawick e altri).
Questo approccio terapeutico fa riferimento alla terapia familiare strategica, la
quale utilizza delle prescrizioni di tipo relazionale (paradosso, doppio legame
terapeutico, prescrizione del sintomo o altro) per far sì che si verifichi un
cambiamento stabile che di solito non avviene nel corso dell’intervento, ma negli
intervalli fra le sedute, o anche successivamente.
La psicoterapia che si ispira all’approccio sistemico-relazionale si basa sul
presupposto della possibilità di intervenire su un disturbo attraverso lo strumento
comunicativo perchè la “malattia” non è altro che una patologia comunicativa ,
che come tale induce ad analizzare non il soggetto singolo ma il contesto
comunicativo in cui è inserito. Il terapeuta interviene sulle modalità
dell’interazione comunicativa per indurre cambiamenti significativi

117
nell’organizzazione psichica del paziente, con ripercussioni anche sul piano
organico.
La definizione di un membro come portatore di un sintomo (inteso sia come
tentativo maleadattivo di affrontare un problema sia come atto comunicativo)
produce un effetto stabilizzante (Haley, 1980). Il sintomo è il risulatato di atti
comunicativi paradossali che hanno lo scopo di mantenere la coalizione inquinata
fra i membri della famiglia. Compito del terapeuta, che in questo caso ha un ruolo
direttivo e utilizza prescrizioni comportamentali, strategie di problem solving e
ricorre a paradossi, è quello di promuovere sia l’alleanza fra i membri della
famiglia che l’adozione di nuovi modelli di comportamento in grado di modificare
la rigida sequenza di quelli disfunzionali fino a ridurre e a eliminare il sintomo
Il sintomo della tossicodipendenza, anche, secondo Auloos(1981), è un
linguaggio, un modo di comunicare con la famiglia. Questo autore, riferendosi
alla linguistica, distingue tre aspetti del sintomo:
- aspetto semantico, ossia il significato veicolato da quel comportamento per un
membro della famiglia;
- aspetto sintattico: a chi si indirizza il comportamento patologico, quali sono le
regole del gioco al quale il sistema obbedisce; il terapeuta dovrebbe capire a
quale gioco si sta giocando attraverso la scoperta delle regole segrete che
governano il sistema familiare;
- aspetto pragmatico, ossia, il risultato immediatamente prodotto dal
comportamento tossicomanico
In altri contesti terapeutici, invece, come accennato sopra, il sintomo viene
prescritto per passare dal disturbo della comunicazione alla sua correzione.
Secondo Cancrini (1982) questo tipo di approccio si è dimostrato utile nel
trattamento delle tossicodipendenze "di transizione”( o di tipo C). Presupposto
dell’intervento è, in questi casi, il rispetto delle ragioni profonde che danno senso
ai sintomi.

118
Le Psicoterapie Familiari

L’idea centrale, come appena accennato, a cui fanno riferimento i diversi tipi di
psicoterapia della famiglia è che la tossicodipendenza sia soprattutto sintomo di
disfunzioni e conflitti di natura relazionale che:”generalmente sottendono
problemi riguardanti l’individuazione , l’autonomia , il distacco e vedono quindi
intricarsi nello stesso “modo” i vissuti e le angosce e le fantasie di più persone,
tutte coinvolte in un gioco di equilibri, i cui estremi sono rappresentati
rispettivamente dalla fusione e dall’individuazione”(Cambiano e Bernini,1992).
L’approccio di tipo strutturale, sostiene che la famiglia sia un sistema organizzato
in sottosistemi secondo particolari regole o “confini”. Il compito dello
psicoterapeuta è quello di intervenire sulle regole , che caratterizzano i rapporti tra
i diversi sottosistemi, analizzando la distanza che intercorre fra i suoi membri, le
gerarchie interne, le alleanze e le coalizioni, valutando quanto la famiglia è
"invischiata” o “disimpegnata”. Gli scopi di questo tipo di approccio in relazione
alla famiglia del tossicodipendente, secondo Stanton (1982) sono: favorire una
riorganizzazione del nucleo familiare (tramite processi di sbilanciamento e di
intensificazione di una relazione) in modo di promuovere sia il cambiamento
dell’intero gruppo sia quello di ogni suo componente attraverso una
ristrutturazione del sistema. Ciò si ottiene stabilendo o dissolvendo i confini,
coinvolgendo i membri disimpegnati, differenziando quelli invischiati. Tale
cambiamento delle relazioni reciproche avviene nel contesto della seduta
terapeutica mentre determinate prescrizioni del terapeuta hanno lo scopo di
consolidare i cambiamenti fra una seduta e l’altra. Il trattamento non si limita al
solo nucleo familiare ma comprende anche tutti i parenti che hanno rapporti
significativi con esso.
La fase iniziale della terapia è focalizzata sulla definizione dello scopo comune
per i membri della famiglia: la sospensione della condotta tossicomanica.
Successivamente il terapeuta stimola il coinvolgimento del genitore marginale,

119
aiuta la coppia a rafforzare l’alleanza genitoriale (promuovendo atteggiamenti
fermi e non contraddittori nei confronti del figlio), a ricostruire una gerarchia di
potere più funzionale con una chiara definizione dei ruoli, dei confini e delle
responsabilità. Questa fase dovrebbe produrre, in genere, una forte crisi che ha
bisogno di un certo tempo per essere elaborata.
La seconda fase si propone soprattutto due obiettivi:
1) da un lato favorire l’autonomia funzionale del figlio, il suo progetto di
individuazione e di separazione dalle figure genitoriali da perseguire
attraverso lo studio, il lavoro, altri investimenti affettivi e l’eventuale uscita di
casa;
2) dall’altro affrontare i problemi che riguardano la coppia genitoriale.
Questo tipo di terapia si è dimostrata particolarmente importante nel trattamento
dei tossicomani che Cancrini (1982) definisce “da nevrosi attuale” (o di tipo B).
Il lavoro con la famiglia consente al terapeuta di rompere l’equilibrio patologico
che essa ha creato intorno alla tossicodipendenza, intervenendo sul conflitto
interpersonale esistente e demolendo le resistenze che lo collegano al
comportamento tossicomanico, facendo sì che quando i genitori si scontrano fra di
loro evitino di utilizzare il figlio, si aprano al confronto con il partner e assumano
un atteggiamento più attivo e responsabile nei confronti del figlio.
Infine, il modello di terapia familare multipla messa a punto da Kaufman(1979),
rivolto a famiglie che hanno i figli in comunità e coinvolge settimanalmente dai 3
ai 15 nuclei familiari di tossicodipendenti, si propone di attivare le capacità
terapeutiche dei genitori promuovendo un cambiamento del loro atteggiamento
educativo.
Durante i primi incontri i partecipanti esprimendo ad altri le proprie sofferenze,
alleviano il senso di solitudine e d’isolamento. La possibilità di condividere
un’esperienza comune fatta di furti, di dolore, di spese inutilmente sostenute, crea
le condizioni per un legame reciproco che favorisce un clima di sicurezza e di
fiducia. Terapeuta e coterapeuta che svolgono il ruolo di figure parentali alleate al
gruppo delle famiglie, incoraggiano a non ripetere comportamenti già sperimentati

120
e a non esaudire eventuali richieste dei figli così come accadeva in passato
(facendoli uscire, ad esempio dalla comunità non appena essi lo richiedano o
facendosi coinvolgere in un rapporto simbiotico).
La fase centrale della terapia è focalizzata sull’individuazione del ruolo che la
famiglia ha svolto in termini di condotte manipolatorie e di relazioni disfunzionali
durante la genesi della tossicodipendenza e di comportamenti di presa di distanza
o di copertura nelle fasi successive. Il riconoscimento dei propri limiti e dei propri
errori è usato per elaborare un piano di comportamenti diversi da attivare al
rientro del figlio. Se, all’inizio della terapia i genitori tendono a proiettare le
cause della tossicodipendenza all’esterno della famiglia e considerano il figlio o
come privo di responsabilità o come del tutto colpevole per la sua condizione a
poco a poco dovrebbero riconoscerlo come co-protagonista delle scelte compiute.
Per certi aspetti, si ispirano al modello di terapia familiare multipla tutte quelle
esperienze attivate dal privato-sociale per coinvolgere in un percorso di
cambiamento anche le famiglie dei ragazzi che partecipano ad un trattamento
semiresidenziale . Il conduttore è, in questo caso, un ex-tossicodipendente o un
genitore che ha un ruolo generalmente direttivo. I suoi interventi si focalizzano
sulla dimensione del presente, su aspetti concreti, dirige l’attenzione del gruppo
sul sintomo stimola a modificare le sequenze comportamentali più rigide e
ripetitive usa l’interpretazione per riformulare il problema piuttosto che per
promuovere un “insight”, dà compiti e prescrizioni che sono oggetto di verifiche
(Clerici, 1993) La condivisione di esperienze di dolore e di sofferenza con altri
dovrebbe consentire di diminuire fin dai primi incontri fra le famiglie i vissuti di
angoscia , di confusione e di isolamento dei diversi membri.
La parte centrale di questi interventi è finalizzata sia alla comprensione del
significato comunicativo del sintomo e a individuare risorse interne della famiglia,
sia ad evidenziare i comportamenti disfunzionali ed a riorganizzare su basi
diverse le relazione reciproche. Il gruppo ha la funzione di stimolare la coppia,
attraverso il dialogo e il confronto a considerare con più obiettività e distacco
determinati comportamenti. Il conduttore stimola l’attivazione di comportamenti

121
diversi da quelli disfunzionali che fungono da stimolo e come risorsa per i
partecipanti.

122
CONCLUSIONE

Dall’analisi degli effetti prodotti dall’uso cronico dell’ecstasy è emerso che


quelli negativi sono di gran lunga maggiori di quelli positivi. Inoltre, questi
ultimi durano il tempo dell’effetto della sostanza; mentre, quelli negativi sono a
lungo termine, permanenti, gravissimi e talvolta letali.
Anche se attualmente non è noto, in modo sicuro, in quale misura, la MDMA sia
neurotossica per l’uomo; tuttavia, come abbiamo visto nel secondo capitolo di
questo lavoro, ci sono numerose evidenze sperimentali ottenute sugli animali
ma anche prove indirette effettuate su consumatori di ecstasy ricreazionale che
hanno dimostrato la neurotossicità dell’ecstasy.
Tuttavia, secondo la dottoressa Schulgin, l’ecstasy è tossica a livello
serotoninico solo quando non è pura e se ne assumono forti dosi. Pertanto, il
suo uso corretto in psicoterapia non produce effetti negativi anzi questa
sostanza, sempre secondo il punto di vista di A. Schulgin, ha il potere magico di
risolvere numerosi problemi che assillano l’uomo.
La dottoressa Schulgin, nella sua apologia a favore dell’uso dell’ecstasy, sembra
aver dimenticato gli effetti prodotti dalla MDMA durante una seduta di
psicoterapia a cui abbiamo accennato nel secondo capitolo. Da questa ricerca,
infatti, è emerso che la MDMA ha prodotto sia effetti positivi che negativi.
La psicoterapeuta americana sembra, inoltre, non ricordare che, anche una
singola dose di MDMA può provocare danni che si protraggono per mesi e
mesi, che gli effetti variano da persona a persona e che l’assunzione induce
tolleranza e “craving”.
Pertanto, riteniamo che la sua visione degli effetti elicitati dalll’assunzione di
MDMA sia parziale e strumentale.
Fino ad oggi, inoltre, non esistono prove scientifiche che testimoniano
l’esistenza di droghe in grado di curare le patologie dell’animo umano nello

123
stesso modo e con la stessa efficacia con cui la penicillina cura molte patologie
somatiche.

124
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