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ALMA MATER STUDIORUM-UNIVERSITA' DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in
Antropologia Religioni e Civiltà Orientali

TITOLO DELLA TESI

Le Radici di un Cambiamento
Dall'albero delle parole al Centro George Devereux

Tesi di laurea in
Antropologia Culturale

Relatore Prof: Ivo Quaranta

Presentata da: Davide Bassi

Sessione di Laurea
seconda

Anno Accademico
2015-2016

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INDICE

Introduzione.........................................................................................................................pag.1
Primo capitolo: COLLOMB A FANN E L'ISTITUZIONE DEL PËNC
1.1 Il progetto di Collomb per l'ospedale di Fann……………................................pag.4
1.2 Il pënc: dalla tradizione all'ospedale………………………………………......pag.6
1.3 Le difficoltà del lavoro d'equipe……………………………………………....pag.8
1.4 La difficile collaborazione con i guaritori………………………….…….…...pag.10
Secondo capitolo: PICHON-RIVIÈRE E LA TECNICA DEL GRUPPO OPERATIVO
2.1 Pichon-Rivière e la nascita della concezione operativa di gruppo…………….pag.14
2.2 La nozione di compito e di schema di riferimento nel processo gruppale…….pag.17
2.2.1La creazione di uno schema comune…………………………………….pag.19
2.3 Apprendimento, la teoria del vincolo e l'interpretazione……………………...pag.20
2.3.1 La gestione della componente latente del lavoro di gruppo…...……..pag.22
2.3.2 La teoria del vincolo………………………………………….………pag.23
2.3.3 La necessaria rotazione della leadership……………………..………pag.24
Terzo capitolo: CONSIDERAZIONI SULLE PROBLEMATICHE NATE
DALL'ESPERIENZA DI FANN
3.1 Considerazioni sulle problematiche nate dall’esperienza di Fann……..……….pag.27
3.2 La matrice istituzionale e socio-culturale del cambiamento……………………pag.28
3.2.1 Il rapporto individuo istituzione…………………………………...….pag.29
3.2.2 Il clima socio-culturale delle “epistemologie-convergenti”…………..pag.31
3.3 Epistemologia psichiatrica e relazioni di potere………………………………pag.34
3.3.1Psichiatria e potere………………………………………………………pag.35
3.4 La componente identitaria…………………………………………………….pag.37
3.4.2 Le implicazioni dell'identitarismo…………………………………….pag.38
Capitolo quarto: L'ETNOPSICHIATRIA OGGI
4.1 Il “Centro George Devereux”…………………………………………..………pag.42
4.2 La terapia di gruppo del “Centro George Devereux”………………………….pag.43
4.3 Le contraddizioni del “Centro George Devereux”, tra eredità e innovazione….pag.45
4.4 Il “ghetto” di Nathan e il villaggio terapeutico di Henri Collomb……………...pag.47
4.4.1 Le politiche e il valore dell'etnopsichiatria………………………….pag.48
Conclusioni……………………………………………………………………………….pag.50
Bibliografia e ……………………………………………………....…………………….pag.53
Sitografia……………………………………………………………………………....…pag.55

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Introduzione

L’etnopsichiatria, per quanto risulti difficile definirla in termini rigidi, si caratterizza per una
tendenza all’autoriflessione, per una visione critica nei confronti di concetti come normalità, salute
e verità. Questa autoriflessione si intreccia con la volontà di uscire da una definizione della
patologia mentale come di un disturbo biologicamente e universalmente strutturato, per inquadrarla,
invece, come un processo che non può essere slegato dal suo contesto storico-sociale, dalle sue
matrici culturali e dai vari intrecci che forma con l’economia, la politica, la famiglia e, più in
generale, con il contesto in cui l’individuo costruisce il senso della propria esistenza.
Se oggi si può parlare dell’etnopsichiatria in questi termini è però da sottolineare come ciò sia
dovuto a un lungo percorso di cambiamento che questa disciplina ha affrontato negli anni.
L’etnopsichiatria attuale nasce infatti dalle esperienze di molti psichiatri, psicologi e psicoanalisti
che, inseriti in contesti “estranei” alla psichiatria di matrice occidentale, dovettero apportare
profondi cambiamenti al quadro teorico e pratico con cui avevano imparato ad affrontare la follia.
L’obbiettivo di questo lavoro, dunque, è ripercorrere alcune tappe di questo percorso e, nello
specifico, rintracciare quali furono le difficoltà legate a questo cambiamento.
Si è quindi deciso di partire dall’esperienza di Henri Collomb, psichiatra francese che, dovendo
operare in un ospedale psichiatrico in Senegal, si rese conto della necessità di contestualizzare il
processo terapeutico e decise così di integrare alla pratica psichiatrica teorie, tecniche e categorie
locali.
Analizzando i resoconti dello stesso Collomb ma anche di numerosi suoi collaboratori, alcuni di
questi aspramente critici nei suoi confronti, è stato possibile inquadrare la sua esperienza come un
caso emblematico poiché, essendo una delle prime occasioni in cui si andò ad adottare una
prospettiva che riconoscesse validità ai sistemi di pensiero e alle credenze indigene, fu caratterizzata
da forti ambiguità, resistenze e critiche.
Cercare di comprendere a fondo queste difficoltà vuol dire compiere un lavoro di interpretazione.
Per svolgere questo lavoro di interpretazione si è dunque deciso di riprendere le teorie di Enrique
Pichon-Rivière. Questo, psichiatra e psicoanalista argentino, lavorando in un ospedale psichiatrico a
Buenos Aires si ritrovò costretto, durante uno sciopero degli infermieri nel suo reparto, a
responsabilizzare i pazienti con problematiche più lievi affinché si prendessero cura di quelli più
gravi. Anch’egli, dunque, seppur in maniera differente da Collomb, dovette effettuare un
cambiamento del proprio approccio e dell’epistemologia psichiatrica con aveva compiuto la sua
formazione. Quest’esperienza lo portò a teorizzare la Concezione Operativa di Gruppo, una teoria
della psicologia sociale a matrice psicoanalitica attraverso la quale cercò di descrivere quali sono le
dinamiche psicologiche e affettive che interessano la persona una volta posta in un contesto

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operativo di gruppo: cioè in una situazione in cui il proprio modo di agire e intendere i fatti viene
relativizzato e posto di fronte ad una richiesta di cambiamento.
Approfondendo questa teoria lo psichiatra argentino giunse ad una concezione della malattia
mentale come fenomeno sociale, comprendente cioè i legami che il paziente intreccia con la
famiglia, le istituzioni e, più in generale, con tutto il contesto sociale.
La teoria di Pichon-Rivière, e i successivi sviluppi degl’allievi di quest’ultimo, risulta dunque ideale
per comprendere più approfonditamente l’esperienza di Collomb. Uno dei cambiamenti
fondamentali, nonché il più famoso, che lo psichiatra francese portò nell’ospedale di Fann fu infatti
quello di sostituire ai colloqui duali con i pazienti dei momenti di gruppo; per far ciò egli si rifece al
pënc senegalese, che nella tradizione locale era l’”albero delle parole” sotto cui venivano prese le
decisioni riguardanti il villaggio. Collomb dunque, cercando di creare una situazione che rispetto al
setting duale del colloquio permettesse una migliore e più facile circolazione delle informazioni tra
medici e pazienti, finì con l’inserire i membri della propria équipe in una situazione che, come nei
gruppi operativi di Pichon-Rivière, richiedeva un cambiamento nel modo di approcciarsi nei
confronti della malattia e del paziente.
Dopo questa analisi dei momenti di gruppo si è poi andati ad approfondire più nello specifico la
figura dello psichiatra e, sempre seguendo le teorie di Pichon-Rivière e soprattutto del suo allievo
José Blegér, cercato di rilevare come la pratica psichiatrica si inscriva in un intergioco di reciproche
influenze con la società. In questo modo si è così mostrato come, in realtà, il cambiamento che
Collomb richiese ai membri della sua équipe trascendesse il piano individuale andando a svilupparsi
anche nella dimensione politica, istituzionale, culturale e sociale.
Si è dunque andati a cercare quali fossero i legami dell’esperienza innovatrice di Collomb in
Senegal con il clima socio-culturale in cui si andò a sviluppare, ovvero approfondendo i legami che
intrattenne con il più ampio movimento di rinnovamento epistemologico e istituzionale che si
sviluppò tra gli anni 50 e 70 del Novecento.
Si è poi andati a concludere cercando gli esiti di questo processo di cambiamento, volgendo cioè lo
sguardo verso l’etnopsichiatria attuale, nello specifico a quella di Tobie Nathan.
Analizzando i resoconti delle terapie di Nathan, e le critiche che ad esse sono state mosse, sono
emersi i legami che l’approccio dello psicoanalista francese ancora mantiene con il passato
dell’etnopsichiatria: la tecnica di Nathan infatti ripresenta molti degli elementi proposti da Collomb,
tra cui i momenti di lavoro in gruppo, ma anche gli ambigui legami che la pratica psichiatrica
intratteneva con il potere.
L’analisi dei lavori di Nathan, dunque, da una parte illustra l’attualità e il valore di esperienze come
quelle di Collomb ma, dall’altra, anche quanto la pratica della cura continui ad essere strutturata su
basi spesso ambigue e contraddittorie che vanno ad inficiare il processo di guarigione.

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Queste ambiguità e queste contraddizioni insorgono per una compartimentazione dei saperi che
continua a caratterizzare tanto la formazione quanto la pratica in ambito clinico: si tratta di uno
stereotipo epistemologico che, parzializzando la visione dello stato patologico, funge da ostacolo
operativo. Le conseguenze di questa incapacità di modificare il proprio punto di vista e il carico di
difficoltà legate a questo processo di cambiamento vengono così sobbarcate sulle spalle del
paziente.
Troppo spesso infatti l’incontro con l’Altro, che sia il folle o l’immigrato, si configura come un
tentativo di inquadrare tale esperienza attraverso schemi noti, ripetibili e gestibili: in un modo cioè
che non implichi il cambiamento di se stessi.
Tuttavia procedere in questa direzione significa reificare l’Altro, la relazione che con esso si
intrattiene e, di conseguenza, anche se stessi. In ambito terapeutico questa modalità relazionale
rischia troppo spesso di svincolare il paziente dall’intelaiatura semantica che gli permette di
costruire efficacemente il proprio percorso esistenziale e quindi, se non annullare, perlomeno
ostacolare il percorso di guarigione.
Se dunque è vero che l’incontro e la differenza sono infatti questioni che implicano difficoltà,
incertezza e disorientamento, è importante ricordare quanto siano anche occasioni per approfondire
e arricchire il proprio modo di affrontare la realtà e, quindi, conoscere se stessi.
L’etnopsichiatria, in un certo senso, offre un esempio della fecondità e delle opportunità che
l’incontro con l’alterità offre. È infatti grazie al costante rapporto che questa disciplina ha
mantenuto con realtà “Altre” che, oggi, è riuscita a maturare il suo sguardo attento e comprendente
più punti di vista: dall’economia ai legami affettivi dell’immigrato con il suo contesto d’origine,
fino alle politiche d’accoglienza, quello etnopsichiatrico emerge come un approccio che spesso fa
discutere, tuttavia ciò avviene proprio perché esso è in grado di rilevare sempre i termini più
ambigui e sensibili delle situazioni che studia.
L’obbiettivo di questa tesi, dunque, è anche mostrare la necessità di aprirsi al cambiamento e alla
novità della collaborazione nei contesti di cura così da poter, se non creare, almeno tendere verso
una visione olistica della persona e del suo disagio.

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Capitolo 1: Collomb a Fann e l'istituzione del pёnc

1.1: Il progetto di Collomb per l'ospedale di Fann

Nel 1958 giunse a Dakar Henri Collomb, ivi chiamato per sedere alla cattedra di psichiatria
dell'ospedale universitario di Fann. Formatosi in Francia, intraprese la carriera militare come
psichiatra: fu grazie al suo legame con l'esercito che poté conoscere luoghi e realtà culturali assai
differenti, avendo così modo di maturare una coscienza critica e consapevole riguardo all'approccio
e agli effetti della medicina occidentale nei contesti coloniali.
Giunto a Dakar, infatti, Collomb non impose il modello terapeutico occidentale, ma avviò un
progetto di comprensione delle eziologie e delle terapie tradizionali, al fine di poter strutturare un
percorso di guarigione modellato su quello locale.
Le esperienze vissute lo avevano portato a concepire «la follia come la parte dell'individuo che
resiste alla socializzazione» (Beneduce 2007): se nei contesti occidentali il comportamento del folle
veniva trattato attraverso meccanismi di esclusione e isolamento rispetto all'ordine collettivo,
secondo Collomb nelle società del Senegal, e dell'Africa in generale, l'approccio seguiva
un'ideologia opposta, tendente a socializzare e (re)integrare il soggetto malato attraverso momenti e
pratiche in grado di ricostruire l'ordine sociale che il folle aveva minacciato, e di collocare
quest'esperienza in una rete di cause e significati familiari.
Il trattamento asilare, quindi, eredità del colonialismo e teso più alla coercizione che alla cura,
risultava avere un effetto negativo sul paziente “africano”. Oltre a non aver alcuna utilità
terapeutica, lo sradicamento dall'ambiente e dai riferimenti culturali privava il soggetto degli
elementi necessari all'elaborazione delle strategie di denominazione, costruzione ed interpretazione
della sua esperienza, generando così nel paziente un sentimento di maggiore alienazione e
sofferenza.
Tuttavia, constatata l'inefficacia e l'incoerenza del sistema asilare in Africa, Collomb si ritrovò a
dover fare i conti con un secondo problema:
«...l'evolution familiale et sociale, en même temps qu'elle augmente le nombre des malade mentaux,
diminue tolérance à leur égard. De nouvelles formes d'assistance, à la fois pratiques, adaptées au
milieu socio-culturel et conformes à la nature du désordre mental, doivent être proposées pour
éviter la solution simple et radicale qui tente les pouvoirs publics et menance les malades: le retour
à la concentration asilaire ou son développement»1 (Collomb 1978).

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L'evoluzione familiare e sociale, mentre aumenta il numero di malati mentali fa contemporaneamente diminuire la
tolleranza nei loro confronti. Si rende quindi necessario trovare delle nuove forme d'assistenza, concrete, che si adattino
al contesto socio-culturale in modo da poter evitare la soluzione semplicistica e radicale che tenta i poteri pubblici e
minaccia i malati: il ritorno alla reclusione asilare o il suo sviluppo. (trad. di chi scrive)

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Il colonialismo non aveva portato solo i manicomi, aveva portato anche l'urbanizzazione, il
consumismo, la nuclearizzazione delle famiglie, e molti altri elementi di un modello di vita
marcatamente europeo. Questi elementi, che ormai facevano parte della cultura senegalese, avevano
cambiato la stessa follia, o meglio, avevano cambiato il significato attribuitole dalle popolazioni
locali. Scrive infatti Collomb: «Les attidudes et les comportaments des autres à l'egard du malade
mental ou du fou sont déterminés par les modéles que la culture a développés et que chacun porte
en soi, qu'il soit psychiatre ou non.
Dans les sociétés africaines, le malade était l'objet d'attention de la part de la famille et du groupe
social. Les modèles permettaient de le considérer comme une personne en lutte avec des forces
hostiles, ou des forces religieuses. Il était reconnu porteur d'une vérité plus grande, vérité qui lui
était révélée par la folie2» (Collomb 1978 b).
Se il nuovo Senegal, quello cambiato dal colonialismo, che abbandonava nei manicomi i parenti
problematici e che applicava politiche di detenzione asilare, mostrava una sempre maggiore
diffusione della psichiatria coloniale, ciò non voleva dire che l'approccio tradizionale fosse andato
perduto; queste due forme di cura di fatto convivevano.
Ed è verso questo approccio tradizionale che Collomb andò a guardare nel tentativo di costruire una
psichiatria senegalese, una psichiatria dove la cura comunitaria, l'interesse per la persona e la follia
potessero far rivivere la «socializzazione della malattia [...], il paradiso perduto nell'esperienza della
follia nelle società occidentali» (Beneduce 2007).
Partendo da queste premesse, Collomb iniziò un lavoro di riorganizzazione dell'ospedale: venne
imposto alle famiglie di scegliere un membro del nucleo familiare da internare insieme al paziente.
Ciò diminuì il numero dei pazienti abbandonati da parte delle famiglie, e così facendo si poteva
garantire al malato un livello d'assistenza (alimentare e igienica) che le esigue risorse dell'ospedale
non avrebbero altrimenti potuto offrire. A ciò va aggiunto che, una volta tornato a casa, il paziente
aveva qualcuno che poteva testimoniare il percorso svolto ed aiutarlo nel reinserimento.
Inoltre, attraverso questa scelta, «la componente "normale" equilibrava quella con problemi ed era
più facile evitare l'isolamento e la patologizzazione delle crisi che Collomb riteneva tra i principali
fattori di cronicizzazione» (Coppo 1996).
Un altro punto di svolta fu quello di abbandonare lo specialismo psichiatrico per intraprendere un
approccio multidisciplinare: Collomb istituì così un team formato da psicologi, guaritori locali
filosofi, antropologi, psicoanalisti e sociologi. Il suo intento era quello di integrare il lavoro clinico

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Le attitudini ed i comportamenti degli altri nei confronti del malato o del folle sono determinati dai modelli che la
cultura ha sviluppato e che ciascuno porta in sè, che sia psichiatra o meno. Nelle società africane, il malato è oggetto
d'attenzione da parte della famiglia e del gruppo sociale. I modelli permettono di considerarlo come una persona in
lotta contro delle forze ostili, o religiose. Viene riconosciuto come portatore di una verità più grande, verità che egli
rivela attraverso la follia.(trad. di chi scrive)

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con un'operazione di studio del territorio, che avrebbe permesso di approfondire le dinamiche
relazionali nelle quali il paziente era immerso e conoscere le tradizioni e i saperi locali, con i quali
si era soliti affrontare la malattia mentale. Questa conoscenza, orientata a collocare il paziente entro
il suo sistema di riferimento, era tesa ad evitare un inquadramento meramente biologistico, proprio
della psichiatria occidentale.

1.2 Il pënc: dalla tradizione senegalese all'ospedale

La regola di internare insieme al paziente anche un familiare è solo uno degli elementi che Collomb
andò a recuperare dalla tradizione senegalese3 per riorganizzare la struttura ospedaliera: ciò che
diventerà il simbolo di questa collaborazione e di questa ricerca è l'istituzione del pënc.
Il termine pënc (o pinth) indica l'albero delle parole che, nei villaggi tradizionali del Senegal, era il
luogo dove si riunivano i membri più anziani del villaggio per affrontare le questioni più disparate:
dal raccolto ai matrimoni, dalla risoluzione delle liti ai rituali.
Al pënc di Fann la situazione non era diversa, durante le assemblee poteva partecipare chiunque
volesse: medici, pazienti, accompagnatori, guaritori del posto, infermieri, ma anche poeti, musicisti,
turisti e chiunque altro fosse interessato. In accordo con la tradizione locale era presente un Jaraaf,
ovvero colui che rappresenta l'autorità all'interno del pënc; questi veniva eletto tra i pazienti ed
aveva il compito di dare inizio alla seduta, di presentare i nuovi arrivati e i loro accompagnatori, di
gestire i turni per parlare ed eventualmente di tradurre ciò che veniva detto.
Lo scopo di queste riunioni era quello di fornire al paziente un contesto di ascolto, aperto e
profondo, in cui potesse esprimersi in maniera libera: sia per quanto riguarda la risoluzione delle
problematiche riguardo l'organizzazione dell'ospedale, ma sopratutto per portare alla luce e
condividere con il gruppo le sue esperienze vissute.
È importante notare che durante questi momenti assembleari, sul totale dei partecipanti, si cercava
di fare in modo che ci fosse un terzo di medici e infermieri, un terzo di accompagnatori, per un
totale di due terzi di persone “sane”, e un terzo di pazienti. La presenza di un maggior numero di
sani trasformava così la parola dominante nel pënc in quella della maggioranza, la parola della
società, governata da convenzioni, interdizioni ed obblighi.
Si trattava, come farà notare poi Sow I. (ed altri 1986), di una situazione abbastanza particolare: se
da un lato si incoraggiava il paziente ad esprimere in maniera libera la sua individualità, dall'altro lo
si obbligava a sottostare a delle regole, le stesse regole a cui si “ribellava”.

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Era già tradizione, nei villaggi terapeutici, che il malato ivi recatosi venisse accompagnato da alcuni membri della sua
famiglia. In questo modo venivano garantiti, come a Fann, i servizi igenico-alimentari e un'eterogeneità dei membri
componenti la comunità del villaggio.

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Tuttavia, approfondendo le modalità con cui nella tradizione locale veniva concepita l'identità,
questa contraddizione trova delle spiegazioni, come sottolinea Sow I.: «l'homme des sociétés
traditionelles [...], se caractèrise, essentiellement et a l'évidence, par une "culturalisation" maximale
de ses conduites, attitude, représentation [...]. Autrement dit, il n'y a pas d'essence humaine générale
"naturelle" en dehors des conditions sociales, historiques, spécifiques qui la définissent»4.(Sow I. ed
al. 1985). L'individuo, dunque, è e rimane dipendente dal gruppo poichè si definisce attraverso
l'altro « Etre soi-même dans la culture africaine implique nécessairement l'inclusion du rapport ave
les autres dans cet "être-soi" comme seule possibilité d'accéder à une existence authentique et
réelle»5(Sow I. ed al. 1985). Accedere alla dimensione sociale si rivela così come un passo
fondamentale nella vita, non solo per costruire la propria identità, ma anche perché introduce
l'individuo a quella struttura di relazioni e significati culturalmente plasmati che permettono di
definire e comprendere il proprio vissuto.
Ne è un esempio l'eziologia dei comportamenti anomali: se la psichiatria occidentale li classificava
come problematiche individuali dell'apparato psichico, la tradizione senegalese li definiva, e li
strutturava, come risultato di una disfunzione relazionale tra la persona e uno dei “poli culturali”
che la costituiscono, ovvero spiriti, lignaggio e comunità. A seconda del comportamento tenuto,
veniva dunque richiamata come causa una cattiva relazione con un certo polo piuttosto che un altro.
Questo insieme di conoscenze riguardo le cause della malattia, come sottolinea Andras
Zempleni(1975-76), non era un privilegio degli uomini di medicina ma, essendo accessibile a tutti,
creava un lessico simbolico attraverso cui la persona poteva dar forma alla sua sofferenza,
trasformandola così in un discorso sulla propria esperienza che la rendeva in grado di farsi intendere
dagli altri. Si trattava di un lessico derivante dalla necessità di difendere la società e le relazioni che
la compongono dalle componenti narcisistiche ed individualiste: era attraverso questo lessico
simbolico che veniva garantita la possibilità di un'esistenza collettiva.
Nella terapia tradizionale, dunque, si cerca di rinsaldare e riportare alla norma la struttura di questo
"essere-con"(Sow I. 1985), di apprendere o, nel caso del “folle” di far riacquisire, quell'insieme di
leggi e meccanismi che regolano il rapporto dell'individuo con il mondo e con "l'altro", che, come
detto prima, è allo stesso tempo una dimensione fondamentale del rapportarsi con il sé.
Potrebbe dunque sembrare che ciò a cui mirava Collomb fosse l'imposizione di una “legge”, una
norma di comportamento confacente al contesto del paziente, che permettesse a questo di potersi
nuovamente adattare agendo in maniera attiva.
Tuttavia l'epoca in cui si colloca il pënc di Fann era un'epoca di grandi mutamenti, dove i miti si
4
L'uomo delle società tradizionali[...], si caratterizza, nell'essenza e nell'apparenza, per una "culturalizzazione"
massimale delle sue condotte, attitudini, rappresentazioni [...]. Detto altrimenti, non c'è un'essenza umana generale e
naturale al di fuori delle condizioni sociali, storiche, specifiche che la definiscono. (trad. di chi scrive)
5
Essere sè stessi nelle società africane implica necessariamente l'inclusione del rapporto con gli altri all'interno di questo
"essere-sè" come sola possibilità per accedere ad un'esistenza autentica e reale. (trad. di chi scrive)

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stavano indebolendo e i riti perdevano di efficacia, un‘epoca in cui l'uomo doveva riuscire a trovare
un equilibrio tra vecchie e nuove forme d'esistenza; ma se la necessità di costruire la propria identità
attraverso l'altro rimaneva, erano questi elementi simbolici e l'insieme dei punti di riferimento che
andavano a costituire, che vacillavano. Così contestualizzata, la follia poteva esser letta come
l'espressione di un vivere che, sprovvisto del proprio lessico esistenziale, non sapeva dove
collocarsi e come definirsi.
Agli occhi di Collomb il folle incarna dunque l'incapacità di farsi comprendere, per questo il pënc
che istituisce, non curava attraverso l'imposizione dall'alto di norme e divieti ma, attraverso
l'ascolto, cercava di donare diritto d'esistenza alla malattia, permettendo al paziente di poter iniziare
a confrontarsi con l'attuale "normalità" in un clima protetto e dove poter culturalizzare il suo
discorso esistenziale, il suo disequilibrio e il suo male. Il pënc si configurava così come un ponte tra
l'incomprensione della follia e la complessità della società.

1.3 Le difficoltà del lavoro d'equipe

La dimensione del gruppo, nel progetto di Collomb, era una parte fondamentale. Come detto prima,
Collomb abbandonò lo specialismo psichiatrico a favore di un approccio multidisciplinare, tuttavia
la collaborazione tra gli studiosi radunati dallo psichiatra francese non era facile, anzi, lui stesso
scrive nel 1965: «Le travail en èquipe n'est pas encore facilement accepté. Ceci est spécialement
vrai pour les européens et plus spècialement pour les francais»6 (Collomb 1965).
Ciò a cui faceva riferimento riguardava soprattutto la difficoltà dei membri del gruppo ad uscire da
molti schemi che, imparati in Europa, nella realtà senegalese dovevano esser messi in discussione.
Gli studiosi europei, abituati ad un lavoro individualistico, caratterizzato dalla competizione,
davano spesso più importanza al successo personale che ad un comune avanzamento del pensiero:
«mancano i momenti di sintesi collettiva, le informazioni faticano a circolare, le elaborazioni
vengono di sovente fatte al di fuori del gruppo di lavoro, tende invariabilmente a ripresentarsi e ad
avere il sopravvento la spinta al lavoro individuale, privatamente impostato e condotto» (Failli S.
2005).
A livello terapeutico, inoltre, si rendeva necessario, durante i colloqui con il paziente, abbandonare
il setting duale: se infatti nella società occidentale un discorso faccia a faccia poteva generare un
clima di maggiore confidenza, nel caso senegalese il risultato era opposto. La conoscenza del
paziente avveniva nei momenti di gruppo, dove la comunicazione era facilitata proprio perché
pubblica; come conseguenza diretta, però, il medico si ritrovava a non avere più il "suo" paziente.

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Il lavoro in equipé non è ancora facilmente accettato. Ciò è particolarmente vero per gli europei ed ancor di più per i
francesi

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Le difficoltà nel cambiare prospettiva portavano spesso molti medici a opporsi alle iniziative
proposte, e a isolarsi nel proprio reparto, dove veniva portata avanti la classica terapia occidentale.
Una questione cruciale era inoltre quella degli infermieri: Collomb (1965) rileva come questi
fossero fondamentali per un buon funzionamento del lavoro terapeutico. Essi infatti, a differenza
dei medici, erano autoctoni del Senegal, condividevano dunque con il paziente un insieme di
conoscenze, prima fra tutte la lingua, che permettevano di instaurare legami più forti e immediati,
costituendo così il collante della comunità terapeutica; Collomb stesso (ibid.) rileva una diretta
corrispondenza tra una buona relazione medico-infermiere e infermiere-paziente ed una migliore
efficacia della terapia.
Tuttavia, seppure di origine senegalese, gli infermieri avevano ricevuto una formazione occidentale
che, a favore di un sapere scientifico, li aveva costretti a rinunciare ai propri valori, alle
rappresentazioni e alle credenze tradizionali. Il paziente gli si presentava quindi come un individuo
dal cervello malato, dai discorsi insensati e curabile solo attraverso iniezioni e pastiglie.
Ciò che Collomb chiedeva loro era di fare un passo indietro, di tornare ad avere l'approccio che
avevano dimenticato, di cercare un senso in ciò che veniva detto dal paziente, di mettersi al pari
delle persone che curavano. La cosa, come è facile immaginare, non fu semplice.
Per gli infermieri non era facile mettere in secondo piano ciò che avevano appreso, affrontare lo
spaesante mondo della follia senza quel sapere scientifico che li aveva difesi con i suoi simboli
(camici, medicine e chiavi), il suo distacco e la sua autorevolezza.
Collomb decise quindi di focalizzarsi maggiormente su questo tema: la sua proposta era di orientare
l'azione del medico più verso la formazione del personale piuttosto che sulla cura diretta del malato.
La formazione a cui si riferiva mirava a chiarire il significato e il senso della malattia mentale, a far
mettere in dubbio quel sapere biologistico che la comparava a qualsiasi altra patologia. Lo scopo era
quello di permettere agli infermieri l'acquisizione degli strumenti necessari a mettere in luce
l'aspetto umano, storico, politico e sociale della malattia e del paziente, così da renderli capaci di
costruire un quadro sensibile ed efficace nella relazione e nella terapia.
Ma se da un lato queste abilità potevano essere insegnate, è anche vero che Collomb sperava, un
giorno, di poter far affidamento sugli infermieri "naturali" che il territorio senegalese poteva offrire,
persone che, attraverso un apprendistato presso i guaritori tradizionali, avessero avuto l'occasione di
assimilare l'approccio desiderato da Collomb, senza però la mediazione di istituzioni occidentali
(Collomb 1972).
A questo proposito lo psichiatra francese attaccava il sistema sindacale e l'apparato burocratico
statale, i quali facevano da ostacolo all'assunzione di queste persone. La politica del neo-nato stato
senegalese, infatti, appoggiava progetti come quello di Collomb, tesi a valorizzare la cultura
tradizionale, in linea con la négritude promossa da Senghor, ma si caratterizzava anche per una forte

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tendenza verso la modernità, tendenza che aveva bisogno di risolvere in fretta problemi come quello
delle persone che affollavano le strade delle città, persone scomode come ladri, malati di mente o
lebbrosi che era più semplice far rinchiudere in luoghi d'isolamento, sotto la sorveglianza di
infermieri e guardie addestrati a reprimere e sedare, piuttosto che reintegrare.

1.4 La difficile collaborazione con i guaritori locali

Da quanto detto finora risulta evidente l'interesse di Collomb nell'instaurare un rapporto di scambio
con i guaritori locali, sia per quanto riguarda l'insieme di informazioni di cui erano portatori, utili
per comprendere e descrivere la logica che soggiace alla malattia e alla cura nel contesto
senegalese, sia in vista di un processo di integrazione di questo sapere all'interno dell'istituzione
ospedaliera.
Ma come per gli altri progetti proposti, anche in questo non mancarono le difficoltà, furono sono
infatti numerose le critiche rivolte alla teoria e alla pratica di questo progetto collaborativo.
La più netta e radicale è forse quella di Maurice Dorès, uno degli psichiatri che faceva parte del
gruppo di Collomb, il quale non solo porta la testimonianza di un'assenza di dialogo tra l'equipe
medica e i guaritori, ma nega l'utilità e la possibilità che una tale collaborazione potesse esistere,
sottolineandone persino la pericolosità.
Come abbiamo detto prima, Collomb aveva istituito all'interno dell'ospedale un momento di
incontro tra medici, pazienti, infermieri, parenti e guaritori: il pënc.
Dorès nel suo libro "La femme village" attacca duramente e demolisce l'immagine che ne avevano
ritratto Collomb e altri dei suoi collaboratori:« A Dakar, nous n'avons jamais observé un véritable
travail en commun entre un psychiatre et un guérisseur. Les guérisseur n'ont aucune part dans la
thérapeutique, qui s'appuie avant tout sur les neuroleptiques et les électroshocs, et dans une moindre
mesure sur des réunions institutionnelles très ouvertes à l'entourage. Cette affirmation surprendra
ceux qui ont lu plusieurs fois que des ndepp sont organisés à Fann. Cela est heureusement faux. Les
structures de l'hôpital sont un héritées coloniales et les difficultés rencontrées par les psychiatres
sont analogues à celles que rencontrent tous ceux qui cherchent à modifier la pratique asilaire. »7
(Dorès M. 1981).
Leggendo il resoconto di Dorès veniamo proiettati nel nucleo della complessa e contraddittoria
situazione senegalese: la coesistenza di due sistemi di cura profondamente differenti. Ma se gli

7
A Dakar non abbiamo mai osservato un vero e proprio lavoro in comune tra uno psichiatra e un guaritore. I guaritori
non hanno alcun ruolo nella cura, che si fonda soprattutto sui neurolettici e gli elettroshoc, e in misura minore su
delle riunioni istituzionali relativamente aperte all'entourage. Questa affermazione sorprenderà coloro che hanno
letto molte volte che dei riti ndepp sono organizzati a Fann: ciò è manifestamente falso. Le strutture dell'ospedale
psichiatrico sono ereditate dalle strutture coloniali, e le difficoltà incontrate dagli psichiatri sono analoghe a quelle
che incontrano tutti coloro che cercano di modificare la pratica asilare (trad. Beneduce R. 2007)

10
scritti di Collomb e di alcuni suoi collaboratori ci parlavano dei passi verso l'altro che la psichiatria
occidentale stava tentando di compiere, Dorès ci presenta l'altra faccia della medaglia, fatta di
confini ancora ben marcati che separavano: da una parte un sapere occidentale arroccato nella sua
superbia scientifica incapace di lasciar spazio a pareri o suggerimenti esterni e dall'altra il sapere
tradizionale, che si andava perdendo tra farmaci occidentali, migrazioni verso la città e logiche
individualistiche di guadagno. Se vi erano occasioni di dialogo e scambio, avvenivano solo in
un’ottica propagandistica o per vantaggi politici e turistici.
In questo scenario di cambiamenti la figura del guaritore era stata investita da dubbi e
contraddizioni: la propaganda da parte dello Stato e i successi della medicina nei confronti delle
varie epidemie avevano finito per mettere in dubbio la validità e l'efficacia del suo sapere.
Cominciava cioè ad insinuarsi il dubbio tra la popolazione del Senegal, che tutto quell'insieme di
pratiche fossero solo ciarlataneria. Inoltre, un cambiamento verso una forma nuclearizzata della
famiglia portava spesso molti parenti a scegliere, piuttosto che spendere le energie e le risorse
richieste dalla cura tradizionale, di rivolgersi alle istituzioni psichiatriche o, come già detto,
abbandonare il proprio caro lungo le strade.
I guaritori stessi, fra di loro, vivevano in un clima di forte sospetto, i rapporti che li legavano erano
governati da rivalità e dissidi, preferivano quindi isolarsi nei loro villaggi e nei pochi momenti di
incontro regnava un'atmosfera di diffidenza (Dorès 1981).
Molti guaritori, per rispondere a questa situazione che tendeva a delegittimare la loro posizione,
invece di isolarsi si recavano presso le istituzioni statali per far riconoscere la validità del loro
saper-fare. La visita di un guaritore ad un ospedale, per presenziare e organizzare un rituale o
condividere il suo sapere con i medici, finiva spesso con l'essere accompagnata dalla richiesta di un
attestato che testimoniasse l'efficacia e la veridicità delle sue pratiche (ibid.).
Ne emerge un quadro drammatico di difficile soluzione, in cui gli stessi detentori della tradizione,
implicitamente, ne mettono in dubbio la validità, e finiscono così per esser costretti a dover chiedere
legittimità alla causa stessa della loro delegittimazione.
L'integrazione che Collomb aveva auspicato come possibile via d'uscita da questa difficile
situazione, nelle analisi di Dorès viene a più riprese indicata come impraticabile: le differenze che
intercorrono tra questi due sistemi di cura li rendevano inconciliabili. Un esempio è la dimensione
della credenza, un elemento fondamentale della cura tradizionale, che tuttavia rende impossibile al
guaritore credere al potere del medico. Quest'ultimo, dal canto suo, per quanto si sforzi di
comprendere l'organizzazione degli elementi costituenti l'universo simbolico intorno al quale
prende forma il processo di cura tradizionale, non sarà mai in grado di coglierne a pieno il
significato: esterno alla cultura a cui questi elementi appartengono, il medico non potrà far altro che
avvicinarcisi attraverso operazioni di traduzione ed approssimazione che inevitabilmente

11
comportano una perdita di contenuto8.
A ciò va aggiunto che le informazioni riguardo gli aspetti culturali e le tecniche terapeutiche
raccolte dal team di Collomb, una volta riproposte all'interno di un ospedale, venivano
strumentalizzate e distorte da un potere sempre in mano ai medici. Un progetto che mirava alla
conoscenza dell'altro ed alla comunicazione diventava così un modo per giustificare l'azione
invasiva che la psichiatria stava attuando nel suolo senegalese; una psichiatria che, in virtù delle
pretese universaliste del suo sapere, si faceva portatrice di un pensiero "psicocentrico" (Broustra J.
1971) e pretendeva di poter ricondurre le espressioni della follia, caratteristiche di una cultura
conosciuta solo in maniera ideale, alle proprie categorie. È in questo senso che Dorès parla del
progetto di Collomb come qualcosa di pericoloso, poiché, se esteriormente sembrava avvicinare due
culture, di fatto andava proclamando la superiorità di quella occidentale.
Ciò che giunge a proporre Dorès è una separazione della psichiatria occidentale dalle terapie
tradizionali: lo sviluppo di un progetto terapeutico teso a fondere i due approcci, costringerebbe
inevitabilmente le due parti ad una comunicazione basata su categorie idealmente costruite e di
conseguenza il risultato sarebbe ideale e illusorio.
Dorès vuole ridonare la parola al paziente, al quale spetterà il compito di decidere come operare la
sintesi fra i due metodi: con il suo vivere in prima persona la malattia, infatti, egli sarà in grado di
decidere quali elementi potranno agire in maniera efficace durante il proprio percorso di cura.
Dorès aggiunge che semmai si riuscirà ad ottenere un sincretismo terapeutico efficace ad un livello
più teorico, sarà grazie ad un cambiamento radicale nelle strutture sociali, un cambiamento che
consenta la nascita di un corpo psichiatrico autoctono del Senegal; solo in questo caso, ad un sapere
scientifico, potrà essere aggiunta quella dimensione relazionale caratteristica della cultura
senegalese, senza che le traduzioni ne snaturino il contenuto e l'efficacia.

Da quanto detto finora, mi sembra di poter dire che ciò che Collomb e la sua storia ci insegnano,
possa esser riunito sotto il concetto di cambiamento: il cambiamento che emerge durante il processo
di cura, il cambiamento che modifica società e tradizioni, il cambiamento che viene richiesto
quando ci si trova in luoghi sconosciuti.
Il cambiamento porta con sé emozioni e aspettative che molto spesso preferiamo non affrontare,
finendo così con il rinchiuderci in noi stessi, nelle nostre convinzioni e modi di fare, ma il
cambiamento è anche ciò che ci permette di maturare ed arricchire il nostro essere.

E' importante sottolineare che Collomb non richiedesse di “credere” ai miti, ai riti o all'esistenza di entità come i djin,
8

egli era ben conscio dei limiti che impedivano alla psichiatria di operare con questi elementi (Boussat 2002).
Tuttavia ciò non comporta necessariamente la necessità di rifiutarli, l'obbiettivo di Collomb a infatti di instaurare un
dialogo con le pratiche e con le credenze che esse costruivano, di riconoscerne cioè il senso (ibid.).

12
Ed è in quest'ultima accezione che, secondo me, va recuperata l'esperienza di Fann: nonostante le
pagine di Dorès ci parlino di fallimenti e malintesi, ciò che ci ha lasciato Collomb è la
testimonianza di un approccio coraggioso al cambiamento.

13
Capitolo 2: Pichon Rivière e la tecnica del Gruppo Operativo

2.1: Pichon-Rivière e la nascita della concezione operativa di gruppo

Se il tema del cambiamento è il filo conduttore delle problematiche sorte durante il percorso svolto
da Collomb, Pichon Riviére e la sua idea di Gruppo Operativo possono essere un adeguato quadro
teorico attraverso cui leggere gli avvenimenti di Dakar.
Pichon-Rivière nacque a Ginevra nel 1907, ma all’età di due anni emigrò con i propri genitori in
Argentina, egli ebbe così modo di vivere il lento inserimento di una cultura europea in un contesto
straniero. Questa esperienza gli permise, come scrisse lui stesso: «l’incorporazione di due modelli
di cultura quasi opposti» (Pichon-Rivière 1985).
Durante il periodo in cui visse a contatto con la cultura guarani ebbe modo di conoscere la loro
mitologia intrisa di morte, lutto e follia, e di avvicinarsi ad una concezione “magica” di intendere il
mondo: questo insieme di esperienze instillò nel giovane Pichon-Rivière la curiosità per quegli
aspetti e quei modelli simbolici impliciti e latenti che caratterizzano l'individuo e permettono una
relazione attiva con il contesto ambientale e sociale.
L'inserimento in un contesto in cui ogni avvenimento era spiegato attraverso l'arbitrarietà del
destino, infatti, fu il punto di partenza della sua vocazione per le scienze umane: di suo interesse
erano i meccanismi che fondano e regolano il comportamento dei gruppi. È partendo da questo
interesse, quindi, che orientò la sua ricerca verso quei modelli simbolici in grado di rendere evidenti
le dinamiche che permettono la vita di un gruppo sociale inserito nel suo ambiente ecologico (ibid.).
Il suo avvicinarsi alla psicoanalisi nasce proprio da questi interessi: egli intendeva l'approccio
psicoanalitico come la possibile chiave di lettura che spiega la relazione tra uomo e contesto, come
un linguaggio attraverso il quale è possibile parlare di ciò che, per il linguaggio e il pensiero
abituale, è invece incomprensibile.
Si iscrisse dunque a medicina, ma il contatto precoce con “il cadavere” provocò in lui una crisi.
Fu tuttavia proprio attraverso questa crisi che si rafforzò in lui la convinzione di orientare i propri
studi verso il campo della pazzia, da lui considerata un tipo di morte reversibile (ibid.).
I successivi contatti con i pazienti gli permisero poi di confermare alcune sue intuizioni, nello
specifico quella secondo la quale «dietro ogni comportamento “deviante” c'è una situazione di
conflitto, in quanto la malattia è l'espressione di un fallito tentativo di adattamento al contesto»
(ibid.).
Si laureò, e nel 1954 fu uno dei fondatori dell’APA (Argentinean Psychoanalitical Association), ma
è nel 1945, al manicomio Las Mercedes di Buenos Aires, che Pichon-Rivière ebbe l’intuizione che

14
lo portò alla creazione dei gruppi operativi. Durante uno sciopero degli infermieri il giovane
psichiatra si ritrovò infatti ad avere un intero reparto privo di assistenza, e fu in quel momento che
decise di provare a responsabilizzare i pazienti con problematiche più lievi affinché potessero
aiutare quelli più gravi.
In poco più di una settimana, attraverso sedute operative di gruppo9, Pichon-Rivière insegnò i
rudimenti dell’infermieristica ai pazienti, i quali diventarono, come scrisse dopo, «the best nurses
that i saw in my professional life»10 (Riviére 2009).
Visto l’esito positivo, Pichon-Rivière decise di approfondire questo tipo di esperienza includendo
anche le famiglie durante il trattamento dei pazienti: i rapporti con le famiglie durante la terapia, e
le precedenti esperienze nelle cliniche private, gli permisero di portare a compimento la propria
concezione della malattia mentale come fenomeno sociale. Pichon-Rivière era infatti rimasto
particolarmente colpito dai meccanismi di segregazione che le famiglie mettevano in atto nei
confronti del parente ricoverato (Balello ed alii. 2015).
Proseguendo i suoi studi Pichon-Rivière chiarì meglio questi stessi meccanismi, andando a rilevare
come, all'interno delle famiglie incontrate, si potesse riscontrare l'esistenza di un carico di ansie
difficile da gestire, un carico tale che aveva innescato un “gioco” fra i ”depositanti” (coloro che
depositavano l'ansia) e i “depositari”(coloro che la ricevono).
Questo “gioco”, se all'inizio si muoveva coinvolgendo tutti i membri del gruppo familiare,
successivamente prendeva però una piega unidirezionale: questo insieme di ansie finiva per essere
depositato su un unico membro che diveniva, così, il “capro espiatorio” della famiglia.
A questa fase ne seguiva un’altra in cui il gruppo metteva in atto un meccanismo di segregazione
nei confronti del capro espiatorio che dunque, reputato estraneo e non appartenente al gruppo
familiare, veniva sempre più isolato e allontanato.
L'individuo segregato, il “malato”, è quindi il risultato delle influenze e delle pressioni esercitate dal
gruppo all'interno del quale si è prodotto e svolge una funzione di portavoce delle problematiche
familiari: attraverso la sua “malattia” egli cerca quindi di richiamare l'attenzione del gruppo
affinché si possano risolvere le incomprensioni, le paure ed i dissidi che hanno generato queste
ansie relazionali.
Il “malato” è da un lato soggetto “causato”, in quanto risultato delle dinamiche del gruppo
familiare, dall’altro, invece, si ritroverà a ricoprire anche la funzione di “causante”, poiché è in
grado di portare quella spinta innovatrice capace di rompere questo circolo vizioso e cristallizzato
che si è prodotto nel gruppo familiare: egli è quella figura che manifesta e ricerca il cambiamento
che non si riesce a compiere. Detto con le parole di Silvia Balello «Il balbettio apparentemente

9
Si vedano i paragrafi che seguono per una più estesa spiegazione della tecnica.
10
«I migliori infermieri che ho visto nella mia carriera professionale»

15
incoerente di uno psicotico cercherebbe di rimettere in circolo quelle cose e i segreti di cui nessuno
può, deve o vuole parlare» (ibid.).
Attraverso questa teoria Pichon-Rivière cerca dunque di dare una spiegazione al nesso esistente tra
malattia mentale e gruppo familiare e, sempre secondo essa, l'individuo deve essere inteso come
“individuo in situazione” e il suo ammalarsi come un evento legato al contesto in cui è inserito.
Secondo Pichon-Rivière (1985), infatti, un approccio organicista e meccanicista, tentando di
ricondurre tutte le problematiche mentali a un unico nucleo universale, finisce inevitabilmente con
il trascurare quella «dimensione dialettica in cui, attraverso tappe successive, la quantità si
trasforma in qualità» (Pichon-Rivière 1985).
Egli accusava dunque gli psichiatri non solo dell'incapacità di affrontare la pluridimensionalità del
quadro patologico, ma anche di proporre un metodo di cura in cui veniva ignorata la dimensione
esogena della malattia mentale concentrandosi, invece, solo su quella endogena:«Nel considerare
endogena una nevrosi o una psicosi, si nega implicitamente la possibilità di modificarla » (ibid.).
Il processo terapeutico promosso da Pichon-Rivière, al contrario, riconoscendo questa
pluridimensionalità della persona e della malattia veniva inteso come un percorso teso alla
risoluzione delle contraddizioni sorte sia fra le diverse parti della persona sia nel relazionarsi con il
contesto.
Ciò a cui mira la terapia di Pichon-Rivière è rendere la persona in grado di adattarsi attivamente alla
realtà, ovvero di essere costantemente in grado di revisionare e modificare i propri meccanismi di
interazione, di uscire dal ruolo e dagli atteggiamenti assunti nel gruppo familiare.
Questo adattamento sarà indissolubilmente legato ad una questione di apprendimento «Il soggetto
sano, a mano a mano che comprende l'oggetto e lo trasforma, modifica anche se stesso; entra in un
intergioco dialettico in cui la sintesi che risolve una situazione dilemmatica si trasforma nel punto
iniziale o tesi di un'altra antinomia, che dovrà essere risolta in questo processo a spirale» (ibid.),
esso verrà dunque considerato sano: «[..] nella misura in cui comprende la realtà in una prospettiva
integratrice, in successivi tentativi di totalità e ha la capacità di trasformarla, modificando a sua
volta sé stesso. Il soggetto è sano nella misura in cui mantiene un intergioco dialettico con
l'ambiente e non una relazione passiva, rigida e stereotipata» (ibid.)
Il problema principale da affrontare è lo stereotipo: esso si presenta come una resistenza al
cambiamento, un'interruzione di quell’“intergioco” che porta l'individuo ad un'incapacità di
adattamento e, di conseguenza, ad una situazione di alienazione che, se perpetuata, può sfociare nel
patologico.
Il Gruppo Operativo, allora, nasce configurandosi come dispositivo attraverso cui l'individuo ha la

16
possibilità di uscire dallo stereotipo e di creare uno schema di riferimento11 nuovo che gli consenta
di adattarsi attivamente alla realtà.
Molto del lavoro teorico di Pichon-Rivière consiste nell'aver analizzato quali sono gli elementi che
entrano in gioco e le fasi attraverso cui passa una persona durante questo processo di cambiamento:
per comprendere meglio il legame esistente tra Pichon Rivière e Henri Collomb, dunque, mi sembra
utile approfondire alcuni aspetti teorici che Rivière ed i suoi allievi svilupparono negli anni
successivi a questa esperienza.

2.2: La nozione di Compito e di Schema di Riferimento nel Gruppo Operativo.

La tecnica del gruppo operativo riprende molti aspetti teorici dei precedenti gruppi di terapia,
tuttavia differisce da essi. Come scrisse Rivière (2009), i gruppi psicoanalitici (o gruppi terapeutici)
non coglievano la dimensione gruppale nella sua totalità, e risultava così che nel momento in cui il
paziente esprimeva un suo problema, l'interpretazione avveniva in un’ottica personale, tralasciando
le possibili influenze da parte del gruppo.
D'altro canto il gruppo operativo si discosta anche da una concezione più lewiniana nella quale
l'attenzione, invece, è sì più rivolta alla dimensione e alle dinamiche del gruppo come totalità ma,
sempre secondo Rivière(ibid.), vengono tralasciati gli aspetti individuali legati alle dinamiche che
investono la persona una volta inserita nel contesto di gruppo.
Pichon Rivière imposta il suo dispositivo gruppale aggiungendo, ad individuo e gruppo, il compito:
è questo elemento a distinguerlo dai precedenti gruppi di terapia.
Qualsiasi gruppo ha infatti un compito, che esso sia di terapia, apprendimento o ricerca, sarà sempre
attraverso questo elemento che il gruppo verrà istituito rendendo possibile il passaggio da un
“insieme di persone” a una “struttura gruppale”.
Se però è vero che il compito svolge una funzione cruciale di “ponte”, è altrettanto importante
sottolineare come questo passaggio non sia diretto né tanto meno semplice e immediato.
Il compito è infatti costituito da una dimensione manifesta (che è appunto questa finalità che
riunisce le persone), ma anche da una dimensione latente, ovvero un insieme di fantasie ed
emozioni che entrano in gioco durante lo svolgersi dell'attività e che impediscono la riuscita del
lavoro.
Inizialmente gli integranti12 vengono riuniti dal compito manifesto, ovvero “ciò che è stato detto

11
“l’insieme di esperienze, conoscenze e affetti mediante i quali l'individuo pensa e agisce. E' il risultato dinamico della
cristallizzazione, organizzata e strutturata nella personalità, di tutto un complesso di esperienze che riflettono una
determinata struttura del mondo esterno, esperienze sulla base delle quali il soggetto pensa e esercita la sua azione
sul mondo “(Bleger 1989)
12
Con questo termine, che Pichon-Rivière mutua dallo spagnolo, viene indicato un membro del gruppo.

17
riguardo il da farsi”, ma successivamente, una volta iniziato il lavoro di gruppo, comincerà a venire
a galla “ciò che non è stato detto” (Fischetti 2011).
Le persone, infatti, quando giungono per la prima volta a un gruppo, portano con sé delle fantasie:
idee maturate durante le precedenti esperienze personali e di gruppo (gruppi familiari, lavorativi
ecc.) che influenzano il modo in cui la persona intenderà il compito, il modo di vivere la situazione
di gruppo e le modalità secondo cui il gruppo dovrebbe procedere per svolgere il compito
manifesto. Detto in altri termini ci si trova di fronte ad un grande malinteso: queste fantasie, spesso
se non sempre, differiscono da individuo a individuo e trasformano l'iniziale esperienza di gruppo,
in un insieme di monologhi che avvengono contemporaneamente poiché ognuno utilizza e propone
le sue fantasie.
In questa situazione le informazioni e le parole emergono, ma la comunicazione non riesce, poichè
manca la parte dell'ascolto: l'altro ancora non esiste, ognuno dei membri del gruppo è ancora troppo
ancorato al suo schema di riferimento.
A questo proposito Pichon-Rivière definisce il compito come l'“illusoria finalità che convoca
l'insieme degli individui” (Fischetti 2011), il compito è infatti un pretesto, un tema, un soggetto o
una situazione che ha portato delle persone a riunirsi, ma in quanto pretesto le porterà a lavorare su
altri elementi, spesso a loro sconosciuti: la componente latente del compito.
Il carattere pretestuale del compito emerge poiché il cambiamento delle persone nel modo di
relazionarsi tra loro e nei confronti del compito porta inevitabilmente quest'ultimo a modificarsi.
Il compito, dunque, è inizialmente un elemento razionale che serve al gruppo per iniziare il lavoro,
rappresentando la ragione dell'incontro esso funziona da elemento vincolante che unisce il gruppo e
lo spinge a lavorare. Tuttavia, le dinamiche interne che successivamente si risvegliano negli
integranti portano il compito in secondo piano: saranno queste dinamiche a diventare il vero
materiale su cui il gruppo lavorerà. Come infatti scrive Fischetti:« il processo gruppale si sviluppa
tra la prima riunione - dove tutti credono di sapere qual è il compito per tutto il gruppo - e l'ultima -
quando si arriva a non sapere quale era il compito per il quale ci si era riuniti, perché sono emersi
numerosi significati»(2011).
Da quanto detto in questo paragrafo, sorge facilmente il parallelo con Collomb e la psicoterapia
tentata a Dakar: il compito manifesto era la cura dei pazienti, ma ciò implicava una moltitudine di
visioni e logiche differenti, per certi versi opposte, riguardo ciò che bisognava fare e, soprattutto,
sul come andava fatto.
Queste differenze cominciarono ad incontrarsi in momenti come quello del pënc, ma anche durante
le riunioni in cui i membri dell'equipe condividevano i risultati delle ricerche sul campo o i
progressi dei pazienti.
La cura e la ricerca funzionarono così da “richiami pretestuali” attraverso cui questi gruppi ebbero

18
l'opportunità di nascere: avvicinare concretamente queste idee, e costringerle al confronto, portò a
galla le ansie che generarono i rifiuti e i silenzi di cui parlano Dorès e Collomb.
Con il pretesto del compito manifesto, dunque, emerge il malinteso, e con esso si vanno ad
innescare quelle dinamiche affettive che colpiscono l’integrante nel momento in cui viene messo di
fronte alla diversità dei possibili punti di vista e all'impossibilità di affrontare il compito gruppale
utilizzando solamente il proprio schema individuale. I membri del gruppo sono dunque costretti a
relativizzare il proprio modo di affrontare la realtà, a mettere in dubbio il loro schema di riferimento
affinché se ne possa costruire uno comune che permetta di lavorare al compito in maniera collettiva.
Agli integranti viene dunque chiesto di cambiare, cambiare il modo di relazionarsi fra loro e nei
confronti del compito.
Dal momento in cui inizia il lavoro sul compito il gruppo entra in una fase preliminare, che Pichon-
Rivière definisce di pre-compito, nella quale vengono attuate delle tecniche difensive che gli
integranti utilizzano per resistere al cambiamento: queste ansie portano l’individuo a isolarsi così da
non doversi confrontare con gli ostacoli epistemologici che la nuova situazione gli presenta
(Fischetti 2011; Pichon-Rivière 1985).

2.2.1 La creazione di uno schema comune

Quando Pichon-Rivière parla della creazione di uno schema comune egli non fa riferimento
all'annullamento delle individualità, all'assoggettamento degli integranti a un'ideologia comune; ciò
a cui invece si riferisce è la creazione di un contesto in cui le persone non cerchino di difendere il
proprio schema di riferimento o abbiano paura di perderlo, ma dove sia possibile invece aprirlo
all'integrazione affinché possa essere utilizzato a favore del compito. Il risultato si può dunque dire
raggiunto quando l'individuo è capace di una costante revisione del proprio schema di riferimento in
funzione delle differenti situazioni in cui si andrà a trovare.
A livello di gruppo, invece, la situazione ideale è raggiunta «quando alla massima eterogeneità dei
componenti corrisponde la massima omogeneità del compito» (Blegér 1989), ovvero quando,
eliminata l'ambiguità dalla comunicazione, gli integranti riescono a far interagire le proprie
individualità in funzione di un compito univoco, instaurando così ciò che Pichon-Rivière definiva
un'epistemologia convergente. Questo termine viene inteso come la ricombinazione dei diversi
sistemi d'approccio nel campo di intervento, una situazione dove le informazioni provenienti dai
diversi metodi vengono «sbranate e divorate per essere digerite e trasformate in un modo di
prendere decisioni, di intervenire, [e] di agire» (Montecchi 2004a).
In questo modo vengono generati nuovi concetti e metodi con cui approcciarsi alle situazioni.
Se il gruppo riesce ad agire in questa maniera, si può dire che abbia raggiunto la fase del progetto,

19
ovvero quella fase caratterizzata dall'azione e dalla pianificazione attuate dagli integranti in maniera
collettiva.
È in questo senso che si muoveva l'opera di Collomb: la creazione di un'epistemologia che
abbracciasse sia la visione occidentale che quella tradizionale, che fosse in grado di far interagire
queste due voci per crearne una nuova, multidisciplinare.
Il pënc, pur con tutte le sue contraddizioni, può esser visto come una testimonianza della riuscita
realizzazione del progetto del gruppo di Collomb: nonostante le critiche di Dorès, infatti, è possibile
rintracciare diverse testimonianze che ci parlano di un riuscito dialogo e incontro tra i diversi saperi
che lo psichiatra francese cercava di far comunicare (Seck B. 1993; Senghor 1979), e queste
testimonianze ci mostrano come l'intuizione di Collomb non fosse una mera utopia, bensì un
progetto complesso ma allo stesso tempo efficace.
Henri Collomb, uomo di grande coscienza e spirito critico, era a conoscenza delle potenzialità
terapeutiche e socializzanti insite nelle pratiche indigene di cura della malattia, riuscendo così a
comprendere la necessità di creare un approccio inedito e ibrido, poiché la “malattia” che doveva
andare a curare nasceva in seno ad una società nuova e ibrida: quella del Senegal post-coloniale.
Precedentemente si è detto che nel processo gruppale si possono individuare le fasi del progetto e
del pre-compito, tuttavia a queste va poi aggiunta quella del compito, durante la quale il gruppo
riesce a rompere gli stereotipi a cui i membri sono legati e a elaborare le ansie legate a questo
processo.
Solo passando per questa fase è possibile giungere ad una comunicazione efficace, che permetta di
instaurare un processo di apprendimento nei partecipanti. Queste tre fasi non seguono una sequenza
cronologica stabile, ma si trovano in costante movimento, mescolandosi e riproponendosi l’una
nell’altra.
Per quanto passibile delle critiche rivolte ad ogni teoria generalizzante, questa suddivisione
concettuale dei momenti che portano alla creazione di un gruppo offre comunque un lessico, una
chiave di lettura, in grado di approfondire e leggere in maniera più critica le dinamiche che
investono le persone durante i momenti di lavoro in gruppo.

2.3 La questione dell’apprendimento e l’insorgere dell’ansia.

Il meccanismo che porta i partecipanti di un gruppo ad elaborare uno schema comune richiama
un'azione di apprendimento. Secondo José Blegér (1989), uno tra i più famosi allievi di Pichon-
Rivière, di cui ha ripreso ed ampliato diverse teorie, l’individuo viene pienamente integrato in tutto
ciò su cui interviene: relazionarsi in gruppo come anche, ad esempio, l’imparare a scrivere,
richiederanno all'individuo l'apprendimento e l'applicazione di una conoscenza. Questa conoscenza

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si manifesta in un comportamento, scrive infatti Blegér «[..] qualunque impedimento, carenza o
deformazione dell’apprendimento è, al tempo stesso, un impedimento, carenza o deformazione della
personalità e, inversamente, tutti i disturbi della personalità[...] sono disturbi dell'apprendimento»
(ibid.).
L'apprendimento non va inteso come un accumulo teorico di informazioni o, al contrario, qualcosa
di meramente corporeo. L'apprendimento si ha quando la persona ha acquisito uno schema di
riferimento che gli permetta di adattarsi alla situazione e ciò è possibile solo se l'individuo è in
grado di accettare e gestire quell'inevitabile insieme di ansie che si accompagnano al pensiero una
volta svincolato dalle sicurezze garantite dai comportamenti di routine e dagli stereotipi.
L’apprendere, oltre a questa libertà di pensiero, vuol dire anche acquisire quell'insieme di strumenti
che permettono alla persona di porre in relazione le proprie idee e le proprie opinioni con quelle
degli altri: si tratta di strumenti che permettono di accettare e valorizzare il fatto che altri la pensino
in maniera diversa da se stessi e di includere questa diversità in un rapporto dialogico e costruttivo
(ibid.).
La funzione del gruppo operativo, dunque, è quella di insegnare a pensare e agire in questa maniera,
tuttavia ciò potrà avvenire solamente dopo “l'apertura del pensiero”, ovvero dopo che l'individuo sia
divenuto in grado di cambiare il proprio ruolo, variare le sue aspettative e adottare comportamenti
che siano differenti da quelli che adotterebbe nei contesti abituali (Bauleo 1978).
Tuttavia, come è facile immaginare, il percorso che porta a tutto ciò, ovvero alla costruzione di un
nuovo schema di riferimento, è accompagnato da un forte carico di ansie e sentimenti.
Inizialmente v'è una fase di confusione: è il momento in cui l’individuo rompe il suo vecchio
schema di riferimento ma non se ne è ancora creato uno nuovo, le ansie emergono poiché il
soggetto si ritrova in una situazione nuova, senza essere in grado di risolverla.
Gli integranti, privati degli strumenti solitamente utilizzati per interagire con la realtà, e spogliati
così della propria identità, temono di poter essere attaccati e quindi cercano riparo formando dei
sottogruppi, delle “fazioni” che si opporranno allo svolgimento del compito. A questo tipo di ansia
si aggiunge un sentimento di nostalgia: l'individuo rimpiange lo schema di riferimento perduto.
Il punto cruciale sta nel fatto che l'individuo è carico di affettività, e nel momento in cui viene rotto
lo schema di riferimento abituale questi affetti iniziano a circolare.
Queste ansie, tuttavia, se da un lato rendono difficile il lavoro, dall'altro sono un segnale che
indicano la messa in moto di un processo, un processo che mira alla creazione di uno schema di
riferimento comune e che richiede un tempo e uno spazio all'interno del quale poter gestire questo
senso di smarrimento e confusione.
Al contrario, l'assenza di sentimenti da parte del gruppo, è sintomo di una cristallizzazione della
situazione, di un’assenza di vero dialogo dovuto al fatto che i membri del gruppo, preda delle loro

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stesse ideologie fantasmatiche e succubi del loro stereotipo, continuano ad assumere sempre lo
stesso comportamento. Queste ansie e queste ideologie, dunque, si configurano come la diretta
conseguenza dell’innesco di meccanismi di difesa che l'individuo mette in atto per proteggere la
propria identità e il proprio ruolo.
Anche Henri Collomb (1972), analizzando le dinamiche instauratesi all’interno della sua equipe,
non mancò di notare questi meccanismi: egli ebbe modo di notare come molti dei suoi collaboratori
preferissero aggrapparsi deliberatamente a una psichiatria organica e scientifica proprio per poter
evitare le difficoltà e difendersi dai rischi che l'incontro con terapie “Altre” rappresentava per il loro
statuto.

2.3.1 Il ruolo dell’emergente nella gestione della componente latente nel lavoro
di gruppo

Come è stato accennato precedentemente (cifr. Cap. 2.2), il percorso che porta un insieme di
persone a diventare un gruppo non è diretto: si assisterà piuttosto ad un frequente passaggio
altalenante tra una situazione di dialogo e una di “monologhi”, il gruppo quindi presenterà momenti
in cui sta riuscendo a lavorare sul compito e altri in cui, invece, ci saranno difficoltà e resistenze.
Queste resistenze si oppongono al cambiamento dell'identità personale e professionale, e
riguarderanno aspetti più razionali e teorici13, oppure sentimentali ed emotivi a seconda
dell'elemento che sarà emerso come ostacolo.
Tutto il lavoro connesso all'elaborazione di questo insieme di ansie costituisce la componente
latente che il gruppo deve elaborare. Questa componente, proprio per la sua essenza, è difficile da
individuare, da percepire e portare a galla: affinché ciò possa avvenire, è necessaria la figura del
coordinatore.
Il ruolo del coordinatore, la cui posizione si situa al confine della struttura di gruppo, è quello di
interpretare il tipo di legame che si instaura tra il gruppo e il compito: egli non sarà un leader ma,
appunto, un coordinatore, con un compito diverso da quello del gruppo, ovvero quello di rilevare e
rivelare gli aspetti latenti del lavoro. Con queste sue indicazioni il gruppo avrà modo di affrontare
gli ostacoli epistemologici o affettivi, diminuire le ansie di base e uscire dalla stereotipia.
Ciò a cui il coordinatore deve prestare attenzione è, secondo la terminologia operativa, l’emergente.
«”Emergente” è quell’individuo o quegli individui del gruppo che con una parola, un gesto o un
comportamento segnala (segnalano) inconsciamente quanto sta succedendo a livello latente e
conflittuale. [...] la frase, per esempio, di un integrante – che viene considerato emergente – è

13
Pichon Rivière a questo proposito riprende il concetto di ostacolo epistemologico di Bachelard

22
formulata dal soggetto in riferimento alla sua storia personale; ma è al contempo la “spia” della
dinamica che in quel momento attraversa il gruppo» (Marzotto 1994).
Analogamente a quanto emerso dallo studio delle dinamiche familiari accennato ad inizio capitolo
(cifr. Cap. 2.1), l'emergente, nel gruppo operativo, scaturisce da una specifica dinamica di gruppo
che ha permesso ad un individuo di assumere il ruolo di portavoce dello stesso.
L'emergente si situa dunque nell'incontro tra gli elementi endopsichici che la persona ha maturato
personalmente durante la sua esistenza, che Rivière indica come dimensione verticale, e la
situazione creata dal gruppo, la dimensione orizzontale.
Il compito del coordinatore sarà volto ad interpretare questo emergente ed esplicitare il legame
esistente tra il passato della persona e il presente del gruppo. Attraverso questa operazione sarà
possibile sfruttare l'efficacia innovatrice che, insita nella persona, il gruppo è riuscito a richiamare.
Un possibile parallelismo dell'emergente nella terminologia freudiana possiamo compierlo con l'
“atto mancato”, poiché con esso non s'intende prettamente un vuoto, quanto piuttosto un'azione
mancata che segnala l'esistenza di una relazione significativa tra la situazione e questa mancanza.
L'emergente, in quanto veicolo che manifesta un processo implicito, funge da richiamo, un richiamo
volto al passaggio dalla stabilità al movimento (Balello L. ed altri 2015).

2.3.2 La teoria del vincolo

Parlare dell'emergente rimanda necessariamente alla teoria del vincolo, la cui elaborazione portò
Pichon-Rivière a riprende molto dalla teoria della comunicazione e dei ruoli sociali della psicologia
sociale, dall'interazionismo di George Mead e dalla cibernetica e teoria dei sistemi di Gregory
Bateson (Montecchi 2014); a queste teorie lo psichiatra argentino andò ad aggiungere la
psicoanalisi.
Rivière definisce il vincolo come: «una struttura complessa che include un soggetto, un oggetto e la
loro reciproca interrelazione con processi di comunicazione e apprendimento. […] In ogni struttura
di legame – e con il termine struttura già abbiamo indicato la interdipendenza degli elementi – il
soggetto e l’oggetto interagiscono rialimentandosi reciprocamente. In questa interazione si verifica
l’interiorizzazione di quella struttura di relazioni, che richiede una dimensione intra-soggettiva. […]
Le relazioni intra-soggettive, o strutture di legame interiorizzate, articolate in un mondo interiore,
condizioneranno le caratteristiche dell’apprendimento della realtà. [...] Il processo di interazione
funziona come un circuito aperto, con traiettoria a forma di spirale, o come un circuito chiuso,
viziato dalla stereotipia» (Rivière 1985).
Questi meccanismi generano nell'individuo un gruppo interno: da questo gruppo interno la persona
recupera i ruoli che ha interiorizzato durante le sue precedenti esperienze e li proietta sui

23
partecipanti del gruppo. Si tratta di un meccanismo che cerca di “ricreare” la realtà a cui si è abituati
per non dover cambiare il proprio modo di approcciarcisi.
Immersi in questo meccanismo di proiezioni ed assegnazione di ruoli, i partecipanti reagiscono in
base al ruolo loro assegnato, accettandolo o rifiutandolo a seconda del fatto che tale ruolo possa o
meno soddisfare le loro necessità «Ognuno fa come una specie di gioco degli scacchi quando cerca
di fare le mosse che più convengono, sperando che l’altro faccia la mossa che a lui piacerebbe, per
ridurre il livello di conflitto e di tensione» (Fischetti 2011).
Se questa dinamica proseguisse si giungerebbe ad una situazione relazionale in cui nessun
partecipante cambia il proprio approccio alla realtà ed alla situazione: si ricadrebbe nella stereotipia.
Il compito interviene in questa situazione poiché agisce da “terzo” nelle relazioni e richiama gli
integranti al cambiamento. Per questa e per le altre sue funzioni fondamentali, Rivière aggiunge al
setting psicoanalitico usato nel gruppo operativo, oltre a tempo, spazio e ruoli, il compito.
L'impostazione del setting, infatti, serve a chiarire le condizioni entro le quali si potrà lavorare con
il compito, tanto che si può dire che il setting diventa il contenitore del compito (Fischetti 2011).
Il setting, quindi, arricchito in questa maniera, diventa quindi quell'elemento che permette l'avvio
del processo elaborativo del gruppo, nonché il depositario delle parti più immature della personalità
dei membri del gruppo: diventa cioè un punto fermo sia per il gruppo che per il coordinatore.
(Balello et alii. 2010)

2.3.3: La necessaria rotazione della leadership

Il setting, dunque, ricopre una funzione fondamentale “spezzando” la relazione e rendendola così
più gestibile e analizzabile. Tuttavia ad esso si ricollegano anche delle dinamiche di potere: il
setting è infatti una norma imposta ai partecipanti e spesso, se non sempre, il coordinatore o il
terapeuta, impostandolo nelle prime sedute, sarà inevitabilmente investito della figura di leader da
parte del gruppo. Tuttavia, nel caso in cui non venisse intrapresa alcuna azione contro questa
assegnazione di ruolo e, conseguentemente, di potere, il terapeuta verrebbe incluso in maniera
diretta nei meccanismi affettivi e ansiogeni del gruppo: ciò gli impedirebbe di avere quella distanza
ottimale che è invece necessaria all'individuazione e interpretazione del latente e degli emergenti.
Per questo motivo è necessario che il terapeuta sia in grado di restituire la leadership al gruppo.
Solo in questo modo sarà possibile per gli integranti non entrare in uno stato di dipendenza nei suoi
confronti. Essi invece inizieranno a collaborare affinché sia uno degli integranti a condurre il
gruppo.
Il leader sarà allora un integrante che il gruppo sceglierà inconsciamente a seconda delle necessità
emerse in relazione al compito. Detto in altri termini: ogni gruppo sceglie il leader di cui ha bisogno

24
per portare avanti il compito e per affrontare i cambiamenti di quest'ultimo. Il leader potrà dunque
avere caratteristiche democratiche, demagogiche, come anche essere disinteressato; la cosa
fondamentale non è che venga scelto il leader migliore, ma che ognuno abbia la possibilità di
diventarlo.
Affinché ciò possa avvenire deve esser sempre possibile la rotazione dei ruoli, la mancanza di
questa rotazione sarebbe un ulteriore indice di stereotipia, di una resistenza al cambiamento (ibid.).
È possibile rintracciare un'intuizione simile durante i pënc di Fann e nei villaggi terapeutici che
vennero poi creati in Senegal (cifr. Cap. 4.4), dove il “capo”, chiamato jaraaf, era spesso un
paziente che veniva scelto dai pazienti tramite un'elezione a cui poteva candidarsi chiunque.
Tuttavia, è facile intuire come in realtà i jaaraf eletti avessero dei poteri limitati, spesso solo di
facciata, e quanto la loro libertà di proporre ed agire, anche nel caso dei terapeuti che si recavano a
Fann per svolgere dei rituali, fosse vincolata al giudizio e alla volontà dei medici.
Se il potere non rimaneva completamente nelle mani del medico, come nel caso dei villaggi
terapeutici dove questa figura era praticamente assente, l'individuo che lo sostituiva era comunque
lasciato in una situazione ambigua, dove non veniva chiarito quanto potere fosse nelle sue mani e
quanto, invece, restasse in quelle del medico. Si creava così una situazione contraddittoria e difficile
da gestire tanto che spesso veniva risolta con un uso più che abbondante di farmaci per sedare i
pazienti e le loro eventuali richieste (Failli 2005).
A questo discorso sulla rotazione della leadership va aggiunto che, durante lo svolgimento del
compito, è possibile rintracciare due tipologie di leadership: una che tende alla realizzazione del
lavoro di gruppo e una, invece, che procede in direzione opposta e tende al sabotaggio dello stesso.
Queste due leadership, che saranno a capo di rispettivi sottogruppi, manifestano due tipi di
atteggiamento nei confronti del compito.
Il coordinatore dovrà allora in primo luogo far notare ai membri del gruppo come queste due
fazioni, questi due atteggiamenti, siano in realtà due aspetti del compito e, tramite l'interpretazione,
cercare poi di unificarli. (Bauleo 1978)
Legata a questa operazione di interpretazione, a cui si è già accennato in precedenza, vi è di nuovo
il compito, il quale funge da mediatore e da parte terza nella relazione tra terapeuta e gruppo.
Per comprendere meglio cosa intenda Pichon-Rivière con questa interpretazione, risulta utile
compiere una distinzione fra i due piani di funzionamento del gruppo: quello tematico e quello
dinamico. Se la parola dà forma a quello tematico, le emozioni, le azioni e i comportamenti, invece,
la danno a quello dinamico. La dissociazione fra questi due piani rivela la presenza di difficoltà,
ansie ed ostacoli che il terapeuta dovrà interpretare: «Potremmo dire che la dinamica si legge, ma il
coordinatore la deve esprimere come tematica» (ibid.).
Parafrasando questa teoria sulle due diverse leadership, è possibile intendere posizioni come quelle

25
di Collomb e Dorès, apparentemente opposte e incongruenti, come due approcci sì diversi, ma non
per questo inconciliabili.
Il compito che si propose Collomb, ovvero come curare la follia in luoghi estranei alla psichiatria
occidentale, implicava diversi aspetti: dall'efficacia terapeutica dei sistemi tradizionali che egli
voleva valorizzare, alle implicazioni di potere e politica che, invece, evidenziò Dorès.
Entrambe le posizioni misero in luce una parte dei fattori che entrarono in gioco durante lo
svolgimento di questo compito. Tuttavia analizzarle e considerarle singolarmente ne distorce il
valore e ne svaluta il potenziale. Al contrario, interpretarle in riferimento al compito e mostrare
come entrambe lavorino da angolature diverse verso lo stesso obiettivo, permette di inserirle in un
discorso più ampio in grado di integrarle e di valorizzare così gli elementi produttivi e creativi che
entrambe espongono. In questo modo si potrà far collaborare due visioni differenti per crearne una
più completa ed efficace.

Questi sono solo alcuni dei punti su cui si basa il gruppo operativo: vi sarebbe ancora molto da dire,
ma ci permettono comunque di comprendere come Pichon-Rivière cambiò, rispetto alla psichiatria
più ortodossa, la sua concezione nei confronti della patologia mentale, dal ruolo che quest'ultima
gioca nel contesto familiare ai metodi con i quali poterla curare.
Grazie ai suoi allievi, Armando J. Bauleo e Josè Blegér tra i più famosi, questo suo pensiero ebbe
modo di maturare, ampliarsi e diffondersi: ancor oggi, infatti, viene applicato in gruppi di
formazione e terapia.
In Italia, in particolar modo grazie a Bauleo, questo pensiero ha avuto larga eco attraverso cicli
seminariali e dando vita alla “Scuola di prevenzione Josè Blegér” di Rimini.
È possibile rintracciare il motivo di questa diffusione nella generale tendenza della scuola argentina
al cosmopolitismo ed alla sua capacità di confronto con le altre realtà scientifiche, tendenza
probabilmente legata a quella lotta contro il pregiudizio e gli ostacoli epistemologici tanto cara a
Rivière.
Pichon-Rivière, infatti, nel parlare della ricerca nell'ambito delle scienze dell'uomo si appellava ad
una epistemologia convergente, un'”interscienza” che fosse in grado di arricchire la comprensione e,
allo stesso tempo, alimentare le tecniche di ricerca.
Attraverso questa moltitudine di punti di vista, pensava, si sarà forse in grado di comprendere
questo “uomo-in-situazione” nei suoi comportamenti, nei suoi cambiamenti e nelle sue differenze.

26
Cap. 3: Considerazioni sulle problematiche nate dall'esperienza di Fann

3.1: Considerazioni sulle problematiche nate dall’esperienza di Fann

Considerare l'aspetto latente del compito, la nozione di emergente e i meccanismi vincolari che
strutturano la relazione umana, ci permette di entrare in possesso di una serie di chiavi di lettura che
rendono possibile rintracciare la causa di molte critiche fatte al lavoro di Collomb e di costruire una
forma discorsiva che, in un certo senso, possa rivalutarle.
Attraverso la teoria di Pichon-Rivière è infatti possibile rintracciare all’interno della proposta di
Collomb due componenti: una esplicita, ovvero la cura dei pazienti, e una latente che invece portava
con sé una complessa serie di richieste di cambiamento, di ruolo e di metodo i cui risvolti si
articolavano in maniera implicita.
Quello che veniva realmente richiesto ai medici dell'equipe di Dakar, dunque, non era la semplice
partecipazione ad un momento di gruppo, ma la messa in discussione di tutto il loro schema di
riferimento. Ciò voleva dire tornare ad “imparare”: abbandonare la sicurezza trovata nel ruolo di
medico o infermiere, per immergersi nuovamente nell'ambiguità che caratterizza il processo di
formazione personale.
La sordità, l'incapacità di ridiscutere i sistemi terapeutici della psichiatria “ortodossa”, il sottrarsi al
lavoro in comune con i guaritori locali, di cui ci parla Dorès, si rivelano così non come meri
atteggiamenti testardi messi in atto da medici superbi ma, alla luce di quanto detto da Rivière, anche
come meccanismi di difesa e resistenza attuati da persone messe in difficoltà dalla richiesta di
cambiamento che il gruppo e la situazione stavano loro facendo.
Sempre grazie alla teoria di Pichon-Rivère è possibile ora inquadrare la figura, o il sottogruppo, che
tende al sabotaggio come una parte essenziale nel gruppo: questo sottogruppo funge da portavoce
facendosi carico delle resistenze al cambiamento e portandole alla luce attraverso le proprie azioni.
Attraverso una prospettiva operativa, questo insieme di azioni, persone e comportamenti diviene un
emergente che richiama l'attenzione sui problemi epistemologici e affettivi che il gruppo, o parte di
esso, ha difficoltà ad affrontare.
Con ciò non si intende giustificare i trattamenti occidentali che vennero perpetuati a Fann, ma
sottolineare come all'epoca di Collomb la comprensione dell'Altro fosse fondata sui presupposti
politici, morali e culturali delle scienze coloniali (Beneduce 2007).
Il cambiamento di questi presupposti, non trovando un tempo e un luogo adatti alla sua
elaborazione, generò inevitabilmente le contraddizioni che portarono a trascurare le differenze
culturali, finendo invece per favorire e giustificare la disparità sociale, e costituendo così la base
ambigua da cui derivarono l'incapacità di agire e reagire nei confronti dell'ambiente esterno da parte

27
dei medici.
Nei prossimi paragrafi si cercherà di rintracciare alcune delle cause che, da una parte, crearono le
condizioni affinché il progetto di Collomb potesse realizzarsi e, dall’altra, fecero sorgere quelle
resistenze e quelle contraddizioni che, funzionando da blocchi, ostacolarono la buona riuscita di
questo progetto.

Cap 3.2: La matrice istituzionale e socio-culturale del cambiamento

Il gruppo terapeutico ideato da Collomb si situava in un periodo storico caratterizzato da forti


ambiguità, ereditate soprattutto dalle politiche coloniali: da un lato la psichiatria e la medicina
coloniale si proponevano come un'iniziativa volta al miglioramento delle condizioni di salute delle
popolazioni colonizzate ma dall'altro, tuttavia, si comportavano anche come meccanismi al servizio
del potere coloniale e attraverso atteggiamenti paternalistici collaboravano con esso legittimandolo
e favorendo l'assoggettamento delle popolazioni colonizzate.
Questi atteggiamenti sono messi bene in luce dalle opere di Frantz Fanon, nelle quali l'accento
viene posto sui processi di oggettivazione ed incapsulamento dell'altro, processi che la psichiatria
coloniale metteva in pratica grazie al suo impianto teorico e distorcendo i concetti di identità,
differenza e cultura. Tutto ciò veniva giustificato attraverso retoriche paternalistiche che
proclamavano l'azione d'aiuto messo in atto nei confronti di questo “Altro” non riconosciuto
(Beneduce 2011, Beneduce 2012).
L'azione coloniale, coordinata con quella psichiatrica, riuscì così a diramarsi negli spazi più
disparati andando a compiere quella colonizzazione dell'immaginario e del desiderio che imponeva
al colonizzato dei valori a lui estranei, rendendolo incapace di concepire un'altra fonte di valori al di
fuori del colono14 (ibid.).
Perpetuare questa situazione ambigua, intendendo con tale termine la contemporanea esistenza di
termini contraddittori che, tuttavia, non danno origine ad una evidente situazione contraddittoria
(Blegér 2010), si configura così come un meccanismo teso a eludere la possibilità di approfondire,
criticare e tentare di risolvere i conflitti di interesse che inevitabilmente coinvolgevano gli psichiatri
nella scena coloniale e post-coloniale.
Questo stesso meccanismo riproduceva, e per certi versi ancor oggi riproduce, con carattere seriale,
personaggi stereotipati che, trasportati nella vita quotidiana, venivano spinti ad interpretare sempre
la stessa parte in un copione di contraddizioni invisibili.
Il procedere “automatico” e stereotipato che venne così a instaurarsi, tanto nella formazione, quanto

14
Il nesso con la situazione del Senegal e con Collomb è reso evidente, ad esempio, da quei guaritori che si recavano
negli ospedali per chiedere che venisse riconosciuto e legittimato il loro sapere.

28
nella pratica psichiatrica, permise che le contraddizioni di fondo non emergessero ma che, anzi,
potessero proseguire facendo così, più o meno esplicitamente e volontariamente, gli interessi dei
colonizzatori e delle istituzioni.
A Collomb, per quanto non venisse reputato un uomo politico (Kilroy-Marac 2013), va comunque
riconosciuto il merito di aver interrotto questo circolo vizioso.
Egli, infatti, perseguendo la conoscenza delle teorie, delle pratiche e delle categorie “Altre” iniziò a
muovere i primi passi verso una prospettiva critica nei confronti della psichiatria.
Procedendo controcorrente non solo nei confronti dell’epistemologia e dell’ontologia psichiatrica,
ma anche nei riguardi delle prospettive egemonizzanti che caratterizzavano la politica coloniale, lo
psichiatra francese cominciò a porre le basi affinché la psichiatria potesse svincolarsi dagli obiettivi
politici e istituzionali, così che fosse possibile organizzarla come una disciplina primariamente
legata e sensibile alla persona, alle sue esigenze e alle sue peculiarità.

3.2.1: Il rapporto individuo-istituzione

Se nel precedente paragrafo sono stati evidenziati i profondi legami esistenti tra psichiatria,
psichiatra, società e istituzioni, in questo invece cercheremo di approfondire i meccanismi che
plasmano questi rapporti. A questo proposito la psicologia degli ambiti e la psicologia istituzionale
di Blegér possono divenire illuminanti.
Nell’accezione di Blegér, infatti, queste due “psicologie” si concentrano in particolar modo sui
dispositivi relazionali che investono individuo e istituzione. Attraverso questa prospettiva vengono
così fatti emergere i meccanismi di proiezione e introiezione che, durante la crescita e la formazione
personale, portano l’individuo a legarsi all’istituzione e, viceversa, questa all’individuo.
Secondo le teorie di Blegér (1989), frutto di sviluppi della teoria del vincolo di Pichon-Rivière, la
comprensione dell'individuo deve procedere partendo dallo studio della comunità in cui vive la
persona, passando per le istituzioni, per i gruppi e infine per la dimensione individuale.
Quest’ultima, punto di partenza della psicologia “classica”, diviene così il punto d'arrivo.
Nella psicologia istituzionale di Blegér, infatti, l'individuo viene primariamente definito sociale e,
quindi, non vengono studiate tanto le sue modalità di relazione sociale con l'”altro” quanto,
capovolgendo il punto di vista, come la persona riesce ad affermare la propria individualità15 .
Secondo Blegér le persone trovano nella pluralità delle istituzioni un insieme di punti fermi, di
elementi di sicurezza che funzionano da appoggio durante i processi di inserimento sociale e di

15
L'intervento terapeutico proposto da Blegér, quindi, non mirerà ad agire direttamente sull'individuo, ma piuttosto
attraverso tecniche di prevenzione, e psicologia istituzionale che, agendo sul territorio e sull'organizzazione
istituzionale, riescano a creare un ambiente con cui la persona abbia la possibilità di interagire attivamente.

29
costruzione identitaria. In questa maniera l'istituzione entra a far parte della personalità
dell’individuo contribuendo a plasmarne atteggiamenti e comportamenti. La misura in cui ciò
avverrà sarà indice dello specifico valore e significato che l'istituzione avrà per la persona (Blegér
1989).
L'istituzione, in quanto punto di riferimento per la persona, funge così da deposito delle ansie e
delle paure dell'individuo, ed è in quest'ottica che non va più considerata solamente come uno
strumento di organizzazione e controllo sociale ma, in quanto depositaria, anche come strumento di
regolazione ed equilibrio della personalità (ibid.).
Attraverso queste dinamiche s'instaura tra individuo e istituzione un rapporto di reciproca influenza:
se infatti l'individuo introietta parte dell'istituzione in quanto fonte di sicurezza quest'ultima,
depositaria delle ansie, verrà influenzata da ciò che le persone proietteranno su di essa. Questo
interscambio agirà su entrambe le parti, promuovendone lo sviluppo o, al contrario, stereotipandone
i comportamenti e rallentandone i processi di cambiamento.
Avendo scardinato l'ideale dell'istituzione indipendente e regolata da leggi oggettive, che i sociologi
di inizio novecento definivano come «insieme istituito di atti o di idee che gli individui si trovano
davanti e che più o meno si impone ad essi.» (Fauconnet P., Mauss M. 1901), consegue che un
cambiamento istituzionale deve per forza passare per un cambiamento delle persone: se è infatti
vero che l'istituzione funge da deposito e mezzo di controllo delle ansie, è anche vero che tale
compito è strettamente legato all'immagine che l'uomo ha di sé stesso e di esse.
Gli individui, dunque, potranno arricchirsi o impoverirsi a seconda del fatto che si sentano di
possedere o di essere posseduti dall'istituzione (Blegér 1989).
Lo psichiatra, in quanto parte di un'istituzione, non è avulso da questo tipo di depositi, anzi: la sua
formazione, il suo modo di intendere e curare la malattia, sono legati alla società, al flusso
dominante delle informazioni che essa veicola nel costruire il “senso comune". Come scrive infatti
Blegér «In risposta alle esigenze sociali, le istituzioni tendono ad adottare la stessa struttura dei
problemi che devono affrontare» (1989), da ciò deriva che se la società proietta sull'istituzione,
spinta da ansie e paure, la necessità di relegare le forme perturbanti di devianza, dal malato mentale
al delinquente, le istituzioni tenderanno a relegare e reprimere in quanto “strumenti” della società.
In questa maniera si entra in un circolo vizioso che vede il soggetto dipendere dall'istituzione e
quest'ultima incapace di esercitare sulle persone quell'influenza positiva atta a rendere l’individuo
capace di un atteggiamento creativo e attivo nei confronti della comunità e delle istituzioni stesse.
Si rischia così di mettere in pratica un’azione istituzionale che impoverisce e aliena l'individuo,
privandolo del significato di cui dovrebbe invece godere la condizione umana (ibid.).
Affinché si possa uscire da questo circolo vizioso è necessario dinamizzare il problema, mobilizzare
i blocchi ansiogeni che ad esso sono collegati, ridiscutendone le cause in modo tale da poter

30
rinegoziarne le soluzioni. Ciò vuol dire svincolarsi da una prospettiva esclusivamente endogena
delle causalità, e prendere coscienza anche delle dinamiche sociali che contribuiscono a costruire,
ad esempio, la figura del malato o del delinquente, come anche del medico. In questo modo si potrà
intendere l'esistenza stessa di queste figure come una denuncia, una critica alle problematiche e ai
conflitti comunitari.
È solo passando attraverso questa comprensione “allargata” delle radici della devianza che, secondo
Blegér, è possibile andare a costruire un dispositivo terapeutico efficace, che cerchi di comprendere
la persona a trecentosessanta gradi. Come nei gruppi operativi di Pichon-Rivière, così nelle
istituzioni e nella società allargata, il malato o il delinquente sono i portavoce di sintomi, sono
indicatori di qualcosa che rimane inconscio e sottaciuto a livello collettivo, sono appunto degli
emergenti. Secondo questo modo di intendere la devianza, dunque, Blegér arriva a proporre
un’igiene mentale che si concentra sulla prevenzione, dove lo psicologo cioè non attende nel
proprio studio l’arrivo del malato, ma va ad agire direttamente sui gruppi umani cercando di evitare
la cronicizzazione degli stati patologici attraverso interventi terapeutici, di profilassi, diagnosi
precoce e informazione (ibid.).
Con lo scopo dunque di tutelare tutto ciò che riguarda gli aspetti psicologici della vita, lo psicologo
si adopererà affinché l’assimilazione e l’integrazione delle esperienze avvenga in modo adeguato e
soddisfacente (ibid.).

3.2.2: Il clima socio-culturale delle “epistemologie convergenti”

Osservando i climi socio-culturali che fecero da sfondo alle teorie di Collomb e Rivière è possibile
ravvisare la “dinamizzazione” che creò lo spazio per le proposte innovatrici di questi due pensatori.
I movimenti rivoluzionari di massa argentini, a cui Pichon-Rivière poté assistere negli anni
approssimativamente compresi tra il 1942 e il 1948, e il Senegal di Collomb, appena indipendente e
impregnato dalla negritudè16 promossa da Senghor, crearono un clima teso al rinnovamento e
disposto a ritrattare le prassi e le convinzioni che, soprattutto in campo terapeutico, avevano
rappresentato un ostacolo alla realizzazione di un rapporto e una conoscenza umana della malattia.
È importante notare come tale clima di rinnovamento non interessasse solamente l'Argentina e il
Senegal: non si tratta infatti di una coincidenza la concomitanza delle opere, oltre a quello di
Collomb e Pichon-Rivière, di Devereux, Gӧdel, Heisenberg, Fanon, Bohr (per citarne solo alcuni), i
quali, accomunati da un passato dalle certezze distrutte, approfittarono del fermento culturale

16
Movimento filosofico, culturale, letterario e ideologico del mondo nero francofono. Il concetto di negritudine esaltava
l’unicità e l’essenza della natura e spiritualità africane (o negre) rivendicandone la dignità e il valore rispetto alla
cultura e alle tradizioni del mondo occidentale. (2010 Treccani)

31
dovuto alla crisi del dogma positivista e dagli sconvolgimenti politici portati dalla seconda guerra
mondiale, per intraprendere un percorso verso la ricerca di nuovi approcci alla conoscenza.
I cambi metodologici che vennero proposti all'ospedale di Dakar, senza ovviamente voler trascurare
il valore che ebbero l'iniziativa personale e l'intuizione di Collomb, possono quindi essere letti sotto
un più ampio punto di vista come risultato di una tendenza più generale che accomunò molti degli
approcci innovativi di quel tempo.
Un esempio della portata di questo processo la si trova nell'epistemologia convergente di Pichon-
Rivière, nella ricerca multidisciplinare proposta da Collomb e nel metodo complementarista di
Devereux: in esse è infatti possibile ravvisare il germogliare di una comune propensione a voler
uscire dalla compartimentazione dei saperi, ad abbandonare le certezze promesse dal dogmatismo, a
favore di una profonda autocritica che potesse permettere l'instaurazione di un dialogo fra le diverse
discipline e quei saperi “altri” che per molto tempo erano stati definiti infondati e “primitivi” ma
che ora, alla luce dell'erosione del dogmatismo occidentale e con l'inizio di un processo di
riconoscimento e legittimazione delle alternative, cominciavano ad acquisire il senso che gli era
stato per lungo tempo negato.
Per quanto riguarda il rapporto con il paziente, questa tendenza portò a voler cercare un tipo di
relazione più umana e lontana dalle etichette della diagnosi così da poter tenere conto di tutto
quell'insieme di forze, vincoli e affetti che plasmano l'uomo, lo condizionano e lo rendono un uomo-
in-situazione.
Con questo nuovo approccio si cercava di spostare l'attenzione dalla “malattia”, intesa come
elemento a sé stante e rischioso per la società, verso il “malato”, l'essere umano che incarna lo stato
morboso e si fa carico di tutte le ansie, le paure e le difficoltà che ciò comporta. Questa nuova
attenzione ebbe dirette conseguenze sull'organizzazione istituzionale: l'ospedale psichiatrico
divenne, da luogo atto alla difesa della società dalla follia, il luogo da cui il folle deve essere difeso
(Basaglia 1965).
Il manicomio, infatti, facendo gli interessi dei legislatori, si concentrava solamente sulle
conseguenze sociali, politiche ed economiche della follia: veniva cioè trascurato il valore del malato
mentale in quanto uomo, entrando così in diretta antitesi con la linea di pensiero che stava nascendo
in quegli anni. Per la “nuova psichiatria”, che opponeva all'autoritarismo medico la libertà e la
capacità di autodeterminazione del malato, la struttura manicomiale si configurava come qualcosa
di obsoleto e controproducente, qualcosa di cui liberarsi.
Nacque così la necessità di riorganizzare l'ospedale psichiatrico come luogo di cura, un luogo da
costruire secondo l'architettura delle necessità del malato, considerando quest'ultimo come punto di
partenza per una nuova logica organizzativa, una logica in grado di sfruttare quel potenziale
innovativo insito nell'essere umano e che, purtroppo, la psichiatria manicomiale avevano

32
dimenticato (ibid.).
Per sottolineare quanto questa attitudine fosse legata ad una tendenza di cambiamento più vasta e
generale basta pensare al fatto che, a tre anni di distanza dall'arrivo di Collomb a Fann, vennero
pubblicati Storia della follia nell'età classica di Foucault, Asylum di Goffman, e I dannati della
terra di Fanon e, un anno dopo, nel 1962, Franco Basaglia dette avvio alla sua prima esperienza di
cura anti-istituzionale all'ospedale di Gorizia.
Le radici teoriche di queste prospettive si possono rintracciare nel crollo del paradigma positivista
tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e in quel movimento, di cui Freud può essere
preso a simbolo, che soprattutto attraverso la fenomenologia e l'antropologia andò a modificare il
concetto di identità, a indagare i rapporti tra società ed individuo e a ridiscutere il confine tra
normalità e follia (Tazzioli 2012).
Chiaramente non è possibile ricondurre tutto a queste due motivazioni: è necessario, ad esempio,
tener conto delle ideologie controculturali che, tra il 1950 e il 1966-68, promossero una critica
generale al modello dominante di norma e comportamento. Si trattava di un movimento culturale e
politico che, affascinato dalla spiritualità e ispirato da una romantica concezione dei sentimenti e
delle emozioni, non poteva che opporsi alla razionalità dei presupposti medico-biologici della
psichiatria e intendere questa come una disciplina oggettivante e normalizzante contro cui battersi
(Corbellini 2008). A ciò va aggiunto inoltre l’importante ruolo giocato dagli psicofarmaci che
permisero di rendere più gestibili i momenti di crisi dei pazienti e l’influenza delle esperienze
precedenti a quelle degli anni sessanta e settanta, dalle comunità terapeutiche in Inghilterra ai
gruppi operativi di Pichon-Rivière.
Questo insieme di persone, fatti e idee può esser visto come il risultato dei vari conflitti che
investirono la società dalla fine dell'ottocento fino alla prima metà del novecento: una serie
complementare di cause, per usare una terminologia freudiana, che sfociò, approssimativamente tra
gli anni 50 e 70, nella “nevrosi anti-psichiatrica”. Questa, mettendo in discussione la visione
prettamente organicistica e la rigidità istituzionale del manicomio, da un lato (ri)donò al “folle” la
possibilità di guarire, e dall’altro offrì alla società l'occasione per ridiscutere se stessa.
I problemi messi in luce da Dorès e i mancati incontri tra le persone che hanno vissuto le vicende di
Dakar non sono dunque mere testimonianze di relazioni fallite ma diventano, a questo punto, silenzi
che ci parlano delle difficoltà che si dovettero affrontare per mettere in moto questo processo di
cambiamento. Un cambiamento che dovette attendere molti anni, e per certi versi ancora sta
attendendo, per vedere i propri effetti. Questi effetti devono molto a tali critiche, in quanto esse
costituirono il punto di partenza per le successive riflessioni, dando così corpo alla futura
etnopsichiatria.
Si fa sempre più evidente come sia necessario inquadrare l'esperienza di Collomb a Dakar

33
all'interno di una continuità, di intendere questi fatti come una piccola parte di un più grande
processo che prosegue fino ai nostri giorni e di cui è possibile rendersi conto solo allargando l'arco
temporale osservato.
Grazie agli sviluppi concettuali dell'antropologia medica e dell'etnopsichiatria, è oggi possibile
approfondire la comprensione di atteggiamenti come l'arroccamento dei medici occidentali nel loro
ruolo stereotipato, o la richiesta di legittimità posta alle istituzioni coloniali da parte dei guaritori
indigeni, potendo intenderli come emergenti di una situazione gruppale che trascende il gruppo
terapeutico del pënc per chiamarne in causa uno più grande: un gruppo comprendente il sistema
istituzionale e sociale e in grado di tener conto dell'influenza esercitata dalla politica, dall'economia
e dalla morale nei processi di definizione di malato, malattia e cura.
Partendo da questi presupposti, l'iniziativa di Collomb, con il suo promuovere e spingere al dialogo,
può essere dunque intesa come una “provocazione”, un pretesto per far emergere le dinamiche
implicite e latenti che soggiacevano alla relazione paziente-istituzione, al clima socio-culturale del
Senegal di quegli anni e ai meccanismi di potere che plasmavano la figura del medico, del paziente
e del guaritore nel contesto coloniale. Queste dinamiche implicite, oltre a favorire il potere
coloniale, erano tese ad evitare la messa in discussione dei presupposti intellettuali ed
epistemologici che costruivano la psichiatria e ne giustificavano l’applicazione: si trattava di
presupposti che condizionavano l'approccio al sapere “Altro” e che Collomb e la nascente
etnopsichiatria volevano interrogare e ridiscutere.

3.3: I fondamenti della psichiatria e le sue relazioni con il potere

Considerare la matrice storica e culturale del sapere clinico per approfondire la comprensione degli
atteggiamenti dell'equipe medica messi in luce da Collomb e dalle critiche di Dorès ci riporta
necessariamente ai lavori e alle teorie della moderna antropologia medica poiché, attraverso gli
strumenti concettuali che essa propone, è possibile intendere la medicina e la psichiatria occidentale
come sistemi culturali storicamente determinati e privarli così di quel carattere universalistico e
oggettivamente veritiero di cui spesso si ammantata la scienza occidentale, rendendone difficile
esplorare difetti e contraddizioni.
La diretta conseguenza di questo approccio è la possibilità di intendere il sapere medico non come
un'entità astratta e indipendente, ma come una realtà concretamente determinata dalle azioni di
soggetti socialmente, culturalmente e politicamente vincolati che agiscono in un campo medico
composto da uno spazio sociale in cui si assiste al confronto, all'incontro, agli scambi materiali e
simbolici tra i protagonisti che lo abitano (Pizza 2013). Questo è uno spazio che, è importante
sottolineare, trascende i suoi confini e mostra maggiormente i suoi effetti nelle intersezioni con altri

34
campi, basti pensare ai vivi dibattiti della biomedicina con la morale, la religione, la politica e il
diritto.
In quest'ottica, dunque, i medici non sono più da intendere come portatori di un sapere assoluto, ma
come agenti plasmati da un pensiero radicato nella storia e nei fatti sociali in genere.
Essi divengono così dei soggetti che hanno costruito una loro identità anche attraverso il sapere
medico, un sapere le cui pretese universalistiche trasformano l'incontro con pratiche e concezioni
alternative e la richiesta di un cambiamento, ovvero una possibilità di arricchire il proprio sapere e
migliorare i propri metodi, in uno scacco, un attacco alla legittimità della propria ontologia ed
epistemologia.
Si è già accennato alle contraddizioni che emersero dal rapporto del sapere psichiatrico con quello
indigeno del Senegal, tuttavia un'analisi delle basi epistemologiche della psichiatria permette di
approfondire e porre in rilievo aspetti e sfumature della relazione che il sapere medico intrattiene
con gli altri ambiti della società.

3.3.1: Psichiatria e potere

La psichiatria, la biomedicina e, più in generale, la scienza occidentale, pongono l'oggettività17, la


razionalità e l'universalità come assunti di base del loro sapere, autoproclamandosi così come
uniche portatrici di una verità estendibile e applicabile a qualsiasi individuo (D’Autilia 2013).
La tendenza ad imporre questa verità emerge chiaramente nel caso specifico della psichiatria: la sua
opera può essere intesa come il tentativo di far convergere punti di vista differenti, di cui il “folle”
rappresenta il caso estremo, a uno unico, ovvero quello razionale e veritiero di cui lo psichiatra si fa
portavoce (ibid.).
Questa tendenza è rintracciabile fin dagli albori del pensiero scientifico. Quest’ultimo andò infatti
costituendosi proprio contro l'esistenza di altre realtà e altri “universi” che, nel contesto europeo,
erano rappresentati nella dimensione in cui prendeva atto la battaglia tra Dio e il Diavolo per la
salvezza o la dannazione delle anime. Questa concezione, in un certo senso, decentrava arbitrio e
responsabilità dalla persona per spostarli in un campo di forze invisibili (Portelli 2009).
La psichiatria, basandosi su concezioni organiche della malattia e negando l'esistenza e l'influenza
di queste “forze”, diviene così un mezzo attraverso cui è possibile riportare ogni problema alla
dimensione del tangibile e del razionale. Emergono così, di nuovo, i legami della psichiatria con gli
organismi di potere.
Queste pratiche, infatti, negando l'influenza di “forze” esterne alla persona, riconducono intenzione
17
Oggettività che già Gramsci, prima ancora che la filosofia della scienza se ne occupasse esplicitamente, aveva messo
in dubbio sottolineando come fosse impossibile domandare alla scienza la prova dell'obiettività del reale, in quanto
l'obiettività è una concezione del mondo, una filosofia che non può essere usata come dato scientifico. (Gramsci 1975)

35
e, conseguentemente, responsabilità giuridica delle proprie azioni unicamente all'individuo (ibid.).
Viene cioè operata una funzionalizzazione della società al controllo biopolitico, in quanto viene
negato al cittadino ogni altro punto di riferimento che non sia l'istituzione (Foucault 2007).
La follia, in un contesto in cui attraverso meccanismi di questo genere i bisogni dell'individuo
vengono razionalizzati e azzerati, può essere vista come un “polo di resistenza”, che tenta di opporsi
alle identità che le “macchine del potere” cercano di imporgli (Gros 2011). Un polo di resistenza
che la pratica psichiatrica cercherà di conformare, istituzionalizzare e governare enunciando la sua
propria “verità” (Foucault 2010).
Riconoscere efficacia a sistemi che poggiavano su entità invisibili era dunque qualcosa di
inammissibile per una dottrina che basava la propria “enunciazione di verità” riconducendo
soluzioni e problemi principalmente all'organicità del corpo.
Muovendo da queste considerazioni, è da sottolineare come la prassi psichiatrica e questa sua
“verità” fossero, e sono, storicamente determinate, e quindi come si strutturino non come
enunciazione intorno alla realtà della malattia, ma nella costruzione di quest'ultima in maniere
diverse a seconda del momento e dei movimenti intellettuali, storici, sociali e politici (ibid.).
Questa costruzione avviene soprattutto attraverso gli strumenti della diagnosi: teorie e concetti eretti
attraverso convenzioni e schemi, più o meno condivisi, che vanno a formare quel rigido sistema in
cui la psichiatria tenta di rinchiudere le infinite possibilità della soggettività.
In particolare è il riduzionismo della medicina organicista che, nutrito dalle conoscenze biologiche
dell'uomo e organizzato in un insieme di prassi meccaniche, tende a misconoscere l'altro nella sua
interezza e ad allontanarlo.
Queste pratiche rischiano di reificare il soggetto attraverso etichette diagnostiche che, negando
l'autenticità umana della persona, possono finire con il trascurare la dimensione soggettiva della
patologia, del vissuto e dell'interpretazione personale che ne dà il soggetto. Tutto ciò viene
mascherato da un carattere di necessità, attraverso retoriche facenti appello al distacco e alla
neutralità come unici mezzi per dare validità alla conoscenza e alla terapia.
Per quanto criticabili sotto più punti di vista, sono anche questi atteggiamenti di distacco che
contribuiscono a definire la figura del medico poiché, per certi versi, possono rivelarsi utili
funzionando come mezzo di difesa che il personale medico può mettere in atto per gestire il carico
di ansie che lo investe durante l'esercizio della sua professione (Blegér 1989): per difendersi
dall'angoscia che scaturisce dal riconoscimento di una parte di noi nel paziente e la sua “malattia”
con cui si relazionano (Devereux 1984).
Tuttavia, come detto a riguardo del rapporto individuo-istituzione, un atteggiamento succube nei
confronti di queste prassi istituzionalizzate può rivelarsi controproducente e portare il medico ad
agire come una figura stereotipata che si limita a riprodurre e applicare serialmente un sapere senza

36
tener conto delle specificità della persona. Procedere in questa maniera vuol dire continuare ad
evitare e nascondere i conflitti e le tensioni che il costante rapporto con la morte o la follia
comportano (Blegér 1989). Nel pratico l'incapacità di risolvere questo nodo problematico si
manifesta attraverso l'impiego eccessivo di farmaci che rafforza e consolida l'alienazione del
paziente (ibid.).
Da quanto detto sopra emerge come il sapere medico sia fortemente legato alla società, e ai
cambiamenti di questa, ma anche ai risvolti politici e di potere che questo legame implica.
Tuttavia, è da notare come anche le teorie mediche di malattia e cura esercitino un’influenza in
grado di condizionare la società, i meccanismi di imposizione del potere, la figura del paziente, e
così via.
Si configura così un circolo vizioso che rende esplicito come il sapere e l'approccio psichiatrico, le
dinamiche di potere, la malattia e la società siano legati indissolubilmente in un processo di costante
condizionamento reciproco; da ciò consegue l’impossibilità di studiare questi elementi della società
senza prenderli in considerazione nella loro globalità e interrelazione.
Nel paragrafo precedente si è sottolineato come la comparsa di teorie come quella di Collomb fosse
legata alla situazione socio-culturale in cui venivano proposte, e a ciò abbiamo aggiunto, in questo
paragrafo, come queste matrici sociali entrino in una relazione intricata e difficilmente scindibile
con le basi epistemologiche e ontologiche di saperi come quello psichiatrico.
Se quindi il 9 Luglio 1975, con la promulgazione da parte del governo senegalese della legge 75-80
avente come scopo la regolamentazione del trattamento dei malati mentali, si videro finalmente
riconosciute in maniera ufficiale la validità e l'applicabilità delle iniziative proposte da Collomb
(dall'installazione di villaggi terapeutici fino alla possibilità di intraprendere un processo di cura
presso un guaritore tradizionale (Failli 2005)), rimane da chiedersi: quali furono i presupposti
politici e sociali che permisero questo importante cambiamento, come venne applicato e quali
fossero i veri scopi del governo senegalese: quanto era compatibile la finalità originale di Collomb
con gli intenti delle istituzioni di Dakar e del Senegal (ibid.)?

3.4 La componente identitaria

Da quanto detto nei precedenti paragrafi, emerge un'incompatibilità a livello epistemologico,


ontologico e politico, tra il sapere psichiatrico e quello indigeno del Senegal. Tuttavia, sempre sulla
scia dei lavori dell'antropologia medica, è importante considerare questi concetti e queste pratiche
anche sul piano identitario (Gordon 1988).
L'applicazione pratica di concetti come razionalità, distacco e universalità da parte della psichiatria
è infatti inscrivibile in un discorso che intende affermare la fondatezza di un'ideologia, di un'identità

37
prettamente occidentale e fondata su dei ben precisi presupposti filosofici (ibid.).
Tra questi presupposti spicca quello che separa la mente dal corpo. Esso, insieme ad altre dicotomie
come vero/falso o reale/simbolico, va ad alimentare l'entità ideale della medicina (Pizza 2013).
La tendenza a collocare l'anormalità all'interno del soggetto offre un esempio diretto della relazione
esistente fra l'identità medica e l'ideologia occidentale: dall'organismo all'inconscio, proseguendo
fino ai giorni nostri con le neuroscienze, che individuano la patologia come una disfunzione nel
cervello, o la genetica che invece colloca questa disfunzione nel DNA, l’origine dello stato morboso
viene sempre rintracciata dentro al soggetto (Portelli 2009).
Questa costruzione della corporeità e dell'individuo s'intreccia vividamente con la concezione
dell'uomo come creatura sola (Portelli 2009) che si pone sola nei rapporti con le istituzioni e
individualmente nei confronti della vita.
Chiaramente questo discorso identitario non è riducibile solamente a un impianto filosofico che
separa mente e corpo: a esso si potrebbe infatti aggiungere la tendenza più o meno generale della
medicina occidentale a ridurre al minimo il numero delle variabili da considerare, un riduzionismo
che la psichiatria e la biomedicina hanno ereditato dalla lunga tradizione delle occidentali scienze
“dure”.
Ciò che tuttavia mi preme sottolineare è come l'identità dei medici dell'equipe di Collomb poggiasse
su molti degli aspetti che, quest'ultimo, chiedeva di rinegoziare. Egli finì così per innescare un
conflitto identitario dai necessari risvolti ideologici e psicologici.
Questo conflitto, se approfondito, diventa un ulteriore punto di vista utile a comprendere le
motivazioni che spinsero i membri dell'equipe medica di Fann a rifiutare la collaborazione con i
guaritori locali e ad abbandonare la solita prassi medica.

3.4.1: Le implicazioni dell'identitarismo

Come sostiene Francesco Remotti (2011), rivolgersi al concetto di identità richiama


necessariamente in causa una dicotomia io/altri (per il singolo), oppure noi/loro (per i gruppi).
L'identità, dunque, prende necessariamente forza da un'operazione di separazione; non solo, ma dal
momento in cui questa separazione avviene, l'alterità non occupa più una posizione indifferente, ma
diventa immediatamente una minaccia, una fonte di pericolo e di negazione per il “noi” e la “nostra
sostanza”. Il concetto di identità, dunque, appellandosi a una purezza dei contenuti, diviene così
causa dell'insorgere di una minaccia e, allo stesso tempo, un mezzo attraverso cui difendersi dalla
stessa (ibid.).
Tuttavia, questi meccanismi che proclamano l'intento di difendere la propria “sostanza biologica e
culturale”, in realtà celano la volontà di difendere la propria “sostanza materiale”. Non a caso i

38
discorsi identitari emergono più frequentemente durante i periodi di creolizzazione e
globalizzazione, periodi durante i quali i rapporti tra gli stati e le culture si presentano difficili e
pericolosi.
In queste situazioni, infatti, coloro che tramite la propria identità detenevano potere e privilegi in
grado di garantire loro un benessere (nel senso più generale del termine), temono di perdere queste
prerogative legate, molto spesso, a tratti identitari, e finiscono così per appellarsi proprio a questo
concetto per difenderli (ibid.).
Gli esempi non mancano, e vanno dal genocidio dei Tutsi ad opera degli Hutu nel 1994 in Ruanda e
nel Burundi, ai recenti movimenti di estrema destra che, in risposta ai flussi migratori, tornano ad
avere largo sostegno, fino poi agli psichiatri, ai medici ed agli infermieri di Dakar i quali, attraverso
un'”identità medica” fatta di simboli, credenze e comportamenti, erano riusciti ad ottenere privilegi
nel campo delle relazioni di potere e, specialmente per quanto riguarda gli infermieri autoctoni,
anche a garantirsi delle condizioni di vita migliori rispetto a prima.
L'impiego dell'elettroshock e dei farmaci, o il mancato riconoscimento dei guaritori locali, si
configurano così come un'ostentazione dei simboli di questa identità medica. Fu proprio attraverso
questa ostentazione che si procedette all’alienazione del paziente, diminuendone il potenziale
umano, così da poter arginare le difficoltà legate alla gestione dell’alterità (De Simone 2011) e
alimentare e proteggere l’ideale identitario che tanto aveva donato all’equipe di Fann.
L’indipendenza del Senegal e le richieste di Collomb, dunque, contribuirono all’innesco di questi
meccanismi poiché, chiedendo il riconoscimento dell’Altro, veniva anche richiesta una spartizione
dei privilegi e dei poteri acquisiti.
L'uso dell'elettroshock e degli psicofarmaci possono quindi essere inclusi in tutto quell'insieme di
pratiche atte all'alienazione del paziente che, diminuendo il potenziale umano della persona,
emergono come risposta alle difficoltà legate alla gestione dell'alterità
Ad oggi siamo in grado di comprendere i lati rischiosi e contraddittori del concetto di identità, e
sappiamo che nella persona non esiste un'identità pura o permanente quanto, piuttosto, diverse
identità che si auto-interrogano evolvendosi e adattandosi costantemente alle richieste di
cambiamento che l'ambiente impone in un processo che procede senza soluzione di continuità
(ibid.).
Consegue da ciò l'evidenza e la necessità di intendere l'identità come un mito, una finzione, o, come
sostiene Remotti, una menzogna che costruisce un “noi” esclusivo ed escludente, sostegno di altre
menzogne (2011). Questo è un concetto da ripensare per poter uscire dalla situazione contraddittoria
e ingannevole come quella in cui vigono la logica della “tolleranza” e della “convivenza”18, logiche

18
Come sostiene Remotti nel suo articolo (2011), entrambe le situazioni (quella di tolleranza e di coesistenza)
comportano delle profonde contraddizioni. Coesistenza significa vivere vicino, ma separatamente, all'altro, in una

39
che rendono insostenibile un rapporto con l'altro positivo e creativo; un rapporto che invece il
panorama attuale, colmo di differenze e bisogni, reclama sempre più come urgente e necessario.
Solo superando il concetto di identità, forse il più grande ostacolo epistemologico con cui potrebbe
misurarsi la teoria di Pichon-Rivière, è possibile la convivenza, intesa come un'interdipendenza
reciprocamente vantaggiosa tra gli individui.
Tuttavia, “abbandonare l'identità” non significa rinunciare agli elementi e alle differenze che ci
caratterizzano in quanto persone, vuol dire piuttosto ripensare l'uso fatto di questo concetto così da
poter respingere l'ideologia antagonista e separatrice che gli sottende; in questo modo si potrà
favorire una logica integratrice in grado di porre queste differenze sul piano del dialogo, così da
poterle far circolare in un clima dove non vige un'indifferente separazione, quanto piuttosto un
coinvolgimento e una relazione fra soggetti protagonisti.
Se questa convivenza può sembrare una romantica utopia, il lavoro svolto da Collomb a Dakar ci
mostra invece come questo sentiero sia in realtà percorribile19. Le teorie di Pichon-Rivière, invece,
sono un esempio di quali strumenti sono a nostra disposizione per comprendere e affrontare le
difficoltà legate a questo cammino. Nonostante le contraddizioni messe in luce, e le difficoltà
espresse dagli stessi autori, queste esperienze e queste teorie mostrano ancora oggi il loro valore e la
loro portata innovatrice: la loro fecondità, infatti, si potrà esaurire solamente quando cesseremo di
interrogarle e ridiscuterle.

In questo capitolo è emerso come le vicende di Dakar si snodino su piani diversi: quello socio-
culturale, comprendente un più ampio spazio geografico e temporale di cambiamento, quello
epistemologico e ontologico, che mostra come il carattere biomedico insito nella psichiatria, con il
suo distacco e le sue pretese di assoluta validità, complicò l'interazione tra i medici europei e i
guaritori locali, e infine quello identitario, che in una certa misura riassume i primi due, mostrando
come simboli, credenze e pratiche di un sapere possano organizzarsi per resistere e affrontare i
cambiamenti che la storia impone agli individui.
La distinzione fatta è arbitraria e funzionale a una più accurata analisi: ognuno di questi differenti
livelli di interazione, infatti, influenzò e si fece influenzare dagli altri, probabilmente senza che i

situazione di rispetto sì, ma intriso d'indifferenza. Questa situazione, che può comunque essere vista come una prima
conquista, mostra i suoi limiti nel momento in cui ci accorge che riesce a mantenersi grazie alla tolleranza che vige fra
le parti. Tollerare richiama la dimensione della sopportazione, viene così ammesso implicitamente che “qualcosa
dell'altro ci crea disagio”, o comunque, ci infastidisce. Tollerare diventa così un'azione messa in atto da un individuo
“superiore”, “illuminato” e “paternalista” che dall'alto della sua posizione “permette”. Si instaura così una gerarchia che
azzera il rapporto con l’alterità, rendendone così impossibile il riconoscimento poiché ritenuta inferiore.
19
Si veda ad esempio il necrologio scritto da Zempléni per El Hadj Daouda Seck, guaritore che collaborò con l'equipè
di Dakar. Le parole di questo scritto testimoniano la realtà e la possibile riuscita di un dialogo tra concezioni e saperi
differenti, mostrando anche quanto ciò possa essere proficuo per entrambe le parti (Beneduce 2007).

40
protagonisti di quelle vicende potessero accorgersene, dando vita a movimenti e meccanismi che è
possibile cogliere solo con il senno di poi.
Il pensiero di Pichon-Rivière ci mostra inoltre come, a migliaia di chilometri di distanza, pochi anni
prima dell'arrivo di Henri Collomb a Dakar, si stesse già lavorando sulle problematiche che si
dovettero affrontare poi all'ospedale di Fann. Mettere in evidenza le analogie tra queste due
personalità ci permette di comprendere quanto l'opera di Collomb facesse eco ad un cambiamento la
cui portata trascendeva i limiti nazionali e continentali.
L'esito delle proposte di Collomb, quindi, non va cercato solamente nelle testimonianze e nelle
critiche ostili che gli furono rivolte, ma anche in tutto quell'insieme di esperienze che da ciò hanno
tratto insegnamento e spunto.
Quella di Collomb, per usare la terminologia operativa, può essere vista come la fase del pre-
compito di questo cambiamento, la fase nella quale emergono le contraddizioni e le ansie
cominciano ad essere mobilitate richiedendo un'interpretazione: un insight20.
Per vedere la fase del progetto, una messa in pratica di questo cambiamento, è dunque necessario
guardare ai giorni nostri, scoprire cos'è cambiato, cosa si è riusciti ad ottenere, ma anche prestando
attenzione a cosa invece è rimasto uguale, a quali contraddizioni ancora vengono mascherate
dall'ambiguità e a quali concetti e ideali siamo ancora legati: cercare cioè gli stereotipi e le paure
che ancora oggi ci impediscono di cambiare.

20
In psicologia, la capacità di vedere dentro una situazione, o dentro se stessi; quindi, in genere, percezione chiara,
intuizione netta e immediata di fatti esterni o interni (Treccani b)

41
Cap. 4: L'etnopsichiatria oggi

4.1: Il “Centro George Devereux”

Per rintracciare nella scena contemporanea i risultati delle proposte teoriche e operative di Collomb,
Pichon-Rivière e tutto il movimento di innovazione in cui si inscrisse la loro opera, credo sia utile
volgere lo sguardo verso la Francia, più precisamente verso il “Centro George Devereux”
dell'università di Parigi VIII, nella banlieu di Saint Denis.
Si tratta di un centro, operativo dal 1988, a cui i servizi sociali e le istituzioni giuridiche o sanitarie
si rivolgono per ottenere consulenza e assistenza riguardo certi utenti presi in carico. Le persone ivi
condotte, nella maggior parte dei casi di origine straniera21, hanno la possibilità di partecipare a
degli incontri che, più che fungere da “presa in cura”, servono a supervisionare il trattamento che
già stanno seguendo (Portelli 2009).
Ciò che caratterizza questo centro e la sua attività è l'attenzione posta alla cultura, intendendo con
tale termine un composto formato dall'intersezione di una molteplicità di elementi a cui l'individuo
è legato.
Al contrario della “psichiatria transculturale”, che vede nelle culture dei migranti delle resistenze
all'integrazione (ibid.), i legami con lingua, famiglia, comunità e divinità della società d'origine
vengono qui intesi come una risorsa, una chiave in grado di far scattare una sorta di “leva
terapeutica” che, a sua volta, innesca il processo di guarigione.
Perdere questi collegamenti, o attachements, aumenta le possibilità che il soggetto sviluppi
patologie psichiche o incorra in atteggiamenti violenti (ibid.) ed è per questo che la maggior parte
delle persone prese in carico sono straniere: migranti, rifugiati di guerra o esuli, ciò che accomuna
gli individui usufruenti dei servizi del Centro Devereux è la necessità di ricostruire i legami con
questi elementi che, spezzati da traumi e cambiamenti radicali, hanno inficiato il regolare
funzionamento di quella struttura specifica di origine sociale che permette il funzionamento
dell'apparato psichico che è la cultura (Nathan 1996).
Tobie Nathan, psicoanalista allievo di George Devereux, è forse il rappresentante più emblematico
di questo centro e del genere di attività che vi viene svolta: egli concepisce infatti la cultura come
un sistema che tutela la persona nei “momenti di crisi”, contribuendo così alla costruzione

21
È tuttavia da sottolineare come tale centro e i dispositivi teorici applicati ed elaborati al suo interno non siano
indirizzati esclusivamente a personalità extra-occidentali. Essi infatti si stanno rivelando applicabili a molte realtà
proprie della scena occidentale, ad esempio il trattamento dei membri delle sette, mostrando come, al contrario di
quanto si pensi normalmente, vi siano ancora forti legami tra le popolazioni degli stati nazionali contemporanei e le
originarie tradizioni locali (Inglese 1966; Coppo 2000)

42
dell’individuo e del suo psichismo; lo psicanalista francese definisce infatti la cultura come una
sorta di filtro che genera e governa i meccanismi necessari alla persona per interagire con il mondo:
il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano (ibid.).

4.2: La terapia di gruppo del centro George Devereux

Il dispositivo terapeutico del centro è organizzato attraverso momenti di gruppo a cui partecipano: il
terapeuta principale, altri terapeuti di supporto, il paziente, un mediatore culturale, i familiari del
paziente e alcuni accompagnatori22. A questo insieme di persone può capitare che si aggiungano
stagisti, antropologi e alcuni “esperti” di altre culture per una quindicina di persone in totale
(Nathan 1996).
Nathan, in queste sedute, riconosce totale validità ai sistemi terapeutici “Altri”, che, se altrove
vengono spesso ritenuti mere suggestioni a cui l'individuo crede, qui sono invece valutati non in
base alla realtà degli “oggetti” e delle “entità” che chiamano in causa (djin, rab, stregoni ecc.), ma
come mezzi tecnici. Dalla posizione della psicopatologia, concentrata sul ruolo della credenza e
dello statuto reale o meno di queste entità, si passa dunque a quella dell'azione che studia gli effetti
concreti sulla persona di questi mezzi.
Nelle sedute che avvengono al centro “George Devereux” concetti come “stregoneria”, “processo
divinatorio” o “amuleto” non vengono dunque intesi come pensieri, pratiche o oggetti che agiscono
su persone “credulone” e facilmente suggestionabili (come invece vorrebbe la dicotomia
credere/pensare che, nonostante le innumerevoli ricerche e gli sviluppi dell'antropologia, ancora
oggi è preponderante e frequentemente utilizzata nelle argomentazioni medico-scientifiche per
delegittimare le pratiche “Altre”, mostrando da un lato il “bianco razionale” e pensante, e dall'altra
il “selvaggio impressionabile” e credente (Nathan 2002)).
L'importante salto concettuale fatto da Nathan e dal centro Devereux permette di superare questa
dicotomia e, abbandonando la discussione su cosa sia una credenza, consente di concentrarsi sugli
aspetti attivi, generativi ed efficaci che, come accennato prima, concetti come “stregoneria”,
“amuleto” ecc. possono suscitare.
Diviene dunque possibile aprirsi alle strutture di significato che sottendono a questi termini e a
queste pratiche, intenderli come dispositivi in grado di dar vita a collegamenti che, seppur
richiamanti universi invisibili, evocano una teoria sul mondo in grado di permettere alle persone di
agire concretamente sulla propria vita (ibid.). È dunque con questa prospettiva e questi intenti che si
vedranno utilizzare durante le sedute del Centro Devereux, oltre alle eziologie e le teorie

22
Assistenti sociali, psichiatri o psicologi che già seguivano il caso e che hanno suggerito la consulenza

43
tradizionali, anche feticci, ritmi corporei e musicali (Inglese 1996).
Questa scelta metodologica e concettuale richiede necessariamente l’utilizzo di un approccio teorico
multidisciplinare così da poter cogliere le molteplici sfumature di una personalità come quella
dell'immigrato: sospesa tra due mondi spesso antitetici fra loro, la cui situazione precaria rischia di
aggravarsi se soggetta al riduzionismo psicopatologico.
I vari casi clinici riportati da Nathan (1996; 2002) mostrano infatti le profonde differenze, per molti
aspetti simili a quelle che già Collomb aveva evidenziato in Senegal, esistenti tra le teorie
psichiatriche e quelle tradizionali dei luoghi da cui provengono i pazienti, differenze che riguardano
sia la concezione del disagio psichico che la terapia. Queste differenze finiscono spesso per
iscrivere la situazione patologica del paziente in uno spazio ambiguo, contraddittorio e ostile che,
come è facile immaginare, aggrava la sua condizione.
Ciò che viene proposto al “Centro Devereuex” sono allora una situazione e un setting ibrido in cui
queste contraddizioni prendono vita in maniera “sicura”, cercando di creare un momento di viva
comunicazione dove una moltitudine di teorie abbia la possibilità di circolare.
Attraversando questa moltiplicazione dei punti di vista, il problema del paziente viene scomposto e
passato al vaglio da diverse eziologie23: dalla psicoanalisi alle terapie tradizionali più disparate, il
paziente viene introdotto in un percorso in cui ha la possibilità di “provare” diverse interpretazioni
per il suo male fino a trovare, o comporre, quella che più si adatta al suo caso specifico (Portelli
2009). In questo modo gli viene infatti fornito il materiale per provare a ricostruire il suo enveloppe
culturelle, cioè la “sostanza culturale” che protegge l'individuo dall'irruzione del negativo
(Grandsard 2009).
Ruolo cruciale nell'instaurazione di questo processo è quello del mediatore culturale: attraverso
questa figura è infatti permesso al paziente di parlare la sua lingua d'origine, e quest’ultima,
contribuendo a determinare il senso di appartenenza dell'individuo all'interno del proprio gruppo,
possiede il «potere di evocare l'universo fisico, affettivo, conoscitivo ed esperienziale del suo
locutore» (Inglese 1996). La lingua d’origine del paziente consente di generare così un ponte con
quell'insieme di suoni, incontri, colori e ricordi che hanno fatto da sfondo alla costruzione di una
parte dell’esistenza del paziente, facilitando cioè il contatto con un mondo a cui il paziente è legato
spesso in maniera conflittuale e con il quale necessita di negoziare una soluzione (ibid.).
La somiglianza con il tentativo di Collomb appare immediatamente: seppur con un'architettura
differente, è facile notare sia il comune tentativo di far interagire saperi diversi fra loro, sia la
volontà di abbandonare il setting duale della terapia “classica” coinvolgendo parenti e assistenti
affinché il paziente riesca a trovare un equilibrio nel contesto destabilizzante in cui si trova.

23
Durante una seduta il problema di un paziente può essere interpretato anche in quattordici maniere diverse (Nathan
1996)

44
Oltre a ciò va sottolineato quello che è forse il più gran successo del Centro George Devereux,
ovvero l'aver creato un dispositivo terapeutico in grado di far interagire tra loro le terapie
occidentali con quelle provenienti dal resto del mondo senza che vi sia nei confronti di queste
ultime, almeno da quanto scrivono Nathan e collaboratori, un atteggiamento di giudizio o derisione.
Sembra dunque che a Parigi si sia riusciti da una parte là dove Collomb aveva fallito e dall’altra a
raggiungere, con la massima eterogeneità dei componenti, l'obbiettivo dei Gruppi Operativi, ovvero
la massima omogeneità del compito, una fusione ottimale degli integranti che permette alle loro
differenze di convivere produttivamente.

4.3: Le contraddizioni del Centro George Devereux: tra eredità ed innovazione.

Leggendo quanto detto sopra, o i resoconti stilati da Nathan sulle terapie effettuate al centro, si
viene proiettati in una dimensione quasi idilliaca dove sembra di esser finalmente riusciti a trovare
una modalità efficace di dialogo con eziologie, pratiche e categorie che affrontano il disagio
psichico in maniera differente rispetto all’inquadramento occidentale. È forse proprio questo
sentimento di armonia a farci rimanere ancora più attoniti e stupiti quando leggiamo l'articolo di
Didier Fassin (2000), “Les politiques de l'ethnopsychiatrie. La psyché africaine, des coloniers
britannique aux banlieus parisiennes”.
In questo articolo l'antropologo e medico francese va infatti ad accostare la pratica e le teorie di
Tobie Nathan a quelle di J.S.Carothers. Quest'ultimo, psichiatra al servizio dell'impero britannico,
divenne famoso per aver interpretato la rivolta Mau-Mau24 come il risultato di una nevrosi causata
dalla frustrazione che i ribelli provavano in quanto incapaci di diventare come i loro colonizzatori
(Fassin 2000; Coppo 2000).
In questo modo lo psichiatra britannico era finito con l'occultare le reali motivazioni della rivolta, e
quindi con il giustificare l'intervento britannico che, per reprimerla, aveva portato alla morte di più
di undicimila persone. Lo spirito nazionalistico, le richieste di indipendenza e il valore del sacrificio
compiuto da questi uomini erano dunque svaniti per mano di un'etnopsichiatria facente gli interessi
del potere coloniale (ibid.).
Il documento redatto da Charothers, “The psycology of Mau-Mau”, tuttavia non si limitava a ciò:
esso conteneva infatti una sorta di suggerimento che l'autore faceva al governo britannico per
prevenire eventi di questo genere. Partendo dal presupposto che queste popolazioni non fossero in
grado di sopportare lo stress psicologico legato all'incontro con culture radicalmente diverse come
quella europea, Charothers propose di trasferire queste persone lontano dalle città e di raggrupparle

24
Un movimento politico nazionalista nato tra i KyuKyu del Kenia dopo la fine della seconda guerra mondiale in
opposizione al dominio coloniale del Regno Unito.

45
in piccole unità abitative che riproponessero le loro condizioni di vita “originali”.
Ciò che, più o meno implicitamente, fece Charothers, fu di mettere al servizio dei poteri coloniali
una teoria psicologica: eresse un modello di governo utilizzando un'esperienza clinica (Fassin
2000), ed è proprio questo che Fassin rimprovera anche a Nathan e che, dal suo punto di vista, gli
permette di accostare i due.
La tendenza di Nathan a ricondurre molti dei problemi dei suoi pazienti alle difficoltà che questi
incontrano nel negoziare la loro originaria appartenenza con il nuovo contesto è vista da Fassin
come un'attività di occultamento delle problematiche sociali e politiche che stanno alla base del
disagio dell'immigrato, un proporre una spiegazione politicamente comoda e reiterare così
quell'asservimento al potere istituzionale che, già con Carothers, aveva mostrato i lati oscuri e
nocivi dell'etnopsichiatria. Secondo Fassin, inoltre, questa tendenza è talmente radicata
nell'etnopsichiatria, da bastare come giustificazione per l'invalidazione della disciplina intera
(Fassin 2000).
Le affermazioni di Nathan, molto spesso provocatorie, non sono di sicuro d'aiuto se si vuol tentare
di discolparlo: espressioni come «favoriser les ghettos afin de ne jamais contraindre une famille à
abandonner son système culturel»25 (Nathan 1994) offrono un assaggio dello stile retorico
indisponente dell'autore.
Tuttavia, se frasi come questa ci presentano un Nathan “xenofobo” che, seguace delle politiche di
reclusione, preferisce rilegare le persone straniere invece di affrontare le difficoltà dell’incontro, è
allora importante approfondire i suoi lavori. Ci si rende così conto di come espressioni come questa
siano da inquadrare in una visione della cura che mette sì al primo posto le origini della persona,
intendendole però come l'elemento in grado di innescare il meccanismo di guarigione.
Il lavoro di Nathan non può essere limitato ad una visione duale e assolutistica che vede da una
parte la mimesi pacifica dell'assimilazione e, dall'altra, “atteggiamenti belligeranti” che conseguono
alla chiusura etnica dei gruppi nella loro identità (cifr. Cap.3.4.1).
Quella proposta da Nathan è una terza via, la creazione di uno spazio “terzo” in cui la persona abbia
la possibilità di negoziare la sua soluzione. Rinviando gli stranieri ai loro “pieni” e ai loro “punti
forti” (tecniche e figure terapeutiche di cui si riconosce efficacia e logica), Nathan riporta la
funzione dell'esperto dal terapeuta al paziente (Coppo 2000).
L'enfasi posta nell'appartenenza culturale, dunque, non va vista come un escamotage messo in atto
per sottrarre le problematiche dei migranti ad un'analisi delle condizioni sociali: essa è invece
un'amplificazione che serve a sottolineare un aspetto di queste dinamiche complesse (ibid.).

25
«Favorire i ghetto così da non costringere una famiglia ad abbandonare il suo sistema culturale» (trad. di chi scrive)

46
4.4: Il “ghetto” di Tobie Nathan e il villaggio terapeutico di Henri Collomb

Al di là dei risvolti che ha poi preso questo acceso dibattito, ciò che ci interessa notare è come
questa critica fatta a Nathan venga argomentata e fondata attraverso il passato dell'etnopsichiatria:
ancora una volta si può notare come gli eventi presenti siano fortemente legati a radici passate, e
come le teorie e le terapie proposte da Nathan non vadano studiate solamente come strumenti e
tecniche psicologiche, ma come materiale culturalmente e storicamente plasmato. Se infatti è
possibile notare come molti elementi del lavoro di Collomb ricompaiano nelle teorie e nelle
iniziative di Nathan, la critica mossa da Fassin ci mostra come volgendo lo sguardo al passato sia
possibile rintracciare molti antecedenti critici del lavoro di Nathan. La proposta di Carothers ripresa
da Fassin non è infatti un caso isolato nella storia dell'etnopsichiatria.
Seppur con premesse e obbiettivi diversi, anche Collomb finì con il proporre qualcosa di simile: nel
1974, infatti, lo psichiatra francese realizzò a Kenia un villaggio terapeutico, il villaggio Emile
Badiane. Il progetto mirava a decentralizzare la presa in carico dei pazienti creando dei villaggi
gestiti a livello regionale in modo tale da non sovraffollare i già pochi ospedali e, in più, avvicinare
il luogo di cura ai familiari. Lo scopo di queste strutture era quello di non separare il malato dalla
famiglia, dal proprio gruppo sociale e dal proprio ambiente, ricreando delle situazioni in cui venisse
parlata la lingua del paziente e praticate attività consone alle sue abitudini (Failli 2005).
Questi luoghi erano organizzati sul modello del tradizionale villaggio terapeutico, e la loro
direzione era affidata ad un paio di infermieri e a un djaraf che, come nel pënc, veniva eletto dai
pazienti; la figura dello psichiatra compariva raramente per delle visite settimanali, dal momento
che l'obbiettivo era che il villaggio si autogestisse attraverso la cooperazione di malati e familiari
(ibid.). Questa proposta, oltre a tentare di avvicinare il paziente al suo contesto abituale, rispondeva
anche alla necessità di prendere in carico con esigue risorse il gran numero di individui richiedenti
cure.
Il villaggio, infatti, oltre a liberare posti negli ospedali, era vantaggioso anche a livello economico
poichè da un lato richiedeva poco personale e, dall’altro, il suo mantenimento era garantito dal
contributo dei parenti del malato che lì andavano a vivere.
Sotto questo punto di vista, dunque, il villaggio terapeutico si rivelava uno strumento prezioso per
l'amministrazione senegalese che a quei tempi, nel tentativo di mettersi al passo con gli stati
economicamente più avanzati, metteva in atto una politica dai risvolti sociali tragici.
Come detto sopra (cifr. Cap.1), la rapida modernizzazione dello stato africano aveva prodotto
importanti flussi di migrazione e povertà, finendo così con il riempire le strade della capitale e delle
città più grosse con persone disadattate e richiedenti assistenza. Questa era una situazione

47
intollerabile per uno stato che stava cercando di darsi un'immagine moderna e civilizzata nei
confronti degli stati industrializzati.
È seguendo questa corrente che, nel 1972, il governo senegalese iniziò allora a rastrellare le strade
di Dakar e a rinchiudere molte persone negli ex lazzaretti, condannandole così a condizioni di vita
misere e, spesso, alla morte (Collignon 1983).
Nel 1974 l’apertura del del villaggio di Kenia si presentò dunque come un'ottima occasione per
risolvere il problema dei vagabondi e dei malati in maniera più dignitosa, oltre che economicamente
e diplomaticamente accettabile.
La “prontezza” con cui venne promulgata nel 1975 la legge che istituzionalizzava a livello generale
i villaggi terapeutici e legalizzava la presa in carico in seno alla famiglia del malato e il ricorso ai
guaritori tradizionali fa immediatamente pensare a quanto proposte come queste, sensibili alla
contestualizzazione e alla socializzazione della malattia, si prestassero bene al gioco di un governo
che cercava una risposta tecnica ed efficace ad un problema crescente (Failli 2005).
I rischi di questa ufficializzazione sull'originale impostazione del progetto sono ben immaginabili:
con questa legge il destino dei villaggi terapeutici veniva indissolubilmente legato alla volontà del
governo e della politica, esponendoli al rischio di diventare luoghi di reclusione in mano ai poteri
istituzionali.

4.4.1: Le politiche e il valore dell'etnopsichiatria

Non si può certo paragonare il villaggio terapeutico di Collomb al ghetto proposto da Nathan, ma la
critica fatta a quest'ultimo è comunque applicabile alla proposta del primo: anche in questo caso si
era andati a generare una norma governativa da un'esperienza clinica e, inoltre, con il tentativo di
riportare il paziente al suo “ambiente normale”, si andavano a trascurare le vere cause (politiche,
economiche e sociali) del problema.
Leggendo poi di quanto Léopold Senghor26 fosse interessato al lavoro di Collomb, finanziandolo e
agevolandolo, è ancora più facile accostare l'esperienza di Kenia alle proposte di Carothers e
Nathan «President Senghor was very proud of Fann! He was very interested in Collomb's project at
the clinic, and they became good friends. […] Anything Collomb asked for was his. Easily. Yes,
wathever he wanted – easily, easily.»27 (Kilroy-Marac 2013).

26
Primo presidente del Senegal, dal 1960 al 1980.
27
«Il Presidente Senghor era molto orgoglioso di Fann! Egli era molto interessato ai progetti di Collomb alla clinica, ed
essi diventarono buoni amici […]. Qualsiasi cosa Collomb chiedesse diventava sua. Sì, tutto ciò che voleva- facilmente,
facilmente » (trad. di chi scrive).
Vanno comunque fatte notare le numerose testimonianze che ci parlano delle iniziative private di Collomb per la ricerca
di fondi. Nonostante ciò l’ospedale di Fann rimaneva un ente pubblico legato ai finanziamenti del governo senegalese e
francese (Kilroy-Marac 2013)

48
Tuttavia, limitarsi a considerare il valore del lavoro di Collomb, come anche quello di Nathan,
solamente in base ai vantaggi che poteva rappresentare per il governo senegalese, è un'operazione
che non fa altro che ridurne l'importanza.
Il pënc, i villaggi terapeutici e il centro George Devereux sono la messa in pratica di un approccio:
quello etnopsichiatrico. Un approccio conscio delle difficoltà che comporta il lavorare ai confini
delle culture e che, proprio per questo, ha nella sua essenza il ridiscutere le proprie premesse e le
proprie metodologie.
Per dare valore generativo anche a queste critiche credo sia utile considerare gli “esperimenti” di
Collomb e Nathan come il compito di Pichon-Rivière: pretestuali.
Come abbiamo visto per i Gruppi Operativi, è solo iniziando a lavorare concretamente che
emergono i malintesi, le falle nelle proprie teorie, ma è così che emergono anche le proposte, le
intuizioni, i miglioramenti e i cambiamenti. Ed è soprattutto in questa concretezza che va cercato il
profondo valore di queste esperienze: se infatti sono state soggette a svariate critiche questo è
perché, scegliendo di procedere nel senso contrario a quello dominante, sono riuscite a discutere le
regole del gioco che prende vita nell’ambiguo terreno dell’incontro.
Una soluzione definitiva rispetto alle questioni che si preoccuparono di affrontare Collomb, Rivière
e oggi Nathan ancora non esiste, e molto probabilmente mai esisterà: si è visto sopra come
strumenti e teorie debbano sempre esser adattati ai cambiamenti della società, del contesto e della
storia.
L'unica strada percorribile è quella che fa di ogni ostacolo epistemologico, critica e difficoltà
un'occasione per passare a un livello di complessità maggiore: solo abbandonando il dogmatismo in
favore di un costante rinnovamento teorico che riesca a integrare le visioni divergenti, così da poter
allargare il proprio punto di vista, e imparando a farsi carico e ad elaborare le angosce che la novità
comporta si potrà instillare in noi quel processo di costante cambiamento che trasforma ogni punto
d'arrivo in un punto di partenza.

49
Conclusioni

Con questo lavoro ho voluto approfondire il percorso di cambiamento epistemologico che ha


investito l'etnopsichiatria a partire dall'esperienza di Henri Collomb in Senegal, un processo che,
inaugurato in quegli anni, ancora oggi prosegue e si ritrova ad affrontare diverse difficoltà e ostacoli
nel suo lavoro di relativizzazione del pensiero psichiatrico.
E' stato sottolineato come, però, problemi e critiche riservino anche risvolti positivi dal momento
che consentono di portare il discorso ad un livello più complesso e completo: in questo senso, le
osservazioni fatte prima da Dorès e, poi, da Fassin, possono essere inquadrate come ulteriori sfide
(non solo epistemologiche) che i due autori sono riusciti a evidenziare e a proporre partendo dai
prodotti della messa in pratica della tecnica etnopsichiatrica, una tecnica ancora imperfetta, ma non
per questo fallimentare.
È dunque proprio grazie a critiche come quelle di questi due autori che l'etnopsichiatria è riuscita ad
ampliare il proprio approccio, divenendo così in grado di comprendere il vasto insieme di variabili
che entrano in gioco nel processo di cura. Attraverso uno sguardo critico, attento e sempre in grado
di adattarsi all'insorgenza di nuove problematiche, l'etnopsichiatria emerge dunque come un'efficace
disciplina in grado di permettere l'inclusione di differenti componenti, dal ruolo degli elementi
culturali alle dinamiche politiche, in un approccio psichiatrico, spesso riduttivo e stereotipato,
instaurando così quella visione multiprospettica che permette un percorso di cura efficace.
Si è poi visto come il nascere di molti problemi, questioni e difficoltà dell'etnopsichiatria sia legato
alla natura della pratica psichiatrica che essa cerca di cambiare. Quest'ultima s'inserisce in una
situazione dominata da forti ambiguità poiché, dovendo fare da mediatrice tra una società
“spaventata” dall'anormalità della follia e dal folle, individuo isolato che richiede comprensione e
dialogo, finisce con l'adottare un apparato strumentale e teorico atto più che altro a proteggere lo
psichiatra stesso dai “pericoli” di questa posizione doppia e precaria.
La psichiatria, dunque, rischia di ritrovarsi immersa in una situazione che la vede da una parte
trascurare i bisogni del paziente e dall'altra svolgere un ruolo controproducente nei confronti della
società. La società finisce dunque per entrare in un circolo vizioso di dipendenze con le istituzioni
sanitarie e governative.
Dovendo affrontare questa situazione, lo psichiatra può assumere un atteggiamento difensivo che
mette in atto attraverso l'uso di teorie e strumenti, riuscendo così a proteggersi dalle angosce di
questo ruolo precario. Sono proprio queste difese il nucleo contro cui si scaglia la critica
etnopsichiarica, la quale finisce finisce così con il voler cambiare quelli che sono forse gli elementi
più necessari e funzionali della pratica psichiatrica.

50
A questo proposito, le teorie di Pichon-Rivière e i successivi sviluppi dei suoi allievi delineano
quali possano essere le dinamiche che entrano in moto nel processo di cambiamento della propria
prospettiva teorica e strumentale nei confronti di un compito, mostrando così come questo
cambiamento combini elementi affettivi e sociali, evidenziando quali siano gli effetti delle
esperienze e degli studi pregressi che la persona ha affrontato, e chiarendo attraverso quali fasi passi
il gruppo e la persona durante questo percorso di rinnovamento.
La soluzione proposta da Riviére, al di là della sua applicabilità universale 28, ha il merito di aver
mostrato la necessità di un'interpretazione durante i momenti di gruppo che mirano al cambiamento,
un'interpretazione che permetta di mostrare i vincoli e i legami che entrano in gioco nelle relazioni,
così da poter concepire la persona nella sua situazionalità.
Il valore di lavori come quello di Collomb, Nathan, Fassin, Dorès e, più in generale,
dell'antropologia e dell'etnopsichiatria, credo risieda proprio nell'aver saputo interpretare i legami
che sussistevano e sussistono tra le persone e le proprie origini, ed evidenziando quanto ciò le
influenzi nei momenti critici della propria vita: dal malessere di una persona che si ritrova persa in
un contesto estraneo, all'incapacità del medico nel trattare un paziente che non condivide i suoi
stessi schemi di riferimento per quanto riguarda cura e malattia.
Se, dunque, in questo lavoro è stata sottolineata la dimensione individuale del cambiamento,
cercando di coglierne i risvolti ansiogeni legati alle basi psicologiche ed epistemologiche della
persona, soprattutto nei momenti di lavoro in gruppo, è tuttavia stato notato come questo operare
personale rischi anche di essere svalutato, appesantito e annullato se non viene coordinato con un
cambiamento più ampio che abbracci, soprattutto nel caso dello psichiatra, tutto il sistema
istituzionale e sociale.
Un concetto chiave in questo genere di operazioni è quello di salute: Troppo spesso infatti con tale
termine si intende la mancanza di sintomi e, all’opposto, la malattia come la presenza di questi.
Intendere la salute in senso positivo vuol dire invece spostare l’attenzione dal sintomo (e la sua
eliminazione) alla ricerca e produzione degli elementi che permettono la salute.
Individuare questi elementi vuol dire innanzitutto svolgere un lavoro di ricerca nel contesto in cui si
vuole operare poiché, come sostiene Armando Bauleo (1993), la produzione concreta del concetto
di salute assume caratteristiche determinate dalla comunità. La salute si configura così come una
sempre nuova esperienza che, per essere raggiunta, necessita di un’azione su piani diversi: quello
della coscienza cittadina e quello della formazione del personale sanitario (ibid.).
Con questo lavoro si è cercato di approfondire principalmente l’aspetto che riguarda la formazione
del personale sanitario e, ripercorrendo l’evoluzione del cambiamento epistemologico inaugurato
negl’anni di Collomb, si è mostrato come le basi teoriche per una terapia sensibile alla persona, alle

28
Si veda a questo proposito quanto scrive Silvia Failli (2005) riguardo le dinamiche di gruppo in Africa.

51
sue differenze, al suo contesto e i suoi valori, esistano.
A ciò si è poi andati ad aggiungere una panoramica dei lavori del Centro George Devereux che,
nonostante quello di Nathan sia forse l'esempio più radicale, offrono la possibilità di osservare come
teorie maturate nel corso degli anni dall’etnopsichiatria possano essere oggi applicate in maniera
adeguata: gli scritti di Nathan (1996; 2002; Nathan et alii. 2000) e il numero dei pazienti presi in
carico mostrano infatti l'efficacia di questo metodo e quanto sia necessario approfondire una strada
simile. I movimenti migratori di questi anni poi dovrebbero favorire il sorgere di luoghi come
questo e rendere evidente come un cambio metodologico sia sempre più necessario per gestire il
disagio delle persone che giungono nei territori occidentali.
Tuttavia, ciò a cui invece si assiste è la proliferazione di una medicina che si affida ancora agli
schemi bioriduzionisti, portando così centri come quello di Nathan a diventare rare eccezioni in un
contesto dove lavori come quello di Collomb o Pichon-Rivière rimangono “carta morta” incapace di
farsi sentire da un accademismo psichiatrico sordo.
Come con la chiusura dei manicomi non si è riusciti a togliere la follia dall'isolamento, allo stesso
modo, dopo aver dimostrato la relatività del sapere psichiatrico e averlo inquadrato come una verità
tra le altre, la teoria psichiatrica continua ad essere insegnata e diffusa come verità universale.
Se ne conclude che unicamente inserendo un approccio multidisciplinare non solo nella teoria e
nell’epistemologia, ma anche, e soprattutto, nel piano della formazione del personale e
nell’organizzazione della clinica, sia possibile vedere le teorie e le prospettive etnopsichiatriche
realizzarsi.Ufficializzare un cambiamento a livello formativo come questo, dunque, per quanto
complessa possa risultare come operazione, si configura così come l’unica via possibile per
istituzionalizzare, e rendere quindi operativo, un approccio etnopsichiatrico in grado di tener conto
della patologia nella sua multidimensionalità politica, economica, psicologica e sociale.
Questo cambiamento diviene quindi una sfida che ci invita a ripensare il nostro agire: «Diventare
capaci di comprendere questa sfida significa anche diventare capaci di riconoscere in che cosa essa
costituisce, non importa se ignorata o raccolta, un ingrediente del nostro futuro» (Stengers 1996)

52
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