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Pietro Cataldi

Dante in Ungaretti e in Montale

1. La presenza di Dante nella poesia del Novecento, non solo italiana,


ha un carattere carsico. E numerosi sono gli autori nei quali si scorge un af-
fioramento significativo. Non si tratta soltanto di un fenomeno intertestua-
le secondo l’accezione prevalentemente linguistica e formale. Non si tratta
cioè di affioramenti riducibili all’ordine della lingua e delle forme: usare i
marmi del Colosseo per farne un palazzo rinascimentale è comunque meno
significativo che citare Roma nel Giuramento degli Orazi di David. Dante
è anzi un modello classico proprio per la sua capacità di agire anche senza
espliciti richiami puntuali, senza spie vistose o di superficie; di agire dal
fondo delle strutture discorsive e dell’immaginario. Ne potrà essere sospet-
tata e indagata la presenza modernizzante, per esempio, ogni volta che sia
chiamata in causa – in poesia, ovviamente – la categoria di realismo, ove
siano praticate forme di continuità diegetica, o uno sperimentalismo di tipo
plurilinguistico e pluristilistico, o perfino uno sperimentalismo metrico (un
endecasillabo senza accenti di 4a e di 6a potrà essere già un indizio rivelato-
re, o almeno sospetto). E perfino un ideale d’integrità dell’io lascerà spesso
trapelare il mondo centripeto, anche sul piano emotivo, della Commedia.
Come avviene d’altra parte per il petrarchismo – secondo lo sguardo offer-
to dal saggio di Contini sulla lingua di Petrarca –, il veicolo linguistico e
formale è anche per il dantismo una questione, cioè, di paradigmi: letterari
e culturali, naturalmente, ma anche – secondo modalità via via diversificate
ma sempre illuminanti – ideologici.
A differenza di quanto avviene con altri casi pure rilevanti (come quello
per esempio di Leopardi), la fortuna di Dante nella poesia del Novecento
ha un carattere internazionale, e va da Eliot e Pound a Mandel’štam. Fra i
poeti del Novecento italiano, i casi di Montale e di Ungaretti costituiscono

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per più ragioni – non ultima la rilevanza paradigmatica – modelli di dan-


tismo altamente significativo. E per entrambi risulta decisiva non tanto la
precocità o la quantità dei materiali danteschi accolti, ma la costellazione
culturale all’interno della quale la funzione-Dante è chiamata ad agire, con
la forza dirompente e la specificità che la caratterizzano. Il fatto che nei due
autori il risultato sia poi così diverso e specifico dimostra una volta di più
che non la letteratura crea letteratura, e che la creatività si serve anche di
un’attivazione linguistica, ma non certo mai solo di quella.
La costellazione culturale all’interno della quale avviene l’incontro di
Montale con Dante è stata ricostruita soprattutto grazie agli studi di de Ro-
gatis1: è la rete di lettura e frequentazione dei saggi di Pound e di Eliot fra
il 1925 e il 1927, mediatore Praz e poi il Contini commentatore negli anni
Trenta delle Rime di Dante, ad avvicinare Montale alla figuralità dantesca
e a spingerlo a confrontarsi con essa per la costruzione di un nuovo mo-
dello di lirica. È in questo periodo che le presenze dantesche nella poesia
di Montale si infittiscono e prendono a fare sistema. Per Montale questa
ripresa sistematica del paradigma dantesco è d’altra parte una possibilità
in più di uscire in modo autorevole dallo stato di crisi del Simbolismo: fare
dell’universo dantesco un’allegoria viva del presente, cioè applicare a Dan-
te la stessa logica figurale che questi aveva applicato al mondo classico e
virgiliano; dare alla poetica degli oggetti (già pascoliana e gozzaniana, come
hanno mostrato Bonfiglioli e Blasucci) una consistenza bergsoniana, facen-
do degli oggetti i veicoli privilegiati della durée e caricandoli dell’intensità
di una vita interiore ormai non più dicibile direttamente e appartenente
alla lingua morta dell’antico.
Per Ungaretti fare sistema vuol dire leggere in Dante un tassello decisi-
vo della tradizione intesa come continuità e come riconoscimento (su que-
sto aspetto il contributo più importante è quello di Baroncini2): «Non era il
novenario, l’endecasillabo, il settenario del tale o del tal altro che cercavo;
era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario del canto italiano; era
il canto italiano nella sua costanza attraverso i secoli […]. Era il battito del
mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei
maggiori»3.
Come si vede, tra i due modi di guardare a Dante corre una profonda
diversità, e così è dato ritrovarla nei modi specifici delle riprese testuali. Il
valore semantico delle riprese intertestuali è ben diverso a seconda che in

1
Tiziana de Rogatis, Montale e il classicismo paradossale, Roma, Iepi, 2002.
2
Daniela Baroncini, Ungaretti e il sentimento del classico, Bologna, Il Mulino, 1999.
3
Giuseppe Ungaretti, Saggi e interventi, Milano, Mondadori, 1986, pp. 824-5.

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esse prevalga un principio di citazione o un principio imitativo. La citazio-


ne implica un ritorno anche perturbante dell’antico, l’eco benjaminiana di
un lutto patito e interiorizzato; è cioè il segno di una distanza e di una per-
dita, nell’atto stesso di agire un riconoscimento e una riappropriazione. La
citazione non si limita all’orizzonte della lingua e delle forme, ma riguarda
l’ordine semantico e comporta un coinvolgimento attivo dell’autore recen-
te, un corpo a corpo, una presa di posizione. L’antico è un testimone: parla
con la sua voce e scommette sulle proprie verità; ma nello stesso tempo è
convocato dal nuovo per un suo discorso, del quale quest’ultimo conosce e
rivendica intera la responsabilità.
L’imitazione è invece un modo di stabilire la continuità extratemporale
delle forme, un modo di agire la scrittura per analogia, di invocare la per-
sistenza dell’identico oltre ogni lutto storicamente patito. L’imitazione è
estranea all’ordine semantico e appartiene invece all’ordine formale e stili-
stico. L’antico ha perduto la sua voce, proprio nel momento in cui il nuovo
invoca la continuità nella tradizione. Imitandolo, il nuovo se ne appropria,
e dichiarando di appartenergli lo fa suo.
Da questa distinzione deriva la diversa responsabilità dei due sistemi di
senso e dei due modi di avvicinarsi al grande modello antico. Montale ri-
nuncia a ogni «mitologia dell’immediatezza rivelatrice e dell’autosufficien-
za della parola poetica»4. Ungaretti costituisce un esempio di quel ricono-
scimento di sé nella tradizione e della tradizione in se stesso che Gadamer
avrebbe chiamato «fusione di orizzonti».

2. Il modo in cui Ungaretti riprende e utilizza la voce di Dante ha spesso


i caratteri della disforia, come per esempio in Soldati

(Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie),

da confrontare con la grande similitudine acherontea della Commedia:


«Come d’autunno si levan le foglie…» (Inf. III, 109 sgg.).
Più raramente Dante può divenire, anche nella pena dell’Allegria, l’i-

4
Angelo Jacomuzzi, «Incontro». Per una costante della poesia montaliana, in La poesia di
Eugenio Montale. Atti del Convegno internazionale (Milano- Genova 13-15 settembre 1982), Milano,
Librex, 1983, p. 158. Il saggio di Jacomuzzi costituisce un punto di riferimento costante del mio inter-
vento.

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spiratore di fulminei processi euforici, come esemplarmente in Mattina


(«M’illumino/ d’immenso»), dove il manifestarsi “tomistico” e “gotico”
del divino nella invasione della luce è ragionevolmente riferibile ai paesaggi
metafisici del Paradiso.
E tuttavia la presenza di Dante può affacciarsi nei versi di Ungaretti
in modo anche meno vistoso e per la forza di un unico dettaglio, tuttavia
rivelatore. In questi casi, cioè, insieme a un dettaglio formale si muove e
viene evocato un orizzonte tematico rilevante. Il dettaglio diviene il veicolo
di una riappropriazione e di una attualizzazione. Succede così in Nostalgia:
Quando
la notte a svanire
poco prima di primavera
e di rado qualcuno passa
Su Parigi s’addensa
un oscuro colore di pianto
In un canto
di ponte
contemplo
l’illimitato silenzio
di una ragazza tenue
Le nostre malattie
si fondono
E come portati via
si rimane

Siamo evidentemente di fronte a un testo sul tempo, a uno anzi dei te-
sti sul tempo più intensi ed emozionanti che la lirica europea moderna ci
abbia consegnato. E la percezione del tempo che l’autore evoca è incerta e
sospesa, incapace di accedere a una cronologia unidirezionale (e unidimen-
sionale): per indicare l’alba, il v. 2 nomina la «notte»; per collocare l’azione
alla fine dell’inverno, il v. 3 parla della «primavera». Il «ponte» sul quale si
svolge la fulminea fusione dei due destini individuali taglia e blocca prov-
visoriamente lo scorrere del tempo-fiume. La «nostalgia» richiamata dal
titolo è questa incertezza e questa sospensione della freccia temporale, la
possibilità di rendere reversibile l’esperienza della perdita. Le «malattie si
fondono» perché si compie ciò che Proust chiamava «estasi metacronica»:
i due interlocutori vivono un’emozione che li trascina altrove senza farli
muovere. La pienezza è questa emozione: restare sospesi in un tempo (e in
uno spazio) multidimensionale.

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Sappiamo bene come alle spalle di questa raffigurazione del tempo e del
suo legame con il mondo emotivo dell’interiorità abbia agito il pensiero di
Henri Bergson, le cui lezioni Ungaretti aveva seguito a Parigi prima della
guerra, non diversamente da quanto era accaduto anni prima a Proust, pro-
ducendo risultati in parte somiglianti. E tuttavia il modo nel quale il tema
della sospensione temporale – e diciamo pure il tema del tempo in generale
– viene evocato utilizza uno stilema dantesco ricavato da uno dei luoghi
emblematici del poema, l’attacco del racconto di Ulisse: «… “Quando/ mi
dipartii da Circe…”» (Inf. XXVI, vv. 90 sg.). Diciamo anzi che la prima
strofe di Nostalgia raccoglie e amplifica il mirabile effetto di sospensione
presente nei versi di Dante, staccando la proposizione subordinata tem-
porale prolettica dalla frase reggente con la forza del bianco interstrofico
e facendo così diventare assoluto, cioè strappandolo al continuum tempo-
rale, l’attimo in bilico tra la notte e il giorno e tra l’inverno e la primavera;
facendo del tempo fluido e della successione di attimi un tempo cristalliz-
zato e diffuso. Questo effetto specifico della lirica ungarettiana accoglie,
amplificandoli e rimodellandoli, il motivo temporale e il tema stesso della
sospensione temporale già presenti nel testo dantesco.
Dal punto di vista storico-culturale, potremo ben dire che Ungaretti ri-
colloca nell’orizzonte modernista e bergsoniano il conflitto di valori impli-
cito nel racconto di Ulisse; ma nella prospettiva gadameriana della «fusione
di orizzonti», cioè dentro la poetica della tradizione e della continuità del
canto abbracciata da Ungaretti, quella appropriazione è vissuta e intesa
quale rigenerazione verticale di una verità che tiene insieme, nell’autunno
del Medioevo come nella modernità industriale, la percezione umana del
tempo e l’universalità delle sue contraddizioni. Per Ungaretti, cioè, la mise
en abyme che la potenza dell’enjambement spalanca sul folgorante incipit
del discorso di Ulisse è già, anche, la sua stessa emozione moderna e, ap-
punto, bergsoniana.
Dal punto di vista storico-filologico, l’enjambement che sospende la pri-
ma parola gittata faticosamente fuori da Ulisse, «quando», è al tempo stesso
un modo narrativo folgorante per rievocare le peregrinazioni dell’eroe ome-
rico, il suo essere prigioniero di una maledizione che ne ostacola il ritorno
in patria, prolungando indefinitamente il tempo vuoto e intenso del nostos,
e l’anticipazione formidabile della sua colpa, che corrisponde anche a una
concezione laica e mondana del tempo, all’idea di poterne fare liberamen-
te uso: non solo Ulisse insisterà ripetutamente, parlando, sull’articolazione
temporale della propria vicenda («più di un anno», «prima che sì Enea la
nomasse», «cinque volte racceso e tante casso…», ecc.), ma, soprattutto,
sulla disponibilità del tempo come orizzonte della scelta individuale e come

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appropriazione soggettiva di un destino punterà il momento decisivo del di-


scorso rivolto da Ulisse ai compagni («a questa tanto picciola vigilia/ de’ no-
stri sensi ch’è del rimanente/ non vogliate negar l’esperienza…»). E trascu-
riamo qui come l’allusione a un tempo sospeso implicita nel blocco ritmico
dell’enjambement parli dello scorrere non produttivo, per Ulisse, del tempo
destinato al ritorno, e contemporaneamente del suo antidoto coniugale, la
tela-vita tessuta ogni giorno e ogni notte disfatta da Penelope che lo attende
ad Itaca: così che possa essere annullato nel luogo dell’incontro finale il
tempo che li ha a lungo ma non irrimediabilmente separati.
Questo paesaggio narrativo e questo conflitto culturale sono nel testo
di Dante. In quello di Ungaretti le coordinate emotive e filosofiche, come
abbiamo visto, sono altre. Ma potremmo forse dire che l’intenso paesaggio
dantesco non sia in qualche modo enigmaticamente presente sulla scena
della lirica ungarettiana? Non è forse l’«uomo di pena» bloccato nel tempo
sospeso di una trincea e attratto, nostalgicamente, dalla redenzione sognata
di un incontro d’amore che scavalchi quel tempo e gli dia senso? E non è
d’altra parte anche in Ungaretti diversamente attiva una contraddizione –
certo nuova e specifica – tra tempo dell’appartenenza cosmica, dell’armo-
nia e dell’unanimismo, e tempo della condanna alla solitudine della fram-
mentazione individuale?
Quanto sia grande la forza del dettaglio dantesco interessato ce lo dice
anche la sua capacità di plasmare anche altri testi formidabili dell’Allegria,
segnatamente allora che ad essere in gioco sia appunto lo statuto del tempo
con le sue ambivalenze misteriose. È quanto accade in Giugno («Quando/
mi morirà questa notte/ e come un altro/ potrò guardarla…»), un altro
grande affresco che, come I fiumi, aspira a unificare armonizzandole le di-
verse, e inconciliabili, fasi della vita, vagheggiando un luogo dove nel futu-
ro il presente possa essere contemporaneamente conservato e dissolto, cioè
un tempo della redenzione.
Quando il tempo della pena narrato nel primo libro cederà al sentimento
del tempo che caratterizza la seconda grande fase della ricerca ungarettia-
na, e il tempo cristiano pacificherà le contraddizioni precedenti, il dettaglio
dantesco che abbiamo visto catalizzare le tensioni dell’Allegria potrà essere
“salvato” in un legato metrico che restituisca il tempo immanente al grande
disegno messianico della trascendenza; e il tempo della morte potrà essere
narrato, anziché con le formule liminari della discontinuità, dentro il fluire
del canto antico: «Quando mi desterò dal barbaglio/ della promiscuità…»
(Preghiera, in Sentimento del Tempo). La «scoperta dell’endecasillabo» è
anche la fine di una frattura e di un esilio individuale patiti dentro il grande
percorso della tradizione.

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Evocando il grande modello dantesco, anche solo per mezzo di un det-


taglio, Ungaretti ne assume la voce: presta la propria sensibilità e la propria
cultura alla vita rinnovata dell’antico. La sua “imitazione” è una figura della
civiltà e della bellezza, in una relazione verticale.

3. Abbiamo detto che il riferimento a Dante prende a fare sistema nel-


la poesia di Montale a partire dal 1925-27. Al 1926 appartengono d’altra
parte alcuni testi nei quali il Dante tragico dell’Inferno costituisce al tempo
stesso un serbatoio linguisticamente acceso, e capace di configurare lo spe-
ciale espressionismo degli ultimi Ossi, e un modello figurale: l’«aria persa»
di Incontro o le ventate infernali di Arsenio sono la parte affiorante della
allegorizzazione che in entrambi i testi subisce il tema del cammino, del
viaggio, e in particolare della discesa come metafora del male.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che anche prima di questo passaggio non si
incontrino momenti significativi di contatto con Dante: non cioè semplici
riprese intertestuali, ma citazioni per le quali il riconoscimento dell’ipote-
sto costituisce una condizione necessaria alla semantica specifica del testo.
È il caso, fra gli altri, di due “ossi brevi”.
Vistosa al punto da fare macchia appare la citazione dantesca incasto-
nata in «Spesso il male di vivere ho incontrato»: «era il rivo strozzato che
gorgoglia» (v. 2). Il rimando è agli accidiosi che si attristano nella «belletta
negra» di Inf., VII, 125: «quest’inno si gorgoglian nella strozza».
In questo caso è proprio il riferimento all’accidia a costituire il motivo
catalizzatore della citazione: se l’”osso” del «male di vivere» proclama in-
fatti, come molti altri testi coevi e come ha sottolineato Arvigo, la necessità
dell’Indifferenza per proteggersi dalle rovinose passioni della vitalità, non
potrà sfuggire l’illuminante, benché tutto implicito, controcanto costituito
dall’intarsio dantesco: evocare la condanna infernale degli accidiosi apre
uno spiraglio autocritico alla rivendicazione, vagamente stoica, della ace-
dia, e prepara dunque con la forza di un vettore culturale straordinario lo
slancio vitale del «falco alto levato» con la sua evasione dalla gabbia metri-
ca e dalla scelta minimalista.
Ancora a Dante si lega precocemente, negli “ossi brevi”, un altro mo-
mento nel quale la scelta dell’indifferenza e del distacco mostra le sue con-
traddizioni e i suoi limiti:

So l’ora in cui la faccia più impassibile


è traversata da una cruda smorfia:
s’è svelata per poco una pena invisibile.

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Ciò non vede la gente nell’affollato corso.


Voi, mie parole, tradite invano il morso
secreto, il vento che nel cuore soffia.
La più vera ragione è di chi tace.
Il canto che singhiozza è un canto di pace.

In questo caso il fallimento della atarassia perseguita è tematizzato espli-


citamente: perfino la faccia più impassibile ad un certo punto è costretta
a contrarsi in una smorfia di dolore. La maschera che voleva relegare nel
profondo le ragioni della sofferenza individuale cade pirandellaniamente
per un attimo e il limite che il soggetto aveva stabilito di controllare nel
confine tra la propria interiorità e il mondo esterno viene meno; ma con
sorpresa quel limite risorge poi subito nelle dinamiche sociali della civiltà
di massa: nessuno tra la folla registra la non voluta rivelazione. Per questo
le parole, anche quelle un tempo rivelatrici della poesia, traducono/tradi-
scono inutilmente la verità del cuore. E siamo al punto: quale sia la verità
taciuta, «la più vera ragione» confessata, singhiozzando, nella forma di un
canto di pace, quale sia cioè la «pena invisibile» che ha contratto in una
«cruda smorfia» la faccia «impassibile» in mezzo a una impassibile folla, ci
è dato capirlo soltanto grazie al sistema di citazioni dal quinto dell’Inferno
disseminate strategicamente nella seconda quartina.
L’atmosfera dantesca è suggerita già dalla variante antica e letteraria
dell’aggettivo «secreto» sottolineato nel rejet. Ma non generica e piuttosto
concentrata a rivelare/nascondere la colpa erotica che agisce nel testo è
l’allusione alla punizione di Paolo e Francesca, evocata in quel «vento che
nel cuore soffia»: il vento della passione, certamente, il motore interiore
della «bufera infernal» del contrappasso. A suggellare la citazione dantesca
c’è poi la rima tace : pace, che riprende una delle indimenticabili rime per
mezzo delle quali viene evocato il mondo interiore di Francesca.
Colpevole è dunque la passione che soffia nel cuore del soggetto lirico
quanto quella incestuosa che ha unito nell’amore i due cognati. E l’unico
modo per tacere parlandone e per cantarla senza tradirsi e senza tradire è
ricorrere alla testimonianza autorevole e altra di un modello lontano e pa-
radigmatico. Solo così tradire invano è al tempo stesso un modo per avere
ragione e per esprimere una colpa, tenendo insieme la scelta dell’impassi-
bilità e il singhiozzare della pena invisibile.
E ancora una volta, il riconoscimento dell’ipotesto dantesco è la condi-
zione per l’accertamento semantico, che tuttavia Montale non assume con
la logica verticale e inclusiva della continuità ungarettiana, ma come un
altro da sé, come un lontano e diverso cui resti intera la responsabilità pro-

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cessuale, come a un testimone che tutto confessi ponendosi accanto a un


imputato ostinatamente silenzioso. Alla continuità verticale della fusione
di orizzonti che abbiamo visto agire in alcuni esempi ungarettiani, Montale
contrappone un confronto orizzontale reso più forte dalla discontinuità.
Per questo il suo Dante non è un maggiore del codice letterario e un model-
lo della grande tradizione, come in Ungaretti, ma un antico e un lontano:
non dunque un archetipo da riscoprire e da riprendere nell’atto stesso di
scoprire se stessi, ma un autorità esterna da usare per portare l’invenzione
al di fuori del soggetto e farne un oggetto da decifrare per mezzo di uno
strumentario culturale, cioè un’allegoria.
La continuità verticale è infine il modo, uno dei modi, in cui Ungaretti
può ancora restare dentro la tradizione, pur ridotta a rovine; così come la
discontinuità orizzontale è il modo, uno dei modi, in cui Montale tenta di
fare, di quelle rovine, un montaggio nuovo. Due strategie e due tradizioni
culturali – forse meno distanti di quanto siamo portati a credere – nelle
quali Dante è in ogni caso un interlocutore ancora nutritivo.

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