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ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
contro
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 7.7.2003 dal Relatore
Cons. Luigi Macioce.
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Umberto Apice che
ha concluso per il rigetto.
Il ricorso - infondate essendo le censure dispiegate nei quattro motivi sui quali si
articola - deve essere rigettato.
L’impugnazione muove, in sintesi, dalla presa d’atto della avvenuta applicazione
dell’art. 8 c. 2 L. 121/85 da parte della Corte di merito, là dove riserva alla domanda
delle parti l’azione di attribuzione di efficacia nella Repubblica alle sentenze di nullità
del matrimonio pronunziate dai tribunali ecclesiastici: e mostra piena consapevolezza
della decisione 2787/95 di questa Corte (pervero interamente fatta propria, pur se non
menzionata, dalla sentenza qui impugnata) alla stregua della quale, ed in forza del
disposto dell’art. 8 dell’Accordo 18.2.1984 (ratificato con la legge del 1985), deve
essere esclusa la legittimazione degli eredi del coniuge a chiedere la delibazione della
sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio contratto dal defunto
ancorché tali eredi avessero proseguito post mortem l’azione di nullità innanzi al
giudice ecclesiastico.
I ricorrenti, in realtà, allegano la sopravvenienza (rispetto alla sentenza 2787/95 di
questa Corte) della previsione di cui all’art. 67 c. 1 L. 218/95 alla cui stregua l’azione
diretta all’accertamento dei requisiti per il riconoscimento - in ipotesi di contestazione
- della sentenza straniera spetta a chiunque vi abbia interesse. In questo quadro, a loro
avviso, sarebbe stato erroneo primo motivo) non accertare l’avvenuta abrogazione
della previsione di cui al cit. art. 8 della L. 121/85 ad opera della nuova
regolamentazione delle condizioni per il riconoscimento di qualsivoglia sentenza
straniera, come fatto palese dalla specifica abrogazione degli artt. 796 e 797 c.p.c. ad
opera dell’art. 73 della L. 218/95. Ma vi è di più: ad avviso dei ricorrenti (secondo
motivo) la contraria interpretazione in fatto seguita dalla Corte di merito, nella sua
silenziosa disapplicazione della L. 218/95, impingerebbe contro l’art. 3 della
Costituzione, privilegiando l’effettività delle sentenze di qualsivoglia giudice
straniero a tutto danno delle pronunzie del giudice ecclesiastico (a questo punto
privilegiate... in pejus). Di converso, ad avviso dei ricorrenti (terzo motivo) sarebbe
proprio l’esigenza di non pregiudicare le preesistenti convenzioni internazionali (e
non solo di mantenerne il vigore) a consigliare, in ossequio all’art. 2 della legge
218/95, a dare ingresso alle nuove norme senza mantenere in vigore presupposti e
regole procedurali (gli artt. 796 e 797 c.p.c.) ora abrogati. E del pari errato sarebbe
stato, (quarto motivo) pur dando atto la Corte di merito che nella specie la domanda di
nullità era stata coltivata innanzi ai giudici ecclesiastici post mortem proprio dagli
eredi, affermare in un’ottica indebitamente nazionalistica la insussistenza di una
legittimazione in prosecuzione.
A tali argomenti si oppone, con articolate osservazioni, la difesa del ...........
chiedendo la reiezione del ricorso.
Ebbene, ad avviso del Collegio - esaminando contestualmente le esposte censure,
strette in nesso di evidente connessione - nessuno dei relativi argomenti può essere
condiviso.
Rilievo preliminare, e decisivo, nella soluzione della questione come sopra
sintetizzata è quello per il quale l’ipotesi di una pura e semplice abrogazione, da parte
delle norme introdotte dalla legge 31.5.1995 n. 218, del sistema (determinato
dall’Accordo Italia - Santa Sede del 18.2.1984 e recepito nell’ordinamento dall’art. 8
c. 2 della legge 121/1985) per la dichiarazione di efficacia delle sentenze di nullità
pronunziate dai Tribunali ecclesiastici, è radicalmente da escludere sulla base del
disposto dell’art. 2 c. 1 della legge del 1995, per il quale le disposizioni della presente
legge non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per
l’Italia.
Ed al proposito questa Corte, condividendo l’interpretazione adottata da alcuni
pronunziati di merito e sviluppando in subiecta materia quanto già affermato in
materia di generale salvezza delle convenzioni internazionali (S.U. 3127/97), ha avuto
modo di affermare espressamente che “..L’entrata in vigore del sistema del diritto
internazionale privato non ha....inciso nella materia concordataria” (Cass. 7276/99), in
tal modo essendosi dato esatto rilievo da un canto, e sul piano dell’oggetto della
regolamentazione, alla specialità della materia e, dall’altro canto, e sul piano degli
strumenti, alla rigidità degli Accordi e, quindi, alla specifica forza di resistenza al
mutamento propria dell’Accordo di Villa Madama 18.2.1984 e del Protocollo
addizionale.
Alla considerazione del ruolo assorbente che - sulla questione sottoposta - viene
svolta dal cit. art. 2 della legge 218/95, non si sono, ad avviso del Collegio, potuti
contrapporre argomenti ermeneutici di qualche peso, in particolare non costituendo
ostacolo - al permanente vigore del disposto dell’art. 8 c. 2 citato - l’avvenuta
abrogazione degli artt. 796 e 797 c.p.c. ad opera dell’art. 73 della legge del 1995
(come sostituito dall’art. 10 D.L, 542/96 conv. in L. 649/96).
Ed infatti, alla Corte di Appello chiamata al giudizio di efficacia in discorso
competerà anche l’accertamento della ricorrenza delle altre condizioni richieste dalla
legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere (art. 8 c.
2 lett. c della L. 121/85) e cioè - allo stato della legislazione vigente - di quelle
condizioni (già previste nell’art. 797 c.p.c. ed oggi) elencate all’art. 64 della legge
218/95, se pur - giova notarlo - dette condizioni devono essere sottoposte
all’adattamento ermeneutico imposto dalla specialità delle regole della giurisdizione
ecclesiastica, richiamate in parte qua dal Protocollo Addizionale.
E del resto, come è stato esattamente notato, l’esigenza di pervenire ad un
coordinamento tra norme speciali sulla cd. delibazione delle sentenze ecclesiastiche e
norme del diritto internazionale privato per l’efficacia delle sentenze straniere
(coordinamento che esclude in radice l’ipotesi abrogatrice esposta in premessa e che
passa attraverso la predetta lettura integrata degli artt. 8 della L. 121/85 e 64 della L.
218/95) non è affatto eversiva del principio dei cui all’art. 2 c. 1 della legge del 1995,
posto che detta norma non prevede affatto un rapporto di drastica esclusione ma
soltanto inibisce che le nuove norme possano trovare una applicazione che
pregiudichi il disposto delle convenzioni internazionali.
Orbene, se su tali basi va esclusa la configurabilità di un’efficacia abrogatrice delle
nuove norme sull’art. 8 della legge del 1985, resta anche accertato che la
conservazione del sistema speciale di “delibazione” - le cui regole iniziali vengono ad
essere integrate dalle previsioni del sopravvenuto art. 64 L. 218/95 - non solo non
impinge contro precetti costituzionali, ma di essi costituisce specifica quanto
razionale applicazione.
Da un canto pare appena il caso di rammentare che la pretesa parità di trattamento
delle sentenze straniere auspicata dai ricorrenti, onde evitare regolamentazioni in
pejus per le pronunzie dei tribunali ecclesiastici, è valore che cede di fronte al
principio fondamentale di regolamentazione e modificazione pattizia di cui all’art. 7 c.
2 della Costituzione.
Dall’altro canto non si scorge come possa invocarsi il principio di cui all’art. 3 della
Costituzione per imporre l’applicazione delle regole, per la dichiarazione di efficacia
di tutte le sentenze di giudici di stati esteri, alle pronunzie adottate dai Tribunali
ecclesiastici e ad oggetto la dichiarazione di nullità del matrimonio “concordatario” e
cioè di un rapporto la cui efficacia nello Stato è essa stessa oggetto di analitica ed
esaustiva regolamentazione pattizia: la assoluta specialità della materia - nella quale
vengono pattiziamente regolate le condizioni di efficacia dell’atto nella Repubblica
unitamente alle condizioni di efficacia nello Stato della pronunzia della sua nullità -
induce quindi a ritenere priva di alcuna consistenza la questione di legittimità
costituzionale posta dai ricorrenti.
Se, pertanto, è da ritenere conservata, ed immune da sospetti di incostituzionalità, la
previsione di cui all’art. 8 c. 2 L. 121/85, che assegna alle sole parti la legittimazione
a chiedere la dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità, tali parti, come
rammentato in premessa, devono essere ritenuti solo i soggetti che sarebbero
legittimati ad instaurare la virtuale equivalente lite nell’ordinamento nel quale si
chiede la delibazione stessa (Cass. 2787/95 cit.) e quindi, come esattamente affermato
dalla Corte di merito nel caso sottoposto, non certo gli eredi della parte del giudizio
ecclesiastico di nullità del matrimonio. Che, poi, come affermato nel quarto motivo
del ricorso, tali eredi abbiano in realtà proseguito - innanzi al Tribunale ecclesiastico -
l’azione di nullità intrapresa dalla figlia per poi chiederne la delibazione innanzi alla
Corte d’Appello (in tal guisa comunque avendo già assunto la veste di parti del
giudizio ecclesiastico) è circostanza irrilevante quanto priva di alcun riscontro. Essa è
infatti irrilevante, posto che, come affermato nella più volte citata sentenza 2787/95 di
questa Corte, la legittimazione dei predetti eredi deve essere esclusa (e per le ragioni
esatte e condivisibili esposte in tal pronunziato, e che escludono il prevalere della
pretesa logica nazionalistica) anche nell’ipotesi in cui i predetti eredi, sulla base delle
norme di diritto canonico, avessero ottenuto l’annullamento del matrimonio dal
giudice ecclesiastico. Ma essa è frutto di mera asserzione dei ricorrenti, dato che,
come esattamente notato dal controricorrente, il decesso della ........ avvenne il
21.6.98 quando entrambe le sentenze dichiarative di nullità erano già state emesse
(23.12.97 ed 1.6.98) e che la successione nel processo ecclesiastico dei suoi eredi non
è stata affatto accertata dalla Corte di Appello, il cui inciso a pag. 6 capoverso della
motivazione (…e che nel caso di specie l’azione dinanzi al giudice ecclesiastico era
stata proseguita proprio dagli eredi) pare essere ben più che frutto di accertamento del
fatto la mera trascrizione del terza capoverso del punto 7 della sentenza 2787/95 di
questa Corte.
Alla luce delle esposte considerazioni il ricorso deve essere rigettato ed i ricorrenti
condannati, tra loro in solido, al pagamento delle spese in favore del controricorrente,
nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, tra loro in solido, al pagamento delle spese
in favore del controricorrente, spese determinate in euro 2.100,000 (di cui euro 100
per esborsi) oltre a spese generali e ad accessori per legge.