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BROCK
È indubbio, mi pare, che sulla questione della causalità del primo mo-
tore nel libro XII della Metafisica, san Tommaso rientri in qualche modo in
ciò che Enrico Berti chiama «l’interpretazione tradizionale»1. Tommaso, in-
fatti, segue la tradizione nell’attribuire al primo motore la funzione di causa
finale; e, più precisamente, di causa finale delle cose da lui mosse. Al con-
tempo, come lo stesso Berti ha rilevato, nello spiegare questa attribuzione,
Tommaso si dimostra in certi aspetti alquanto originale2 . La sua lettura si
presta quindi a una disamina a parte.
In questo intervento mi concentrerò per lo più su tre passi del commento
di Tommaso al libro XII della Metafisica. Li leggerò tenendo presente alcuni
dei problemi sollevati da Enrico Berti circa il modo tradizionale di capire la
causalità finale del motore immobile; in particolare, il fatto che tale interpre-
tazione sembra quasi neutralizzare o mettere in ombra la causalità efficiente
del motore immobile, e che sembra introdurre certe nozioni – soprattutto
nozioni platoniche – che sarebbero inaccettabili nella prospettiva aristoteli-
ca. Vorrei sottolineare però che il mio scopo immediato qui è solo di capire
bene la mente di Tommaso. Sulla correttezza della sua lettura del testo ari-
stotelico dirò qualcosa, ma nulla di conclusivo.
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1 In questa sede non mi sembra necessario riassumere la posizione di Enrico Berti
sulla storia dell’interpretazione della causalità del motore immobile. Dei suoi molteplici
scritti su questo tema, ho potuto consultare E. Berti, Da chi è amato il motore immobile? Su
Aristotele, Metaph. XII.6-7, in «Méthexis» 10(1997), pp. 59-82; De qui est fin le moteur im-
mobile?, in M. Bastit - J. Follon (eds.), Essais sur la théologie d’Aristote, Peeters, Louvain-
la-Neuve 1998, pp. 5-28; Il movimento del cielo in Alessandro di Afrodisia, in A. Brancacci
(ed.), La filosofia in età imperiale, Bibliopolis, Napoli 2000, pp. 227-243; La causalità del
motore immobile secondo Aristotele, in «Gregorianum» 83/4(2002), pp. 637-654 (ora in
Nuovi studi aristotelici. II. Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, Brescia 2005, pp.
453-469); Prefazione a Nuovi studi aristotelici. II. Fisica, antropologia e metafisica, cit., pp.
7-12; Struttura e significato della Metafisica di Aristotele, EDUSC, Roma 2006, pp. 135-159;
Ancora sulla causalità del Motore immobile, in «Méthexis» 20(2007), pp. 7-28. C’è anche
The Unmoved Mover as Efficient Cause in Aristotle’s Metaph. XII, in T. Pentzopoulou-
Valalas (ed.), Aristotle on Metaphysics, Aristotle University, Thessaloniki 1999, pp. 73-81.
2 E. Berti, Il movimento del cielo in Alessandro di Afrodisia, cit., pp. 241-243.
1. Il motore immobile come causa efficiente del moto del primo cielo
vede qui un riferimento alle Idee platoniche. Le Idee non servono, suggeri-
sce l’Aquinate, perché non sono altro che universali separati7. Gli universa-
li, in quanto tali, non muovono. Ogni principio attivo o motore è singolare,
come Aristotele aveva spiegato prima8 . È chiaro che qui Tommaso sta pen-
sando a un motore che muove nel modo di una causa efficiente, perché, se-
condo lui, un universale può muovere come causa finale9. Si ribadisce quin-
di lo statuto di agente del motore immobile.
Ci sono anche altri luoghi nel commento a Metafisica XII 6, in cui risul-
ta chiaro che Tommaso considera il motore immobile una causa efficiente
del moto 10. Ma adesso passiamo al capitolo 7, la prima metà del quale costi-
tuisce l’oggetto della settima lectio del commento tommasiano. In questa
lectio l’Aquinate offre gli elementi centrali della sua comprensione della
causalità finale del motore immobile.
gibili. Solo queste cose, osserva Tommaso, muovono senza essere mosse. È
da notare però che Tommaso non dice che il primo motore muove solo come
desiderabile e intelligibile; egli, cioè, non nega che esso muova come agente
o causa efficiente 11. Sta soltanto dicendo che, se il primo motore non muo-
vesse come desiderabile e intelligibile, allora non muoverebbe senza essere
mosso. Questo non esclude che possa muovere anche come agente.
Poco dopo viene il primo brano del commento che vorrei affrontare in
modo più dettagliato:
«Si dice che il primo motore muove come desiderabile, perché il moto del cielo è a
cagione di esso come a cagione di un fine, causato da qualche motore prossimo che
muove a cagione del primo motore immobile, allo scopo di rendere se stesso simile
a lui nel causare, e di esplicitare in atto ciò che esiste virtualmente nel primo moto-
re. Infatti, il moto del cielo non è per la generazione e la corruzione delle cose infe-
riori come per un fine, dal momento che il fine è più nobile di ciò che è per il fine.
Così il primo motore muove come desiderabile»12.
Qui risulta chiaro che per Tommaso, ciò per cui il primo motore è de-
siderabile, e di cui è fine, è un’altra cosa. È quel «motore prossimo» del
cielo. Molto più avanti nel commento l’Aquinate affermerà che il primo
motore è anche fine di se stesso, ossia, che egli agisce e muove le cose in
vista di se stesso13. Ma qui la sua finalità è in rapporto ad altro – al motore
prossimo del cielo 14.
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11 Sul fatto che per Tommaso il motore immobile sia causa efficiente e finale, si veda
D. Twetten, Aquinas and the Prime Mover of Aristotle, cit., pp. 272-279.
12 «Dicitur autem primum movens movere sicut appetibile, quia motus caeli est
propter ipsum, sicut propter finem, causatus ab aliquo proximo movente quod movet propter
primum movens immobile, ut assimilet se ei in causando, et explicet in actum id quod est
virtute in primo movente. Non enim est motus caeli propter generationem et corruptionem
inferiorum sicut propter finem, cum finis sit nobilior eo quod est ad finem. Sic igitur primum
movens movet sicut appetibile» (In Meta. XII, lect. 7, par. 2521).
13 Cfr. infra, nota 71.
14 Che il primo motore sia desiderato da altro, non solo da se stesso, è uno dei punti
principali messi in discussione da E. Berti. A questo proposito è interessante un testo della
Summa theologiae, che echeggia notevolmente il discorso di Metafisica XII 7. La questione
è se Dio può muovere i corpi immediatamente. Una delle obiezioni lo nega, perché «Deus
est movens non motum. Tale autem est appetibile apprehensum. Movet igitur Deus sicut
desideratum et apprehensum. Sed non apprehenditur nisi ab intellectu, qui non est corpus,
nec virtus corporis. Ergo Deus non potest movere aliquod corpus immediate». Tommaso ri-
sponde, «movet Deus sicut desideratum et intellectum. Sed non oportet quod semper moveat
sicut desideratum et intellectum ab eo quod movetur; sed sicut desideratum et notum a
seipso; quia omnia operatur propter suam bonitatem» (Summa theologiae I, q. 105, a. 2, obj.
2 & ad 2). Ossia, non è strettamente necessario all’immobilità del motore immobile che la
cosa da lui mossa lo desideri e lo conosca; ciò che è necessario è che egli desideri e conosca
648 Il Dio di Aristotele
Che cos’è questo motore prossimo? Qui non lo dice, ma più avanti lo
spiega:
«Se il primo motore muove come il primo inteso e desiderato, è necessario che il
primo mobile lo desideri e lo intenda. E questo infatti è vero secondo l’opinione di
Aristotele, in quanto egli sostiene che il cielo sia animato da un’anima intelligente
e desiderante»15.
Il motore prossimo, quindi, sarebbe l’anima del cielo. In realtà, nel li-
bro XII non si parla mai di un’anima del cielo, distinta dal primo motore; ma
di fatto, come Berti ha documentato, anche altri interpreti ricorrono ad essa.
Ciò che vorrei cercare di capire è il modo in cui, per Tommaso, il riferimen-
to all’anima serve a spiegare la causalità finale del primo motore rispetto al
moto celeste.
A questo scopo, mi sembra illuminante il confronto tra questo brano
del commento alla Metafisica e un testo di un’altra opera di Tommaso, scrit-
ta alcuni anni prima del commento: le questioni disputate De potentia16.
Nella quinta quaestio, Tommaso si domanda se prima o poi il moto del cielo
terminerà. In questo testo ovviamente lo scopo non è di interpretare Aristo-
tele. Di fatto la risposta finale che offre Tommaso è prettamente teologica:
il moto celeste terminerà quando si raggiungerà il numero previsto delle
anime degli eletti17. Ma l’argomentazione presentata è intrisa di filosofia
aristotelica, e una parte di essa risulta molto attinente al brano che stiamo
esaminando, perché riguarda la questione del fine del moto celeste. Su detta
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se stesso, e che muova in vista di se stesso. Altrimenti egli sarebbe mosso, da qualche og-
getto desiderabile distinto da sé. Perché allora Tommaso giudica che la finalità o la desi-
derabilità del motore immobile affermata in Metafisica XII.7 sia rispetto ad altro, e non a se
stesso? Forse un motivo sarebbe che, fino a questo punto nel libro XII, non è stato ancora
mostrato che il motore immobile stesso sia intelligente e volente, così da poter essere oggetto
della propria conoscenza e del proprio desiderio. Inoltre, altrove Tommaso assegna uno
statuto speciale al moto celeste. Secondo lui questo moto deve avere un «motore prossimo»
che sia una sostanza intelligente diversa da Dio, e che muova il cielo in vista di lui; su questo
si veda infra, note 19 e 26.
15 «Hic philosophus comparat primum quod movet sicut intelligibile et desiderabile,
ad id quod intelligit et desiderat ipsum: necesse est enim, si primum movens movet sicut pri-
mum intellectum et desideratum, quod primum mobile desideret et intelligat ipsum. Et hoc
quidem verum est secundum opinionem Aristotelis, inquantum caelum ponitur animatum
anima intelligente et desiderante» (In Meta. XII , lect. 8, par. 2536). Sull’animazione del cielo
in Aristotele, si veda De caelo II 2, 285a29 e II 12, 292a20, 292b1.
16 Quaestiones disputatae De potentia, q. 5, a. 5, corp.
17 Il moto del cielo servirebbe per “disporre la materia” delle anime. Secondo Tom-
maso infatti l’anima umana comincia a esistere solo al termine del processo della genera-
zione umana; si veda Summa theologiae I, q. 76, a. 1, ad 1; q. 90, a. 4.
Brock – La causalità del motore immobile in Tommaso d’Aquino 649
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18 Si veda In De caelo I, lect. 3, par. 22 [4]. Sul fatto che il moto celeste sia in qualche
modo naturale, si veda In De caelo I, lect. 3, par. 6 [38].
19 Altrove comunque, in uno scritto datato tra il De potentia e il commento alla Meta-
fisica, Tommaso insiste che il motore immediato o prossimo del cielo non è Dio, bensì una
sostanza incorporea creata, il cui potere attivo è ristretto o determinato a questo tipo di moto.
Così, «substantia spiritualis quae movet caelum, habet virtutem naturalem determinatam ad
talis corporis motum. Et similiter corpus caeli habet naturalem aptitudinem ut tali motu mo-
veatur. Et per hoc motus caeli est naturalis, licet sit a substantia intelligente» (Quaestio di-
sputata de spiritualibus creaturis, a. 6, ad 7). In genere, secondo Tommaso, ad ogni potenza
naturale passiva, come quella del corpo celeste per il moto circolare, corrisponde una potenza
naturale attiva proporzionata. Egli afferma questo principio in molti luoghi, riferendosi una
volta a Fisica III 1 (sarebbe 201a10) e spesso al commento di Averroè al libro IX della Me-
tafisica. Si veda De potentia, q. 6, a. 1, obj. 18; Scriptum super libros Sententiarum III, d. 26,
q. 1, a. 2; IV, d. 43, a. 1, a. 1 qua. 3; Quaestiones disputatae De veritate, q. 18, a. 2; a. 5. Altri
testi dove il principio viene enunciato includono Scriptum super libros Sententiarum III, d. 2,
q. 1, a. 1, qua. 1; Summa contra gentiles II 60, par. 19 («Adhuc. In omni»); III 45, par. 6 («Hoc
etiam apparet»).
650 Il Dio di Aristotele
moto come di un influsso del primo motore nel corpo celeste30). L’anima
sta, per così dire, cooperando con il motore immobile31. In qualche modo
quindi, la causalità efficiente del primo motore rispetto al moto celeste resta
in evidenza. Ciò che dobbiamo ancora vedere è come si esercita. Anche
questo verrà chiarito nel terzo brano. Ma ora passiamo al secondo.
tele afferma che il semplice non è lo stesso dell’uno: «uno» significa una
misura, mentre «semplice» significa «come qualcosa si trova in sé». Tom-
maso opina che questo inciso serve a evitare di sembrar cadere nell’opi-
nione di Platone, che poneva lo stesso «Uno intelligibile» come il primo
principio delle cose33. È chiaro, credo, il riconoscimento da parte di Tom-
maso che, per Aristotele, il fatto che ogni ente sia uno non significa che la
stessa natura del primo principio si trovi in ogni ente. Infatti non si trova:
gli altri enti non hanno la semplicità del primo.
Poi vengono due frasi molto discusse, anche perché ci sono divergenze
tra i manoscritti. Ciò che Tommaso sembra aver letto dice così (lo lascio in
latino per non forzare il senso): «Quia autem est quod cuius gratia in im-
mobilibus, divisio ostendit. Est enim alicui quod cuius gratia, quorum hoc
quidem est, illud vero non est»34. L’interpretazione di queste frasi proposta
dall’Aquinate è piuttosto insolita; essa costituisce il secondo brano che vo-
levo prendere in esame.
«Siccome l’appetibile e il bene hanno carattere di fine, e non sembra che il fine
esiste nelle cose immobili, come si è discusso nelle obiezioni nel Terzo Libro, qui
elimina tale dubbio; e dice che questa divisione, per la quale si distinguono dei
modi in cui si dice “fine”, mostra che quod cuius gratia, cioè un fine, può essere in
un certo modo negli enti immobili. In due modi infatti qualcosa può essere fine di
altro. In un modo, come preesistente, come il centro dell’universo è il fine preesi-
stente del moto dei gravi; e nulla vieta che tale fine esista negli immobili. Qualcosa
invero può tendere con il suo moto a partecipare in qualche modo di qualcosa im-
mobile. E così il primo motore può essere fine. Nell’altro modo, qualcosa si dice
fine di un altro, come ciò che non è in atto, ma solo nell’intenzione dell’agente, per
la cui azione [il fine] viene generato; come la salute è il fine dell’opera della medi-
cina. E tale fine non è nelle cose immobili» 35.
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33 In Meta. XII, lect. 7, par. 2525.
34 Metafisica XII 7, 1072b1-3. Cfr. Aristoteles Latinus, Metaphysica Translatio Ano-
nyma sive Media, Brill, Leiden 1976, p. 213 e Id., Metaphysica Recensio et Translatio Guil-
lelmi de Moerbeka, Brill, Leiden 1995, p. 257.
35 «Sed quia appetibile et bonum habent rationem finis, finis autem non videtur esse
in rebus immobilibus, ut in obiectionibus tertii libri actum est, ideo hanc dubitationem remo-
vet; et dicit, quod haec divisio, qua distinguitur quot modis dicitur finis, ostendit, quod cuius
causa, idest finis, aliquo modo potest esse in immobilibus. Dupliciter autem potest esse ali-
quid finis alterius. Uno modo sicut praeexistens; sicut medium dicitur finis praeexistens
motus gravium, et huiusmodi finem nihil prohibet esse in immobilibus: potest enim aliquid
tendere per suum motum ad participandum aliqualiter aliquo immobili: et sic primum mo-
vens immobile potest esse finis. Alio modo dicitur aliquid esse finis alicuius, sicut quod non
est in actu, sed solum in intentione agentis, per cuius actionem generatur, sicut sanitas est
finis operationis medicinae; et huiusmodi finis non est in rebus immobilibus» (In Meta. XII,
lect. 7, par. 2528).
Brock – La causalità del motore immobile in Tommaso d’Aquino 655
si agisce solo in vista di ciò. Altrove infatti Tommaso rileva che questo non
è possibile. Quando si agisce in vista di una cosa preesistente, dice, si agisce
anche in vista del raggiungimento di essa. In sensi diversi, entrambi – la
cosa preesistente, e il raggiungimento – sono fine dell’azione40. Così, c’è il
centro dell’universo, verso il quale i gravi tendono; e c’è anche lo stare nel
centro, al quale essi tendono pure. Nel caso del moto celeste, c’è il motore
immobile, ma c’è anche la somiglianza a lui, realizzata dall’anima per
mezzo dell’azione di muovere il cielo41. E anche se la cosa preesistente
esiste per necessità, il raggiungimento della cosa può esistere o non esistere.
È pratico e contingente. Più avanti nel commento infatti Tommaso insisterà
che per Aristotele il moto del cielo non esiste con necessità assoluta. È con-
tingente. L’unica necessità che Aristotele attribuisce al moto, ritiene Tom-
maso, è la cosiddetta necessità per un fine. Senza la perpetuità del moto,
afferma, non può esserci l’ordine conveniente al fine42.
Penso che in generale l’idea di una cosa preesistente che funge da fine
di un’azione non sia molto problematica43. Un bersaglio per esempio è un
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40 Sarebbe la distinzione tra finis cuius e finis quo (intesa nel secondo modo spiegato
supra, nota 36) segnalata in Summa theologiae I-II , q. 1, a. 8 (qui la distinzione viene riferi-
ta a In Meta. V, ma ciò sembra una svista); si vedano anche q. 2, a. 7; q. 3, a. 1; q. 5, a. 2;
q. 11, a. 3, ad 3; q. 16, a. 3. Tra questi due sensi, quello principale è finis cuius, cioè la cosa
cercata; il raggiungimento della cosa è buono a causa della bontà della cosa stessa: si veda
I-II , q. 16, a. 3.
41 A differenza dello stare nel centro, che esiste solo al termine del moto dei gravi, la
somiglianza al primo motore nel causare è simultanea all’azione di muovere; perciò è com-
patibile con un moto perpetuo, ed è perpetua anch’essa. Tommaso allude alla sua perpetuità
nel glossare la riga in cui Aristotele afferma che il motore immobile muove «come amato»;
dice che è detto meglio “amato”, piuttosto che «desiderato», perché mentre il desiderio è di
ciò che ancora non si possiede, l’amore è anche di ciò che si possiede (ciò che si è già «rag-
giunto»): In Meta. XII , lect. 7, par. 2529.
42 «Cum ergo dicitur quod caelum ex necessitate movetur, non potest dici, quod huius-
modi sit necessitas violentiae, quia in rebus incorruptibilibus non est aliquid extra naturam;
quae autem sunt violenta sunt extra naturam. Similiter non potest esse necessitas absoluta,
quia primum mobile est movens seipsum, ut probatur in octavo Physicorum [si veda Fisica
VIII 5, 256a21 ss.]; quod autem seipsum movet in seipso habet moveri et non moveri [si veda
Fisica VIII 4, 255a7-11]. Relinquitur ergo, quod necessitas primi motus sit necessitas ex fine,
inquantum sine perpetuitate talis motus non convenit esse convenientem ordinem ad finem»
(In Meta. XII , lect. 7, par. 2533). Sta parlando di Metafisica XII 7, 1072b11-14. A me non ri-
sulta chiaro che queste righe si riferiscano al moto celeste, ma non posso entrare in questo
adesso. Forse però conviene notare che comunque ciò che Tommaso sta chiamando contin-
gente è solo il moto del corpo celeste, non il suo essere. Tommaso sempre insegna che l’es-
sere sostanziale dei corpi celesti è assolutamente necessario. Questo punto emerge anche qui
nel commento; il primo mobile, scrive Tommaso, può essere altrimenti secundum locum,
ma non secundum substantiam (par. 2530-31).
43 Nell’Etica Eudemea VIII 1249b13-20, si afferma addirittura che «il dio» è il fine in
Brock – La causalità del motore immobile in Tommaso d’Aquino 657
Il brano si trova alla fine della settima lectio. Siamo nel testo in cui
Aristotele scrive che «da un tale principio dipendono il cielo e la natura».
Tommaso sostiene che questo principio sia appunto il «primo motore come
fine (primum movens sicut finis)»48. Poi egli torna sul punto già enunciato,
sulla necessità del moto del cielo, traendone un’implicazione.
«Aristotele dice qui che la necessità del primo moto non è necessità assoluta, bensì
la necessità che è in funzione del fine. Orbene, il fine è il principio, che in seguito
egli chiamerà Dio, in quanto per il moto si verifica un’assimilazione a lui. Ma l’as-
similazione a un soggetto volente e intelligente, come egli mostra che è Dio, si ve-
rifica secondo la volontà e l’intelligenza; così come gli artefatti vengono resi simili
all’artefice in quanto in essi viene compiuta la volontà dell’artefice. Di conse-
guenza, tutta la necessità del primo moto è soggetta alla volontà di Dio»49.
Credo che qui si risolvano le questioni lasciate in sospeso nella disa-
mina dei primi due brani.
Iniziamo con la questione della somiglianza. Qui risulta assai chiaro
quale sarebbe quella «forma» secondo cui l’anima celeste assomiglia al
primo motore. Non è la forma che costituisce il primo motore stesso, la sua
natura semplice e immobile50. È come la forma di un artefatto, che non è la
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47 Un’altra obiezione ancora sarebbe che «assimilarsi» sembra riferirsi piuttosto alla
causa formale o esemplare, che a quella finale. Ciò è vero, ma qui si tratta anche di cercare
la somiglianza. Quindi almeno la somiglianza stessa funge da causa finale. E se questa viene
cercata perché in qualche modo costituisce un «raggiungimento» di ciò che funge da esem-
plare, allora anche l’esemplare ha uno statuto di causa finale (finis cuius).
48 Si veda D. Twetten, Aquinas and the Prime Mover of Aristotle, cit., p. 270.
49 «Attendendum est autem, quod cum Aristoteles hic dicat, quod necessitas primi
motus non est necessitas absoluta, sed necessitas, quae est ex fine, finis autem principium
est, quod postea nominat Deum, inquantum attenditur per motum assimilatio ad ipsum; as-
similatio autem ad id quod est volens, et intelligens, cuiusmodi ostendit esse Deum, attendi-
tur secundum voluntatem et intelligentiam, sicut artificiata assimilantur artifici, inquantum
in eis voluntas artificis adimpletur; sequitur quod tota necessitas primi motus subiaceat vo-
luntati Dei» (In Meta. XII, lect. 7, par. 2535; nella traduzione ho diviso questo brano in più
frasi, per semplificarlo).
50 Il secondo brano diceva: «Qualcosa invero può tendere con il suo moto a parteci-
pare in qualche modo di qualcosa immobile». E. Berti presenta questo come se si trattasse di
partecipare proprio dell’immobilità della cosa immobile: «Tommaso reintroduce l’interpre-
tazione tradizionale, dicendo che il fine può essere tra le realtà immobili preesistendo al
Brock – La causalità del motore immobile in Tommaso d’Aquino 659
natura dell’artefice, ma una forma nel suo intelletto, una forma che lui ha
pensato 51. Non è che l’anima diventi in qualche modo una in specie con il
primo motore.
Inoltre, l’esempio dell’artefice è solo un paragone. La forma di cui si
tratta qui non è, per così dire, una «forma di essere», come sarebbe la figura
di una statua. È una forma di agire. L’anima assomiglia al primo motore nel
causare. E non è nemmeno che l’anima agisca nello stesso modo del primo
motore. L’anima agisce nel modo in cui il primo motore vuole che agisca.
L’azione dell’anima non è della stessa specie di quella del primo motore.
D’altronde Tommaso ha già detto, nel primo brano, che ciò che fa l’anima
celeste non si trova «in atto» nel primo motore. L’anima agisce per «esplici-
tare in atto» ciò che si trova nel primo motore solo virtualmente. E adesso è
chiaro in che senso ciò che fa l’anima si trova virtualmente nel primo moto-
re. È un effetto che il primo motore ha pensato, e verso il quale, per un atto
di volontà, egli ha ordinato l’anima. In un’opera più o meno contemporanea
al commento alla Metafisica, Tommaso scrive che Aristotele pone un bene
separato imperatorem vel dominum di tutte le cose52. Quindi, se si vuole spe-
cificare l’azione del primo motore, penso che la si possa chiamare un impe-
rium, un comando. L’anima invece non comanda. Essa esegue il comando.
In questo modo mi sembra che si plachi almeno in parte il disagio che
può suscitare la parola «partecipare»53. Bisogna tenere presente che per
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movimento ed essendo oggetto di partecipazione da parte del cielo sotto l’aspetto della sua
immobilità (potest enim aliquid tendere per suum motum ad participandum aliqualiter ali-
quo immobili)» (Il movimento del cielo in Alessandro di Afrodisia, cit., p. 242; si veda an-
che E Berti, Da chi è amato il motore immobile?, cit., pp. 68-69). In quel brano però Tom-
maso sta solo spiegando che qualcosa immobile può fungere da fine. Questo significa che si
può partecipare di esso in qualche modo, cioè secondo qualche caratteristica; ma non esige
che la partecipazione sia precisamente secondo la sua immobilità, e non mi pare che Tom-
maso intenda che lo sia. Anzi, credo che il terzo brano voglia lasciar chiaro che non si tratta
di imitare la natura, cioè la sostanza semplice e immobile, del primo motore, ma solo qual-
cosa nel suo pensiero e nella sua volontà.
51 «Voluntas et natura secundum hoc differunt in causando, quia natura determinata
est ad unum; sed voluntas non est determinata ad unum. Cuius ratio est, quia effectus assi-
milatur formae agentis per quam agit. Manifestum est autem quod unius rei non est nisi una
forma naturalis, per quam res habet esse, unde quale ipsum est, tale facit. Sed forma per
quam voluntas agit, non est una tantum, sed sunt plures, secundum quod sunt plures rationes
intellectae, unde quod voluntate agitur, non est tale quale est agens, sed quale vult et
intelligit illud esse agens» (Summa theologiae I, q. 41, a. 2).
52 «Ponit enim unum bonum separatum omnibus providentem, sicut unum imperato-
rem vel dominum, sub quo sunt diversi rerum ordines» (De substantiis separatis, c. 3).
53 Si può notare che in un passaggio famoso del De caelo riguardante la distribuzione
dei movimenti nel mondo, Aristotele parla di ciò che «ha e partecipa (e[cei kai; metevcei)
dell’ottimo» (De caelo II 12, 292b10). Tommaso commenta: «Dicit autem “habet”, propter
660 Il Dio di Aristotele
ra 56. Della grazia quindi, si può dire che in qualche modo la stessa natura
divina è il fine, il «bersaglio». Ma la grazia è qualcosa di soprannaturale.
Mi pare evidente che nel commento alla Metafisica, sebbene Tommaso ri-
tenga che il motore immobile sia in qualche modo il fine dell’operazione
dell’anima celeste, non è precisamente secondo la sua natura che il motore
immobile costituisce il fine. Non è alla sua natura che l’anima assomiglia; è
alla sua volontà. E questo, non nel senso che l’anima fa esattamente ciò che
fa la volontà del primo motore, ma solo nel senso che fa ciò che il primo
motore vuole che faccia57.
Questo mi fa pensare a qualcosa espresso da Tommaso nella Summa
theologiae, riguardo all’obbligo (la «necessità per il fine») di conformarsi
alla volontà divina. Egli osserva che il bene che è proporzionato alla natura
e alla conoscenza di una creatura, il suo bene proprio, è solo un bene parti-
colare. Non è il bene universale e divino, al quale risponde adeguatamente
solo la volontà divina. Certo, pure l’uomo è tenuto a volere, a modo suo, il
bene universale. Ma secondo Tommaso, anche nel volere il proprio bene
particolare, la creatura si conforma alla volontà divina: volendo il proprio
bene, la creatura vuole ciò che Dio vuole che voglia58.
Parlo di questo perché, come giustamente insiste Enrico Berti, per Ari-
stotele ogni cosa ha il suo proprio bene e il suo fine intrinseco, che è diverso
dal bene primo e separato59. Il punto sarebbe che in Tommaso, c’è un senso
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56 Si veda Summa theologiae I -II, q. 110; anche I, q. 13, a. 9, ad 1. Anche nella visione
beatifica stessa, l’anima «ha» la natura divina solo come oggetto.
57 Ci si potrebbe chiedere se la somiglianza dell’anima celeste alla causalità del primo
motore che Tommaso ha in mente consista semplicemente nel fatto che l’anima stessa eserci-
ti una causalità intelligente e volontaria. In questo caso, si tratterebbe di una mera somiglian-
za di proporzionalità. A questo proposito c’è un testo della Summa theologiae. Obiezione:
«Videtur quod beatitudo consistat in operatione intellectus practici. Finis enim ultimus
cuiuslibet creaturae consistit in assimilatione ad Deum. Sed homo magis assimilatur Deo
per intellectum practicum, qui est causa rerum intellectarum, quam per intellectum specula-
tivum, cuius scientia accipitur a rebus». Risposta: «Ad primum ergo dicendum quod simili-
tudo praedicta intellectus practici ad Deum, est secundum proportionalitatem; quia scilicet
se habet ad suum cognitum, sicut Deus ad suum. Sed assimilatio intellectus speculativi ad
Deum, est secundum unionem vel informationem; quae est multo maior assimilatio. Et ta-
men dici potest quod, respectu principalis cogniti, quod est sua essentia, non habet Deus
practicam cognitionem, sed speculativam tantum» (Summa theologiae I-II , q. 3 a. 5, obj. 1 &
ad 1). A me sembra che Tommaso veda la causalità dell’anima celeste come «informata» da
quella del primo motore, in quanto «esplicita in atto ciò che esiste virtualmente nel primo
motore». In questo modo l’anima raggiungerebbe una certa «unione» con il primo motore –
unione non contemplativa ma operativa, una «cooperazione».
58 Summa theologiae I-II, q. 19, a. 10.
59 Si veda Etica Nicomachea I 4, 1096b31-34; E. Berti, Da chi è amato il motore im-
mobile?, cit., p. 19.
662 Il Dio di Aristotele
in cui l’agire per Dio, come per un fine, può essere tutt’uno con l’agire in
vista del proprio bene. Agire per Dio può non significare altro che compiere
la sua volontà; e questo può consistere precisamente nel tendere al proprio
bene – cioè, a un bene diverso da quello divino. E penso sia chiaro che nel
commento al libro XII si tratta di questo senso. Infatti il terzo brano indica
che secondo Tommaso, il bene che è inerente al primo motore – che ora egli
insiste nel chiamare Dio – trascende assolutamente ciò a cui tende l’anima
celeste nel produrre il moto. Mi riferisco all’ultima frase: «tutta la necessi-
tà del primo moto è soggetta alla volontà di Dio». Dio non ha bisogno del
moto. Ne ha bisogno solo ciò che cade sotto l’ordine liberamente istituito
dalla volontà divina60.
Un’ultima osservazione circa il terzo brano. In quell’articolo della
Summa, Tommaso precisa che questo tipo di conformità alla volontà di Dio
è secondo il carattere di causa efficiente che ha la volontà divina61. Questo
perché nella creatura, l’inclinazione al suo bene proprio viene da Dio,
come da una causa effettuante. Ho già proposto la parola «comando» per
designare l’azione efficiente del primo motore, così come Tommaso la pre-
senta nel commento al libro XII. Con questo credo si capisca come si possa
dire che il primo motore e l’anima celeste sono cause efficienti dello stesso
effetto, il moto celeste. Con un atto del suo intelletto e della sua volontà62 –
con un comando o qualcosa di simile – il primo motore ordina all’anima di
effettuare il moto, di metterlo in atto; e l’anima esegue l’ordine63. Si può
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60 In precedenza Tommaso ha avuto cura di qualificare l’ordine stesso come soltanto
“conveniente” al fine; si veda supra, nota 42. L’ordine è “per” il primo motore, e gli serve;
ma non gli è strettamente necessario, un “bisogno”. Su “soggetta alla volontà” come espres-
sione di libertà, si veda Summa theologiae I , q. 41, a. 2.
61 «Secundum autem quod non conformatur ei [scil. voluntati Dei] in volito materiali-
ter, conformatur ei secundum rationem causae efficientis, quia hanc propriam inclinationem
consequentem naturam, vel apprehensionem particularem huius rei, habet res a Deo sicut a
causa effectiva» (Summa theologiae I-II , q. 19, a. 10: Tommaso sta pensando a un caso in cui
la creatura voglia un bene particolare che in sé non è voluto da Dio e non si realizza, anche
se Dio vuole che la creatura lo voglia; si suppone anche che la creatura voglia questo bene
in ordine a Dio come fine ultimo ossia che, nella prospettiva della creatura, tale bene sembri
veramente conforme al bene comune). Berti quindi ha ragione nel dire che l’esempio dell’ar-
tigiano offerto nel nostro brano fa pensare più a una causa efficiente che non a una causa fi-
nale (E. Berti, Ancora sulla causalità del Motore immobile, cit., p. 243). Ma si tratta di un
caso speciale, nel quale ciò su cui agisce l’«artigiano» (il primo motore) è altresì un agente
volontario, l’anima celeste; e l’effetto indotto dal primo motore dipende anche dalla volontà
dell’anima, che lo accoglie per amore del primo motore e per conformarsi alla sua volontà.
62 Anche secondo E. Berti il motore immobile è dotato di volontà: si vedano Da chi è
amato il motore immobile?, cit., pp. 72 e 77-79, e Struttura e significato della Metafisica,
cit., pp. 151-154.
63 Anche in Alessandro (sempre come riportato da Averroè – si veda supra, nota 38)
Brock – La causalità del motore immobile in Tommaso d’Aquino 663
capire pure che il primo motore stia fungendo, proprio nel contempo, da
causa finale del moto celeste, in quanto l’anima effettua il moto allo scopo
di adeguarsi al suo comando e di eseguirlo. Così funziona il comando. Chi
comanda senz’altro dà una «spinta»; funge da causa efficiente, ciò da cui
ha origine un movimento. Ma il suo comando ha effetto per mezzo di uno
che lo conosce e lo vuole compiere. E se questi vuole compierlo proprio
per amore del comandante, non si può dire che il comandante funga altresì
da causa finale?
Tra le interpretazioni della causalità del motore immobile proposte nel
secolo scorso, probabilmente la più famosa è quella di W.D. Ross, secondo
cui il motore immobile sarebbe causa efficiente del moto celeste «in quanto
causa finale»64. Forse la lettura di Tommaso si potrebbe formulare quasi
quasi all’inverso: almeno in un certo senso, il motore immobile è causa finale
del moto in quanto causa efficiente. Non intendo dire che la sua causalità fi-
nale sia la sua causalità efficiente. Sono rapporti diversi. Il motore immo-
bile è causa efficiente in quanto la sua volontà o il suo comando dà origine
al moto del cielo. È causa finale in quanto l’anima del cielo agisce in vista
di lui nel produrre il moto. Ma sembra che sia proprio in qualità di coman-
dante che il primo motore immobile è ciò in vista di cui l’anima agisce65.
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72 Etica Eudemea VIII 3, 1249b13-16. Si veda E. Berti, Il movimento del cielo in Ales-
sandro di Afrodisia, cit., p. 233. Finora non ho trovato alcun riferimento a questo brano del-
l’Etica Eudemea negli scritti di Tommaso.