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si avesse a richiamare alla più severa osservanza l’editto di
Costantino.
I gladiatori adunque scomparvero di tal modo, quantunque le caccie
degli animali feroci durassero sino alla caduta dell’impero
d’occidente [176], e cessarono pure le persecuzioni contro i credenti
del Cristo. «Voi che vi lagnate — sclama Cesare Cantù — perchè i
simboli della passione del Cristo oggi sfigurino il Coliseo, ricordate
quanto sangue v’abbiano quelli risparmiato» [177].
A compir le notizie che riguardano i ludi del Circo e dell’Anfiteatro, mi
resta a dire delle sparsiones e missilia, che accompagnavano quasi
sempre gli spettacoli che offerivansi in essi, quando chi ne
sosteneva le spese erano il principe, o i maggiorenti della repubblica
o dell’impero.
Queste missilia e sparsiones erano doni che si facevano al popolo
da chi dava i giuochi. Distribuivansi a mezzo di tessere di legno,
sulle quali stavano scritte le cose cui davano diritto, lo che
recherebbe l’idea d’una gratuita lotteria, quando però non fossero gli
oggetti stessi, i quali allora si venivano con gran tafferuglio
disputando. I valori e la spesa per siffatti regali quali fossero,
possiam raccogliere da Svetonio, là dove tratta delle missilia e delle
sparsiones, distribuite da Nerone. «Nei giuochi, scriv’egli, per
l’eternità dell’impero che Nerone appellò massimi, persone dei due
ordini e dei due sessi sostennero parti divertenti. Un notissimo
cavalier romano sedendo su d’un elefante trascorse su d’una corda
distesa (cathadromum) in direzione obliqua. Si recitò una commedia
d’Afranio intitolata L’incendio e si abbandonò agli attori il saccheggio
d’una casa divorata dalle fiamme. Ogni giorno si facevano al popolo
tutte sorta di larghezze (sparsa et populo missilia), si largheggiavano
a lui buoni pagabili in grani, vestimenta, oro, argento, pietre
preziose, perle, quadri, schiavi, bestie da soma, animali
addomesticati, e finalmente si giunse per pazza liberalità a regalare
vascelli, e perfino isole e terre [178].»
E così fece dopo anche Tito, ammanendo ludi e feste per cento
giorni, nella dedica dell’Anfiteatro Flavio da lui compito; come prima
di essi, un semplice privato, Annio Milone, quello stesso che fu
difeso da Cicerone, sprecò tre patrimonj per gli stessi dispendj.
Probo, figlio di Alipio, pretore; Simmaco pretore del pari, per non dir
di tutti, profusero, al medesimo scopo di Claudio di blandire il popolo,
infiniti tesori.
Come visitando il Coliseo e gli anfiteatri di Verona e di Nola; così
pure vedendo quello di Pompei, il quale ne è il meglio conservato, e
che tutto ciò che ho in questa pagina brevemente passato in
rassegna rammenta, dinanzi a cosiffatte superbe costruzioni, non
puoi disgiungere dal sentimento d’ammirazione, quello della
compassione per le miriadi di vittime umane che dentro di essi
vennero sagrificate, e per la sciagurata condizione che è fatta dalla
fortuna agli uomini d’essere gli uni di ludibrio e spettacolo agli altri,
questi destinati a servire d’incudine, quelli a valer da martello.
CAPITOLO XV.
Le Terme.
Dietro di essi era una camera appartata, in cui forse stava, se pur
non era in quelle due camere laterali dei principali ingressi, nelle
quali altri supposero esistere latrine, il balneator, o direttore del
bagno, che riceveva il pagamento d’un quadrante o quarto di asse,
se eguale devesi ritenere la misura in Pompei a quella che si pagava
in Roma per accedere a’ bagni, giusta quel che ne disse Orazio nella
satira terza del libro primo: