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IL RISCHIO PAESE E LA SUA MISURAZIONE: UNA PROPOSTA DI INDICATORE

Enrico Ivaldi
Alessia Di Gennaro

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INDICE

Introduzione pag.1

1. Il concetto di Rischio Paese pag.2

1.1 Che cosa significa “Rischio Paese” pag.2


1.2 Quali sono le fonti di rischio? pag. 3
1.3 Differenziazione del rischio
sulla base della natura dell’investimento pag.7
1.4 Una prospettiva storica del Rischio Paese pag.8

2. Sovereign Rating: il ruolo delle agenzie di rating pag.10


2.1 Fitch Investor Service pag.13
2.2 Standard & Poor’s pag.14
2.3 Moody’s pag.14

3. Metodologie ed applicazioni: una rassegna pag.17


3.1 Approccio strutturale qualitativo allo studio del Rischio Paese
pag.18
3.2 Riflessioni sulle variabili qualitative pag.19
3.3 Approccio strutturale quantitativo allo studio del rischio Paese
pag.22
3.4 Dalle variabili quantitative agli indici pag.23
3.5 Modelli quantitativi pag.28
3.5.1 Analisi discriminante: modello Z Score pag.28
3.5.2 Multi Criteria Decision Making (MCDM) pag.29
3.5.3 Cluster Analysis pag.29
3.6 Modelli misti pag.31
3.6.1 The International Country Risk Methodology pag.31
1
3.7 La metodologia di valutazione in SACE pag.37

4. Un approccio operativo: Proposta di un Country Risk Index


per Europa e Paesi del Sud del Mediterraneo pag.47
4.1 Materiali e metodi pag.47
4.1.1 La scelta delle variabili attraverso l’Analisi Fattoriale
Esplorativa pag.47
4.1.2 Il Modello fattoriale pag.50
4.1.3 La validazione dell’indicatore proposto pag.50
4.1.4 La suddivisione in classi pag.51
4.2 Risultati pag.51
4.2.1 La scelta delle variabili attraverso l’Analisi Fattoriale
Esplorativa pag.51
4.2.2 Il modello fattoriale pag.55
4.2.3 La validazione dell’Indicatore pag.56
4.2.4 La suddivisione in classi pag.57

4.3 Discussione pag.60


4.3.1 Europa e CSI pag.60
4.3.2 Paesi del Sud del Mediterraneo pag.63
4.3.3 Analisi per singolo Paese pag.64

Conclusioni pag.89

Bibliografia pag. 90

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INTRODUZIONE

La crescente globalizzazione dei mercati finanziari e la delocalizzazione delle


attività produttive verso le economie emergenti hanno portato una profonda
trasformazione del contesto operativo internazionale, ponendo nuove sfide per
gli operatori di mercato (investitori, banche e assicuratori) in termini di
valutazione e gestione dei rischi connessi con le attività economiche. Di
conseguenza, anche l’analisi del Rischio Paese risente di queste
trasformazioni. Lo studio del Rischio Paese è una disciplina relativamente
giovane, che si è sviluppata a partire dagli anni ’70 e ha gradualmente
guadagnato l’attenzione di economisti e operatori finanziari, in seguito ai
profondi mutamenti dello scenario economico mondiale e alla crescente
integrazione dei mercati legata al processo di globalizzazione.
Questo lavoro vuole rappresentare una traccia ed un primo approccio allo
studio del tema del Rischio Paese. L’obiettivo è quello di delineare le linee
guida unite ad una raccolta bibliografica essenziale sull’argomento.
Il presente lavoro sviluppa l’analisi del Rischio Paese attraverso le seguenti fasi:
 Nel primo capitolo viene presa in esame la definizione di Rischio Paese
attraverso un’analisi del concetto assunto nel corso del tempo sia negli
studi accademici, sia dagli operatori specializzati in questo campo.
 Nel secondo capitolo si affronta come il Rischio Paese venga studiato
da operatori economici, istituzioni, istituti di ricerca, banche d’affari, e
delle principali Agenzie di Rating al fine di sviluppare il concetto di
Sovereign rating. Vengono inoltre analizzate le principali fonti di
informazione in campo internazionale e le metodologie utilizzate.
 Il terzo capitolo presenta una rassegna bibliografica dei modelli che
sono stati proposti nel corso del tempo.
 Nel quarto capitolo, attraverso un approccio operativo, viene proposta
dagli autori una nuova metodologia per il calcolo del Rischio Paese
(Factorial Country Risk Index FCRI), applicandola ai Paese dell’Europa
e ai Paesi del Sud del Mediterraneo.

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1. Il concetto di Rischio Paese

La letteratura sul tema del Rischio Paese è molto ampia ed abbraccia aree di
analisi talvolta molto differenti tra loro. Il denominatore comune di molti studi è
dato dall’obiettivo che il ricercatore si è posto nell’affrontare tale problematica
(Bernè et al. (2004)). Accademici ed operatori sono concordi su un punto
fondamentale: non c’è un generale consenso sull’area di indagine. La difficoltà
di ricercare una definizione univoca di “Rischio Paese” diviene ulteriormente
complicata dall’utilizzo di una varietà di termini. In letteratura quando si affronta
il tema del rischio di un investimento estero, i due termini più di frequente
utilizzati sono: “country risk” e “political risk”. Meno di frequente si trovano i
termini “cross-border risk o sovereign risk”.
Il più datato termine in uso è quello di “political risk” che appare in molti articoli
in campo accademico. Il termine “country risk” ha iniziato ad essere largamente
utilizzato a partire dagli anni settanta, soprattutto con una connotazione
professionale (in particolare nell’ambito bancario). La letteratura sul tema
comincia ad avere un forte sviluppo a seguito delle crisi debitorie internazionali
degli anni 1980. Gli analisti degli istituti di credito internazionali preferiscono
utilizzare il termine di “country risk” o “sovereign risk” in contrapposizione al
“political risk” (Bernè et al. (2004)). Parlare di “country risk” infatti significa
ricomprendere ogni tipologia di rischio di uno specifico Paese, mentre il
“political risk” è ristretto esclusivamente ai rischi di natura politica.

1.1 Che cosa significa “Rischio Paese”


Tra le varie definizioni di Rischio Paese la più esaustiva sembra essere fornita
da Meldrun:
“Per Rischio Paese s’intende l’insieme dei rischi che non si sostengono
se si effettuano delle transizioni nel mercato domestico ma che emergono nel
momento in cui si effettua un investimento in un Paese estero. Detti rischi sono
imputabili alle differenze di tipo politico, economico e sociali esistenti tra il
Paese originario dell’investitore ed il Paese in cui viene effettuato
l’investimento” (Meldrun 2000).

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Questa definizione presenta dei connotati molto ampi adattandosi alle diverse
modalità di investimento e ricomprendendo tutte quelle aree di rischio che si
manifestano nel momento in cui si effettua un investimento al di fuori dal proprio
Paese.
È bene sottolineare come tutti oggi siano concordi che non esistono Paesi privi
di rischio, in quanto anche Paesi economicamente più avanzati possono
evidenziare un proprio livello di rischiosità. Dopo l’11 settembre 2001 ci si è resi
conto che il quadro dei Paesi a rischio deve essere modificato, e che vi devono
essere inclusi Paesi un tempo considerati luogo d’investimento sicuro: oggi, dal
un punto di vista di Country risk manager, anche i Paese considerati
economicamente e socialmente più avanzati possono essere temporaneamente
bloccati da eventi paralizzanti. Tra i fattori locali di rischio per un singolo Stato,
ma anche per l’area geografica del Paese in cui si trova, si dovranno allora
includere ad esempio, oltre alla stabilità del regime di governo, allo sviluppo
economico, alla distribuzione del reddito, all’ammontare del debito estero,
all’apertura dei mercati finanziari ecc, anche i rischi di rivendicazione sociali
interne e quelli legati alla politica estera di una Nazione, che può impattare sul
rischio di attentati di natura politico - religiosa.

1.2 Quali fonti di rischio?


Un secondo punto di vista, considerato in letteratura, riguarda le differenti fonti
di rischio afferenti al processo di analisi del Rischio Paese. Per alcuni autori,
(Zenoff (1967), Feils and Sabac (2000)) il Rischio Paese si identifica
interamente con il rischio politico (Stevens 1997) in quanto esso trae origine da
discutibili politiche assunte dalle Istituzioni governative. Lo studio del Rischio
Paese nasce infatti come disciplina diretta a valutare e misurare il rischio
politico, tanto che per diversi anni i termini Rischio Paese e Rischio Politico
erano considerati come perfetti sostituti. Solamente a partire dagli studi di
Robock (Robock 1971), il concetto di Rischio Paese ha iniziato ad assumere un
suo significato proprio, ove il rischio politico rappresentasse una porzione,
sebbene significativa, di detto rischio. In questa seconda visione del Rischio
Paese aderiscono, oltre al sopraccitato Robock, anche studiosi come Root

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(Root 1972). La concezione più ampia di Rischio Paese è inoltre in linea con i
più recenti contributi teorici, anche alla luce degli ultimi eventi internazionali che
hanno messo in luce come anche fatti non attinenti alle decisioni politiche
possono compromettere il livello di rischio di un Paese (Bernè et al. (2004)).
Un esaustivo studio relativo all’analisi delle fonti che afferiscono al Rischio
Paese nell’analisi più globale è attribuibile a Meldrum, che suddivide i possibili
eventi rischiosi in sei differenti famiglie (Meldrum 2000):
􀂾 Rischi economici
􀂾 Rischi di trasferimento
􀂾 Rischio derivante dalla fluttuazione del tasso di cambio
􀂾 Rischio di localizzazione geografica
􀂾 Rischio derivante dal merito creditizio governativo
􀂾 Rischio politico

Rischio economico
La famiglia dei rischi economici può essere scomposta in due sottogruppi a
seconda che il rischio coinvolga l’intero Paese nella sua generalità (rischi
macroeconomici) ovvero influenzi esclusivamente l’investimento compiuto
(rischi microeconomici).
I rischi macroeconomici hanno origine da variazioni in sede di determinazione
della politica economica (aumento della pressione fiscale, tagli nella spesa
pubblica, allungamento dell’età pensionabile) o da eventi congiunturali (crescita
del tasso di inflazione o di disoccupazione, ecc.). Allo scopo di valutare gli effetti
di variazioni congiunturali sul Rischio Paese si è soliti analizzare il livello degli
investimenti statali (investimenti espressi in percentuale sul PIL), la politica
fiscale (aliquote fiscali applicate, modalità di tassazione) ed il livello di
indebitamento del Paese (deficit/PIL, debito pubblico/PIL e fonti di
finanziamento pubbliche). Oltre alla leva fiscale si deve tenere inoltre conto
della politica monetaria e della crescita economica, il grado di apertura agli
investimenti esteri e la regolamentazione vigente che può influire sullo sviluppo
economico (eventuali limitazioni alla proprietà privata, grado di
regolamentazione delle attività private e dimensione del mercato nero). I rischi

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microeconomici sono rappresentati da tutti quegli eventi che non emergono a
livello nazionale ma che colpiscono la singola impresa o il singolo investimento.

Rischio di trasferimento
Trattasi del rischio che il Governo del Paese in cui si vuole effettuare un
investimento estero decida di approvare una legge che sancisca la restrizione
dei movimenti di capitale. La restrizione dei capitali può comportare delle
grosse difficoltà nel ripartire i profitti, nella forma di dividendi o di interessi,
maturati sul capitale investito in un Paese estero. Inoltre, poiché il Governo può
modificare la legge sulla restrizione dei capitali in qualsiasi momento, detto
rischio è associabile a qualsiasi tipo di investimento. Il livello di rischio di
trasferimento viene di norma misurato in base alla possibilità di convertire la
propria valuta nella valuta del Paese in analisi: tanto più è difficile convertire la
valuta, tanto più è probabile che sussistano alcune forme di restrizione alla
libera circolazione dei capitali.

Rischio derivante dalla fluttuazione del tasso di cambio


Il rischio di fluttuazione del tasso di cambio misura la probabilità che si manifesti
una variazione sul tasso di cambio sfavorevole all’investitore. Detta tipologia di
rischio può rappresentare due differenti eventi: una variazione inattesa
sfavorevole del tasso di cambio in un Paese in cui è presente il regime di tassi
di cambio variabili ed il passaggio dal regime di cambi fissi (in cui il rapporto di
cambio è fissato per legge e non è pertanto soggetto a variazioni) ad un regime
di cambi variabili. La fluttuazione del tasso di cambio deve essere misurata
tenendo conto dell’orizzonte temporale dell’investimento: nel breve e brevissimo
periodo (intraday) i tassi di cambio sono soggetti a continue variazioni per
effetto delle operazioni condotte dai currency traders, mentre nel medio – lungo
periodo il trend del rapporto di cambio è guidato dai fondamentali del Paese.
Tale rischio può essere in molti casi neutralizzato attivando delle apposite
operazioni di hedging che permettono di definire il prezzo a termine della valuta
e di conseguenza anche l’eventuale perdita o utile su cambi maturata come
differenza tra il prezzo a termine della valuta ed il tasso di cambio della valuta

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alla data della costituzione dell’investimento, al netto degli oneri sostenuti per la
stipulazione dell’operazione di hedging.

Rischio di localizzazione geografica


Il rischio di localizzazione geografica considera la particolare ubicazione del
Paese. Un Paese che non presenta particolari sintomi di rischiosità interna può
evidenziare dei caratteri di pericolosità se analizzato alla luce della sua
particolare posizione geografica. E’ il caso di quei Paesi che sono confinanti
con aree a rischio e che pertanto risentono dell’instabilità dell’area di
appartenenza. Il rischio può derivare da tensione più o meno latenti con i Paesi
confinanti. Il livello di rischio di localizzazione geografica è inoltre influenzato
dall’appartenenza o meno del Paese ad un’istituzione sopranazionale, come
l’Organizzazione delle Nazioni Unite o l’Unione Europea. L’appartenenza ad
una particolare istituzione impone solitamente il perseguimento di alcuni fini
comuni e la salvaguardia di alcuni diritti inviolabili, mitigando in tal modo il livello
di rischio complessivo. Nel caso di istituzioni sopranazionali con preminenti fini
economici, l’appartenenza del Paese è vincolata al rispetto di alcuni parametri
di bilancio, che ne garantiscono la maggiore stabilità economica (si pensi al
caso dei Paesi dell’Unione Europea aderenti all’area euro che debbono
sottostare ai parametri di Maastricht che impongono un rigido controllo della
spesa pubblica allo scopo di preservare un sostanziale equilibrio tra le
economie dei diversi Paesi).

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Rischio di merito creditizio
Un ulteriore fonte che caratterizza il Rischio Paese è quella relativa al grado di
solvibilità dello Stato sovrano. Tale tipologia di rischio è particolarmente
percepita dagli investitori istituzionali che investono nelle emissioni
obbligazionarie governative. Sono sorte negli anni numerose agenzie che si
propongono di definire il livello di rischio dello Stato sovrano attraverso
l’emissione del cosiddetto “Sovereign Rating”. Al giudizio di rating assegnato
dall’Agenzia indipendente è associato un determinato livello di probabilità di
default. Tanto maggiore è la probabilità di default associata all’emissione
governativa, tanto più elevato sarà lo spread applicato al tasso di interesse.

Rischio politico
La categoria del rischio politico riguarda tutte quelle decisioni assunte dal
legislatore che possono compromettere il buon esito dell’investimento. Nella
classe del rischio politico rientra anche il rischio bellico.

1.3 Differenziazione del rischio sulla base della natura dell’investimento


Dalla descrizione sopra riportata, emergono una vastità di fonti di rischio da
considerare. L’impostazione più coerente che sembra più utile per partire nello
studio del Rischio Paese è l’indagine della natura e tipologia dell’investimento.
Secondo Meldrum gli investimenti esteri possono essere suddivisi in quattro
categorie (Meldrum 2000):
a) investimenti stranieri diretti;
b) finanziamenti a privati a breve termine;
c) finanziamenti allo Stato a breve termine;
d) finanziamenti allo Stato a medio - lungo termine.
Il contributo apportato da Meldrum è stato quello di indicare la sensibilità per
ciascuna modalità di investimento alle diverse fonti di rischio descritte in
precedenza.
A tale proposito si consideri quanto riportato in Tabella 1:

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Tabella 1: Fonti di rischio per natura di investimento
Fonte di rischio Investimento Finanziamento Finanziamento Finanziamento
diretto ad imprese a BT allo Stato a BT allo Stato a MLT
Economico Elevato Basso Basso Basso
Trasferimento Moderato Elevato Elevato Moderato
Tasso di cambio Elevato Variabile Variabile Elevato
Locazione Elevato Moderato Basso Moderato
Merito creditizio Basso Basso Elevato Elevato
Politico Elevato Basso Moderato Elevato

Fonte: DH Meldrum; "Country Risk and Foreign Direct Investment", 2000

Gli investimenti caratterizzati da orizzonti temporali più lunghi presentano


un’elevata sensibilità ad un maggior numero di fonti di rischio in quanto al
protrarsi dell’investimento aumenta la probabilità che si verifichi uno degli eventi
di rischio sopraccitati.

1.4 Il contesto storico


Il tema del Rischio Paese può essere analizzato da una prospettiva storica.
Negli ultimi quaranta anni, gli studi sul Rischio Paese hanno avuto quale base
di partenza le crisi che si sono manifestate in campo internazionale (Bernè et al.
(2004)):
a) gli anni 1960 e 1970 sono stati dominati dagli studi sulle società
multinazionali e la loro esposizione al rischio politico
b) gli anni 1980 sono stati caratterizzati dalle crisi debitorie (debt crisis) dei c.d.
Paesi emergenti: in questa fase gran parte della letteratura (Bekaert et al.
(1998, Estrada 2000)) affronta il tema della valutazione della solvibilità (rischio
di default) del Paese
c) successivamente in seguito alla crisi del Messico del 1994, dei Paesi asiatici
nel 1997 fino ad arrivare ai primi anni del 2000 alla crisi che ha toccato
Argentina, ha avvio una terza fase denominata “fase delle crisi finanziarie”
(financial crises). Le crisi finanziarie di tipo tradizionale sono caratterizzate dal
default sul debito estero da parte dello stato sovrano. I soggetti coinvolti sono
generalmente pubblici: da un lato il Paese debitore insolvente, dall’altro i
cosiddetti creditori ufficiali, i governi dei Paese industrializzati e le Istituzioni

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Finanziarie Internazionali (IFI) (Balducci and Chiampo (2007)). Un esempio può
essere rappresentato dalle crisi debitorie dei Paesi latinoamericani degli anni
’80 e dei Paesi africani. La previsione di questo tipo di crisi si basa sulla ricerca
di squilibri macroeconomici, che sono evidenziati da indicatori familiari agli
economisti quali il disavanzo delle partite correnti, il livello del debito estero e
delle riserve, l’entità del servizio del debito. In questo contesto giocano un ruolo
determinante le IFI, che svolgono un’importante azione mediante l’erogazione
di finanziamenti finalizzati alla stabilizzazione macroeconomica. Nelle crisi
finanziarie di “nuova generazione” l’elemento principale non è legato
all’insolvenza, ma alla mancanza di liquidità e a squilibri (di durate o di valute)
tra attività e passività. In quest’ottica le variabili tradizionali hanno un ruolo
minore, ma risulta più efficace il cosiddetto “balance sheet approach”, che si
basa sull’analisi delle variabili che compongono lo stato patrimoniale dei diversi
attori dell’economia di un Paese: il settore pubblico, il sistema bancario e il
settore privato (aziende e famiglie) (Allen et. al (2002)). Anche in presenza di
indicatori macroeconomici relativamente solidi, il rialzo dei tassi di interesse può
mettere a rischio la capacità del Paese di far fronte alle proprie obbligazioni in
caso di disallineamento tra indebitamento a breve e risorse correnti. Allo stesso
modo, un elevato indebitamento in valuta estera esporrà il Paese a un rischio di
insolvenza in caso di svalutazione del tasso di cambio.

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2. Sovereign Rating: il ruolo delle agenzie di rating

Nel descrivere la terminologia in uso si è parlato di Country Risk e di Sovereign


rating.
In questo paragrafo si vuole cercare di fare chiarezza riguardo al ruolo che le
Agenzie di Rating assumono nella valutazione del Rischio Paese. Risulta molto
difficile marcare una linea netta tra il concetto di “Country Risk” ed il c.d.
“Sovereign rating”. (Roy A. and Roy P.G., 1994)
I due concetti sono difficilmente separabili e anzi la loro parentela è strettissima,
tanto che l’espressione “Rischio Paese” li può coprire entrambi; tuttavia, si
osservi come esistano nel mondo società specializzate nel dare informazioni su
tutte le possibili fonti di rischio, mentre altre si focalizzano sulla capacità del
Paese di far fronte al suo debito. Notizie utili possono giungere, infine, da
istituzioni sovranazionali.

 Global Coutry Risk Ranking : Le società appartenenti a questo


gruppo si occupano di fornire una graduatoria fra i Paesi, basata sulla
rischiosità complessiva derivante dall’operarvi:
‐ BERI (Busness Environment Risk Intelligence): costruisce un indice relativo a
una cinquantina di Paesi risultante dalla valutazione del rischio politico, del
rischio commerciale e dalla “correttezza” del tasso di cambio;
‐ CRG (Control Risk Group): analizza mensilmente oltre 140 Paesi dal punto di
vista del rischio politico, economico e finanziario;
‐ NSE (Nord Sud Export): è un istituto francese che pubblica informazioni su
base bimestrale riguardo a 100 Paesi sviluppati. Una volta all’anno consegna
un report sul Rischio Paese composto da un rating sulla sua capacità di onorare
il debito abbinato a considerazioni sulle sue opportunità di sviluppo valutate alla
luce tanto del rischio finanziario quanto dell’apertura agli investimenti esteri;
‐ PRS (Political Risk Service): specializzato nelle valutazioni relative al rischio
politico;
‐ EIU (The Economist Intellice Unit): compila una scheda Paese basata su 77
indicatori ottenuti a partire da variabili sia qualitative che quantitative

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appartenenti a 4 macroclassi, a ciascuna delle quali viene assegnato un peso
usato per determinare un indice sintetico unico il cui punteggio massimo
(massimo rischio) è 100. In base al punteggio ottenuto, il Paese in questione
sarà inserito in una classe contraddistinta da una lettera, da A ad E, che indica
un rischio via via crescente.
- Agenzie di credito all’esportazione: queste agenzie, pubbliche o a
partecipazione statale, si incaricano di favorire gli scambi internazionali. Per
l’Italia l’istituzione di riferimento è SAC che aderisce a un accordo stipulato in
ambito OCSE basato su uno schema comune di classificazione, approfondito
nella sezione relativa all’attività delle istituzioni sovranazionali.

 Istituzioni sovranazionali: All’operato di queste istituzioni che


potremmo definire “specializzate” si affiancano le valutazioni espresse
da una moltitudine di organismi sovranazionali:
- UNDP (United Nations Development Programme): produce periodicamente
un rapporto sullo sviluppo umano relative a 189 Paesi appartenenti
all’ONU, analizzandoli sotto tre punti di vista: area geografica di
appartenenza, reddito pro capite e tasso di sviluppo umano. L’analisi
produce cinque indicatori: l’indice di sviluppo umano, il tasso di povertà
umana 1 (Paese in via di sviluppo), il tasso di povertà umana 2 (Paese
OCSE), l’Indice di sviluppo di genere e l’Indice di Empowerment di Genere
(questi ultimi due sono relativi alle pari opportunità uomo‐donna);
- BANCA MONDIALE: monitora 208 Paesi con oltre 30000 abitanti secondo
la bellezza di 575 indici suddivisi in 5 macroclassi: popolazione, ambiente,
economia, mercati interni e collegamenti con l’estero. Le economie
vengono classificate secondo due criteri: il reddito nazionale lordo pro
capite e il grado di indebitamento;
- UNCTAD (United Nations Conference on Trade And Development): si pone
come obiettivo l’evoluzione e l’integrazione nell’economia mondiale dei
Paesi in via di sviluppo. La sua analisi coinvolge 195 Paesi, suddivisi in
sviluppati (USA, Gran Bretagna, Unione Europea) ed emergenti
(sostanzialmente tutti gli altri). Gli indicatori utilizzati nella valutazione di

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ciascun Paese appartengono a sette macroclassi: volume del commercio
internazionale, prezzi delle commodities scambiate, struttura del
commercio internazionale per regione geografica, struttura del commercio
internazionale per prodotto, scambio internazionale di servizi, finanza
internazionale, indicatori di sviluppo (buona parte dei quali legati al PIL);
- ICRG (International Country Risk Guide): indaga sulle condizioni di rischio
in 140 Paesi del mondo usando una ventina di macroclassi di indicatori. Le
sue valutazioni si basano su un punteggio assegnato a ogni indicatore,
ciascuno dei quali si vede a sua volta attribuito un “peso” che esprime la
sua importanza relativa secondo gli analisti di ICRG.
- FMI (Fondo Monetario Internazionale): è l’organismo preposto alla
vigilanza sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sugli
scambi che hanno luogo fra i Paesi membri. A tal fine monitora le politiche
economiche seguite dagli stati, così come i loro sistemi bancari, le
concessioni di prestiti, l’andamento delle borse, la redditività e la tipologia
degli investimenti. Particolare attenzione è riservata a ciò che accade nei
mercati dei Paesi in via di sviluppo.
- OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico):
l’OCSE conta trenta Stati membri (quelle che definiremmo “economie
mature”) e ha rapporti con altri settanta. Nell’effettuare le sue valutazioni
non opera solo Paese per Paese, ma li raggruppa anche in cinque
macrozone (totale OCSE, G7, Europa OCSE, UE, area Euro) e li analizza
secondo una serie di indicatori strutturali - popolazione, disponibilità di
case, PIL, investimenti, disoccupazione, ecc.

 Agenzie di rating: Nel descrivere infatti le metodologie e gli indicatori


utilizzati dalle Agenzie di Rating confrontati con i metodi e gli indici in
uso dalle Società specializzate che si occupano di Rischio Paese, si
comprende come molti siano gli elementi comuni. Fra i principali e
maggiormente diffusi metodi di valutazione del Rischio Paese vi è
l’analisi macroeconomica degli indicatori di benessere, crescita,
sviluppo, debitori, di liquidità e di insolvenza. L’analisi di questi

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indicatori e la loro combinazione in un modello quali - quantitativo
insieme a variabili politiche conducono, tipicamente, alla formulazione
di un rating Paese sulla falsa riga di quelli formulati dalle principali
società che assegnano alle emissioni sovrane dei Paesi un indicatore
del merito creditizio. Le agenzie di rating si occupano proprio di fornire
agli investitori internazionali, alle banche commerciali e ai mutuatari sul
mercato internazionale dei capitali, indicazioni sulla solvibilità di un
Paese attraverso il sovereign rating, un giudizio sintetico sulla capacità
e sulla volontà dell’emittente (in questo caso lo Stato) di rimborsare le
sue obbligazioni. Le tre più importanti agenzie di rating riconosciute a
livello mondiale sono Moody’s Investor Service, Fitch Investor Service e
Standard&Poor’s. Queste ultime si occupano del Sovereign Credit
Rating, ovvero della valutazione della capacità e della volontà di un
Governo di ripagare i propri debiti in accordo con i termini in scadenza.

2.1 Fitch Investor Service


Fitch Investor Service, agenzia americana nata nel 1922, copre circa ottanta
Sovereign rating, con l’obiettivo di valutare la capacità e la volontà di ciascun
Paese di ripagare i propri debiti. Durante il processo di attribuzione del rating,
Fitch si concentra prima sulla posizione assunta dal debito estero: l’esatto
ammontare, la sua natura e come può essere rimborsato. Una volta che uno
Stato emittente di titoli richiede la valutazione di Fitch, questi invia un
questionario, largamente standardizzato ma con alcune parti appositamente
create per comprendere le peculiarità di ciascun Paese, col quale vengono
richieste informazioni sull’indebitamento e sulla visione che l’emittente ha della
sua capacità di rimborsare il debito. Le risposte al questionario costituiscono le
basi per una successiva intervista che verrà effettuata da due country analist in
un paio di settimane. Durante questo periodo vengono analizzati tutti gi
indicatori contenuti in una checklist. Tali indici vengono forniti non solo dal
Paese, ma sono anche recuperati attraverso un’indagine presso gli organismi
internazionali (FMI, FAO, UNICEF) e si riferiscono almeno ad una serie storica
di cinque anni e a due di previsione, di cui uno è solitamente l’anno in cui

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l’analisi si sta svolgendo. informazioni fornite agli analisti di Fitch, riguardano
principalmente tre grosse aree di analisi: dati di natura macroeconomica sulla
popolazione, sul lavoro, e sul commercio, per descrivere in maniera generale il
Paese; dati sul settore bancario e su quello
finanziario per comprendere l’ammontare delle risorse monetarie e la loro
gestione; infine, dati di politica per valutare la stabilità del Governo e
l’attendibilità del suo operato.

2.2 Standard & Poor’s


Questa agenzia di rating, anch’essa americana e nata negli anni Venti, copre
circa novanta Sovereign rating, da essa indicati come la “valutazione della
capacità di ogni Governo e la sua compiacenza al rimborso del debito
pienamente e in tempo” (Standard&Poor’s 2002). L’approccio di S&P al rating è
sia di tipo quantitativo che di tipo qualitativo, sia di breve termine (un anno) che
di lungo termine (ottenuto stressando lo scenario operativo su un orizzonte
temporale di cinque anni), ed è basato sull’analisi di una lista di dieci indicatori:
il rischio politico, la struttura economica e quella del reddito, le prospettive di
crescita dell’economia, la flessibilità fiscale, il carico del debito pubblico, le
passività contingenti e quelle fuori dal budget, la stabilità monetaria, la liquidità
esterna, il carico del debito estero del settore pubblico e di quello privato. Ogni
gruppo di indici è graduato da uno a sei, ma non esiste un sistema
predeterminato di pesi. Gli attuali indicatori economici e finanziari, analizzati da
soli, non determinano la classificazione. Occorre disporre, tra l’altro, di una
nutrita serie storica di dati. Per questo S&P raccoglie le informazioni per un
periodo considerato ragionevole, pari a circa 3 -5 anni.

2.3 Moody’s
Moody’s Investor Service è la prima agenzia di rating ad essere stata fondata
negli Usa nel 1909 ed è considerata la leader del settore. Secondo la sua
esperienza, nello spiegare le crisi ci si scontra con uno o più dei seguenti
aspetti: mancanza di disciplina fiscale, insufficiente disciplina monetaria,
sopravvalutazioni della moneta, bolle immobiliari, inadeguatezza del sistema

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legale, corruzione del governo e del sistema legale, eccessive intromissioni del
governo nel settore privato, mercato dei capitali sottosviluppato e
deregolamentato, legami troppo stretti tra banche e settore industriale privato,
fragilità del sistema finanziario, Problemi di azzardo morale, inadeguata
disciplina del mercato, assenza di una cultura del credito, inadeguatezza della
trasparenza finanziaria. L’approccio al rating scelto da Moody’s prevede
l’esplicita differenziazione tra rating sul debito in valuta nazionale e quello in
valuta estera. La valutazione del primo si concentra sulla capacità del Governo
di ripagare le obbligazioni in valuta nazionale, e conseguentemente non è
legato a eventuali restrizioni nella politica dei cambi. La valutazione del debito in
moneta estera ha a che vedere, invece, con un altro Paese, e pertanto vengono
valutati anche altri fattori tra cui l’interazione sociale, la dinamica politica e
sociale, come anche tutte le basi economiche, andando in particolare a definire
il debito estero, confrontando l’indebitamento dei diversi Paesi, e investigando
sulla natura del debito a breve termine.
Nella valutazione Sovereign rating, Moody’s sottolinea come il processo non
possa essere guidato prevalentemente da indici e statistiche, perché questi
sono fondati su esperienze passate, che non possono predire il futuro ma che
danno una spiegazione sul passato. Ecco che diventa estremamente
importante il ruolo del comitato di valutazione, e soprattutto la qualità delle
persone che vi lavorano, che devono interpretare i dati economici, finanziari e
politici in modo appropriato e il più oggettivamente possibile.
L’approccio analitico per la valutazione di un Paese prende in considerazione
cinque famiglie di indicatori: il quadro istituzionale, i principali indicatori
economici, le prestazioni relative al bilancio dello stato, il profilo del debito, la
struttura del governo e l’andamento della politica.
Il gruppo di valutazione si occupa prima di tutto del quadro istituzionale per
capire come questo operi e intervenga ad eventuale sostegno delle imprese in
crisi; tali interventi dipendono dalla costituzione vigente, dalla fazione politica,
dal sistema fiscale.
Gli indicatori economici sono di primaria importanza e costituiscono anche un
efficace supporto per conoscere la performance del Governo in tema di fisco, la

15
sua capacità a generare profitti e, in ultimo, la sua capacità di rimborso del
debito. La valutazione viene fornita cercando di stressare le condizioni
economiche negative che si verificano nei periodi di recessione economica,
secondo un approccio valutativo “through the cycle” (Bernè et altri (2004)).
Per quanto riguarda la finanza pubblica, il primo obiettivo di Moody’s è quello di
valutare la struttura dei finanziamenti ottenuti dal Governo, il suo potere di
tassazione, la capacità di creare dei budget affidabili, l’accentramento o il
decentramento a livello di istituzioni. Una volta analizzata la struttura del
sistema finanziario, si deve valutare la sua performance, cioè la capacità di
coprire i costi operativi dello stato incluso il rimborso dei debiti, e una previsione
dei finanziamenti.
Moody’s, come le altre agenzie di rating, prende in considerazione una serie di
indicatori che vengono richiesti direttamente ai Governi, o che vengono raccolti
presso i principali organismi internazionali, come la Banca Mondiale, gli istituti
nazionali di statistica e che vengono poi autonomamente rielaborati dagli
analisti.

Dall’analisi sulle principali Agenzie di rating è emerso che gli indicatori


utilizzati per l’attribuzione del rating ad un Paese possono essere riassunti in
due categorie principali: quelli che analizzano aspetti politici e sociali, e quelli
che valutano l’aspetto economico (Bernè et al. (2004)). Il primo gruppo si
suddivide in indici per individuare i rischi interni (efficacia della politica,
corruzione, instabilità politica, tensioni interne o conflitti) e in quelli volti
all’individuazione dei rischi esterni (conflitti esterni e influenza da Paesi esteri).
Per quanto riguarda l’aspetto economico, questo viene analizzato attraverso la
focalizzazione su due macro categorie di indicatori di rischio: quella riguardante
l’economia domestica (livello di sviluppo economico, reddito procapite, crescita
del PIL, investimenti/PIL, inflazione, politica monetaria e fiscale, solidità del
sistema bancario), e quella dell’equilibrio esterno, a sua volta scomponibile in
indici riguardanti il debito (composizione, storia dei default, debito per servizi..)
e indici concernenti la bilancia dei pagamenti (commercio, tasso di crescita
delle esportazioni, accesso al mercato dei capitali…).

16
3. Metodologie ed applicazioni: una rassegna
Dalla descrizione finora fornita si è compreso come la valutazione del Rischio
Paese risulta di per sé molto complessa: è necessario pertanto unire un
insieme molto esteso di informazioni, dati quantitativi ed indicatori, in cui il
giudizio “soggettivo” ha una rilevanza non trascurabile.
Nel delineare una definizione appropriata di Rischio Paese, si è già compreso
come non vi possa essere una definizione univoca e come lo studio riguardi
l’analisi dell’intero sistema di un Paese, da tutti i punti di vista (non solo
economici).
Molte società specializzate, organismi e operatori in campo internazionale si
occupano di Rischio Paese (dalle agenzie di rating, alle banche, ad istituti di
ricerca, ad istituzioni pubbliche o apposite società).
Ma quali sono le metodologie utilizzate nel campo professionale e quali i
contributi e gli studi a livello accademico?
In parallelo agli studi sulle crisi dei Paesi nei diversi periodi storici, diverse sono
le metodologie applicate (Levy and Yoon 1996, Carment 2001, Hammer et al.
(2004), Howell and Chaddick 1994; Zopounidis 2002, Sato 1997): in particolare
si distingue tra l’approccio c.d. qualitativo rispetto ai metodi c.d. quantitativi.
Mentre la letteratura negli anni 1960 e 1970 era prevalentemente basata su
studi di tipo qualitativo con l’obiettivo di analizzare il rischio politico, a partire
dagli anni 1980 l’orientamento è divenuto più quantitativo con l’intento di
prevedere situazioni di default o di crisi finanziarie dei Paesi.
Da una prima analisi delle metodologie utilizzate attualmente in campo
professionale emerge l’utilizzo di una combinazione tra fattori quantitativi e
fattori di giudizio elaborati da esperti (Bernè et al. (2004)).
Tra i metodi quantitativi prevalgono inoltre metodologie lineari ponderate
(somma dello score attribuito legato al livello raggiunto dall’indice per il peso
assegnato).
Qui di seguito si propongono alcune alternative (metodi numerici) che possono
risultare valide sia nel caso della valutazione di informazioni già quantificate, sia
nel caso di analisi di attributi qualitativi.

17
3.1 Approccio strutturale qualitativo allo studio del Rischio Paese
A prima vista, è abbastanza naturale e comprensibile che un analista speri di
poter ricorrere il più possibile ad indicatori costruiti a partire da variabili
quantitative; tuttavia, in alcuni casi dovrà adeguarsi a ripiegare su valutazioni
qualitative, come nel caso di giudizi riguardanti la stabilità politica, l’efficienza
amministrativa e le condizioni sociali generali. Di fatto, i dati qualitativi e
descrittivi, e le relazioni che vengono compilate a partire dagli stessi, sono
indispensabili, anche se innegabilmente risentono di un certo grado di
soggettività che ne rende consigliabile la manipolazione solo da parte di analisti
esperti. Come ogni strumento, hanno pregi e difetti.

Fra i pregi sono da ricordare:


• Indipendenza dai paragoni: queste variabili sono slegate da confronti con
analoghe variabili appartenenti a Paesi diversi, con un evidente
guadagno in termini di obiettività;
• Flessibilità: il fatto che si tratti di strumenti dal discreto tasso di soggettività
implica che si possa godere di una certa versatilità di impiego.

Fra i difetti si segnalano:


• Valutazione soggettiva: come già ricordato, questo è il limite fondamentale
cui sono soggetti questi strumenti. Il guadagno in termini di flessibilità è
ampiamente compensato dai problemi originati dall’arbitrarietà dalla
quale sono affetti;
• Difficile confrontabilità: i giudizi qualitativi non sono immediatamente
confrontabili come possono essere, invece, i numeri. Ne consegue che
spesso l’analista cerchi di “oggettivare” dati altamente soggettivi,
convertendo un aggettivo in una cifra per via indiretta e rendendo meno
precisa la valutazione stessa;
• Considerazioni diplomatiche: per un analista l’obiettività è d’obbligo, ma
spesso questa esigenza si scontra con le regole del “politically correct”
che impongono di non ferire l’orgoglio nazionale altrui, anche a costo di

18
mascherare l’evidenza fattuale. Questo è tanto più vero nel caso di
indicatori riguardanti la condizione politico‐sociale di un Paese
straniero. Tale limite non è da sottovalutare, dato che è aggirabile del
tutto solo nel caso in cui il rapporto non venga reso pubblico;
• Retrospettività del giudizio: molto spesso le valutazioni sul Rischio Paese
usano il passato come metro di giudizio per il futuro; ciò è tanto più vero
per indicatori di tipo qualitativo;
• Lentezza di aggiornamento e resistenza alla revisione: le opinioni sono
opinabili per definizione; ne consegue non solo una minore oggettività,
ma anche una più lenta capacità di revisione. In alcuni casi il giudizio
può essere pervaso da pregiudizi “ideologici” che ne rendono molto
difficile la correzione.

E’ il caso di ricordare che la soggettività nelle valutazioni può essere ridotta


applicando per esempio il famoso metodo Delphi, che nella sua interpretazione
classica consiste nel sottoporre ciascuna variabile all’attenzione di un gruppo di
esperti i quali in una prima fase forniscono la loro interpretazione individuale
della stessa rimanendo all’oscuro delle impressioni dei colleghi.
Successivamente, gli analisti vengono messi al corrente delle impressioni
espresse dal resto del gruppo e viene data loro la possibilità, se lo ritengono
opportuno, di “correggere il tiro”. Il ciclo può essere ripetuto più volte, magari
inserendo nelle domande rivolte agli esperti dei “paletti” in grado di
standardizzare le risposte. Questo sistema consente, almeno entro certi limiti, di
ridurre l’impatto di eventuali valutazioni arbitrarie o pregiudiziali.

3.2 Riflessioni sulle variabili qualitative


Nell’analisi di tipo qualitativo ed interpretativo spesso si ricorre alla copertura
delle seguenti principali aree di indagine:
a) analisi degli indicatori sociali e del welfare state nell’ottica del processo di
sviluppo del Paese
b) analisi dei fondamentali macroeconomici (crescita economica del Paese)
c) evoluzione e struttura dell’indebitamento esterno

19
d) situazione del sistema finanziario domestico
e) valutazione della stabilità politica
Il concetto di sviluppo va tuttavia oltre la crescita o la caduta delle economie
nazionali. La crescita è una precondizione per lo sviluppo c.d. autosostenibile.
L’evoluzione del PIL annuo cattura solo in minima parte le prospettive di lungo
termine di un Paese. Devono pertanto sussistere alcune condizioni affinché la
crescita economica risulti essere autosostenibile. Queste condizioni includono
la legittimità democratica, istituzioni robuste e stabili, ed una gestione efficiente
degli affari pubblici (sviluppo sociale ed economico).
I fondamentali per costruire una base per lo sviluppo è un ambiente che possa
permettere l’accesso all’educazione, nutrizione e servizi sanitari, libertà di culto
e di politica, e un senso di partecipazione alle decisioni: tutto ciò produce uno
standard di vita adeguato. Tali criteri, che sembrano molto distanti rispetto agli
obiettivi degli investitori, costituiscono tuttavia alcune basi principali per la
valutazione del Rischio Paese. C’è ad esempio una correlazione tra gli
indicatori di sviluppo umano misurati dall’United Nation Development Programe
(UNDP) ed il Rischio Paese. Se uno osservasse infatti alcuni Paesi che
presentano indicatori di sviluppo umano che registrano parametri con soglie di
pericolosità secondo gli standard non ci sono dubbi che questi non possono
rappresentare mercati attrattivi, con l’eccezione di alcune nicchie.
La Banca Mondiale, per esempio, considera quattro indicatori socio - economici
che comprendono l’aspettativa di vita, l’accesso all’acqua potabile, PIL pro
capite e l’iscrizione alla scuola primaria. La crescita della popolazione e
l’aspettativa di vita sono elementi fondamentali per il Rischio Paese.
L’analisi strutturale per comprendere il processo di crescita economica di un
Paese include le seguenti aree di indagine: riforme istituzionali, politica
monetaria e di budget, apertura commerciale, risorse di finanziamento,
intermediazione finanziaria, sostenibilità della bilancia dei pagamenti, ecc. La
capacità di preservare una crescita sostenibile risulta un requisito molto
importante per un Paese.
L’approccio qualitativo o “strutturale” dei fondamentali deve inoltre riguardare
con attenzione la relazione tra economia domestica ed ambiente internazionale.

20
I contributi in letteratura da parte degli economisti sulle cause della crescita
economica di un Paese sono numerosi: si pensi ad esempio a Quesnay, ai
Fisiocratici e Adam Smith nel XVIII secolo, a David Ricardo e a Thomas
Malthus nel XIX secolo, a Marx e a Keynes, e a tutti i modelli sviluppati
successivamente fino ai giorni nostri.
Altre aree da studiare secondo un approccio strutturale - qualitativo sono:
􀂾 la valutazione del sistema finanziario del Paese: molto importante risulterà
esaminare i fattori di efficienza e di sviluppo del mercato dei capitali (banche,
intermediari finanziari, mercato azionario ed obbligazionario); le legislazioni
specifiche e regolamenti (ad esempio su eventuali restrizioni al movimento dei
capitali); il ruolo delle Istituzioni e delle Autorità di vigilanza, ecc.
􀂾 analisi della Goverance di un Paese
􀂾 l’analisi del Rischio politico: le principali Organizzazioni Internazionali ed i
maggiori Istituti di Ricerca che hanno condotto tali analisi, hanno evidenziato
come per il rischio politico, i fattori da prendere in considerazione abbiano una
natura prevalentemente qualitativa, e come tali più difficilmente standardizzabili
e quindi univocamente determinabili.

21
3.3 Approccio strutturale quantitativo allo studio del Rischio Paese
Le variabili quantitative sono costituite da dati statistici sulla situazione
economico‐finanziaria di un Paese, sia sul piano interno che su quello dei
rapporti con l’estero. In altre parole, si tratta di numeri che rappresentano la
situazione esistente nel momento in cui sono stati rilevati. Di conseguenza,
questi dati forniscono previsioni accettabilmente accurate solo nel breve
termine, mentre nel medio‐lungo la loro precisione cala sensibilmente. Anche
questo tipo di variabili ha quindi pregi e difetti.
Fra i primi si vuole ricordare:
• Perfetta confrontabilità: le valutazioni quantitative permettono di creare un
rating che pone immediatamente a confronto Paesi diversi sulla base
degli indicatori scelti;
• Accessibilità: i dati statistici sono relativamente facili ed economici da
ottenere e manipolare;
• Oggettività: questa è forse la migliore qualità esibita da dati quantitativi,
perché evita che le valutazioni siano “inquinate” da impressioni
soggettive dell’analista;
• Rapidità di revisione: le conclusioni tratte a partire da numeri sono
immediatamente aggiornabili (o perlomeno dovrebbero esserlo) qualora
la tendenza evidenziata dai numeri stessi dovesse invertirsi o
comunque mutare.

Fra i difetti è il caso di ricordare:


• Attendibilità: descrivere una situazione complessa mediante un numero
espone inevitabilmente al rischio di semplificare un po’ troppo le cose;

• Disomogeneità nella disponibilità dei dati: alcuni dati potrebbero non


essere disponibili per tutti i Paesi che ci interessa mettere a confronto
(si ricorda che nelle valutazioni del Rischio Paese la componente
relativa è di grande importanza) oppure potrebbero essere resi
disponibili in momenti diversi;

22
• Limitatezza a ciò che è misurabile: le variabili quantitative non sono in
grado di fornire previsioni su fenomeni sui quali non si dispone di dati
statistici; di conseguenza, è inevitabile affiancale a variabili qualitative e
all’intuito dell’analista.

3.4 Dalle variabili quantitative agli indici


Una volta che si è individuato un insieme di variabili giudicate utili all’analisi è
necessario costruire degli indici a partire da esse: indici finanziari, indici
economici e indici compositi, da affiancare a valutazioni sulla situazione
socio‐politica.

Indici finanziari (o di debito)


Gli indici finanziari delineano la situazione finanziaria futura del Paese oggetto
di analisi, in particolare forniscono un’analisi del debito distinguendo fra debito
pubblico e privato, suddividendolo per scadenze, tassi di interesse e di rinnovo
del prestito. E’ proprio sull’analisi del debito che si fondano le informazioni
ottenute mediante indici di questo tipo; si ottengono così indicatori del grado di
indebitamento o della capacità di far fronte al servizio del debito. Vediamone
alcuni:

1. Debito Estero: è in un certo senso una variabile‐indicatore, cioè è il


“capostipite” dal quale discendono altri indicatori;
2. Debito Estero / PIL: è una specie di misura della leva finanziaria.
Generalizzando, minore è questo rapporto, migliore è la posizione del
Paese in questione;
3. Debito a Breve / Riserve Valutarie: questo indice ci aiuta a prevedere se
un Paese avrà difficoltà a pagare i debiti; in particolare, è un utile
predittore di crisi di liquidità;
4. Servizio del Debito Estero / Esportazioni: si tratta di un indice di
particolare interesse per i Paesi in via di sviluppo, i quali vedono nelle
esportazioni il principale strumento per ottenere moneta estera. Tale

23
flusso deve essere adeguato al pagamento di interessi e quota
capitale, altrimenti il rischio di default si fa concreto;
5. Servizio del Debito Estero / Bilancia dei Pagamenti:
6. Previsioni sui flussi di capitale in entrata: come detto, si tratta di
previsioni, perciò è un indice difficile da costruire e non molto affidabile.
Tuttavia può dare indicazioni sullo sviluppo della Bilancia dei
Pagamenti utili sia agli investitori che ai policy makers;
7. Riserve Internazionali: sono le riserve a disposizione di un Paese per
coprire i deficit nella Bilancia dei Pagamenti e rappresentano anche
uno scudo contro attacchi speculativi rivolti alla moneta nazionale. A
volte tale valore è rapportato alle importazioni mensili;
8. Tasso di cambio: forse uno degli indici di Rischio Paese più potenti. Il
“giusto” prezzo della moneta nazionale, determinato sulla base della
domanda e offerta, è essenziale al fine di garantire uno sviluppo solido
e stabile a una nazione. In particolare, il mantenimento oltre ogni
ragionevole limite di un regime di tipo currency board agreement
(basato ad esempio sul cambio fisso tra valuta domestica e dollari)
consente a tutti i detentori di moneta locale circolante un’opzione call –
cioè un diritto di acquistare a un certo prezzo una certa attività
finanziaria – sulle riserve in valuta del Paese stesso. E’ intuitivo che
una situazione di questo tipo rappresenta una grave minaccia alla
stabilità finanziaria del sistema economico interno e amplifica
sensibilmente il rischio di default.

Questi dati possono essere confrontati con i flussi valutari in entrata


effettivamente generati da esportazioni o dal credito ottenuto in caso di
difficoltà, concesso ad esempio dal Fondo Monetario Internazionale. In questo
modo la situazione finanziaria di un Paese risulta delineata con buona
precisione. Va ricordato però che questa mole di informazioni non dà
necessariamente informazioni univoche: il fatto che un Paese stia usufruendo di
prestiti da parte del FMI significa che molto probabilmente quel Paese sta
attraversando un periodo di difficoltà, ma può anche implicare che stia

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seguendo un programma di risanamento pilotato in grado di aprire prospettive
interessanti per un investitore estero.
Questi indici si basano su dati statistici facilmente reperibili e sono
relativamente semplici da costruire e interpretare, quindi rappresentano forse lo
strumento principe nelle analisi del Rischio Paese.

Indici economici
Gli indici economici sono complementari a quelli di debito. Infatti, una crisi
finanziaria (cioè, una difficoltà nel servizio del debito) è una manifestazione di
una crisi economica di base. Pertanto, gli indici economici si concentrano su
variabili quali la crescita del PIL, la sua composizione, il Prodotto Interno Lordo
pro capite. In particolare, a partire dal PIL possono essere costruiti indici
interessanti sotto forma di rapporti. Vediamone alcuni:

1. Risparmi Interni / PIL: fornisce un’idea della propensione al risparmio del


sistema Paese;
2. Investimenti Interni / PIL: sul lungo termine può dare informazioni
riguardo alla crescita potenziale del capitale fisso presente nel Paese.
In particolare, confrontandolo con il precedente indice relativo al
risparmio potremo valutare se vi è coerenza fra i due;
3. Risparmi Interni / Investimenti Interni: discende dai due indici precedenti
e approfondisce l’analisi relativa alla compatibilità fra investimenti e
risparmi. La differenza (il resource gap) dovrà essere coperta da fondi
di provenienza estera e ci fornirà indicazioni relative alla dipendenza
del Paese da investimenti stranieri.

Gli indici economici prendono in considerazione anche entità e natura delle


esportazioni; fra essi ricordiamo:

1. Tasso di crescita delle esportazioni;


2. Tasso di crescita delle importazioni;

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3. Esportazioni / Importazioni (Terms of Trade);
4. Bilancia commerciale: si tratta naturalmente di uno degli indici più
rilevanti perché fornisce una misura del grado di apertura di un Paese
al commercio internazionale;
5. Saldo di Conto Corrente (eventualmente rapportato al PIL): deficit o
surplus di Conto Corrente sono direttamente associati al livello di
riserve in valuta estera e soprattutto alla capacità di onorare il debito.

Molta attenzione deve essere destinata anche alle politiche fiscali monetarie
attuate dal Paese in questione e dai loro effetti sugli investimenti interni, sul
tasso di inflazione (comparato alla crescita della massa monetaria,
naturalmente) e sul tasso di interesse reale. Questo approccio d’analisi, che
potremmo definire monetarista, si fonda sull’idea che le difficoltà incontrate da
un Paese nel restituire un prestito originino da una carenza di valuta estera
causata da un’eccessiva espansione della massa monetaria nazionale o da un
tasso di cambio della moneta nazionale troppo elevato. Perciò, la variabile
chiave dell’analisi monetarista risulta essere l’inflazione. Torniamo quindi ai
concetti di crisi intesi come incapacità di rimborso del debito, crisi che possono
essere di liquidità o di solvibilità. Nel primo caso, come già accennato, si tratta
di difficoltà congiunturali di breve termine, causate da una carenza di valuta
estera ma abbinate a investimenti il cui tasso di rendimento supera il tasso di
interesse del prestito che li ha finanziati; nel secondo caso, invece, la situazione
è più grave in quanto strutturale: gli investimenti non offrono rendimenti tali da
ripagare gli interessi pattuiti. Determinare con precisione la redditività
dell’investimento rispetto all’onere del debito non è però sempre agevole, e
questo è il limite più grave nell’impiego degli indici economici, i quali hanno
senz’altro il merito di focalizzare l’attenzione dell’analista su cosa stia alla base
di una crisi finanziaria, ma non possono essere utilizzati da soli. E’ consigliabile
piuttosto impiegarli in un paniere di indici di varia natura.

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Indici Compositi
Spesso le agenzie di rating e le banche internazionali ricorrono, nella stima del
grado di affidabilità di un Paese, all’utilizzo di indici sintetici ottenuti dalla
ponderazione di una opportuna rosa di indici giudicati significativi. Si ottiene
così uno strumento di facile utilizzo e di immediata comparabilità, ma anche in
questo caso bisogna fare i conti con alcuni limiti. Nella fattispecie le ambiguità
sorgono quando si deve scegliere che indici di base inserire nella rosa che darà
l’indice sintetico, e quale peso assegnare a ciascuno. Nemmeno gli indici
sintetici, perciò, possono garantire una determinazione del Rischio Paese
indiscutibile, del tutto scevra da ambiguità. In particolare, la situazione
socio‐politica del Paese in esame deve essere valutata perché l’analisi possa
dirsi completa, con tutte le menzionate difficoltà derivanti dalla manipolazione di
variabili prettamente qualitative.

Aspetti politico‐sociali
La commistione fra politica ed economia, che ormai costituisce un binomio
indissolubile, fa sì che il profilo di un Paese non possa dirsi completo se non si
prende in esame anche la sua situazione politico‐sociale. In questa sede le
variabili qualitative rivestono un’importanza fondamentale al fine di prevedere,
ad esempio, se un cambiamento all’interno del sistema politico potrà tradursi in
un mutato atteggiamento del Paese nei confronti dei debitori e degli investitori
esteri. L’analisi del rischio politico riguarda sia la situazione interna che quella
internazionale. Riguardo alla prima, i dati che ci interessano sono:
• Forza e stabilità del governo in carica, peso e natura dell’opposizione,
maturità del sistema politico, storia del Paese;
• Credibilità delle istituzioni, in particolare di quelle deputate al controllo dei
mercati, efficienza della Pubblica Amministrazione e della giustizia,
fiducia nel libero mercato;
• Conflittualità sociale, etnica e religiosa;
• Indici demografici quali popolazione complessiva e sua composizione
(età, sesso, forza lavoro), indice di natalità e di mortalità infantile,
disoccupazione e aspettativa di vita;

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• Tasso di alfabetizzazione.

Quanto alla situazione internazionale, interessa rilevare:

• Relazioni intessute con il resto della comunità internazionale, in


particolare con i Paesi confinanti;
• Esistenza di accordi di mutua collaborazione, anche militare;
• Situazione generale dell’area geografica nella quale il Paese oggetto di
analisi è collocato.

3.5 Modelli quantitativi


In questo paragrafo si descrivono i principali metodi econometrici e matematici
utilizzati comunemente nella valutazione del Rischio Paese. Le metodologie di
norma sono quelle impiegate negli studi accademici ed applicate poi in campo
professionale quando si tratta di “quantificare il rischio”.

3.5.1 Analisi discriminante: modello Z Score


Secondo questo criterio la definizione del livello di rischio si basa su uno score
raggiunto attraverso analisi del tipo statistico ‐ analitiche. Si tratta di valutare il
Rischio Paese su base empirica, considerato un adeguato numero di variabili
scelte mediante apposite procedure matematico ‐ statistiche. Una prima
famiglia di analisi statistico‐analitiche è quella dei modelli a punteggio, basati
sull’analisi discriminante lineare, che costituisce lo strumento statistico
maggiormente utilizzato per stimare la funzione che si usa per produrre i
punteggi stessi.
La procedura prevede che l’analista individui le variabili più significative
(indicate come Xn) e assegni loro i pesi (individuati come Cn) ottimali che

consentono di rispettare alcune regole‐obiettivo, quali la massimizzazione delle


differenze tra le medie dei punteggi delle controparti solventi e le medie di
quelle insolventi (Frank and Cline, 1971). Otterremo così una formula di tipo:

Z = C1X1 + C2X2 + C3X3 + ... + CnXn

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L’analisi empirica del campione permette di trovare i coefficienti Cn da
applicare; il valore della funzione discriminante rispetto a un certo punteggio e
individua i punti di cut - off, che delimitano l’area di insolvenza e quella “sicura”.
Il range compreso fra le due rappresenta l’area grigia, ovvero quella “ambigua”.
Questo modello presenta però alcuni evidenti difficoltà di applicazione:
1. Determinare dove inizia l’ area “sicura” e “pericolosa” non è agevole e
rischia di portare a demarcazioni troppo nette;
2. E’ difficile classificare i Paesi appartenenti alla cosiddetta “area grigia”;
3. Può essere difficile costruire un campione coerente dal quale ricavare la
formula discriminante;
4. Se da un lato più indicatori vengono inseriti maggiore sarà l’affidabilità
del modello, dall’altro andranno definiti sempre più coefficienti o “pesi”,
in modo talvolta discutibile e comunque laborioso.

3.5.2 Multi Criteria Decision Making (MCDM)


Questo metodo di analisi è stato considerevolmente sviluppato nell’ultimo
decennio. Con tale nome viene indicata un’intera serie di strumenti evoluti allo
scopo di permettere al decision maker di risolvere in modo coerente problemi
decisionali caratterizzati da svariati attributi - spesso contradditori - tenendo
conto del grado di importanza di ciascuno.
Il primo fattore su cui bisogna prestare attenzione quando si tratta questo tipo di
problemi è che non esiste, in generale, alcuna decisione (o politica) che sia
simultaneamente la migliore da tutti i punti di vista; perciò la parola
“ottimizzazione” non trova cittadinanza in questo contesto: in contrasto con le
altre tecniche della ricerca operativa, i metodi a più criteri non si propongono di
trovare la soluzione migliore in assoluto, quanto piuttosto il best fit date le
condizioni di contesto (Roy 1996, Khoury 1994, Doumpos and Zopounidis
2000). Lo sviluppo conosciuto in questi anni da questo tipo di strumenti
risponde all’esigenza sempre più pressante di non ricondurre l’analisi del
Rischio Paese a un problema di programmazione lineare ma piuttosto di
ripiegare verso strumenti più flessibili (Sen 1998).

3.5.3 Cluster Analysis


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Il clustering, o “raggruppamento”, è un importante strumento nell'ingegneria ed
in altre discipline scientifiche. La cluster analysis è stata ideata al fine di creare
uno schema di raggruppamento di n oggetti, ciascuno dei quali ha un punteggio
in p variabili, in classi che contengano unicamente oggetti simili tra loro. Gli
algoritmi elaborati a partire da tali metodi (Sato 1997, Manly 1994) sono
innumerevoli per due ragioni: anzitutto per necessità, dato che le tecniche di
analisi dei gruppi sono largamente usate nei più svariati campi di ricerca (fisica,
scienze sociali, economia, medicina, ecc.), in cui la classificazione dei dati
disponibili è un momento essenziale nella ricerca di modelli interpretativi della
realtà. In secondo luogo per ragioni di fattibilità: l’evoluzione degli strumenti di
calcolo automatico ha consentito infatti di affrontare senza difficoltà la mole di
dati necessaria. Per questo motivo anche questi metodi hanno conosciuto un
notevole perfezionamento in periodi relativamente recenti.
La classificazione dei metodi di clustering più diffusa è quella basata sul tipo di
algoritmo e cioè quella che distingue tra metodi gerarchici e non gerarchici. I
primi sono metodi che producono raggruppamenti successivi ordinabili secondo
livelli crescenti o decrescenti.
Quando invece l’algoritmo produce un’unica suddivisione dell’insieme di
partenza, considerata ottimale rispetto al criterio adottato, la classificazione
risultante è non gerarchica.
Tenendo conto del tipo di variabili in gioco, comunque, anche gli approcci
quantitativi puri più raffinati risentono di limiti riguardanti in particolare
l’incapacità di tener conto di fenomeni non traducibili in numeri.

30
3.6 Modelli misti
Questo approccio deriva dalla consapevolezza del fatto che né i modelli
qualitativi né quelli quantitativi “puri” rispondono adeguatamente all’esigenza di
stimare il Rischio Paese. In questa metodologia, perciò, convivono elementi
qualitativi (descrittivi) e quantitativi (statistici). Ad una relazione contenente
valutazioni qualitative e redatta secondo schemi standardizzati è perciò
affiancata un’analisi statistica in grado, quando possibile, di approfondire e
convalidare i giudizi espressi nel rapporto discorsivo. La standardizzazione è
necessaria per ovviare almeno in parte alla non comparabilità che di regola
affligge le valutazioni qualitative. Si tratta di un buon compromesso, dato che le
valutazioni ottenibili risultano di regola:
• Profonde, perché sono frutto dell’esame di un gran numero di variabili di
natura molto eterogenea;
• Sistematiche, dal momento che un blocco fisso e standardizzato di
variabili è sempre presente al fine di garantire la comparabilità;
• Ragionevolmente oggettive, se alla struttura standardizzata si abbina una
rigorosa applicazione del metodo Delphi per ridurre la soggettività delle
interpretazioni laddove questa dovesse assumere proporzioni rilevanti.

3.6.1 The International Country Risk Methodology


Le tabelle sul Rischio Paese pubblicate mensilmente dall’International Country
Risk Guide (ICRG) possono fornire un’idea di quali siano le variabili qualitative
e quantitative tipicamente monitorate da un’agenzia di rating. Per ogni Paese
ICRG si costruisce un indice composito di rischio su base 100 (il rischio è
decrescente da 0 a 100). Questo indice è il risultato della media ponderata di
altri tre indici, relativi al rischio politico, finanziario ed economico. A loro volta
questi tre indici sono il risultato della somma algebrica di una serie di variabili
ritenute rilevanti, a ciascuna delle quali viene assegnato un peso. Il massimo
punteggio ottenibile dal rischio politico è pari a 100 (ricordiamo che alto
punteggio = basso rischio) mentre quello relativo sia al rischio finanziario che a
quello politico è pari a 50. La ragione di ciò risiede nel fatto che secondo ICRG
il rischio politico rappresenta la “volontà di pagare”, quello finanziario ed

31
economico invece compongono la “Capacità di pagare”. Sempre secondo
ICRG, il rischio totale è quindi equi partito fra volontà di pagare e capacità di
farlo. E’ il caso di sottolineare che questa valutazione, per quanto condivisibile
da molti ed espressa da addetti ai lavori di indiscutibile esperienza, resta
opinabile. Si procede ora a esaminare quali variabili vengono usate per
costruire i tre sotto ‐ indici. Tra parentesi si riportano il peso assegnato a
ciascuna variabile dagli analisti dell’ICRG.

Rischio politico:
 Stabilità del governo (12);
 Condizioni socioeconomiche (12);
 Profilo di investimenti (12);
 Conflittualità interna (12);
 Conflittualità esterna (12);
 Corruzione (6);
 Impegno politico dell’esercito (6);
 Tensioni religiose (6);
 Tensioni etniche (6);
 Legalità e ordine pubblico (6);
 Responsabilità democratica (6);
 Qualità burocratica (6).

Si noti come siano tipicamente adottate per definire il rischio politico. E’ altresì
curioso rilevare che, in realtà, il punteggio massimo conseguibile dal rischio
politico è di 102. Ciò è dovuto al fatto che le variabili politiche, sia “pesanti” che
“leggere” sono ritenute individualmente più incisive delle corrispettive
economico‐finanziarie quindi conseguono un massimo di 12 e 6 punti
rispettivamente, contro 10 e 5. L’aggregato, tuttavia, si avvicina il più possibile a
100 per i motivi sopra esposti.

Rischio finanziario:
 Debito estero totale come percentuale del PIL (10);

32
 Servizio del debito estero come percentuale delle esportazioni di beni e
servizi (10);
 Bilancia corrente come percentuale delle esportazioni di beni e servizi
(15);
 Mesi di copertura delle importazioni tramite le riserve valutarie
internazionali (5);
 Stabilità del cambio (10).

Rischio economico:
 PIL pro capite (5);
 Tasso di crescita annua del PIL (10);
 Tasso d’inflazione calcolato su base annua (10);
 Saldo di bilancio in percentuale del PIL (10);
 Bilancia corrente come percentuale del PIL (10).

Si noti come i rischi finanziari ed economici siano espressi a partire da variabili


quantitative rilevabili statisticamente.
ICRG confronta poi l’evoluzione di ciascuno dei tre indici sopra riportati con i
valori relativi ai 12 mesi precedenti, e per ciascuno di essi viene pubblicata una
previsione a un anno e a 5 anni, indicando per entrambe un range i cui limiti
sono dati dal caso migliore e da quello peggiore.

Dagli indici ai rating


A partire dagli indici variamente assemblati le agenzie specializzate ricavano i
loro rating, ovvero le loro opinioni riguardo ad ability e willingness to pay per un
determinato Paese. Queste “sigle”, costituite da stringhe di caratteri
alfanumerici, esprimono le valutazioni dell’agenzia sia riguardo al prevedibile
comportamento di un Paese a medio termine sia riguardo al breve.
Sostanzialmente, quindi, i rating pubblicati dalle varie istituzioni servono da
misura della probabilità di default attribuita a un debito sovrano.
Per ogni rischio sovrano, ad esempio, sono quotati da Moody’s:

33
‐ Un country ceiling, ovvero un tetto massimo di valutazione attribuibile a
emissioni del Paese, per il debito in valuta estera del Paese stesso, a
breve e a medio termine;
‐ Un country ceiling per i depositi in valuta estera delle banche del Paese,
anche questo a breve e a medio termine;
‐ Una valutazione per i titoli del governo a medio termine;
‐ Una valutazione per il debito in valuta locale del Paese, a breve e a medio
termine.

Si veda ora nel dettaglio i rating presenti nella griglia di un’altra agenzia di rating
(Standard & Poor’s) e il loro significato:

INVESTMENT GRADE:
o AAA : Altissima capacità di onorare gli impegni finanziari e massima
fiducia nelle istituzioni politiche ed economiche;
o AA: Alta capacità, il giudizio è leggermente peggiore del precedente ma di
pochissimo;
o A: Buona capacità, l’affidabilità del Paese in questione potrebbe risentire
di cambiamenti repentini e pesanti nella congiuntura economica;
o BBB: Adeguata capacità, soggetta però a variare in caso di mutamenti
nelle circostanze;

SPECULATIVE GRADE:
o BB: Bassa vulnerabilità, indica un basso grado di esposizione alle
avversità economiche e finanziarie che possono minare la capacità di
onorare i debiti;
o B: Maggiore vulnerabilità rispetto al rating precedente;
o CCC: Vulnerabilità. Ora il rischio è decisamente maggiore, mutate
circostanze politico‐economiche avranno un diretto impatto sulla
volontà e sulla capacità di onorare i debiti;
o CC: Alta vulnerabilità;

34
o SD: Selective Default, il debitore non ha adempiuto ai suoi obblighi una o
più volte, limitatamente a una classe di obbligazioni o a uno specifico
settore;
o D: Default, l’inadempienza del debitore è di portata generale.

I simboli + o – aiutano a definire meglio il grado di rischiosità compreso fra AA e


CCC.
Il simbolo R identifica un debitore soggetto a una supervisione per i debiti cui
deve ancora far fronte.
Se si volessero comparare le griglie di rating attribuiti dai tre “giganti” della
valutazione internazionale risulterebbero assai simili tra loro. Balza agli occhi la
distinzione fra rischi speculativi e di investimento: quelli investment grade
consentono un normale investimento non speculativo, quelli speculative grade
invece presentano rischiosità molto elevata a fronte di un rendimento
(potenziale) spesso molto elevato. Passare da un rating investment a uno
speculative è un duro colpo per un Paese, dato che molti investitori istituzionali
non possono (e sovente non vogliono) operare con titoli quotati meno del
minimo livello investment grade. Perciò, per quanto il rating contenga aspetti
soggettivi e discutibili, esso rappresenta un parametro fondamentale in sede di
determinazione del prezzo del rischio di credito: peggiore sarà il rating, più alti
saranno i margini richiesti dai creditori internazionali per comprare titoli o rischi
commerciali emessi dal Paese in questione.
Un altro importante campo di applicazione del rating è quello relativo al
coefficiente di ponderazione che verrà applicato agli impieghi verso i singoli
prenditori, ossia la percentuale da applicare all’importo del prestito per stabilire
quanto questo incida sull’attivo ponderato della banca finanziatrice, e quindi per
determinare il rispetto dei coefficienti di patrimonializzazione previsti dagli
Accordi di Basilea 2. Nella Tabella 2 si riportano le percentuali applicate a
debitori sovrani:

35
Tabella 2: percentuali applicate ai debitori sovrani

Come accennato in precedenza, rating Standard &Poor’s SD o D (o equivalenti)


indicano situazioni nelle quali un debitore è venuto meno all’adempimento dei
suoi obblighi. Tali situazioni vanno al di là della semplice insolvenza giuridica,
infatti vi sono inclusi tutti i casi nei quali vi siano ristrutturazioni di debiti, tese a
evitare il default giuridico, in seguito alle quali al creditore viene offerto un
pacchetto di garanzie diverso e tale da diminuire l’obbligazione finanziaria del
debitore. E’ questo il caso, ad esempio, della conversione di obbligazioni non
ancora scadute in altri titoli di debito di minor importo, con scadenza più lunga o
emessi in divisa diversa dall’originale. Inoltre, è considerato default anche
l’esborso di capitale o interessi in ritardo, ma durante il periodo di grazia, perché
comunque il pagamento non è stato effettuato al momento pattuito.

36
3.7 La metodologia di valutazione in SACE
In quanto società dedicata a fornire strumenti di sostegno
all’internazionalizzazione delle imprese italiane, SACE non è stata immune
dalle profonde trasformazioni che hanno riguardato il panorama internazionale
e la sua attività ne è stata anzi fortemente coinvolta sotto tutti gli aspetti, inclusi i
processi di assunzione dei rischi tra cui l’analisi del Rischio Paese.
Come tutte le Export Credit Agencies (ECA), infatti, SACE è nata sia come
strumento di politica industriale e commerciale, sia allo scopo di fornire
protezione agli operatori nazionali in un contesto caratterizzato da mercati
finanziari poco sviluppati, da asimmetrie informative e da sostanziali fallimenti
del mercato. Le ECA erano quindi viste come assicuratori di ultima istanza - in
quanto i privati non erano disposti a operare in Paesi a elevato rischio - la cui
attività si svolgeva in regime di monopolio e non necessariamente in un’ottica di
ricerca del profitto. In particolare, considerato l’elemento di sussidio insito nella
loro natura, l’attività assicurativa era fortemente legata al concetto di prodotto
locale e di operatore nazionale. Questa impostazione si rifletteva anche nel
meccanismo di formazione dei premi, che in molti casi erano inferiori al minimo
richiesto per coprire le perdite attese, mentre l’attività a condizioni di mercato
era lasciata agli operatori privati per evitare fenomeni di spiazzamento.
Il quadro operativo tradizionale era quindi caratterizzato dalla presenza di
un’impresa nazionale (attiva sovente in settori strategici), che realizzava
progetti ad elevato contenuto di merci nazionali in Paesi ad alto rischio, con
orizzonti temporali di rimborso a lungo termine e con controparti sovrane. In
caso di default del debitore si agiva nell’ambito del Club di Parigi insieme agli
altri creditori ufficiali e il focus dell’analisi era incentrato sul rischio sovrano e sul
rischio politico. Questo contesto comportava per le ECA una forte
concentrazione del portafoglio - non compensata da adeguati accantonamenti -
e un onere per il bilancio dello stato nell’eventualità di un mancato pagamento,
a causa del contenimento dei premi al di sotto dei livelli di mercato (Ascari
(2007)).
In seguito alle crisi debitorie degli anni ’80 e ’90 vi è stata una presa di
coscienza, a livello OCSE, riguardo alla necessità di stabilire regole comuni a

37
tutti i membri in materia di credito all’esportazione. Di conseguenza, sono state
definite linee guida in materia di premi (con l’obbligo di applicare un livello
minino necessario a raggiungere il break even), ambiente, responsible lending
e lotta alla corruzione. Nel frattempo, lo sviluppo dei mercati finanziari ha
portato a una maggiore competizione da parte degli operatori privati e alla
nascita di nuovi strumenti che facilitano l’accesso al credito da parte dei mercati
emergenti, con conseguente marginalizzazione dell’attività tradizionale di export
credit che diventa solo una delle opzioni percorribili. Ciò ha creato la necessità
per le ECA di rivedere il proprio ruolo, spingendole verso un modello
maggiormente orientato al mercato e alla redditività

La nuova operatività delle ECA deve conciliare quindi una duplice natura, in
primo luogo quella classica di sostegno all’export, che mantiene la propria
valenza istituzionale ma a cui si associa una crescente attenzione ai risultati di
gestione e all’equilibrio di portafoglio, il tutto in un contesto globalizzato
altamente competitivo. L’attività si rivolge quindi a nuovi prodotti e si allarga
dall’idea di operatori e merci nazionali a quella di “interesse nazionale” (o “made
by”), per tenere conto delle esigenze delle imprese nazionali che hanno
trasferito alcuni processi produttivi all’estero. Il quadro operativo “evoluto” vede
quindi imprese che operano a livello multinazionale (spesso tramite controllate
estere) per la realizzazione di progetti con elevato contenuto di merci estere ma
con tecnologia e know-how nazionali, sia in Paesi emergenti che nel mercato
OCSE in quanto le principali controparti ora sono private, con un peso
crescente del project finance e delle operazioni asset-based. Il portafoglio delle
ECA risulta in genere più bilanciato (in termini di Paese e di numero di
operazioni) e vi sono idonei strumenti di accantonamento, grazie anche alla
struttura dei premi che tiene conto di una maggiore differenziazione del pricing
in base al livello di rischio della controparte.
In questo caso all’analisi del Rischio Paese si associa la valutazione del rischio
commerciale e del merito di credito della controparte privata, in base ad un
approccio “caso per caso” mirato a evidenziare i punti di forza e di debolezza
del singolo progetto.

38
Lo studio del Rischio Paese in SACE parte da un presupposto fondamentale
legato all’attività della società, che è quella di fornire copertura assicurativa agli
esportatori e agli investitori italiani in linea con i mutamenti del mercato. Di
conseguenza, il fulcro dell’analisi si basa sui diversi effetti che il verificarsi di
uno o più eventi generati dai rischi elencati precedentemente può avere
sull’attività economica dell’impresa, in particolare su fenomeni che ostacolino o
rendano impossibile l’esecuzione del contratto o il pagamento dello stesso,
impediscano i trasferimenti valutari necessari per i pagamenti, causino la
moratoria dei pagamenti da parte di debitori sovrani, ovvero l’inadempimento o
l’insolvenza dei debitori privati. In quanto assicuratori, l’analisi Paese non è
mirata a misurare il livello di rischio intrinseco di un determinato Paese, quanto
piuttosto a determinare le ripercussioni che tale rischio può avere sull’attività
economica dell’investitore o dell’esportatore italiano, in relazione alla tipologia di
operazione assicurata. L’ambito operativo di SACE è stato gradualmente
ampliato - da ultimo dalla Legge finanziaria 2007 - fino a comprendere
numerose altre attività, in particolare alla copertura di progetti che abbiano
effetti rilevanti per l’economia italiana (il concetto di “made for”). Tuttavia, per
semplicità si è scelto di soffermarsi sull’attività tradizionale comune a tutte le
ECA.
La valutazione del Rischio Paese si distingue in tre fasi principali:
􀂾 la determinazione della categoria di rischio sulla base di un modello
sviluppato in sede OCSE;
􀂾 l’integrazione del rating OCSE con analisi qualitative sui rischi
economici;
politici, finanziari e operativi di ciascun Paese;
􀂾 l’articolazione delle condizioni di assicurabilità.
Le categorie di rischio determinate in sede OCSE misurano la probabilità che
un determinato Paese (in particolare il cosiddetto best buyer, generalmente
identificabile con il debitore sovrano) non onori il servizio del debito nel medio
lungo termine. Esprimono quindi una misura della probabilità di default del
sovrano e sono per certi versi paragonabili ai rating predisposti dalle agenzie
che operano nel settore del credit assessment, anche se vi sono alcune

39
differenze sostanziali nelle prerogative di base e nella finalità della
classificazione.
I Paesi sono suddivisi in otto categorie (0-7): la categoria 0 rappresenta un
rischio trascurabile e comprende, tra gli altri, le economie avanzate UE15, Stati
Uniti, Giappone, ma anche Singapore e Slovenia. All’aumentare delle categorie
il rischio diviene più significativo fino ad arrivare all’ultima categoria che
rappresenta il rischio massimo.
La classificazione dei Paesi viene elaborata in ambito OCSE con la
partecipazione di tutti gli stati membri ed è per essi vincolante. L’importanza
delle categorie risiede infatti non tanto nell’indicazione sintetica di rischiosità
che rappresentano, quanto nel fatto che ad esse è legato il Minimum Premium
Rate (MPR), ovvero il premio minimo che le ECA sono tenute ad applicare per il
rischio sovrano a medio - lungo termine.
La classificazione comune e i premi minimi sono stati fissati dai partecipanti
all’accordo Consensus (l’accordo che regola le attività di credito
all’esportazione) per evitare forme di sussidio alle economie nazionali e stabilire
un level playing field, un punto di partenza condiviso che scoraggiasse la
concorrenza sleale in un segmento vischioso, poco profondo e caratterizzato
dalla mancanza di benchmark quale il mercato a medio - lungo termine. I MPR
quindi non si applicano né alle operazioni a breve termine né ai Paesi di
categoria zero, in quanto per questo tipo di transazioni è presente un’ampia
scelta di strumenti di finanziamento alternativi che assicurano la concorrenza. È
importante sottolineare che le ECA possono adottare criteri di classificazione
dei Paesi diversi da quello OCSE (ad esempio utilizzando un numero diverso di
categorie o assegnando rating). Tuttavia, esse sono comunque tenute ad
applicare il premio minimo legato alla categoria OCSE assegnata a quel Paese
per la copertura del rischio sovrano a medio – lungo termine.
La metodologia adottata in ambito OCSE prevede l’esame di tutti i Paesi
almeno una volta all’anno, con revisioni trimestrali secondo l’area geografica di
appartenenza. I Paesi OCSE ad alto reddito (in base alla classificazione della
Banca Mondiale) e i Paesi che aderiscono all’area euro sono classificati
automaticamente in categoria 0 e sono esclusi dal procedimento.

40
Il processo si articola in due fasi: l’approccio quantitativo mediante
l’applicazione di un modello statistico e l’aggiustamento qualitativo. Il CRAM
(Country Risk Assessment Model) è il modello che costituisce il punto di
partenza della classificazione ed è stato elaborato congiuntamente dagli esperti
delle ECA per tenere conto delle peculiarità dell’attività assicurativa. Il CRAM,
infatti, include indicatori economico-finanziari analoghi a quelli considerati dai
principali istituti di ricerca internazionali e dalle agenzie di rating, ma si distingue
in quanto considera direttamente l’esperienza di pagamento delle ECA. Di
conseguenza, anche in presenza di una situazione economica stabile,
un’esperienza di pagamento negativa porterà a una penalizzazione del Paese
in termini di categoria di rischio, in quanto i mancati pagamenti rappresentano
una proxy della (scarsa) volontà del debitore di far fronte alle proprie
obbligazioni (unwillingness to pay).
Gli indicatori finanziari considerati nel modello includono le variabili relative alla
posizione debitoria (debito estero in rapporto al PIL e alle esportazioni, debt-
service ratio) e alle riserve valutarie (in valore assoluto e in mesi di
importazioni). Gli indicatori economici si focalizzano su tematiche di tipo
strutturale: la crescita potenziale, attraverso la crescita del PIL (assoluto e pro
capite), i tassi di risparmio e di investimento; la performance della politica
economica, misurata dal tasso di inflazione, dal saldo del bilancio pubblico e
dalla posizione della bilancia dei pagamenti; la vulnerabilità, legata alle
dimensioni dell’economia, alla dipendenza dalle esportazioni di materie prime o,
al contrario, all’elevato fabbisogno di petrolio, nonché alla dipendenza dagli aiuti
internazionali e dai doni per la copertura del fabbisogno finanziario.
Gli indicatori sono valutati singolarmente sulla base di soglie critiche
determinate per ognuno di essi. Sono poi combinati in due score (0-100%)
economico e finanziario, che vengono a loro volta integrati in un unico risultato
mediante una media ponderata i cui pesi variano in base ai valori assunti dai
singoli indicatori.
Lo score economico-finanziario viene quindi confrontato con quello relativo
all’esperienza di pagamento, aggiornata su base trimestrale. In questo caso si

41
considerano le componenti dell’esposizione delle ECA - impegni in essere,
arretrati e indennizzi - nonché eventuali arretrati verso FMI e Banca Mondiale.
Gli impegni scaturiscono dall’assunzione di nuove coperture assicurative. Gli
arretrati rappresentano i mancati incassi e le richieste di indennizzo. Gli
indennizzi sono le somme pagate agli assicurati a fronte di default e che
costituiscono un credito della ECA nei confronti del debitore. In particolare, tra
gli indicatori inclusi nel modello vi sono il rapporto tra arretrati e impegni, tra
indennizzi e impegni, tra importi pagati e dovuti rispetto agli accordi di
ristrutturazione. Gli indicatori selezionati hanno lo scopo di evidenziare
l’insorgere di episodi di sinistrosità che denotino l’impossibilità o la riluttanza a
pagare da parte del debitore sovrano. In caso di accordi di ristrutturazione,
viene posta particolare attenzione alla cut-off date (COD), che rappresenta un
importante punto di cesura nel track record di un determinato Paese. La
presenza di un accordo indica infatti la volontà del Paese di far fronte ai propri
obblighi nonostante non sia in grado di rispettare le condizioni contrattuali
fissate originariamente; verrà monitorata quindi la puntualità nei pagamenti a
fronte del nuovo piano di ammortamento e un eventuale disallineamento tra
importi dovuti e pagati sarà segnalato dal modello attraverso un peggioramento
dello score. In tale contesto, tuttavia, viene dato un peso maggiore a eventuali
arretrati o indennizzi post-COD, in quanto rappresentano
non solo un segnale di difficoltà a rispettare gli impegni presi nonostante la
ristrutturazione del debito, ma evidenziano che il dissesto finanziario si è esteso
anche alle obbligazioni assunte successivamente all’accordo.
Una volta elaborati i due score (economico-finanziario e dell’esperienza di
pagamento), si perviene al risultato totale del modello: viene assegnata pari
importanza alla situazione economico-finanziaria e al track record dei
pagamenti verso le ECA e quindi il risultato totale è il peggiore dei due score.
Esso viene quindi convertito in categorie di rischio dalla 0 alla 7 e costituisce il
punto di partenza per l’aggiustamento qualitativo.
La procedura di aggiustamento qualitativo ha lo scopo di considerare tutti i
fattori non inclusi nel modello - in quanto non quantificabili - che possono avere
ripercussioni sul profilo di Rischio del Paese. Tra di essi sono importanti in

42
primo luogo la situazione politica, nello specifico la struttura istituzionale, il
livello di democrazia e di rappresentanza delle forze di opposizione, la presenza
di conflitti interni o nelle aree confinanti. Inoltre, viene valutato il quadro legale e
operativo, legato all’adeguatezza e all’indipendenza del sistema legale, al livello
della burocrazia e della corruzione, all’apertura e all’atteggiamento nei confronti
degli investitori esteri. Un altro aspetto è connesso al contesto sociale, alla
disoccupazione e alla presenza di tensioni o rivendicazioni da parte di
minoranze etniche o religiose.
Infine, viene posto l’accento sulla coerenza delle strategie del governo - in
particolare sulla sostenibilità della politica economica - e sulla cooperazione con
le IFI. Altri fattori non inclusi nel modello, che possono essere oggetto di
discussione in sede di aggiustamento qualitativo, riguardano la struttura del
sistema bancario e finanziario, la sua stabilità e redditività, nonché
l’adeguatezza della supervisione da parte delle autorità di vigilanza e l’efficacia
nell’evitare fenomeni di contagio in caso di crisi finanziaria. In generale
l’aggiustamento in positivo (upgrading) rispetto al risultato del modello è limitato
a una sola categoria, mentre il downgrading è potenzialmente illimitato.
Nell’ambito della procedura utilizzata da SACE le informazioni contenute nel
rating derivante dal processo descritto sono integrate da una valutazione
qualitativa del livello di rischio (alto, medio, basso) e dell’outlook dello stesso
(positivo, stabile, negativo) per ciascuno delle seguenti dimensioni del Rischio
Paese:
(i) economica;
(ii) politica nelle sue dimensioni di rischio di esproprio, di trasferimento e
violenza;
(iii) finanziaria e
(iv) operativa.
Sulla base di queste valutazioni viene definito un profilo di rischio sintetico che
combina livello e outlook dei rischi. L’indicatore sintetico che ne deriva è
utilizzato nella valutazione dell’affidabilità del Paese accanto a ciascun sotto-
indicatore settoriale che possa essere di particolare rilievo (ad esempio,
l’indicatore di rischio politico in un Paese a forte conflittualità).

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Le condizioni di assicurabilità indicano l’atteggiamento assicurativo di SACE
verso ciascun Paese, cioè i termini ai quali SACE è disposta ad operare in un
determinato mercato. Se da un lato le categorie sono fissate in ambito OCSE e
sono comuni a tutti i membri, nella scelta delle condizioni di assicurabilità vi è
completa libertà e non vi sono particolari vincoli, al di fuori di eventuali
provvedimenti a livello internazionale che vietino gli scambi commerciali con un
Paese, quali ad esempio un embargo o sanzioni da parte delle Nazioni Unite.
Ogni ECA può quindi definire e calibrare il proprio atteggiamento assicurativo in
base all’esperienza di pagamento, alle strategie di penetrazione commerciale e
all’importanza di determinati mercati di sbocco. Naturalmente il grado di
apertura è commisurato al Rischio Paese e ci si può attendere la presenza di
maggiori restrizioni in Paesi classificati in categorie elevate.
Tuttavia, non necessariamente i Paesi di categoria 7 sono posti in sospensiva,
in quanto vi possono essere casi in cui ad un elevato rischio si associa la
disponibilità ad assicurare una determinata tipologia di operazioni, a condizione
che il premio associato sia sufficientemente elevato da coprire le perdite attese.
È importante sottolineare inoltre che la categoria 7 è molto eterogenea e
comprende realtà molto differenti tra loro.
In questi ultimi casi è possibile ipotizzare una cauta apertura, preferibilmente
per operazioni di importo contenuto o che presentino elementi di mitigazione del
rischio.
Per quanto riguarda la definizione delle condizioni di assicurabilità di SACE, la
valutazione dei rischi si basa su un’analisi quantitativa analoga a quella
sviluppata in sede OCSE, a cui si associa un approfondimento qualitativo volto
a evidenziare particolari aspetti di rischiosità dal punto di vista politico,
economico, bancario, legale e operativo.
In base ai risultati dello studio del Rischio Paese, le tipologie di atteggiamento
assicurativo sono le seguenti: apertura, apertura con restrizioni e chiusura.
L’apertura riguarda i Paesi industrializzati e alcuni Paesi emergenti che non
presentano aspetti di rischiosità particolarmente rilevanti. In questo caso
l’accento si sposta sull’esame delle controparti; tuttavia, anche in assenza di
restrizioni le operazioni vengono valutate singolarmente e, qualora il merito di

44
credito delle controparti fosse ritenuto inadeguato, possono essere applicate
restrizioni particolari correlate al singolo progetto (ad esempio richiedendo
particolari garanzie o riducendo la percentuale di copertura assicurativa).
L’atteggiamento di apertura con restrizioni riguarda Paesi ai quali sono
associate cautele legate alla situazione politica o economica.
Le restrizioni includono le limitazioni per controparte, importi, durate e
percentuale di copertura. Nel primo caso si pongono dei limiti all’attività in
relazione alla natura del debitore (sovrano, banca, o corporate) con le quali
SACE è disposta a operare. In generale quello relativo al debitore sovrano è
considerato il migliore rischio del Paese e in passato l’assicurabilità delle
controparti private era subordinata all’apertura per il rischio sovrano. Tuttavia, in
caso di presenza di divieti all’indebitamento da parte del FMI l’operatività con le
controparti sovrane non è consentita in quanto SACE è tenuta al rispetto delle
indicazioni OCSE in materia di responsible lending. Di conseguenza, ove
possibile verrà esplorata la presenza di controparti private affidabili o verranno
preferite operazioni strutturate. Le limitazioni di importo si concretizzano in limiti
all’assunzione di nuovi impegni verso un determinato Paese. Tali restrizioni
hanno il duplice scopo di segnalare cautela in mercati nei quali SACE non ha
esperienza o, al contrario, di limitare l’esposizione in Paesi verso i quali la
domanda assicurativa è molto sostenuta e la concentrazione degli impegni
elevata, per evitare eccessivi squilibri nel portafoglio complessivo. Le restrizioni
nelle durate riguardano le dilazioni massime di pagamento previste; in alcuni
casi in cui l’esperienza verso un determinato Paese sia limitata, saranno
preferibili operazioni con profilo a breve-medio termine, per consentire di
stabilire un track record adeguato. Infine, la riduzione della percentuale di
copertura (di norma il 95% del valore del contratto per il rischio politico) può
essere utilizzata come strumento di mitigazione del rischio, ma tale restrizione
viene applicata caso per caso a singoli progetti e non a livello di Paese.
Per i Paesi ad alto rischio è infine prevista la chiusura. In caso di sospensiva
l’operatività tradizionale non è consentita; tuttavia, possono essere considerati

45
progetti che presentino elementi di mitigazione del Rischio Paese (operazioni
strutturate, project finance, asset-based), operazioni finanziate da IFI, da altre
ECA o da Banche Regionali di Sviluppo, nonché gli investimenti esteri.
Al monitoraggio continuo si aggiunge un approccio ad hoc in occasione di
progetti rilevanti, allo scopo di analizzare le prospettive di particolari settori o la
solidità di un determinato debitore. In quest’ottica le dinamiche del Rischio
Paese si affiancano e si integrano con la valutazione delle controparti,
nell’ambito complessivo del processo di assunzione del rischio. È questo il caso
delle operazioni di finanza strutturata o di project financing, che esulano
dall’operatività più standardizzata.
Tali progetti sono solitamente caratterizzati da un impegno finanziario molto
consistente, cui si associa la presenza di meccanismi di mitigazione del Rischio
Paese considerato, inoltre, che il finanziamento viene ripagato con le entrate
generate dal progetto stesso, anche il concetto di debitore perde il suo
significato tradizionale. Di conseguenza, si rende necessario uno studio
approfondito volto non tanto a determinare il livello di rischiosità generale del
Paese, ma ad evidenziare gli aspetti che possono direttamente ripercuotersi sul
progetto. In particolare, verranno analizzati gli effetti sulla redditività
dell’operazione di criticità legate all’imposizione di restrizioni valutarie, alla
svalutazione del cambio, all’aumento o alla diminuzione dei prezzi delle materie
prime utilizzate o prodotte, all’andamento del settore a livello nazionale e
mondiale.
L’approccio caso per caso è indispensabile anche nelle valutazioni relative alla
polizza investimenti: in questo caso l’accento si sposta sugli elementi di
rischiosità che possono avere effetti sulla titolarità e sull’integrità delle attività
detenute all’estero. Verrà posta quindi particolare attenzione al rischio politico,
inteso sia come presenza di conflitti e scontri nell’area interessata
dall’investimento, sia come esistenza di episodi di esproprio (reale o
strisciante), nazionalizzazione o altri provvedimenti delle autorità del Paese che
impediscano il pieno godimento dei diritti di proprietà o il rimpatrio di capitali e
profitti. Anche l’adeguatezza e l’indipendenza del sistema legale, nonché
l’atteggiamento nei confronti degli investitori esteri, costituiranno importanti

46
elementi di valutazione. In tale contesto acquista particolare rilevanza
l’adesione del Paese agli accordi internazionali in merito alla tutela degli
investimenti e la possibilità di appellarsi all’arbitrato internazionale in caso di
dispute.
L’atteggiamento assicurativo complessivo (che comprende le condizioni di
assicurabilità, le categorie di rischio OCSE e le valutazioni su livello e outlook
dei singoli fattori che compongono il Rischio Paese) costituisce il punto di
partenza del processo di valutazione di ogni operazione assicurata. La
valutazione del Rischio Paese - seppure incentrata sugli strumenti di analisi
macroeconomica tradizionale - ha tuttavia lo scopo tangibile di fornire un
sostegno all’attività di assunzione dei rischi e mantiene quindi un approccio
sostanzialmente pragmatico.

4. Un approccio operativo: Proposta di un Country Risk Index per


EUROPA e PAESI DEL SUD DEL MEDITERRANEO1

4.1 Materiali e Metodi

4.1.1 La scelta delle variabili attraverso l’Analisi Fattoriale Esplorativa


L’analisi della letteratura offre diverse soluzioni per desumere a priori quali
dovrebbero essere le variabili più adatte da inserire all’interno di un indicatore
anche se la scelta è condizionata sia dalla disponibilità dei dati sia dalle finalità
dell’indicatore stesso (Noble et al. 2003, Jarman 1983, 1984 Carstairs et Morris
1991, Grasso 2002, Whelan et al 2010). Nel caso in esame, sulla base delle
variabili legate all’analisi del Rischio Paese, una volta eliminate le variabili che
si presentavano incomplete o manifestamente poco attendibili, si è deciso di
fare un’analisi delle componenti principali sulle restanti variabili individuando
quelle disposte sul primo fattore, utilizzando una metodologia proposta in
letteratura, anche se in altri contesti (Michelozzi et. al. 1999, Testi et. Ivaldi
2009).

1
A causa dell’insufficiente disponibilità dei dati, si è scelto di non considerare nel presente lavoro i seguenti
Paese: Andorra, Kosovo, Liechtenstein, Monaco, Montenegro, San Marino e Città del Vaticano.

47
L'analisi fattoriale si pone l'obiettivo di riassumere l'informazione contenuta in
una matrice di correlazione o di varianza/covarianza, cercando di individuare
statisticamente le dimensioni latenti e non direttamente osservabili (Stevens
1986). In sintesi, si può affermare che, se due variabili presentano una forte
correlazione con uno stesso fattore, una parte non trascurabile della
correlazione tra le due variabili si spiega col fatto che esse hanno quel fattore in
comune (Dillon e Goldstein 1984). Fornendo, quindi, un principio di
identificazione di questi fattori comuni, l’analisi fattoriale fornisce una
descrizione in forma semplice, della complessa rete di interpolazioni esistente
nell'ambito di un insieme di variabili associate (Carrol et al. 1953). Questa
descrizione consente di definire, all'interno della matrice di correlazione, un
limitato numero di componenti indipendenti l'una dall'altra e identificate nei
fattori: esse spiegano il massimo possibile di varianza delle variabili contenute
nella matrice d’informazione originaria. Data una matrice n x p contenente p
variabili rilevate su n unità, si tratta di verificare in che misura ciascuna variabile
costituisce una ripetizione della descrizione effettuata dalle rimanenti p-1 e,
quindi, se esiste la possibilità di raggiungere la stessa efficacia descrittiva con
un numero minore di variabili non osservate dette, appunto, fattori.
Nell’applicazione in oggetto, al fine di determinare la dimensione latente dei
fattori è stato utilizzato il metodo di estrazione delle componenti principali. Tale
metodo si propone di sostituire le variabili originarie con un certo numero di
variabili (tra loro non interdipendenti), ottenute come trasformazione lineare
delle variabili originarie, riducendo così il numero di variabili necessarie a
descrivere un certo ambito. Si tratta cioè di ricercare una serie di trasformate
della matrice originaria dette, appunto, componenti principali, che spieghino
quanta più parte possibile della varianza delle variabili originarie e che siano tra
loro ortogonali. É possibile estrarre tante componenti quante sono le variabili
originarie, quando però lo scopo è quello di conseguire un’economia nella
descrizione in termini quantitativi di un certo fenomeno, il risultato fornito
dall'applicazione del metodo è tanto più utile quanto minore è il numero di
componenti prese in considerazione. In genere il processo viene arrestato non

48
appena la parte di varianza delle p variabili estratte dalle prime q componenti è
sufficientemente grande.
L'analisi delle componenti principali genera quindi uno spostamento del sistema
di riferimento in corrispondenza del baricentro, in pratica viene cambiato
esclusivamente il punto di osservazione del collettivo allo studio.
A causa del fatto che le variabili possono venir saturate in modo pressoché
uguale da diversi fattori, si pone il problema della rotazione dei fattori
(Krzanowski et Marriott 1995). La rotazione si sostanzia nella riduzione dei pesi
fattoriali che, nella prima fase, erano già relativamente piccoli e nell'incremento,
sia positivo che negativo, dei valori dei pesi fattoriali che erano preponderanti
nella prima fase. Infatti, la matrice delle saturazioni non presenta un'unica
soluzione e, attraverso la sua trasformazione matematica, si possono ottenere
infinite matrici dello stesso ordine. È per questo che i fattori vengono trasformati
o analizzati mediante un procedimento di rotazione degli assi. In una soluzione
non ruotata, infatti, ogni variabile è spiegata da due o più fattori comuni, mentre
in una soluzione ruotata ogni variabile è spiegata da un singolo fattore comune.
Anche per le rotazioni sono disponibili metodi diversi; esse sono classificabili in
rotazioni ortogonali, dove la rotazione degli assi è soggetta al vincolo della
perpendicolarità tra gli assi, e rotazioni oblique, dove tale vincolo è rilasciato del
tutto o parzialmente.
La pluralità delle tecniche di rotazione dei fattori provoca una indeterminatezza
nella soluzione fattoriale, poiché non è possibile stabilire quale delle rotazioni
sia migliore in assoluto; e questo non solo per la scelta tra rotazione obliqua e
rotazione ortogonale, ma anche all'interno dei due tipi di rotazione. Questo
implica che insiemi diversi di punteggi fattoriali risultano ugualmente plausibili e
che la scelta di una soluzione piuttosto che di un’altra possa risultare arbitraria.
Nell'analisi fattoriale l'indeterminatezza si verifica pertanto a due livelli: 1)
nell'accettazione della soluzione che soddisfa il modello in senso statistico; 2)
nella ricerca di una soluzione più facilmente interpretabile di quella ottenuta in
prima istanza (Guilford et Hoepfner 1971). In ogni caso, nell'ambito delle analisi
esplorative condotte per trarre informazioni sulla struttura latente dei dati
osservati, il disporre di più interpretazioni mutuamente consistenti può essere

49
considerata una situazione di privilegio e non di svantaggio (Johnson &
Wichern, 2002).
Per quanto concerne il lavoro in oggetto, prove successive con diversi algoritmi
di estrazione e rotazione, hanno mostrato una concreta stabilità dei fattori
estratti, tuttavia è sembrato opportuno applicare la rotazione Quartimax che
massimizza la varianza delle saturazioni per riga (Carroll 1953). In tal modo è
possibile concentrare più varianza possibile per ogni variabile su un unico
fattore, facendo sì che sia minimo il numero di fattori per cui la singola variabile
ottenga pesi significativi (Neuhaus & Wrigley, 1954).
Questa rotazione fornisce risultati migliori della rotazione Varimax (Kaiser 1958)
quando si voglia semplificare il primo fattore estratto perché è un metodo che
minimizza il numero dei fattori estratti.

4.1.2 Il Modello fattoriale


Al fine di procedere con la costruzione dell’indicatore, è necessario decidere poi
come combinare tra loro gli indicatori selezionati.
La scelta delle variabili da utilizzare nell’indicatore può essere effettuata
privilegiando quelle che si presentano disposte sulla prima componente.
Procedendo ad una analisi fattoriale eseguita sulle variabili estratte in
precedenza, è possibile utilizzare come indice il punteggio fattoriale (Ivaldi et
Testi, 2010), che rappresenta la collocazione di ciascun Paese nello spazio di
rappresentazione individuato dal fattore estratto, il quale a sua volta sintetizza
l’informazione posseduta dagli indicatori parziali (Johnson, & Wichern 2002).

4.1.3 La validazione dell’indicatore proposto


Al fine di fornire una misura di validazione relativamente alla letteratura, è
possibile utilizzare il coefficiente di correlazione di Spearman che confronta la
distribuzione dei ranghi dell’indicatore proposto con un indicatore di Rischio
Paese esistente (Coface 2009) .
Tale coefficiente può assumere valori che vanno da 0 (tra i ranghi delle due
variabili vi è assenza di correlazione) e + 1 (tra i ranghi delle due variabili vi è
correlazione perfetta).

50
4.1.4 La suddivisione in classi
Al fine di individuare una suddivisione dell’indicatore in gruppi di Paesi è
possibile ricorrere a “raggruppamenti omogenei”, prevedendo un numero
limitato di classi che identifichino livelli crescenti dell’indice cui assegnare ogni
unità di riferimento per la quale questo è stato calcolato (Carstairs 2000). Per
individuare le classi e per poter discriminare tra i diversi livelli di disuguaglianza,
la letteratura suggerisce di suddividere la distribuzione degli indici in base ai
suoi parametri (Carstairs et Morris., 1991), oppure ricorrendo a decili di
popolazione (Jarman 1983; Townsend et al. 1988). Nel caso in esame, appare
più corretto utilizzare il primo metodo che consente di mantenere le
caratteristiche discriminatorie della distribuzione (Carstairs 2000).
La distribuzione dell’indice è stata pertanto suddivisa in sei classi: la classe 6
identifica i Paesi con un indicatore di Rischio Paese più elevato, la classe 1
contiene, al contrario, i Paesi connotati da un coefficiente dell’indicatore più
basso.

4.2 Risultati
4.2.1 La scelta delle Variabili attraverso l’Analisi Fattoriale Esplorativa
Per definire il campo di indagine si è svolta una preliminare analisi sulla
disponibilità dei dati di fonte Eurostat, World Bank , Cia Word Factbook e AON
(Agenzia di Consulenza per la gestione del Rischio) per tutti i Paesi esaminati
con riferimento agli ultimi dati disponibili (2009).
Partendo da una analisi della letteratura per cercare di individuare quali siano le
variabili suggerite per la determinazione del Rischio Paese, ne sono state
individuate 14 che presentavano una certa completezza informativa (Tabella
3).

51
Tabella 3: variabili selezionate
Variabili

1. Human Development Index2

2. Political Risk Country3

3. Net Migration Rate

4. Annual average rate of change in Harmonized indeces of consumer


country

2
L'Indice di sviluppo umano (in inglese: HDI-Human Development Index) è un indicatore di sviluppo
macroeconomico realizzato dall'economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990. È stato utilizzato, accanto al
PIL, dalle Nazioni Unite a partire dal 1993 per valutare la qualità della vita nei Paesi membri (HDR (2009).
Viene calcolato usando le seguenti tre dimensioni:
1. Una vita lunga e sana: misurata dall'Aspettativa di vita alla nascita
2. L'accesso alla conoscenza: misurata dagli Anni medi di istruzione e dagli Anni previsti di
istruzione
3. Uno standard di vita dignitoso: misurato dal Reddito nazionale lordo (GNI) pro capite (in termini
di parità di potere d'acquisto in dollari USA)

3
Aon ha classificato il rischio politico ed economico di 209 Paesi e territori, misurando il rischio legato
all’impossibilità di convertire o trasferire la valuta locale; il rischio di scioperi, tumulti e agitazioni civili;
guerre; terrorismo; default pubblico; instabilità politica; interruzione della catena logistico-produttiva; rischi
legali e legislativi. I rischi in ciascun Paese sono stati tradotti attraverso una variabile qualitativa e pertanto
sono stati classificati come Basso, Medio-Basso, Medio, Medio-Alto, Alto o molto elevato. Ai fini del
presente lavoro è stato assegnato alla variabile un valore numerico da 1(molto elevato) a 6(basso).
Secondo il Report Aon, in Europa il livello di rischio politico ed economico è sostanzialmente Basso o Medio-
Basso con l’eccezione di alcuni dei Paesi balcanici e dell’Est Europa, mentre raggiunge livelli più elevati nei
Paesi dove è alta la concentrazione di giacimenti petroliferi. Inoltre la probabilità di attacchi terroristici, guerre
civili e paralisi nell’attuazione di riforme strutturali è relativamente bassa nella maggior parte dei Paesi più
ricchi del mondo mentre tali rischi sono elevati nei sistemi economici in forte crescita.

52
5. Gini coefficient4

6. Employment rate in % of labour force

7. Real GDP growth rate

8. Population growth rate

9. Government deficit/surplus

10. Central government debt per capita

11. Imports of goods and services (% GDP)

12. Exports of goods and services (% GDP)

13. Total reserves (% GDP)

14. Population ages 15-64 in % of total

Sulla base dell’analisi fattoriale esplorativa effettuata sulle 14 variabili, sono


state individuate quelle disposte sul primo fattore (Ivaldi and Testi 2011), come
evidenziato dalla Tabella 4, che risultano essere

1. Human Development Index


2. Political risk Country
3. Net migration rate
4. Annual average rate of change in Harmonized indeces of consumer
country

4
Il coefficiente di Gini è una misura di dispersione statistica sviluppata dallo statistico e sociologo italiano
Corrado Gini (Gini 1912). Il coefficiente di Gini è una misura di distribuzione di ineguaglianza: un valore di 0
esprime la presenza di totale uguaglianza mentre un valore pari a 1 esprime il livello massimo di
ineguaglianza. La sua applicazione si trova in discipline anche diverse tra loro: economia, sociologia, scienze
della salute, chimica, agricoltura ecc. ed è comunemente usato come misura di ineguaglianza di benessere e/o
di reddito.

53
5. Population growth rate
6. Central government debt per capita
7. Gini coefficient
8. Employment rate in % of labour force

Tabella 4: Analisi Fattoriale, rotazione Quartimax


Rotated Component Matrix(a)

Component
1 2
HDI ,732 ,099
Political risk Country ,720 -,038
net migration rate ,678 ,224
Annual average rate
of change in
Harmonized indeces ,594 -,021
of consumer country
(-)
Population growth
,571 -,422
rate
Central government
debt per capita (-) -,566 -,504
Gini coefficient ,546 ,185
employment rate (%
of labour force) ,526 -,122
Imports of
goods and services ,186 ,873
(% GDP)
Exports of
goods and services ,493 ,698
(% GDP)
Population ages 15-
64 (% of total) -,497 ,625
Government
deficit/surplus/GDP ,399 -,425
Real GDP growth rate ,078 -,423
Total reserves
-,099 -,403
(%GDP)
Extraction Method: Principal Component Analysis.
Rotation Method: Quartimax with Kaiser Normalization.
a Rotation converged in 3 iterations.

54
4.2.2 Il modello fattoriale
Procedendo ad una analisi fattoriale eseguita sulle variabili estratte in
precedenza, è possibile utilizzare come indice di Rischio Paese il punteggio
fattoriale, che rappresenta la collocazione di ciascun Paese nello spazio di
rappresentazione individuato dal fattore estratto, il quale a sua volta sintetizza
l’informazione posseduta dagli indicatori parziali (Testi and Ivaldi 2009,
Michelozzi et al. 1999, Hogan and Tchernis 2004). Tale indicatore presenta
asimmetria positiva (Indice di asimmetria di Pearson pari a 0,22), media 0 e
scarto quadratico medio pari a 0,98 (Tabella 5).

Tabella 5: Indice Fattoriale


Factorial Country Risk Index
Country
(FCRI)
Luxembourg 2,88696
Norway 1,35911
Austria 1,13481
Sweden 1,1041
Netherlands 1,05421
Switzerland 1,01411
Germany 0,87701
Belgium 0,77898
Ireland 0,77208
Malta 0,75982
Finland 0,75517
Italy 0,74255
Czech Republic 0,73775
United Kingdom 0,73674
Denmark 0,73195
Slovenia 0,68724
France 0,68269
iceland 0,56574
Cyprus 0,55671
Spain 0,3985
Greece 0,38391
Portugal 0,34901
Slovakia 0,10184
Hungary 0,07016
Croatia 0,05407
Poland -0,21658
Romania -0,29695
55
Algeria -0,62076
Tunisia -0,69705
Estonia -0,70105
Bulgaria -0,73115
Lithuania -0,74858
Albania -0,83049
Ukraine -0,86838
Morocco -0,90136
Libya -0,9143
Russia -0,9523
Egypt -0,98282
Serbia -1,0296
Latvia -1,17342
Turkey -1,17656
Belarus -1,39464
Moldova -1,61954
Macedonia -1,70499
Bosnia and Herzegovina -1,73473

4.2.3 La validazione dell’Indicatore


Al fine di confrontare l’indicatore proposto con una misura presente in
letteratura che esprime il Rischio Paese, si è scelto di effettuare una
correlazione dei ranghi tra il FCRI e l’indice di Rischio Paese elaborato da
COFACE5 (Guida Coface al Rischio Paese 2009) (Tabella 6).

5
Fondata nel 1946, Coface è esperta mondiale nella gestione dei crediti. Ogni anno
organizza un incontro con esperti internazionali in tema di Rischio Paese, per definire il
quadro di riferimento economico dei mercati e le relative considerazioni in merito alla
valutazione del rischio commerciale e politico. L’analisi di Coface sul rischio viene
presentata attraverso un esame dell’anno passato e delle prospettive per il futuro. Per
poter fare delle previsioni sull’evoluzione di ciascun Paese vengono utilizzati aggregati
macroeconomici indispensabili per la comprensione del contesto degli affari. I
principali indicatori economici sono differenti per Paesi ricchi e per Paesi meno ricchi:
per i primi troviamo lo sviluppo, la variazione annuale dei consumi e degli investimenti,
l’inflazione, il tasso di disoccupazione, il tasso d’interesse a breve, saldo pubblico/ Pil,
il debito pubblico/ Pil, la variazione annuale delle esportazioni e delle importazioni e il
saldo corrente/ Pil mentre per i Paesi meno ricchi vengono esaminati in aggiunta
56
Tabella 6: valori del rho di Spearman

Spearman's rho Correlations

COFACE
FCRI ,924(**)
** Correlation is significant at the 0.01 level (2-tailed).

Il coefficiente di Spearman tra i due indicatori presenta un valore di 0,924,


mostrando una corrispondenza molto vicina all’unità tra i due indicatori e
pertanto una significativa validità dell’indicatore proposto.

4.2.4 La suddivisione in classi


Nella Tabella 7, i Paese sono raggruppati in 6 classi omogenee sulla base dello
scarto quadratico medio della distribuzione dell’indicatore. Al fine di individuare
sei categorie omogenee si sono utilizzati i valori di  e 1/2 come cut off
delle classi. Tali classi individuano livelli di Rischio Paese crescenti.

Tabella 7: Classi di Rischio Paese


Classi Paese
1 Luxembourg, Norway, Austria, Sweden,
Netherlands, Switzerland
2 Germany, Belgium, Ireland, Malta, Finland, Italy,
Czech Republic, United Kingdom, Denmark,
Slovenia, France, Iceland, Cyprus
3 Spain, Greece, Portugal, Slovakia, Hungary,
Croatia
4 Poland, Romania

indicatori quali il debito estero/Pil, il servizio del debito/ Export e le riserve in mesi di
importazioni.
Nel presente lavoro si è cercato invece di creare un indicatore sulla base delle stesse
variabili per tutti gli Stati per poter confrontare in maniera più omogenea i risultati
ottenuti.

57
5 Algeria, Tunisia, Estonia, Bulgaria, Lithuania,
Albania, Ukraine, Morocco, Libya, Russia, Egypt
6 Serbia, Latvia, Turkey, Belarus, Moldova,
Macedonia, Bosnia and Herzegovina

Infine, per fornire una rappresentazione più immediata delle classi, si presenta
una mappa dell’Europa suddivisa per diversi livelli di Rischio Paese (Figura 2)

58
Figura 2: Europa e Paesi limitrofi suddivisi per classi di Rischio Paese

59
4.3 Discussione
4.3.1 Europa e CSI:
Nel 2009 l’Europa e la zona Euro hanno evidenziato una flessione dell’attività
che colpisce in modo particolare l’industria dei servizi. Quasi tutti motori di
crescita restano imballati: i consumi delle famiglie rimangono stagnanti, gli
investimenti delle imprese segnano un brusco calo, il settore immobiliare
residenziale e commerciale entra in fase negativa, mentre le esportazioni
evidenziano una flessione. Fino alla fine del 2009, alcuni settori negativi - come
il calo di fiducia degli operatori economici privati, le condizioni più restrittive di
accesso al credito bancario e la generale tendenza al disindebitamento
rappresentano un serio ostacolo a qualsiasi tentativo di ripresa.
L’ammorbidimento delle politiche economiche consente di alleviare solo in
minima parte la recessione. Le riduzioni dei tassi di interesse hanno un riflesso
decisamente modesto sugli istituti di credito. In questo difficile contesto
economico, alcuni Stati hanno scelto di congelare alcune il risanamento delle
loro finanze pubbliche mentre gli Stati che beneficiavano di un’eccedenza,
hanno scelto di sostenere l’attività economica.
In generale, la spesa delle famiglie continua a rimanere stagnante soprattutto
per quanto riguarda l’acquisto dei beni durevoli. La maggiore oculatezza
nell’acquisto di beni durevoli è dovuta alla rarefazione e al rincaro del credito,
all’aumento della disoccupazione e al deprezzamento del patrimonio
immobiliare e finanziario. La decrescita dell’inflazione - peraltro netta per i
prezzi dei prodotti alimentari rispetto all'energia - e la distensione dei tassi
d’interesse primari, o gli eventuali alleggerimenti fiscali, attenueranno solo in
parte la tendenza la contrazione della spesa delle famiglie.
Di fronte alla debolezza della domanda generale, le imprese optano per la
riduzione degli investimenti sia in materia di attrezzature sia immobiliari. Solo
l'investimento pubblico - in strutture, social housing ecc., a livello sia di Stati sia
di enti locali - vede il suo dinamismo aumentare, grazie ai diversi piani di rilan-
cio economico.
La maggior parte delle imprese dove continuare a confrontarsi con l'inerzia della
domanda e con la conseguente riduzione della produttività. Poiché

60
l'adeguamento dell'offerta alla domanda non è mai né immediato né totale
occorre procedere in molti casi alla riduzione dei prezzi. Inoltre, poiché i costi
finanziari sono sensibilmente aumentati - a causa della maggiore severità delle
condizioni di accesso al credito di imposta dalle banche - gli utili delle aziende
della regione sono di conseguenza sensibilmente ridotti.
Le differenze sono ancora più pronunciate tra i diversi settori di attività. Ecco
quelli che sembrano evidenziare maggiori fragilità (Daudier et. al. (2009):
- l'edilizia, soprattutto residenziale, i servizi immobiliari, la
produzione/distribuzione specializzata di materiali da costruzione,
l'arredamento e gli elettrodomestici saranno molto penalizzati dalla fase
negativa che ha colpito l’attività economica del settore edile;
- il comparto automobilistico, compresi i costruttori, i distributori e i
produttori di sistemi elettrici, subirà gli effetti della caduta delle im-
matricolazioni sia nella regione sia negli altri mercati;
- il trasporto di merci - fluviale, marittimo o terrestre - e il commercio
dovranno confrontarsi con il rallentamento generale dell'attività;
- il trasporto aereo di passeggeri, il settore alberghiero-ristorazione,
soprattutto il segmento dipendente dalle imprese e dai turisti stranieri,
saranno colpiti dall'atteggiamento estremamente prudenziale di questi
ultimi. I produttori di sistemi elettrici per l'aeronautica, soprattutto se
fornitori anche del settore automobilistico, rischiano di soffrire la limi-
tazione della spesa decisa dalle compagnie aeree;
- il legno, la carta e il cartone soffriranno a causa della crisi che ha
investito l'edilizia, l'arredamento, l'imballaggio, la stampa e la pubblicità.
La produzione e distribuzione di beni di consumo correnti, abbigliamento in
particolare, sono invece penalizzate dal comportamento prudenziale dei
consumatori. Solo l’agroalimentare deve opporre una buona resistenza, tanto
più che i costi di produzione si riconducono grazie alla flessione dei prezzi dei
prodotti agricoli.
L’Europa emergente, che dipende dai flussi di capitali e dai crediti dei non
residenti, è stata fortemente colpita dalla maggiore severity delle condizioni di
accesso al credito e dalla crescente avversione al rischio, a causa del deficit

61
corrente molto elevato accumulato da vari Paesi. La diminuzione della
domanda proveniente dall'Europa occidentale ha pesato negativamente anche
sulle esportazioni, mentre il commercio rappresenta un notevole canale di
rallentamento.
Peraltro, in molti casi il credito concesso alle famiglie e alle imprese è stato
spesso accordato in valuta (prevalentemente in euro). Ma con la flessione dei
tassi di cambio registrata a fine 2008, il rischio di default per le imprese e le fa-
miglie è sensibilmente aumentato, soprattutto in considerazione della
componente di tutto rispetto rappresentata dalle scadenze da rimborsare in
euro.
Nel 2009 gli Stati del CSI sono certamente molto solvibili, ma in questi ultimi
anni le imprese private e le banche si sono fortemente indebitate all'estero e
questo è un elemento di forte debolezza nell'attuale contesto finanziario. II
contesto economico, particolarmente fuori fase rispetto alle altre zone mondiali,
contribuisce ad alimentare la sfiducia degli investitori esteri. La crisi finanziaria
ha colpito anche la principale economia dell'area, la Russia, che rappresenta da
sola i tre quarti del Pil della regione CSI. La caduta degli indici borsistici
nell’'autunno 2008 - coniugata al blocco del mercato interbancario - ha
contribuito a indebolire le imprese indebitate in valuta, nonostante gli interventi
del governo attraverso le banche pubbliche. A fine 2008, l'attività economica è
entrata in una fase di forte rallentamento e anche nel 2009 il tasso di crescita
rimane relativamente debole. Si osservi infine come il rischio politico dei Paesi
appartenenti all’Unione Europea sia molto basso, mentre Paesi ex Sovietici e
ex Jugoslavi presentano ancora livelli molto alti di instabilità politica.

62
4.3.2 Paesi del Sud Mediterraneo
La crescita regionale - trainata negli ultimi anni dal boom petrolifero dei Paesi
produttori - dal secondo semestre del 2008 ha iniziato a patire gli effetti della
crisi finanziaria di provenienza americana che si è propagata attraverso diversi
canali. Il ribasso del prezzo del petrolio a seguito del fallimento della Lehman
Brothers e la presa di coscienza collettiva della dimensione della crisi
finanziaria e del deterioramento delle prospettive economiche ha accelerato il
brusco ritiri di capitali speculativi. La flessione dei prezzi, combinata alla
flessione della domanda mondiale di petrolio, si traduce in una forte caduta dei
redditi dei Paesi produttori che si traduce con un rallentamento della crescita
regionale, peraltro con la tendenza mondiale. I grandi progetti infrastrutturali e
di sviluppo del settore immobiliare sono rivisti al ribasso.
La crisi finanziaria è stata preceduta da una serie di tensioni sul mercato
creditizio. In un contesto di ampi progetti di sviluppo sono cresciuti più
rapidamente i crediti dei depositi, costringendo di fatto le banche commerciali a
trovare finanziamenti esteri. Comunque tranne qualche raro istituto di credito, i
sistemi bancari non sono stati colpiti dalla crisi dei subprime. Nelle economie
petrolifere, i considerevoli attivi finanziari accumulati negli ultimi anni hanno
consentito di sostenere le banche e il sistema creditizio, mentre gli altri Paesi
della regione sono invece colpiti dalla maggiore severità delle condizioni di
accesso al credito, che andrà a colpire i servizi finanziari, i consumi delle
famiglie egli investimenti privati.
Le principali piazze, su modello degli altri Paesi emergenti, hanno seguito il
trend ribassista registrato nei mercati azionari occidentali.
Nel 2009, l’alleggerimento della bolletta petrolifera e delle materie prime, che
nel 2008 aveva inciso negativamente sui Paesi non produttori, sommato al
rallentamento delle importazioni e dell’attività consente di ammortizzare la
diminuzione delle esportazioni, introiti del turismo e rimesse della mano d’opera
emigrata.
In questa regione la situazione politica rimane sempre piuttosto incerta (Montail
et. al. (2009)): le istituzioni sono ancora parecchio fragili e non si possono
escludere potenziali rischi di guerra civile. Questa incertezza non ha avuto

63
finora un notevole impatto sull’economia della regione a causa del boom
petrolifero. Le sovvenzioni per il miglioramento delle infrastrutture e dei servizi
sociali hanno consentito di contenere eventuali effetti negativi legati al clima
sociale. Per preservare questa situazione di equilibrio, le autorità fanno il
possibile per mantenere la spesa pubblica ad un livello sufficiente, nonostante
la congiuntura negativa. Per contro la frustrazione dei giovani laureati, colpiti in
pieno dalla disoccupazione, amplifica il rischio sociale, che potrebbe del resto
aumentare anche per effetto delle difficoltà con cui sono costretti a confrontarsi i
settori economici più esposti alla crisi mondiale e il turismo, uno dei più
importanti settori occupazionali. In ultima analisi anche in questo caso una
riflessione sul rischio politico, piuttosto elevato in Algeria, Egitto, e Libia e
leggermente migliore in Tunisia e Marocco, ma comunque molto lontani dai
livelli dei Paesi dell’Unione Europea.

4.3.3 Analisi per singolo Paese


Al fine di un maggior livello di dettaglio si procede ora ad una breve analisi per
singolo Paese secondo la classe di rischio (Tabella 7).
Lussemburgo: dopo molti anni di forte crescita, l’economia lussemburghese ha
subito una decelerazione nel secondo semestre 2008. Questa brusca frenata si
spiega con la considerevole entità che occupa il settore finanziario (40% del
Pil), le cui difficoltà si sono successivamente allargate al settore manifatturiero e
agli altri servizi per le imprese. Le esportazioni soffrono da un lato del ribasso
dei prezzi e della domanda di prodotti siderurgici. Tutte le attività della piazza
lussemburghese risentono della congiuntura globale. L’investimento delle
famiglie e dell’imprese, che si tratti di edilizia o di spese di impianto, è in
ripiegamento. Solo l’investimento pubblico conserva un certo vigore. I consumi
familiari tendono comunque a resistere grazie a nuovi incentivi fiscali che, con
la diminuzione delle entrate fiscali provenienti dal settore finanziario, avranno
però come conseguenza di spingere in rosso le finanze pubbliche. Le imprese
resistono al deterioramento del contesto economico grazie al consolidamento
del bilancio verificatosi nel corso degli anni precedenti (Coface 2009). Il
Lussemburgo si colloca al primo posto nel rank dell’indice, confermando la

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posizione dell’indice Coface; quasi tutte le variabili che compongono l’indicatore
sono infatti ben al di sopra delle 15 posizioni ad eccezione del debito, per il
quale il Paese occupa l’ultimo posto.
Norvegia: la crescita del Paese ha incominciato a decelerare durante il 2008
tuttavia la recessione è stata evitata grazie alle ripercussioni positive dell’attività
di estrazione di petroli e di gas off - shore che, nonostante una caduta dei
prezzi del petrolio continua a crescere. I consumi familiari hanno rallentato
sostanzialmente a partire dal 2008 e sono rimasti deboli nel 2009. il
deprezzamento del patrimonio finanziario e immobiliare, la contrazione nella
creazione di posti di lavoro e l’aumento, anche se limitato, della
disoccupazione, associati a condizioni di credito meno favorevoli, hanno indotto
le famiglie al risparmio a scapito degli acquisti, in particolare di beni duraturi.
L’investimento delle imprese ha subito un’evoluzione meno sfavorevole
soprattutto per quelle imprese presenti nel settore petrolifero of f- shore. La
spesa pubblica conserva ancora un marcato dinamismo, rafforzato dal piano di
rilancio. Le entrate legate agli idrocarburi, anche se ridotte, continuano a
garantire un’ampia eccedenza alle finanze pubbliche. Il contesto economico
sfavorevole è all’origine del deterioramento della situazione finanziaria delle
imprese. I settori che ne hanno risentito di più sono l’edilizia, i servizi
immobiliari, il trasporto merci, i veicoli da trasporto ed il commercio
specializzato (Coface 2009). Anche nel caso della Norvegia l’indicatore
conferma la posizione nel rank Coface, dovuto soprattutto alla seconda
posizione nell’indice di sviluppo umano, nel tasso di occupazione (ove occupa
la seconda posizione) e nell’indice di Gini, seconda soltanto alla Svizzera.
Austria: l’attività ha rallentato a partire dal secondo semestre 2008. l’origine di
questa situazione è situata all’estero: mentre le esportazioni, che rappresentano
il 60% del Pil, sono depresse dalla crisi economica globale, la domanda interna
resiste. Le esportazioni che costituiscono il principale pilastro della crescita,
hanno considerevolmente rallentato a causa del ristagno che ha investito
l’economia in Europa occidentale. Il rallentamento economico all’Est del
continente dove l’Austria è ben posizionata costituisce una perdita
supplementare. I consumi familiari sono quindi il principale sostegno allo

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sviluppo ma rimangono comunque poco dinamici a causa della debole crescita
dei salari e del deterioramento della situazione occupazionale. Nonostante il
degradarsi dl contesto economico, la situazione delle imprese si è confermata
in maniera soddisfacente. Gli ultimi tre anni, eccellenti, hanno permesso di
consolidare i bilanci e la disponibilità di una discreta liquidità. Non si sono
verificate bolle immobiliari anche i settori più esposti al rischio sono l’edilizia, il
legno, il commercio di mobili ed elettrodomestici e il settore automobilistico che
risente della riduzione delle vendite nel continente (Coface 2009). L’Austria si
colloca al primo posto nell’indicatore parziale dell’inflazione, al terzo nell’indice
di Gini, confermandosi nella prima classe così come nell’indice Coface.
Svezia: nel 2008, dopo una partenza eccellente, l’economia ha decelerato fino
ad arretrare nel secondo trimestre per poi avere una lenta ripresa nel corso dei
primi mesi del 2009. Il calo dell’inflazione ed una riduzione delle imposte sul
reddito riescono a compensare solo parzialmente il deprezzamento del
patrimonio immobiliare e finanziario. I profitti delle imprese soffrono per la
riduzione dell’attività che non compensa la diminuzione del costo dell’energia e
delle materie prime. Tuttavia la situazione finanziaria delle imprese permane
nell’insieme soddisfacente grazie soprattutto a quattro anni di forte crescita che
hanno consentitolo di consolidare i loro bilanci (Coface 2009). La Svezia
conferma la medesima classe dell’indicatore Coface, grazie soprattutto alla
prima posizione nell’indice di Gini relativo alla distribuzione del reddito, e alla
quarta posizione nell’indice di sviluppo umano.
Paesi Bassi: nonostante le pressioni inflazionistiche e il deterioramento della
fiducia delle famiglie e delle imprese, la domanda interna ha resistito
positivamente nel corso del 2008. Il buon andamento del mercato
dell’occupazione e l’aumento, anche se moderato, dei redditi reali hanno
favorito le spese familiari. Le imprese hanno aumentato i loro investimenti. Le
esportazioni hanno rallentato, conservando comunque un ritmo soddisfacente.
Le eccedenze di bilancio sono ulteriormente migliorate, grazie alle entrate
derivanti dalla vendita del gas. La recessione per l’Olanda inizia nel 2009 a
causa della forte dipendenza del Paese alla domanda estera. Le difficoltà del
settore bancario comportano un aumento dei fallimenti. Questo abbinato al

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rallentamento della domanda mondiale indebolisce le imprese meno solide del
settore manifatturiero e tra le Pmi meno solide che operano sul mercato
nazionale risentono del rallentamento dei consumi familiari (Coface 2009). In
prima classe secondo l’indicatore elaborato in questo lavoro, i Paesi Bassi
confermano la posizione attribuitagli dalla guida Coface, terzi nell’impiego e
nell’indice di sviluppo umano.
Svizzera: nel 2008, l’attività ha progredito in modo abbastanza sostenuto,
mentre il contesto internazionale era in fase di deterioramento. I consumi
familiari sono stati favoriti dalla buona tenuta dell’occupazione, dagli aumenti
salariali e dall’arrivo sul territorio di molti lavoratori qualificati. Il 2009 ha
presentato problematiche più accentuate, sia per l’esportazione e gli
investimenti, sia per i consumi familiari. Punto focale di questa tendenza, le
difficoltà del settore finanziario, che hanno pesato sulla crescita fin dal 2008.
Nonostante l’atteso aumento dei salari e del basso livello dell’inflazione, la
fiducia delle famiglie è erosa dallo scenario congiunturale e dal ristagno del
mercato dell’occupazione. Al declino dell’attività europea sia aggiunge un
impatto sfavorevole del tasso di cambio del Franco Svizzero rispetto all’Euro e
alla Sterlina. Il risanamento delle finanze pubbliche è problematico a causa
della diminuzione delle entrate derivanti dall’attività economica e dallo stimolo
fiscale previsto dal governo e dall’aumento delle spese (Coface 2009). Ultimo
Paese a rientrare in classe 1 nell’indice, la Svizzera conferma la classe A1
Coface, soprattutto per la seconda posizione nella variabile relativa alla bassa
inflazione, alla quinta posizione nell’impiego e alla sesta nell’indice di sviluppo
umano.
Germania: in un contesto di forte rallentamento dell’economia e del commercio
mondiale, le esportazioni, che sono state il principale motore (41% del PIL)
della crescita fino all’inizio del 2008, si trovano attualmente ad essere il
principale fattore di recessione. Di fronte al ristagno delle esportazioni,
all’erosione dei margini di profitto e all’inasprimento della concessione dei
crediti, l’industria tedesca ha dato un colpo di freno anche ai suoi investimenti.
Le famiglie poco indebitate non hanno patito il crollo del mercato mobiliare. In
questo contesto sfavorevole i comportamenti di pagamento delle imprese

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hanno subito un deterioramento solo a partire dal 2009. questa situazione
coinvolge tutti i settori strettamente legati all’esportazione. Il deterioramento
dovrebbe tuttavia essere limitato grazie ad un indebitamento generalmente
contenuto e a significative riserve patrimoniali accumulate nel corso degli ultimi
due anni (Coface 2009). La Germania, collocata in classe A1 da Coface,
nell’indicatore proposto nel presente lavoro si colloca in classe 2, sostenuta da
bassa inflazione (3° posto), alto tasso di immigrazione (7° posto) e quinto posto
nell’indice di sviluppo umano.
Belgio: la crescita ha dato segnali vistosi di rallentamento già a partire dal
2008. L’aumento dei redditi e dell’occupazione, decisamente scarso, abbinato
al sensibile incremento dei prezzi al consumo, ha spinto le famiglie a ridurre le
spese. Le imprese, dal canto loro, hanno rallentato gli investimenti, sino ad ora
finanziati da risorse interne. La diminuzione della domanda esterna ha
rallentato la crescita delle esportazioni. Per la prima vota da diversi anni la
bilancia corrente ha registrato un deficit. Il settore bancario è stato
profondamente scosso dalla crisi finanziaria, pertanto anche se le imprese
registrano complessivamente un buon livello di solvibilità, esse risentono
dell’inasprimento delle condizioni di accesso al credito. Di conseguenza sono
aumentati i fallimenti per le piccole e medie imprese dei settori del commercio,
dei trasporti e dell’edilizia (Coface 2009). Collocato in classe A1 da Coface, il
Belgio raggiunge l’8° rank dell’indicatore, posizionandosi in classe 2.
Irlanda: l’arretramento degli investimenti nell’edilizia residenziale (11% del PIL)
è iniziato fin dal 2007 e continua nel 2009. Il consumo delle famiglie è
condizionato dall’esiguo aumento dei salari, conseguenza di un mercato
dell’occupazione in arretramento, da una perdita di ricchezza sia finanziaria sia
immobiliare, nonché dall’inasprimento della tassazione destinato a compensare
parzialmente la riduzione congiunturale delle entrate fiscali. Mentre le
importazioni diminuiscono le esportazioni di servizi, soprattutto informatici,
rimangono al loro abituale livello (Coface 2009). L’Irlanda si colloca nella
seconda classe dell’indicatore, confermando la posizione attribuitagli da
Coface, anche se le variabili che compongono l’indicatore hanno risultati
contrastanti: buon livello di inflazione (6°), alto tasso di immigrazione (2°),

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seconda posizione nell’Indice di sviluppo umano, ma anche basso tasso di
impiego (33°), e soprattutto, alto debito (penultima posizione).
Malta: ha liberalizzato la sua economia a partire dalla sua entrata nella UE
(2004) ed ha aderito alla zona Euro nel gennaio del 2008. Dopo tre anni di
espansione sostenuta, la crescita segna il passo a causa del deterioramento
della situazione internazionale. Gli investimenti sono riusciti tuttavia a resistere
grazie all’aumento delle spese pubbliche per infrastrutture e alla costruzione di
un importante lotto di ufficio per le TIC (tecnologie per l’informazione e la
comunicazione). In compenso il consumo privato nonostante il calo
dell’inflazione è condizionato da un mercato del lavoro meno reattivo. I conti
con l’estero rimangono instabili anche per tutto il 2009. Le esportazioni restano
ferme ed il deficit rimane ad un livello relativamente elevato (Coface 2009).
Malta, in quarta posizione assoluta riguardo al debito, si colloca in seconda
classe di rischio, confermando il dato Coface.
Finlandia: Il notevole calo degli investimenti e delle esportazioni ha rallentato la
crescita sin dall’inizio del 2008. Le imprese hanno ridotto i loro acquisti di beni
strumentali e il mercato dell’edilizia residenziale ha iniziato a regolarsi al
ribasso. I consumi familiari sono stati sostenuti dall’aumento dei redditi che ha
compensato il rialzo dei prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari. Nel 2009 il
ritmo della crescita è rallentato ulteriormente. Il rallentamento dell’apertura di
nuovi cantieri influisce negativamente sull’edilizia e sui settori collegati. Il settore
forestale, che ha un peso rilevante sull’esportazione, soffre della riduzione degli
ordinativi nei comparti dell’imballaggio, dei mobili e dell’edilizia. Anche la
consolidata industria degli apparecchi di telecomunicazioni vede il volume delle
sue vendite condizionato dal rallentamento della domanda mondiale e dalla
crescita di competitor altamente qualificati (Coface 2009). La Finalndia, come
tutti i Paesi Nordici, presenta un buon livello dell’indice di sviluppo umano e una
buona distribuzione del reddito, collocandosi in prima classe Coface ed in
seconda classe per l’indicatore FCRI.
Italia: nonostante la riforma del mercato del lavoro che contribuisce ad
aumentare l’occupazione e a ridurre la disoccupazione, la situazione si
presenta piuttosto instabile. La mancanza di fondi dedicati alla ricerca, di

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tecnologie sofisticate nelle imprese e del numero adeguato di laureati è
all’origine di insufficienti miglioramenti di produttività. L’evasione fiscale e
l’economi sotterranea alimentano un massiccio debito pubblico, riducendo i
margini di manovra del bilancio. Resta presente un pesante divario tra nord e
sud, non colmato da massicce sovvenzioni verso le regioni meridionali (Coface
2009). Collocata in seconda classe da entrambi gli indicatori, l’Italia occupa una
buona posizione riguardo al contenimento dell’inflazione evidenziandosi inoltre
per un discreto tasso di immigrazione.
Repubblica Ceca: L’adesione all’Unione Europea ha rafforzato le prospettive di
crescita del Paese: l’aumento della produttività, il miglioramento dei risultati di
bilancio, e una situazione finanziaria esterna consolidata da un nutrito flusso di
investimenti diretti, hanno posto l’economia in un situazione piuttosto
soddisfacente alla vigilia della crisi finanziaria internazionale. Tuttavia nel 2009
la flessione della crescita si è pronunciata a causa della salita della
disoccupazione, di un più difficile accesso al credito e della recessione nella
zona euro, che influisce negativamente sulle esportazioni e riduce i flussi di
investimenti diretti. La bilancia commerciale rimane in eccedenza, in virtù della
debolezza delle importazioni ed il debito dello Stato rimane entro limiti
ragionevoli (Coface 2009). La Repubblica Ceca, quinta nell’indice di Gini, si
colloca in classe 2, confermando il rank Coface.
Gran Bretagna: a causa delle crescenti conseguenze negative della crisi
finanziaria e immobiliare sulle spese familiari e sugli investimenti delle imprese,
il 2009 evidenzia un arretramento dell’attività. L’economia del Regno Unito
presenta infatti una profonda dipendenza dai servizi finanziari e dall’edilizia. La
crisi non ha posto tuttavia in discussione la presenza di molti istituti finanziari
che fanno della City il principale centro finanziario d’Europa (Coface 2009).
Anche il Regno Unito si trova in classe 2, analogamente al rank Coface, che gli
attribuisce un giudizio di A2. La posizione in classe 2 è dovuta soprattutto all’8°
posto nel tasso di immigrazione e al 10° nel contenimento dell’inflazione.
Danimarca: è stato il primo Paese europeo ad entrare in recessione nel 2008.
L’attività ha rallentato a causa dell’erosione dei consumi delle famiglie, la cui
fiducia è stata intaccata dall’aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse e

70
dalla stretta alla concessione del credito. Anche le imprese hanno ridotto
sensibilmente il loro investimento (Coface 2009). Nel caso della Danimarca
l’indicatore FCRI sembra rilevare le criticità del Paese in misura maggiore
dell’indice Coface che colloca la Danimarca in classe A1. Alla Danimerca viene
infatti assegnata la classe 2, soprattutto in forza di alcune criticità nel basso
tasso di immigrazione e nell’alto debito.
Slovenia: di dimensioni modeste e molto aperta, l’economia è notevolmente
dipendente dalla congiuntura della zona Euro. Tenuto conto della debolezza
degli investimenti diretti e di un mercato azionario poco sviluppato. Le imprese
si sono rivolte prioritariamente verso il prestito bancario. Per finanziare il
eredito, le banche locali, a loro volta si sono notevolmente indebitate all’estero
rendendole dipendenti dai mercati finanziari internazionali. La crescita è stata
relativamente nutrita sino al 2008, in compenso, l’inflazione, la più elevata nella
zona euro, ha pesato sui consumi, nonostante l’aumento dei salari (Coface
2009). Come visto in precedenza per la Danimarca, anche in questo caso i due
indicatori discostano leggermente, collocando la Slovenia in classe 1 l’indice
Coface e in classe 2 il FCRI.
Francia: a partire dal 2008 la crescita ha decelerato sensibilmente: le famiglie
hanno diminuito le loro spese per i prodotti manifatturieri e per l’abitazione
mentre le imprese hanno regolato la produzione in modo da ridurre il livello
delle scorte e hanno frenato gli investimenti. Le esportazioni hanno segnato il
passo, colpite dalla flessione dell’attività dei principali partners europei e
nonostante il rallentamento delle importazioni il deficit corrente si è
ulteriormente ampliato. La concentrazione del potere decisionale nella capitale
e la molteplicità dei livelli di amministrazione locali non favoriscono la riduzione
delle diseguaglianze geografiche. Le carenze nell’’istruzione e nella formazione
non agevolano l’accesso al mercato dell’occupazione giovanile e della
manodopera meno qualificata. Rimangono insufficienti gli investimenti in
Ricerca e Sviluppo (Coface 2009). La Francia si colloca in classe a1 per
l’indicatore Coface, mentre per FCRI si trova in seconda classe, grazie
soprattutto al buon contenimento dell’inflazione.

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Islanda: con un debito verso l’estero equivalente al 550% del PIL, il Paese si
trovava già in una posizione pericolosa quando la crisi finanziaria è esplosa nel
settembre 2008. Di fronte alla sfiducia dei mercati, è subito parso evidente che
le autorità non avevano i mezzi per impedire il crollo del sistema bancario che
ha provocato una profonda recessione ancora in atto. I costi per la rimessa in
funzione del sistema, di cui lo stato ha preso il controllo, si basano soprattutto
su finanziamenti accordati dal FMI e da molti Paesi europei. In seguito alla crisi
finanziaria ed economica la disoccupazione è passata dal minimo storico
dell'1% nel 2008 all'8,2% del febbraio 2009. Il quadro economico rimane
complessivamente incerto, ma segnali di stabilizzazione potranno anche
derivare da una ripresa a livello globale e da un incremento delle esportazioni,
aiutate dal conveniente valore della corona, non solo nei settori
tradizionalmente più forti (Coface 2009). Anche per l’Islanda il contenimento
dell’inflazione si rivela uno dei punti di forza del Paese, gravato tuttavia dal
penultimo posto nel debito che porta l’Islanda ad una classe di Rischi Coface
A3. FCRI colloca il Paese in classe 2, soprattutto grazie al 9° posto nel rank
dell’indice di sviluppo umano.
Cipro: l’economia cipriota è caratterizzata dalla ridotta dimensione del mercato
domestico e degli operatori economici, dall’apertura al commercio
internazionale e da una significativa dipendenza dall’andamento di questo. Gli
effetti della crisi internazionale hanno cominciato a manifestarsi nell’ultimo
trimestre del 2008, più tardi ed in misura minore rispetto ad altri Paesi, con una
riduzione della domanda esterna inserita in uno scenario domestico nel quale
l’alto tasso di indebitamento delle famiglie, la stretta creditizia, le ristrutturazioni
societarie ed il calo di fiducia degli operatori e dei consumatori hanno influito
negativamente sulla crescita. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il
sistema bancario ha evitato gli effetti peggiori della crisi finanziaria globale, con
una scarsa esposizione in investimenti in titoli "tossici", ma il rischio di credito
rimane notevole, soprattutto per l’alta esposizione in settori in crisi quali quelli
edilizio ed immobiliare; si è quindi raccomandato un attento monitoraggio della
consistenza dei fondi bancari ed un rafforzamento della tutela regolamentare e

72
dell’assicurazione sui depositi (Coface 2009). Cipro si colloca per entrambi gli
indicatori in classe di rischio 2.
Spagna: la Spagna è stata uno dei Paesi in cui gli effetti della crisi economica
sono stati più marcati e, similarmente, la ripresa economica sta dimostrando
d’essere più lunga rispetto a quella degli altri stati europei. Infatti, in aggiunta ai
fattori internazionali che hanno causato la crisi (in primo luogo la crisi dei sub-
prime negli Stati Uniti d’America), le debolezze e la fragilità dell’economia
spagnola hanno amplificato le conseguenze negative di una pessima
congiuntura macroeconomica. Lo scoppio della bolla immobiliare in un Paese in
cui il settore delle costruzioni, un settore a basso tasso di produttività, ha un
peso eccessivo nel PIL, ha portato a tassi di crescita negativi e sta rallentando
la ripresa economica. Il forte indebitamento delle famiglie e delle imprese
costituisce un notevole fattore di penalizzazione in tempo di crisi. Al momento,
non ci sono settori in grado di sostituire l’edilizia come fattore trainante della
crescita. Il futuro di molti settori industriali dipende dalla decisioni di
multinazionali straniere sempre più attratte da localizzazioni più competitive.
Tuttavia proseguono gli investimenti pubblici in infrastrutture che permettono di
colmare un ritardo nelle reti di comunicazione. Elemento determinante risulta
essere lo sviluppo delle energie rinnovabili come il solare e l’eolico che pone in
essere una diminuzione della dipendenza dall’estero (Coface 2009). Collocata
da Coface in classe di rischio 2, FCRI posiziona il Paese in terza classe, se pur
primo tra i Paesi di questa fascia, a causa soprattutto del basso tasso di
occupazione.
Grecia: Dopo circa un decennio di crescita sostenuta a ritmi di circa il 4%
annuo, ben superiori alla media europea, l’economia greca è entrata in una fase
di recessione ancora in atto. 2003, il debito delle famiglie greche era pari al 10
per cento del prodotto interno lordo. A fine 2008, la quota era schizzata al 48
per cento del Pil. La stretta internazionale del credito ha svuotato la bolla: la
crescita della domanda interna sta decelerando bruscamente e le vendite al
dettaglio sono addirittura diminuite, rispetto al 2007. Non vanno meglio le
esportazioni: la domanda di trasporto navale, che da solo rappresenta un terzo
dell' export greco, è crollata negli ultimi mesi. Il risultato è un brusco

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rallentamento dell' economia. Pesa, sulla finanza pubblica greca, un debito
pubblico che, senza raggiungere i livelli italiani, è, al 94 per cento del prodotto
interno lordo (dati 2009), il secondo in Europa (Coface 2009) La Grecia è
inserita da Coface in classe 2 mentre per l’indicatore proposto nel presente
lavoro si colloca in terza classe, gravata da un alto debito e bassa occupazione
Portogallo: Condizionata dalla recessione economica globale e dal crollo del
commercio internazionale, nel 2009 l’economia del Portogallo ha registrato una
contrazione del PIL reale del 2,7% rispetto all’anno precedente. Analogamente
a quanto accaduto in altri Paesi dell’Unione, il crollo delle entrate fiscali dello
Stato rispetto al 2008 e l’impatto delle misure concertate tra i vari Stati membri
dell’Unione Europea per lo stimolo all’economia ed il sostegno alle imprese, ai
disoccupati e dalle famiglie hanno determinato conseguenze particolarmente
pesanti sulle finanze pubbliche. Si é infatti assistito ad una brusca interruzione
del processo di consolidamento dei conti avviato con successo dal 2005. La
pressione dei mercati finanziari e l’allerta delle principali istituzioni internazionali
destata dai dati sui conti pubblici hanno pertanto imposto al Governo la
predisposizione di un nuovo Piano quadriennale di Stabilità e Crescita che
consenta il risanamento dei conti pubblici entro il 2013. Del resto, la difficile
situazione congiunturale si associa ad alcune debolezze di carattere sistemico
dell’economia lusitana che, come noto, ha dimensioni relativamente ridotte. Il
Paese iberico soffre di alcune storiche criticità strutturali: una posizione
periferica nel contesto europeo, la limitata competitività del Sistema Paese, una
specializzazione dei fattori produttivi ancora insufficiente, una scarsa flessibilità
del mercato del lavoro, alcuni ritardi nel sistema di istruzione superiore e di
formazione professionale, il sotto-dimensionamento del sistema finanziario, una
bilancia dei pagamenti costantemente in rosso ed un indebitamento estero
superiore al 110% del PIL (ICE 2009). Il Portogallo occupa il 22° posto
nell’indicatore FCRI, posizionandosi in terza classe, rispetto alla seconda della
classificazione Coface. Bassa inflazione (4° posto), alto tasso di immigrazione
(4° posto), ma anche basso livello di distribuzione del reddito (39° posto)
caratterizzano il Paese Lusitano.

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Slovacchia: Il primo gennaio 2009, la Slovacchia ha adottato la moneta unica
divenendo cosi, in poco meno di un quinquennio dal suo ingresso in UE, il
sedicesimo Paese dell’Unione Monetaria europea. L’autorizzazione di entrare a
far parte della zona Euro sancisce in particolare una gestione prudente che ha
permesso di stabilizzare il debito dello stato attorno al 30% del PIL (ICE 2009).
L’appartenenza all’Unione Europea ha favorito inoltre l’accelerazione delle
riforme. Di modeste dimensioni, l’economia è estremamente dipendente dalla
domanda estera, in particolar modo automobili, macchinari e prodotti elettronici.
I primi effetti delle turbolenze finanziarie e del rallentamento mondiale hanno
iniziato, nell’insieme, a farsi sentire verso la fine del 2008, con un minore
contributo del commercio estero alla crescita e un leggero indebolimento della
domanda interna. L’inflazione ha continuato ad aumentare dopo l’estate 2008, a
causa del vigore della domanda interna e dell’innalzamento di alcune tasse e
tariffe pubbliche (Coface 2009). La Slovacchia si colloca in terza classe per
entrambi gli indici.
Ungheria: l’Ungheria è stata colpita severamente dalla crisi globale del credito,
ciò ha portato nell’ottobre 2008 ad una richiesta di un pacchetto di
finanziamento con il FMI capofila. Nonostante il massiccio sforzo del Governo
per migliorare squilibri macroeconomici e fiscali accumulati nella prima metà del
decennio e restituire fiducia agli investitori, il Paese è stato uno dei primi
nell’ambito delle economie emergenti, ad essere colpito dalla crisi finanziaria. A
pesare sull’aumento della percezione di Rischio Paese dell’Ungheria sono stati i
forti debiti accumulati dal 2000 al 2006 (a fine 2008, il debito pubblico era pari al
70% del PIL mentre il deficit di bilancio al 3,4% del PIL). Nell’ottobre 2008 il
Governo ha richiesto la istituzione di una linea di finanziamento straordinario
per un valore complessivo di 20 Miliardi di Euro a FMI (capofila), Commissione
Europea e Banca Mondiale, ciò al fine di ridare fiducia agli investitori e
stabilizzare i mercati finanziari (ICE 2009).Anche l’Ungheria, come la
Slovacchia si colloca in terza classe.
Croazia: Il processo di integrazione nell’Unione europea ha rafforzato le
prospettive di crescita del Paese: il grado di convergenza economica con
l’Europa è già a buon punto. In questi ultimi anni gli impegni di investimento

75
sono stati consistenti, le infrastrutture sono migliorate e le entrate del turismo
rappresentano circa 2/3 del deficit commerciale. Tuttavia il grave deficit della
bilancia corrente rende il Paese dipendente dai capitali stranieri. La rapida
espansione del credito e l’esposizione delle famiglie al rischio di cambio hanno
indebolito il settore bancario (Coface 2009). Se FCRI attribuisce al Paese
croato la terza Classe, Coface la colloca invece in classe A4, con un basso
tasso di crescita della popolazione ma anche con un buon contenimento del
debito.
Polonia: La Polonia è stato l’unico Paese UE che, malgrado la recente crisi
economico finanziaria internazionale, ha mantenuto nel 2009 una dinamica di
crescita (+1,8%). Sul lato della domanda, tra i fattori che hanno determinato la
tenuta dell’economia polacca vanno segnalati in primo luogo i consumi, segno
di un progressivo recupero di fiducia da parte dei polacchi nelle prospettive
dell’economia del loro Paese. Il rallentamento dell’economia verificatosi nel
2008-2009 ha avuto riflessi negativi sul mercato del lavoro, portando il tasso di
disoccupazione all’11,9% alla fine del 2009. Anche le finanze pubbliche hanno
negativamente risentito del rallentamento economico come dimostra il fatto che
il deficit, dopo essere sceso all’1,9% del PIL nel 2007, è tornato a crescere
passando al 3,7% nel 2008 e al 7,1% nel 2009. Analogo l’andamento del
debito, che, ridottosi nel 2007, ha ripreso ad aumentare raggiungendo il 51,0%
nel 2009 (ICE 2009). Le problematiche del sistema polacco sono da ricercarsi
in un debole tasso di occupazione, e da un insufficiente tasso di investimento
(Coface 2009). La Polonia si colloca in quarta classe per FCRI, mentre viene
posta da Coface in classe 3.
Romania: la Romania dispone di un mercato interno piuttosto rilevante: la
manodopera è fortemente competitiva e grazie agli investimenti diretti esteri il
Paese ha finanziato finora i suoi disavanzi esteri senza particolari difficoltà.
Tuttavia la politica economica del governo ha aggravato l’ampliamento del
deficit corrente e ha alimentato l’inflazione. I dissensi al vertice dello Stato, la
posizione minoritaria del Governo hanno condotto il Paese ad una condizione di
immobilismo. Il compito più difficile è quello di far fronte alle ripercussioni della
crisi economica intenzionale e rilanciare le riforme, superando le

76
contrapposizioni interne attraverso una auspicabile grande coalizione sul
modello tedesco. Le divergenze sono tuttavia notevoli e riguardano in
particolare la lotta contro la corruzione, condotta sinora con molte difficoltà
dietro le pressioni dell’UE (Coface 2009).
Per far fronte ad una situazione economica particolarmente difficile, il Governo
si è visto costretto a ricorrere, a marzo 2009, ad un prestito internazionale che
ammonta a 19,95 miliardi di euro e messi a disposizione da diverse istituzioni
internazionali. Detti accordi prevedono obblighi precisi per il Governo romeno,
che dovrà riformare la politica fiscale, controllare il bilancio dello Stato e la
spesa pubblica, rafforzare il settore finanziario e perseguire politiche monetarie
più stabili. Il prestito è stato concesso ad un tasso di interesse medio annuo del
3,5%, e dovrà essere rimborsato entro il 2015. Oltre al prestito internazionale, il
Governo ha preso una serie di misure di austerità atte a contrastare gli effetti
della crisi sull’economia nazionale. Fra queste, le più importanti sono l’aumento
dell’IVA dal 19% al 24% e il taglio degli stipendi del settore pubblico del 25%
(ICE 2009). Anche la Romania viene posta da FCRI in quarta classe, e
classificata allo stesso modo da Coface.
Algeria: nonostante la crisi economica globale e la forte contrazione del
mercato degli idrocarburi, il quadro macroeconomico dell’Algeria appare solido
e continua ad essere caratterizzato, soprattutto in termini finanziari, da indicatori
positivi Il tasso d’inflazione è salito nel 2009 al 5,75%, Il debito pubblico interno
ammonta, alla fine del 2009, a 11 miliardi di dollari, in crescita del 10% rispetto
al 2008. Rimane costante la riduzione del debito estero, attestatosi, alla fine
dell’anno 2009 a 3,92 miliardi di dollari, mentre nel 2008 ammontava a 4 miliardi
di dollari. Ma è il clima per gli investimenti nel Paese a segnare maggiormente il
passo: la rigidità del mercato del lavoro e la scarsa propensione all’innovazione,
mentre tra le maggiori difficoltà con cui si confronta l’investimento produttivo nel
Paese si sottolineano l’accesso al finanziamento, la burocrazia, la diffusa
corruzione, il basso livello di concorrenza e di attenzione alla formazione
professionale, l’opacità delle politiche economiche. La riforma bancaria che
avrebbe dovuto, all'inizio del decennio, condurre all'autonomia delle banche
pubbliche e allo sviluppo della concorrenza interbancaria é sostanzialmente

77
rimasta lettera morta. Con 150 miliardi di dollari di riserve valutarie, circa 60
miliardi di dollari nel fondo di
regolazione delle entrate e 30 miliardi di dollari nelle banche, l'Algeria appare
sempre più un Paese ricco, ma dotato di un'economia non ancora capace di
metabolizzare le notevoli risorse finanziarie. In caso di persistenza della caduta
dei prezzi del petrolio al di là del 2010 l'Algeria dovrà infatti ricorrere alle proprie
riserve in valuta, nello scenario di mantenimento del ritmo degli investimenti
pubblici nel corso dei prossimi cinque anni. (ICE 2009). Il Paese algerino si
colloca in quinta classe per FCRI mentre per Coface viene posizionato in classe
A4. Si osservi come il Paese sia caratterizzato soprattutto da basso debito (1°
posizione)
Tunisia: Nel 2009 anche l'economia nazionale tunisina ha registrato alcune
ricadute della crisi economica mondiale, sull’evoluzione della produzione e delle
esportazioni delle principali industrie manifatturiere e sul ritmo di attività nei
settori del turismo e del trasporto aereo. La sua crescita, dopo il rallentamento
dell'inizio dell’anno, ha accelerato in modo significativo a partire dal secondo
semestre, con un aumento particolarmente forte delle esportazioni negli ultimi
mesi. Questo risultato positivo è dovuto in gran parte al programma di riforme
avviate negli ultimi anni e alle prudenti politiche macroeconomiche adottate che
ha consentito alle autorità di essere in grado di mitigare l'impatto della crisi con
delle politiche di sostegno giudiziose. Le misure congiunturali e strutturali
adottate a fine 2008 a sostegno delle aziende esportatrici che hanno permesso
di attenuare gli effetti negativi della crisi, anche con riferimento all’occupazione,
sono state confermate ed ampliate nel corso del 2009. L’attività turistica resta
esposta alla minaccia terroristica e fa fronte ad una concorrenza crescente degli
altri Paesi del Mediterraneo (ICE 2009). Il tasso di disoccupazione è elevato e
colpisce soprattutto i giovani (30% dei ragazzi dai 15 ai 25 anni). L’apertura
crescente del Paese impone rinnovati sforzi per differenziare e migliorare la
competitività dell’offerta industriale. Il settore bancario, che soffre di un livello
ancora elevato di prestiti di dubbia esigibilità rimane il tallone d’Achille
dell’economia tunisina (Coface 2009). Anche l’Algeria, come la Tunisia è

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caratterizzata da un basso livello di debito (seconda posizione), e viene posta
da Coface in classe A5 e da FCRI in classe 5.
Estonia: Dopo aver sperimentato nel periodo compreso tra il 2000 ed il 2007
elevati tassi di crescita che le hanno permesso di posizionarsi tra i primi venti
Paesi del mondo, l’Estonia è stata colpita con particolare gravità dalla crisi
internazionale dell’ultimo biennio 2008-2009, facendo registrare nel 2009 una
contrazione del PIL del 14,1%. I fattori macroeconomici che più hanno concorso
alla forte contrazione del PIL sono stati il crollo della domanda interna, la
presenza di un regime di cambi fissi con l’euro, la crisi dei principali mercati di
sbocco, in particolare dell’UE con cui l’economia estone è maggiormente
integrata. Tra i Paesi dell’Unione Europea, solo Lettonia (-18%) e Lituania (-
15%) hanno registrato una performance peggiore. La contrazione della
domanda interna, iniziata al principio del 2008, è crollata nel corso del 2009, a
causa dalla forte caduta dei consumi privati e della diminuzione degli
investimenti. I settori più colpiti dalla crisi sono stati il manifatturiero, l’edilizia ed
il commercio all’ingrosso. Il tasso di inflazione, a causa del collasso dei consumi
e del basso prezzo delle materie prime, per la prima volta da quando l’Estonia
ha riguadagnato l’indipendenza, ha registrato nel 2009 una variazione negativa
dello 0,1%. La crisi ha avuto ripercussioni particolarmente negative sul mercato
del lavoro estone. Il tasso di disoccupazione, che nel primo trimestre del 2000
era pari al 13,6%, nello stesso periodo del 2008 era passato a 4,1% per poi
raggiungere l’11,4% nel primo trimestre del 2009. Secondo gli analisti le ragioni
che hanno concorso all’aumento del tasso di disoccupazione in Estonia sono da
ricercarsi negli effetti che la contrazione delle esportazioni e la crisi del settore
delle costruzioni hanno avuto sul mercato del lavoro, non efficacemente
controbilanciati da interventi dello Stato nella politica del lavoro. La crisi
finanziaria internazionale non ha intaccato in modo significativo il sistema
bancario estone grazie alla circostanza che, dalla crisi del ‘99, é controllato per
il 95% da gruppi finanziari scandinavi. La concessione di contributi a questi
istituti di credito nei propri Paesi di origine ha conseguentemente garantito,
anche in Estonia, nel corso della crisi economica, il buon funzionamento del
settore bancario (ICE 2009). L’Estonia viene posta da Coface in classe 3 e da

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FCRI in classe 5, evidenziando una differenza piuttosto significativa tra i due
indicatori per questo Paese, dovuta soprattutto alla distribuzione del reddito e
all’inflazione, tenuti maggiormente in considerazione in FCRI.
Bulgaria: raggiunta con ritardo, ma non per questo meno duramente, dalla
recessione internazionale, la Bulgaria ha chiuso il 2009 con un PIL al -4,9%. La
crescita del Paese, come noto, è stata fino al 2008 tra le più intense e protratte
nel tempo in ambito UE, essendosi mantenuta a lungo sopra il 6% annuo - con
punte anche del 7% poco prima dell'inizio della crisi (ICE 2009). L’adesione
all’UE ha rafforzato le prospettive di crescita. La crescita è rimasta vivace per la
maggior parte del 2008, sostenuta della domanda interna, grazie soprattutto
agli investimenti. Tuttavia il 2009 si è assistito ad un rallentamento dell’attività, a
causa sia della domanda straniera che pesa sull’esposizioni, sia delle difficoltà
di accesso ai finanziamenti esteri, in particolare a quelli bancari. Anche se il
Paese registra un’eccessiva dipendenza dai finanziamenti stranieri e un debito
estero molto elevato va altresì rilevato che esso dispone di finanze pubbliche
solide e di riserve valutarie cospicue che aiutano ad affrontare la crisi. Le
relazioni nell’ambito della coalizione governativa, tra il partito socialista e il
partito di centro, rimangono difficili (Coface 2009). Il livello di rischio del Paese è
da considerarsi in quinta classe per FCRI mentre Coface le assegna la classe
4.
Lituania: Secondo i più recenti dati dell’Istituto Nazionale di Statistica lituano la
popolazione ammonta a 3.269.600 unità, in diminuzione dello 0,36% rispetto
alla fine del 2008 ed in linea con un trend che dal 2004 ha visto la popolazione
lituana ridursi del 2%. Dopo un periodo di “boom” prolungato (2001-2007) con
forte crescita del PIL trainata specie dalla domanda estera, è seguito un
rallentamento dell’economia con gli aggiustamenti ciclici iniziati già nel 2008 ma
aggravati dalla crisi finanziaria internazionale. La caduta delle entrate a fronte
dei grandi impegni di spesa assunti nel periodo di crescita si è tradotta in un
rapido deterioramento della posizione fiscale e del deficit statale salito ben al di
sopra dei criteri di Maastricht. Negli anni di crescita non sono state d’altra parte
accumulate riserve e sebbene i mercati abbiano dimostrato interesse per il
finanziamento del deficit del Paese (il governo è ricorso spesso, con successo,

80
ad emissioni obbligazionarie) non vi sono al momento spazi per politiche
espansive di tipo keynesiano, anche in considerazione delle minori entrate
fiscali. (ICE 2009). La Lituania si colloca in terza classe per Coface (A3), mentre
l’indicatore proposto nel presente lavoro le assegna soltanto la quinta classe,
soprattutto per il basso tasso di crescita della popolazione e il 37° posto nel
rank relativo alla distribuzione del reddito.
Albania: negli ultimi anni il Paese ha compiuto significativi progressi verso
un’economia di mercato moderna, anche se nel 2009, come accaduto per altri
Paesi della Regione, ha risentito degli squilibri causati della crisi economica e
finanziaria internazionale. Il Paese ha comunque intrapreso con risultati positivi
un processo riformista interno, teso ad avvicinare il suo impianto istituzionale,
amministrativo e giuridico agli standards occidentali. L’impianto normativo è in
linea con quelli di numerosi Paesi occidentali, ma l’applicazione effettiva del
diritto è intaccata da inefficienze e fenomeni di corruzione anche in sede
giudiziale. La crescita del PIL albanese, attestatasi negli ultimi anni ad un ritmo
superiore al 6% annuo, ha segnato un forte rallentamento Oltre alla scarsa
incidenza delle esportazioni sulla bilancia commerciale albanese ed alla limitata
dipendenza dal mercato finanziario, i principali fattori alla base della tenuta
dell’economia albanese sono da attribuirsi, secondo le istituzioni internazionali,
alle politiche di incentivazione fiscale adottate dal Governo ed alla solidità
dimostrata dal sistema bancario, sorretto da un’attenta e lungimirante politica
monetaria attuata dalla Banca d’Albania. L’economia albanese continua a trarre
beneficio dalle rimesse dei numerosi emigranti, sparsi in America ma
soprattutto in Europa ed in particolare in Italia e Grecia. Tali rimesse, di fatto,
contribuiscono sostanzialmente a coprire il disavanzo commerciale.
Attualmente, le fonti ufficiali albanesi – INSTAT - evidenziano un aumento del
tasso di povertà dell’1,1% in coincidenza con un sostanziale incremento dei
costi dei generi alimentari: + 4,4% rispetto all’anno precedente. Il settore estero,
nel corso del 2009, è stato ancora caratterizzato da un aumento del deficit delle
partite correnti che, unito all’aumento del deficit della bilancia commerciale, non
è stato adeguatamente controbilanciato, come detto, da un aumento del livello
di rimesse dall’estero. I dati macroeconomici dell’economia ufficiale albanese

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non includono ovviamente l’economia sommersa, che raggiunge ancora livelli
elevatissimi (ICE 2009). L’Albania si colloca in classe 5 FCRI, mentre per
Coface è in sesta classe di Rischio Paese, gravata da un alto tasso di
emigrazione.
Ucraina: il Paese gode di una posizione strategica tra la Russia e l’Unione
europea e gode dei benefici dei diritti di transito delle esportazioni di gas russo.
L’Ucraina dispone di un potenziale agricolo e di una mano d’opera qualificata a
basso costo. La sua economia è essenzialmente condizionata dall’andamento
del corso dell’acciaio e dal prezzo del gas importato.. l’aumento del ricorso al
finanziamento estero ha incrementato la dipendenza dei capitali stranieri:
nell’ottobre 2008, le banche, troppo indebitate, hanno incontrato gravi difficoltà
nell’auto -finanziamento tanto che alcune banche sono state sostenute
dall’intervento pubblico. A peggiorare il contesto storico è l’instabilità politica
che indebolisce la credibilità del governo in quanto la mancanza di consenso
attorno alle riforme nuoce a un corretto svolgimento degli affari (Coface 2009).
Anche l’Ucraina, gravata da un basso tasso di crescita della popolazione e da
un’inflazione ancora molto elevata, si trova in quinta classe per FCRI, mentre
Coface la colloca n sesta classe.
Marocco: nel 2009 il Paese, nonostante uno sviluppo ancora in atto si colloca,
secondo il Rapporto Mondiale sullo Sviluppo Umano della Banca Mondiale,
ancora in 130 posizione, nella fascia cosiddetta “bassa”. Tuttavia il Paese, si è
rivelato poco colpito dalla crisi grazie alla rigida politica monetaria della Banca
Centrale Marocchina e al fatto di essere poco integrato nel mercato finanziario
internazionale mentre il tasso di disoccupazione ha conosciuto un trend stabile
al ribasso negli ultimi anni. Per quanto riguarda l’inflazione, essa si è tenuta
bassa grazie ad una politica monetaria molto prudente di contenimento dei
prezzi e di continue misure di intervento dello Stato attraverso la cassa di
compensazione (ICE 2009). L’economia marocchina, ancora basata sul settore
agricolo rimane vulnerabile ai rischi climatici. Per il suo approvvigionamento d
energia, il Paese dipende completamente dalle importazioni di petrolio e di
carbone. La crescita è sempre insufficiente per rispondere alle aspettative della
popolazione: povertà, esclusione e disoccupazione sono fonti di tensioni sociali

82
(Coface 2009). Il Marocco viene collocato da Coface in classe 4, mentre per
l’indicatore FCRI risulta essere in classe 5. La differenza più significativa è da
ricercarsi nel fatto che il Marocco occupa l’ultima posizione nell’indice di
sviluppo umano e il quartultimo nella distribuzione dl reddito.
Libia: effetti della crisi economico-finanziaria internazionale, soprattutto a causa
delle fluttuazioni al ribasso del corso internazionale del greggio che si sono
ripercosse sulla rendita petrolifera del Paese. Le decisioni di politica economica
e monetaria adottate negli ultimi anni dalle Autorità libiche hanno comunque
consentito al Paese di accumulare significative rendite petrolifere che
costituiscono per il Paese un confortevole ammortizzatore anti-ciclico. Dopo il
picco registrato nel 2007, il tasso di crescita dell’economia libica si è assestato
al +3,4% nel 2008 per ridursi ulteriormente nel 2009 al +1,75 %. Nonostante un
processo di lento ma costante sviluppo dei settori produttivi “non oil” l’economia
libica rimane sostanzialmente basata sulla produzione ed esportazione di
petrolio e gas naturale e pertanto le fluttuazioni del corso internazionale del
greggio hanno un riflesso diretto sull’andamento delle principali variabili
economiche. L’inflazione è sensibilmente scesa nel 2009 e ciò, come rilevato in
più occasioni dal FMI, è derivato in buona parte dalla consistente spesa
pubblica in progetti di sviluppo, dalla forte dipendenza dalle importazioni ma
anche dall’aumento generalizzato, determinato per legge, dei salari dei
lavoratori dipendenti e da un’ampia politica di sussidi indiretti ai cittadini. In
misura marginale l’aumento dell’inflazione appare dipendere anche
dall’aumento dei costi dei servizi dei quali si registra una sempre maggiore
domanda da parte di cittadini ed imprese (ICE 2009). Alta inflazione, basso
grado di equidistribuzione dei redditi, basso tasso di occupazione, collocano la
Libia in sesta classe Coface ed in quinta classe FCRI.
Russia: la Russia è dotata di risorse naturali differenziate (petrolio, gas, metalli,
diamanti). Lo scarso debito pubblico e le cospicue riserve valutarie offrono al
Paese margini di manovra alle Autorità. Nell’autunno del 2008, la crisi
finanziaria ha colpito duramente l’economia russa: si assiste ad una caduta
degli indici di borsa e del blocco del mercato interbancario. Il governo è
intervenuto, attraverso le banche pubbliche, per sostenere le imprese che

83
hanno pesanti debiti in valuta. In questo contesto, l’attività è entrata in una fase
di rallentamento pronunciato a fine 2008 e il tasso di crescita rimane comunque
debole per tutto il 2009. Coface ha constato un deterioramento del
comportamento di pagamento delle imprese russe già prima che la crisi
finanziaria iniziasse ad incidere in modo tangibile sull’economia. Questo dato
trova spiegazione nei persistenti problemi della gestione delle imprese:
instabilità della partecipazione azionaria, debolezza dei tribunali e, in
particolare, dei diritti dei creditori, unitamente alla scarsa trasparenza contabile,
hanno continuato ad influire negativamente sull’ambito degli affari (Coface
2009). La Russia viene collocata da entrambi gli indicatori in quinta classe,
soprattutto a causa dell’elevata inflazione (41° posizione) e del basso livello di
distribuzione del reddito (44°).
Egitto: dopo tre anni di forte crescita, il Paese ha registrato tra il 2008-2009 una
crescita meno robusta già a partire dal secondo trimestre 2008. lo squilibrio di
bilancio è il principale punto debole dell’economia. La rigidità delle spese
sociali, le sovvenzioni e gli interessi del debito impediscono la riduzione del
deficit che rimane troppo elevato (Coface 2009). L’Egitto viene posizionato da
Coface in classe A4, mentre l’indicatore FCRI gli attribuisce soltanto la quinta
classe, gravato da alta inflazione e con un indice di sviluppo umano tra i più
bassi dei Paesi considerati nell’analisi.
Serbia: la normalizzazione politica e le riforme intraprese a partire dal 2000
hanno garantito al Paese il sostegno della comunità finanziaria internazionale e
hanno permesso un risanamento della situazione economica e finanziaria. Gli
alleggerimenti del debito hanno ridotto sostanzialmente il peso
dell’indebitamento pubblico, il sistema bancario è stato ristrutturato e
privatizzato ed è stato creato uno scenario favorevole agli investimenti. D’altro
canto però l’ampiezza del deficit corrente comporta la necessità di
finanziamento estero a un livello difficilmente sostenibile (Coface 2009). Gli
indicatori concordano nel posizionare la Serbia nell’ultima classe, con un basso
tasso di occupazione, alta inflazione e rischio politico piuttosto elevato.
Lettonia: il Paese è caratterizzato da un incremento del reddito per abitante più
rapido tra i nuovi membri della UE e nonostante il riemergere del deficit

84
pubblico il debito dello stato resta uno dei più bassi dell’Unione Europea.
Tuttavia il Paese presenta un notevole disavanzo esterno che lo rende
eccessivamente dipendente dai finanziamenti esteri e vulnerabile ad una crisi
valutaria o un brusco ridimensionamento in caso di contrazione dell’attività. La
Lettonia presenta inoltre un tasso d’inflazione piuttosto alto, medio che nel
primo semestre del 2009 risulta essere al 6.9%. Si osservi come la situazione
politica del Paese presenti una certa instabilità a causa di tensioni interne,
elevati livelli di corruzione e tensioni politiche con la Russia che possono essere
foriere di problematiche con la minoranza russa nel Paese (Coface 2009). La
Lettonia si contraddistingue per un basso tasso di immigrazione, un basso
tasso di occupazione e un livello piuttosto basso dell’indicatore di Gini. Viene
posizionata in classe 4 da Coface ed in classe 6 da FCRI
Turchia: se nel 2008 l’economia turca aveva presentato una sostanziale tenuta,
nel 2009 il PIL è sceso del 4,7%, con un crollo della produzione industriale,
ridottasi del 15,2% nel periodo gennaio - settembre 2009. I comparti che hanno
maggiormente contribuito alla decelerazione sono stati quelli delle costruzioni
del commercio ed il manifatturiero. Il Paese presenta problematiche dovute alla
necessità di finanziamento esterno, che rende la Turchia molto dipendente dal
mercato dei capitali. L’accesso ai finanziamenti diventa sempre più difficile e
costoso nell’attuale contesto di crisi finanziaria globale. Il consistente aumento
dell’indebitamento in valuta del settore privato ha aumentato la sua esposizione
al rischio di cambio (Coface 2009). Anche la Turchia viene posta in classe 6 da
FCRI, gravata da alta inflazione e basso livello di distribuzione del reddito.
Coface la colloca invece in quinta fascia.
Bielorussia: nonostante i recenti progressi del Paese nel senso di una
maggiore apertura, che hanno valso al Belarus il posizionamento tra i dieci
migliori top reformers per l’anno 2009 secondo il report “Doing Business” della
Banca Mondiale, le gravi ricadute della crisi finanziaria internazionale
sull’economia bielorussa, avvertitesi soprattutto nell’anno 2009, hanno posto in
maggiore evidenza alcune criticità di fondo di questo sistema economico. In
particolare, la bilancia commerciale del Belarus, confermando una tendenza
peggiorativa in atto a partire dal 2007, ha registrato un grave disavanzo, che ha

85
raggiunto nel 2009 la cifra di 7,3 miliardi di dollari. Il cattivo andamento delle
esportazioni bielorusse - nonostante la svalutazione del 20% della valuta locale
rispetto al dollaro, cui il rublo bielorusso era precedentemente ancorato, a
partire dal 1° gennaio 2009 - è in particolar modo determinato da due fattori. In
primo luogo, la scarsa diversificazione dei partner commerciali e la fortissima
dipendenza delle esportazioni dalla domanda russa (il 31,5% secondo i dati
relativi all’anno 2009), la cui contrazione nel corso dell’anno in esame ha
dunque inciso gravemente sulla bilancia commerciale del Paese. In secondo
luogo, la forte incidenza dei costi energetici nel processo produttivo, unitamente
al progressivo aumento dei costi delle materie prime energetiche deciso dalla
Federazione Russa (ICE 2009). Il Paese è al quindi ancora legato a doppio filo
con l’economia russa, e necessita di liberalizzazioni indispensabili per attrarre
maggiormente i capitali necessari per l’ammodernamento della sua economia
(Coface 2009). La Bielorussia si colloca al 42° posto nell’indicatore FCRI, in
sesta classe, la stessa dell’indicatore Coface. Le ragioni sono da ricercarsi
soprattutto nell’alta inflazione (la peggiore tra tutti i Paesi considerati) e nell’alto
rischio politico del Paese.
Moldavia: interamente dipendente dal carbone ucraino e dal gas russo, i cui
prezzi si sono allineati ai corsi mondiali, la produzione moldava rimane
scarsamente differenziata, poggiando sull’agricoltura, sensibile ai rischi
climatici, e sul tessile, che, oltre ad una forte concorrenza, risente della
contrazione della domanda esterna. La Moldavia non dispone peraltro di un
mercato interno sufficiente a sostenere la sua produzione. La necessità di un
finanziamento, legata a un elevato deficit corrente, finora soddisfatta da capitali
stranieri, evidenzia una delle criticità del sistema, unita ad una privatizzazione
troppo lenta delle imprese pubbliche e da una forte dipendenza degli
investimenti dall’estero (Coface 2009). La Modavia è uno dei Paesi a rischio di
default più elevato, posizionato in sesta classe per entrambi gli indicatori. Il
Paese occupa l’ultima posizione nel tasso di crescita della popolazione e il
terzultimo nell’indice di sviluppo umano.
Macedonia: L’anno 2009, a causa soprattutto degli effetti del deterioramento
economico globale, si e’ caratterizzato per la crescente esposizione del Paese

86
ai rischi esterni, che si e’ manifestata nell’aumento del deficit della bilancia con
l’estero e nelle pressioni sul mercato monetario. La crisi ha comportato un
rallentamento dell’attività’ economica (il PIL e’ diminuito dell’1,9% rispetto
all’anno precedente): i settori minerario - estrattivo e tessile sono stati i più
colpiti. La risposta della Banca Centrale alla recessione si e’ focalizzata sul
mantenimento della stabilità del dinaro macedone (informalmente ancorato
all’euro), esaurendo le riserve di valuta estera che a maggio sono scese a 1,2
miliardi di euro, coprendo solo il 75% del debito a breve termine (ICE 2009). La
situazione politica si presenta piuttosto fragile, con elezioni segnate da nutrite
violenze tra opposte fazioni (Coface 2009). Collocata da entrambi gl indicatori in
sesta classe, la Macedonia ha il più basso tasso di impiego dei 45 Paesi
considerati e un rischio politico piuttosto elevato.
Bosnia-Eerzegovina: Gli importanti progressi realizzati nel corso degli ultimi 15
anni nel processo di stabilizzazione del Paese fanno sì che la Bosnia-
Erzegovina si trovi ora ad un crocevia fondamentale lungo il proprio percorso di
consolidamento istituzionale e, di riflesso, di avvicinamento all’Unione Europea
ed alla NATO. Sotto il profilo economico, la Bosnia Erzegovina rimane
impegnata in una delicata ransizione verso un’economia di mercato (mista)
pienamente auto sostenibile (gli aiuti internazionali sono tuttora necessari). Nel
2009 il Paese ha risentito degli effetti della crisi economico -finanziaria
internazionale, facendo registrare una contrazione del 3% nel PIL (dati EIU-
Economist Intelligence Unit), il cui valore nominale è stato di 12,2 miliardi €: si è
trattato della prima “battuta d’arresto” dopo anni di costante crescita, con tassi
di incremento medio annuale del 5-6 % nel quinquennio 2004-2008 (ICE 2009).
La politica di bilancio pro-ciclica delle autorità, il vigore della domanda interna e
l’aumento dei prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari si sono accompagnati
a un preoccupante ampliamento del deficit corrente, la cui copertura potrebbe
risultare difficoltosa nel contesto attuale. Anche se il costo delle esportazioni è
ormai orientato al ribasso, queste continuano a superare largamente le
esportazioni. Nonostante la firma di un accordo di stabilizzazione e di
associazione con l’UE nel giugno 2008, il rischio politico rimane elevato. Il
Paese continua a soffrire per la sua frammentazione istituzionale ed etnica

87
(Coface 2009) ed è posizionato all’ultimo posto dell’indicatore FCRI, in sesta
classe, la stessa dell’indicatore Coface.

88
Conclusioni
Lo scenario economico mondiale ha vissuto negli ultimi decenni una
trasformazione radicale che ha portato ad un “appiattimento” delle distanze. Il
progresso tecnologico e alcuni fondamentali cambiamenti dell’assetto politico
internazionale hanno favorito non solo la globalizzazione e
l’internazionalizzazione produttiva, ma anche uno sviluppo dei mercati finanziari
dei Paesi emergenti impensato prima della diffusione delle moderne tecnologie
informatiche. Questa “rivoluzione copernicana” porta con sé anche alcuni
elementi di instabilità, poiché in un contesto fortemente integrato la
trasmissione delle crisi e gli episodi di contagio possono essere agevolati dalla
mancanza di barriere, con effetti deleteri per le economie più deboli.
Tale maggiore volatilità pone nuovi interrogativi non solo per i policy-maker e
per gli economisti, ma anche per gli operatori finanziari e gli assicuratori che si
trovano a fronteggiare una realtà in rapida evoluzione e devono sviluppare
strumenti adeguati di analisi e gestione dei rischi, tra cui acquista sempre più
importanza il Rischio Paese.
La definizione stessa di Rischio Paese in questo contesto assume una valenza
particolare, dal taglio più operativo, volta a esaminare gli effetti che gli elementi
di rischiosità peculiari di un determinato Paese possono avere sull’attività
economica crossborder. I cambiamenti strutturali del modello di produzione
globale e del sistema finanziario brevemente riportati in questo lavoro rendono
necessaria l’adozione di una nuova definizione e misurazione del Rischio
Paese che tenga conto delle trasformazioni in atto. In questo quadro il concetto
di Rischio Paese deve essere interpretato in una nuova ottica, sulla base di un
approccio multidimensionale che tenga conto sia dei tradizionali rischi di
vulnerabilità macroeconomica (allargati per tenere conto degli squilibri nel
balance sheet degli agenti economici) sia dei fattori legati al sistema operativo,
al quadro regolamentare e di competitività dei mercati, ai rischi geopolitici e
finanziari. Il sistema di valutazione del Rischio Paese deve necessariamente
essere però considerato un work in progress per consentire di incorporare
nell’analisi dei rischi le trasformazioni strutturali che sono continuamente in atto
nelle economie dell’era globale.

89
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