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ALCUNE RIFLESSIONI

SU RISCHIO, INCERTEZZA ED INSTABILITÀ FINANZIARIA

Introduzione
Lo scopo della presente nota è quello di proporre alcune riflessioni su rischio, incertezza ed
instabilità finanziaria, anche alla luce di alcuni recenti cambiamenti strutturali, congiunturali ed
internazionali. Nella prima parte del lavoro sono stati pertanto esaminati alcuni fattori che, negli
ultimi tempi, hanno concorso a mutare l’entità, la misurazione e la percezione del rischio finanziario
ed imprenditoriale. La seconda parte del lavoro è stata invece dedicata ad una breve disamina delle
principali teorie formulate dalla scienza economica, a partire dagli anni ’30 fino ad arrivare ai giorni
nostri, per meglio comprendere la meccanica dell’investimento ed il ruolo della variabile “rischio”.

Rischio ed innovazioni finanziarie


Negli ultimi decenni hanno sicuramente esercitato effetti benefici sul rischio finanziario un gran
numero d’innovazioni finanziarie e di strumenti speciali di indebitamento. Basti pensare alle azioni
di risparmio, alle obbligazioni convertibili, al leasing finanziario, al factoring, alle operazioni swap,
alle options ed ai contratti futures, alla securization delle attività finanziarie, ai prestiti a tasso
variabile ed alle note issuance facilities.
Anche la progressiva disintermediazione creditizia, la deregulation dei mercati finanziari,
l'intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali ed il continuo sviluppo di nuovi
prodotti e di nuovi intermediari finanziari hanno contribuito a ridurre il rischio marginale dei nuovi
progetti d’investimento, permettendo alle imprese di meglio allocare e ripartire i rischi.
Di fatto, il progresso tecnico e la diffusione delle nuove tecnologie hanno avuto l'effetto di
aumentare la profittabilità delle imprese e di traslare verso l'alto la curva dell'efficienza marginale
del capitale, mentre le innovazioni finanziarie hanno reso possibile l'accesso a nuove forme di
finanziamento, hanno abbattuto il costo del capitale monetario, hanno migliorato la composizione
del leverage ed hanno consentito un progressivo spostamento verso il basso del rischio marginale1.

Rischio, ambiente e globalizzazione


Non è possibile prescindere dall’aspetto temporale e dall’aspetto tecnico dell’investimento: il
rischio cresce con la vita utile dei beni strumentali, con la dinamica del progresso tecnico, con il
rapido e disordinato evolversi dell’ambiente. È stato a tal proposito osservato che la situazione di
1
. J. Vinãl e A. Berges, Innovazione finanziaria e formazione di capitale, in AAVV, "Innovazione, tecnologia e finanza”, Oxford,
1988, pp. 147-189.
 

1
profonda incertezza legata al turbolent environment ha modificato profondamente la figura
dell’imprenditore: specialmente negli ultimi decenni i dirigenti di molte società americane si sono
spesso comportati come portfolio managers piuttosto che come imprenditori. La combinazione
dello «Scientific Management» e della «Portfolio Analysis» ha creato, in alcuni casi, una figura di
capitano d’industria privo di immaginazione, disposto ad imitare piuttosto che ad innovare,
riluttante ad assumere rischi e a prendere decisioni2.
Anche la cosiddetta globalizzazione, cioè la tendenza delle imprese a ragionare, a progettare, ad
investire, a trovare finanziamenti e a produrre in una dimensione mondiale, può aver accresciuto sia
le possibilità sia i rischi (e le incertezze) dei progetti di investimento. Sicuramente forti
cambiamenti stanno interessando le tecniche di produzione ed i mercati finanziari. Si pensi al
decentramento delle lavorazioni a basso valore aggiunto verso paesi in via di sviluppo, alla
specializzazione dei paesi industrializzati in produzioni e fasi ad elevato valore aggiunto, alla
crescente mobilità dei capitali privati, all’introduzione di continue innovazioni finanziarie,
all’impressionante aumento dei flussi migratori, alla forte integrazione produttiva e finanziaria tra le
varie macroaree, all'enorme sviluppo di multinazionali smaterializzate e virtuali, all'inarrestabile
crescita della telematica e dell'informatica e al conseguente aumento della velocità di circolazione
delle informazioni.
Da un lato, comunque, i vantaggi offerti dalla globalizzazione potrebbero essere enormi
(indebolendo il capitale monopolistico, riducendo i costi di produzione, migliorando l’accesso ai
mercati delle materie prime e di sbocco, aumentando le possibilità di specializzazione produttiva,
moltiplicando le occasioni di finanziamento, …) e dovrebbero sicuramente favorire uno
spostamento verso l'alto della curva dell'efficienza marginale del capitale.
D'altra parte sul rischio economico-finanziario potrebbero incidere non pochi fattori (come
l'aumento della concorrenza o il consolidamento dei cartelli in alcuni settori, l'enorme mobilità dei
capitali, il forte aumento dei flussi migratori ed il crescente peso economico, politico e finanziario
delle multinazionali statunitensi, giapponesi ed europee) con imprevedibili effetti sulla curva (e
sulla rappresentazione) del rischio d’impresa.
Anche prescindendo da valutazioni ideologiche e politiche, occorre riconoscere che la progressiva
globalizzazione dei mercati mondiali, la quasi totale liberalizzazione dei movimenti di capitali e
soprattutto l’enorme sviluppo raggiunto dalle attività finanziarie e speculative rispetto all’economia
reale hanno aggravato l’incertezza dell’imprenditore, rendendo più rischiosa la programmazione di
investimenti a lungo termine. Il fatto che moltissimi operatori finanziari lavorino avendo come
riferimento la speculazione o brevissimi intervalli di tempo ha determinato e continua a determinare
2
. R.B. Reich, The Next American Frontier, in “Atlantic Montly”, marzo-aprile 1983.
 

2
un rapido spostamento di enormi masse di capitali (sia a livello settoriale sia a livello geografico),
aumentando la rischiosità dei progetti di espansione e moltiplicando l’instabilità dei mercati
finanziari. Se, da un lato, innovazione e deregulation finanziaria hanno permesso alle imprese di
meglio allocare e ripartire i propri rischi, d’altro lato si è verificata una crescente esposizione dei
sistemi bancari nei confronti dell’economia reale e dei mercati azionari, con effetti deleteri sulle
concrete capacità di assorbire crescenti rischi provenienti dal mondo della produzione e dal mercato
dei capitali3.

Rischio, fattori individuali e sociologici


Anche se esiste indubbiamente una relazione diretta tra rischio ed investimento ed una relazione
inversa tra capitale proprio e rischio, non si deve credere che il rischio sia per l’impresa un elemento
puramente oggettivo. Diverso è, infatti, l’atteggiamento degli imprenditori verso il rischio, diversa è
la valutazione del rischio nelle varie fasi del ciclo economico, diverso è il premio richiesto dalle
varie imprese per coprire il rischio.
A livello individuale la volontà di affrontare il rischio è per una parte questione di temperamento,
per un’altra questione di sensibilità e per un’altra parte ancora di tradizioni in cui l’uomo è stato
educato. A tal proposito Lewis ha osservato che “più solida è la base economica di una persona e
più egli è in grado di rischiare. Un ricco agricoltore può, infatti, tentare di sperimentare su larga
scala nuove sementi, senza la certezza che resisteranno alla siccità, alle eccessive precipitazioni o
ad altre avversità. Ma il contadino che vive quasi al livello di sussistenza rinuncerà difficilmente a
quelle sementi che gli garantivano un raccolto in qualsiasi condizione. D’altra parte i poveri, che
non hanno nulla da perdere, possono essere più decisi a rischiare di chi ha una certa ricchezza, il
quale incorrerebbe in perdite se la sorte gli fosse avversa. Pertanto la maggior parte delle persone
pronte ad affrontare il rischio appartiene o alle comunità assai ricche oppure a quelle del tutto
prive di sicurezza, piuttosto che alle società dove vi è quanto basta per vivere”4. Sempre secondo
Lewis l’attitudine ad affrontare il rischio sarebbe legata anche a fattori di natura sociologica. Infatti
“in ogni comunità vi sono individui naturalmente inclini a sperimentare nuove tecniche, nuovi
prodotti o nuove forma economiche, sfidando le opinioni radicate o gli interessi acquisiti. In alcune
società tali individui sono ammirati ed incoraggiati, mentre in altre sono considerati avventurieri
da eliminare. Lo sviluppo economico dipende, pertanto, largamente dal modo in cui l’ambiente
sociale fa sorgere e motiva questi uomini”5.
3
. P. Minsky, Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ’29, Torino, 1984.
 
4
. W.A. Lewis, Teoria dello sviluppo economico, Milano, 1963, pag. 51.
 
5
. W.A. Lewis, Teoria dello sviluppo economico, op. cit., pag. 55.
 

3
Rischio ed incertezza
Secondo Knight6 nelle situazioni di rischio l’imprenditore sarebbe in grado di valutare
probabilisticamente, almeno in linea di principio, il verificarsi di un evento. Nelle situazioni di
incertezza il comportamento degli operatori e l’evoluzione del mercato assumerebbero invece un
andamento imprevedibile.
Invero, la famosa distinzione tra rischio ed incertezza proposta da Knight ha perso a poco a poco
larga parte della rilevanza iniziale. I concetti di probabilità soggettiva e d’inferenza bayesiana7 si
sono infatti progressivamente imposti su quelli di probabilità oggettiva e di inferenza classica ed
oggi, soprattutto negli studi aziendali, si giunge spesso ad ipotizzare l'esistenza di una distribuzione
di probabilità per quasi tutti i progetti di investimento8.
Nota pertanto una certa distribuzione di probabilità, una buona misura del rischio sarebbe data
dallo scarto quadratico medio. L’investimento più rischioso risulterebbe quello caratterizzato da
maggior variabilità, mentre quello meno rischioso corrisponderebbe a quello che permette
previsioni abbastanza sicure puntando sul valor medio, cioè sul valore più probabile.
Anche la scuola delle aspettative razionali ha dovuto però recentemente ammettere che le regole
di comportamento degli operatori non sono suscettibili di analisi scientifica rigorosa tutte le volte
che sia presente grave incertezza 9 e, in tal caso, molte ipotesi di lavoro basate sulla teoria delle
aspettative razionali risultano difficilmente applicabili alle decisioni di investimento.
Di fatto, nei processi caotici, anche escludendo urti, shock e disturbi, è praticamente impossibile
prevedere l’evoluzione di una variabile, a meno di conoscere con esattezza lo stato attuale del
sistema, le leggi che regolano la dinamica del fenomeno e soprattutto le condizioni iniziali. Anche
impiegando un numero limitato di equazioni differenziali per descrivere sistemi relativamente
semplici, piccole differenze nelle condizioni iniziali producono infatti andamenti molto complessi,
rendendo praticamente impossibili stime e previsioni.

6
. F.H. Knight, Rischio, incertezza e profitto, Firenze, 1960.
 
7
. Inferenza bayesiana e definizione soggettivista di probabilità sono strettamente connesse: i bayesiani considerano il
campionamento come uno strumento che permette di passare da un grado di fiducia soggettivo attribuito a priori ad un ignoto valore
di un certo parametro ad un grado di fiducia a posteriori che incorpora tutta l'informazione disponibile, tenendo conto dei risultati
sperimentali. A tal proposito vedasi, ad esempio, D. V. Lindley, Making Decisions, 2nd ed., New York, 1985.
 
8
. La versione "forte" dell'ipotesi sulle aspettative razionali finisce infatti per sostenere che la distribuzione soggettiva di probabilità
che gli agenti hanno riguardo agli eventi futuri tende a coincidere con la distribuzione oggettiva che tali eventi realmente presentano.
In pratica, se gli agenti economici conoscono tutti i parametri che caratterizzano il sistema economico, il suo passato e la sua
dinamica, le aspettative razionali sono non distorte (cioè prive di errori sistematici) ed efficienti (cioè con una varianza inferiore a
quella di tutte le altre previsioni possibili).
 
9
. R. E. Lucas, Studies in Business Cycles Theory, Cambridge (Mass.), 1981, pag. 224
 

4
Inoltre anche nei processi probabilistici non sempre le distribuzioni delle variabili casuali sono
simmetriche intorno alla media e, anche quando esista simmetria (o qualche forma di asimmetria
caratterizzata da una certa regolarità), lo scarto quadratico medio non sempre risulta
sufficientemente basso da permettere stime efficienti e previsioni attendibili.10

Rischio, esperienza ed apprendimento


Indubbiamente il temperamento dell’imprenditore è influenzato non solo da elementi soggettivi
(dinamismo, prudenza, spirito d’iniziativa) ma anche dell’apprendimento che è frutto
dell’esperienza passata: il rischio, oltre che al volume degli investimenti, risulta direttamente
proporzionale alla varianza (o allo scarto quadratico medio) degli errori di previsione compiuti
durante la vita dell’impresa. Di fatto se è in qualche modo possibile stimare il tasso di profitto atteso
dall’investimento, è pure possibile ottenere una serie di valori previsti ed una serie di valori
effettivi. Le differenze tra i valori ex-ante e i valori ex-post costituiscono un certo range di errori
caratterizzati da una certa distribuzione di probabilità. La deviazione standard rappresenta, con la
varianza, una semplice misura della dispersione degli errori intorno alla media ed è normalmente
utilizzata per descrivere il rischio dell’investimento.
Il rischio gravante sull’intero capitale risulterà pertanto inversamente proporzionale al capitale
proprio e direttamente proporzionale al volume degli investimenti ed alla deviazione standard
relativa agli errori di previsione. Assumendo una distribuzione normale degli errori di previsione e
ipotizzando che, in media, le aspettative degli imprenditori si rivelino corrette, si può infatti
ragionevolmente pensare che un incremento del rapporto tra investimenti e capitale proprio
determini un aumento del rischio economico-finanziario, modificando la distribuzione degli errori
di previsione ed aumentando la dispersione dei valori assunti dalla variabile casuale.
Negli ultimi decenni gli enormi cambiamenti nelle tecniche di produzione e nelle strategie di
finanziamento hanno prodotto un aumento esponenziale degli errori di previsione legati ai
programmi di investimento: continuare a pensare a stime consistenti e non distorte è sempre
possibile ma sull’efficienza relativa dei vari parametri stimati sembra lecito nutrire qualche
ragionevole dubbio.

Rischio e dimensione delle imprese


Le rigidità presenti sul mercato del lavoro, la crescente diffusione di tecniche produttive capital-
intensive, il continuo progresso tecnico e la conseguente rapida obsolescenza dello stock di capitale
possono avere avuto (ed hanno tuttora) effetti drammatici sull'aumento dei costi fissi delle piccole e
10
. S. Ricossa, Dizionario di Economia, Torino, 1982, pp. 427-428.
 

5
medie imprese, nonché sulla possibilità di raggiungere il punto di pareggio in presenza di bassi
volumi di fatturato.
È pertanto possibile che alcune imprese abbiano la tendenza a distorcere la stima del rischio.
Secondo J. Steindl, ad esempio, sarebbero soprattutto i piccoli imprenditori a sottostimare il rischio.
Le ragioni di questo risiederebbero nel fatto che la piccola e media impresa è obbligata ad accettare
rischi relativamente grandi se non vuole uscire dal mercato. In altri termini le piccole aziende si
comporterebbero come un giocatore d’azzardo forzato dalle circostanze a barare, ingannando se
stesso e gli altri. Le conseguenze sarebbero nefaste: sottostimando il rischio l’impresa finirebbe per
investire molto di più di quanto sarebbe opportuno, esponendosi a gravi squilibri economici,
finanziari e patrimoniali11.

Rischio, fasi del ciclo e fragilità finanziaria


Il principio del rischio crescente permette di spiegare il comportamento anomalo del tasso di
interesse durante le varie fasi del ciclo economico. In un periodo di boom economico il rischio
diminuisce per i maggiori profitti, la preferenza per la liquidità si riduce e la tendenza al rialzo dei
tassi di interesse è rallentata. In un periodo di recessione, ad esempio, il rischio cresce per
l’impossibilità di smobilizzare e riconvertire gli investimenti, la preferenza per la liquidità aumenta
per l’atteggiamento prudenziale degli imprenditori e la tendenza al ribasso del tasso di interesse
viene frenata. È pertanto evidente che la teoria di Tobin sulla scelte di portafoglio può essere
utilizzata non solo per spiegare la domanda di moneta delle famiglie «mosse dal timore del rischio»,
ma anche per chiarire come il rischio condizioni la domanda di liquidità delle imprese12.
Durante una violenta espansione economica il rischio può però essere valutato in modo
imprudentemente basso dai soggetti economici, mentre in una fase di recessione gli imprenditori
sono spesso disposti ad investire soltanto in cambio di un alto premio per il rischio 13. Quando la
congiuntura è favorevole la crescita degli investimenti viene quasi sempre stimolata dallo
spostamento verso l’alto della curva dell’efficienza marginale del capitale: per non perdere
interessanti opportunità di guadagno molti imprenditori sono disposti ad aumentare il proprio
indebitamento, anche a costo di sacrificare l’equilibrio finanziario e patrimoniale dell’azienda. In un
periodo di crisi, invece, la flessione dei profitti incide pesantemente non solo sull’equilibrio
economico delle imprese ma anche sulle reali capacità di autofinanziamento, riducendo i flussi di
cassa e rendendo più difficile il riequilibrio del rapporto tra debiti e capitale proprio. All’accresciuto
11
. J. Steindl, Capitalist enterprise and risk, in “Oxford Economie Papers”, 1945, 3, pp. 21-45.
 
12
. J. Tobin, Liquidity preference as behavior towards risk, in “Review of Economic Studies”, n. 67, pp. 65-86, febbraio 1958.
 
13
. J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, 1971, pag. 285.
 

6
rischio economico si aggiunge così un maggior rischio finanziario legato soprattutto alle più grandi
difficoltà di attingere al credito, di far fronte ai pagamenti correnti e di onorare i debiti.
Secondo alcuni economisti14 il rischio crescente sarebbe pertanto responsabile di larga parte della
fragilità finanziaria del sistema economico e delle istituzioni creditizie. Durante il boom economico
molte imprese e molte banche si muoverebbero da posizioni coperte a posizioni speculative o ultra
speculative per l’effetto congiunto dello spostamento verso l’alto della curva dell’efficienza
marginale del capitale (innescata dalle aspettative di maggiori profitti futuri) e dalla contemporanea
traslazione verso il basso del rischio marginale (prodotta dall’accumulazione di crescenti profitti e
dalla minor sensibilità al rischio). Nelle fasi di recessione, invece, la caduta dei profitti netti attesi e
la riduzione dei cash flow determinerebbe un movimento contrario per entrambe le curve,
amplificando gli effetti della crisi. La fragilità delle imprese e delle banche finirebbe così per essere
responsabile, almeno in parte, degli squilibri intervenuti negli ultimi decenni nei sistemi produttivi e
sui mercati finanziari.
Il principio del rischio crescente fornisce pertanto un utile strumento per meglio capire
l’instabilità delle economie industriali. In presenza di un flusso (più o meno continuo) di invenzioni
ed innovazioni, le fluttuazioni cicliche risultano infatti spesso legate più ad elementi monetari ed
erratici che a fenomeni reali (come le crisi di sovrapproduzione, la carenza degli sbocchi, il
problema della domanda effettiva, la sovraccapitalizzazione, l’andamento decrescente della
produttività marginale del capitale e la caduta tendenziale del saggio di profitto).

14
. H. P. Minsky, Governare la crisi. L’equilibrio in un’economia instabile, Milano, 1989.
 

7
ALCUNI CONTRIBUTI FORNITI DALLA SCIENZA ECONOMICA
PER LO STUDIO DELLA VARIABILE “RISCHIO”

Rischio ed efficienza marginale del capitale


Secondo la teoria keynesiana l’investimento è governato dall’efficienza marginale del capitale, che
è il saggio di profitto atteso dall’investimento marginale. Il calcolo di convenienza economica è
effettuato attraverso il confronto tra efficienza marginale del capitale e tasso d’interesse. Come
noto, affinché l’investimento abbia un limite, l’efficienza marginale deve diminuire al crescere
dell’investimento.
Keynes giustificò l’andamento decrescente della curva dell’efficienza marginale, osservando che
“se vi è aumento dell’investimento in qualsiasi tipo di capitale, in qualsiasi periodo di tempo,
l’efficienza marginale di quel tipo di capitale diminuirà con l’ammontare dell’investimento, in
parte perché il reddito prospettico discenderà con l’aumentare dell’offerta di quel tipo di capitale,
e in parte perché, di regola, una pressione sulla possibilità di produzione di quel tipo di capitale
provocherà un aumento del prezzo di offerta”
L’approccio keynesiano alla teoria dell’investimento fu criticato da Kalecki il quale osservò che
essa consente di determinare solo il livello dell’investimento ex-post e non dice niente
dell’investimento ex-ante15. Infatti gli imprenditori fanno i loro calcoli di convenienza economica
prendendo in considerazione i prezzi dei beni strumentali presenti e non i prezzi futuri. Il problema
fu posto da J. Robinson in questi termini: “Se vi sono progetti che promettono un saggio di profitto
maggiore del tasso di interesse, ogni singola impresa non sarebbe desiderosa di realizzare un
ammontare di investimenti infinita mente grande? Non significa nulla rispondere che un maggior
tasso di investimento aumenta il costo dei beni capitali e così riduce il saggio di profitto atteso,
perché l’aumento dei costi si verifica ex-post come conseguenza dell’investimento effettivo, mentre
l’efficienza marginale del capitale riguarda i piani di investimento ex-ante”16.
A rigor di logica, comunque, anche le osservazioni di Kalecki potrebbero essere criticate. È stato
giustamente osservato che un aumento della domanda di beni strumentali potrebbe avere come
effetto quello di favorire la formazione di aspettative di prezzi crescenti 17. Tuttavia se si ammette,
anche solo per ipotesi, che né le aspettative non neutrali, né le diseconomie di larga scala, né la
concorrenza imperfetta siano operanti, la curva dell’efficienza marginale diventa perfettamente
15
. Si veda A. Chilosi, Kalecki, Bologna, 1979, pp. 203-215.
 
16
. J. Robinson, Introduzione a studi sulla teoria dei cicli economici, Milano, 1972, pag. 12.
 
17
. G. Brunello, Note sulla teoria dinamica di M. Kalecki, in “Ricerche economiche”, nn, 1-2, 1981, pag. 181.
 

8
elastica e l’analisi keynesiana non riesce a chiarire le ragioni limitanti la dimensione
dell’investimento.

Rischio del debitore e rischio del creditore


Secondo Keynes sul volume dell’investimento influiscono due tipi di rischio che è importante
distinguere: il primo è “il rischio dell’imprenditore o del debitore” e sorge dalle incertezze legate al
conseguimento di un certo profitto, mentre il secondo è “il rischio del creditore” ed è legato
all’incertezza di poter recuperare i capitali prestati all’impresa. Il primo tipo di rischio è, in un certo
senso, un effettivo costo sociale, mentre il secondo tipo di rischio è un puro aumento del costo
dell’investimento, che sarebbe sopportato dall’impresa stessa se questa si autofinanziasse. In pratica
l’imprenditore, per avere un incentivo ad investire, dovrà aggiungere due compensi al tasso
d’interesse: un premio per coprire il rischio economico ed un premio per coprire il rischio
finanziario18.
Lo stesso Keynes avrebbe potuto giustificare la decrescenza della curva dell’efficienza marginale
considerando i due rischi direttamente proporzionali al livello degli investimenti. Di fatto, però, fino
alla metà degli anni ‘30, nessuno aveva ancora sottolineato con vigore l'ovvia verità, secondo la
quale il tasso di rischio non è indipendente dall’ammontare investito 19. D’altra parte Kalecki non
avrebbe enunciato il famoso principio del rischio crescente se non avesse conosciuto, verso la metà
degli anni trenta, l’economista neoclassico polacco Marek Breit20.
In un articolo del 1935, dedicato alla ricerca della relazione esistente tra i tassi d’interesse a lungo
termine e a breve termine21, M. Breit notò come, nei mercati creditizi reali, le condizioni di credito
non siano indipendenti né dalla persona del debitore, né dall’ammontare preso a prestito. A tal
proposito egli rilevò che «solo una certa quantità di credito può essere ottenuta al tasso di mercato,
mentre la banca soddisfa ulteriori richieste di credito solo a tassi sempre più alti». La ragione di
questo va evidentemente ricercata nel fatto che «la banca vede una stretta correlazione tra
l’elevatezza del suo rischio e il volume del suo prestito». Breit continuò osservando che «dal punto

18
. J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, op. cit., pp. 284- 285.
 
19
. Secondo Minsky il ricorso all’indebitamento aumenterebbe il rischio del debitore, incidendo sulla valutazione dei profitti netti
attesi e giustificando l’andamento decrescente sia dell’efficienza marginale del capitale sia della domanda di beni strumentali. D’altra
parte il costo dei finanziamenti esterni sarebbe crescente con l’aumento del leverage riflettendo sia il rischio crescente dei
finanziatori sia l’andamento crescente della curva di offerta dei beni strumentali (H. P. Minsky, Governare la crisi. L’equilibrio in
un’economia instabile, Milano, 1989, pp. 263-265).
 
20
. A. Chilosi, Marek Breit, Kalecki e il principio del rischio crescente, in “Rivista internazionale di scienze sociali”, nn. 3-4, 1980,
pp. 348-255.
 
21
. M. Breit, Un contributo alla teoria del mercato della moneta e del capitale, in “Rivista internazionale di Scienze sociali”, numeri
3-4, 1980, pp. 355-383.
 

9
di vista dell’imprenditore non è soltanto il tasso di interesse di mercato che è decisivo per il prezzo
del credito, ma piuttosto un determinato tasso di interesse individuale, che procede secondo una
curva crescente. Il tasso di interesse di mercato costituisce soltanto il punto di partenza, ovvero un
tratto di questa curva individuale dell’interesse, che nel suo successivo andamento si eleva al di
sopra della curva dell’interesse di mercato. Tuttavia in quale punto inizi ad innalzarsi questa curva
individuale dell’interesse e con che inclinazione pro ceda dipende già dal coefficiente di
razionamento, che a volte viene in maniera decisiva influenzato dalla rappresentazione che il
creditore ha dei rischi della produzione in esame»22.
Secondo Kalecki il rischio marginale cresce con l’investimento per almeno due motivi: da un lato
il rischio patrimoniale è tanto maggiore, quanto maggiore è l’investimento. Più grande è
l’investimento, maggiore è il pericolo di un affare sfortunato. Inoltre con la dimensione
dell’investimento cresce pure il rischio finanziario. L’ammontare investito costituisce, infatti, un
elemento patrimoniale estremamente rigido, la cui svendita, in caso di necessità improvvisa,
darebbe luogo a perdite rovinose. D’altra parte, riprendendo Breit, Kalecki osservò come se
l’imprenditore non tenesse conto di tali limiti, sarebbero sicuramente i suoi finanziatori a tener
conto del rischio crescente, negandogli il credito o applicando tassi crescenti sulle successive
porzioni di credito erogato23.
Kalecki ammise che potessero sorgere alcuni dubbi sulla validità del principio del rischio
crescente nel caso delle società per azioni24. Il beneficio della responsabilità limitata, unito alla
possibilità di emettere azioni ed obbligazioni, ha certamente l’effetto di traslare parte del rischio
dagli imprenditori su altri soggetti economici25. Il principio del rischio crescente resta comunque
valido perché il mercato dei capitali è limitato ed è conseguentemente impossibile collocare più di
un certo numero di azioni e di obbligazioni nel portafoglio dei risparmiatori.
Nessun dubbio dovrebbe poi sorgere sul fatto che più è ampia l’emissione di obbligazioni, più
dividendi sono compromessi nel caso di un esito sfavorevole degli affari. Del resto anche il ricorso
all’emissione di nuove azioni è limitato da non pochi fattori. Di fatto, se i nuovi piani di
investimento sono finanziati ricorrendo ad un allargamento della base societaria e se il tasso di
rendimento dei nuovi investimenti è minore del vecchio tasso di profitto, i dividendi dei vecchi

22
. M. Breit, Un contributo alla teoria del mercato della moneta e del capitale, op. cit. pp. 364-365.
 
23
. M. Kalecki, A theory of the business cycle, in “Review of Economie Studies”, febbraio 1937, pp. 84-85. M. Kalecki, The principle
of increasing risk, in “Economica”, novembre 1937, pp. 440-447 (traduzione italiana in A. Chilosi, Ka lecki, op. cit. pp. 92-102); M.
Kalecki, Teoria della dinamica economica, Torino, 1957, cap.4.
 
24
. N.S. Buchanan e R.D. Calkins, A comment on Mr. Kalecki’s principle of increasing risk, in “Economica, 2, 1938, pp. 445-459 e
anche M. Kalecki, A reply, in “Economica”, 1938, pp. 459-460 e M. Kalecki, Teoria della dinamica economica, op. cit., cap. 4.
25
 
?. F.H. Knight, Rischio, incertezza e profitto, Firenze, 1960, pag. 239 e pp. 279-280.
 

10
azionisti saranno compressi e si verificherà una vera e propria redistribuzione dei profitti. Inoltre
l’entrata di nuovi azionisti provocherà una redistribuzione del controllo non sempre accetta ai
maggiori azionisti. Tutto questo avrà l’effetto di limitare l’investimento e la dimensione della
società per azioni.
Secondo Kalecki ogni imprenditore si trova di fronte a determinate condizioni di mercato: egli
conosce il prezzo dei prodotti, il costo del lavoro, il livello dei salari, i prezzi delle materie prime, il
tasso di interesse ed il costo dei beni strumentali. Inoltre ha qualche idea circa l’evoluzione futura
dei prezzi e dei costi ed è così in grado di stimare una serie di profitti futuri. Il guadagno (g) atteso
dall’imprenditore sarà dato dal prodotto tra il tasso di profitto (r) e lo stock di capitale investito (K)
e dovrà tener conto in qualche modo del tasso di interesse (i) e del rischio (σ)
 

g = rK - (i + σ)K

 
Il massimo guadagno corrisponderà al valore K che soddisfa l’equazione:
 

dg/dK = 0 cioè r = i + σ

 
Secondo Kalecki la curva dell’efficienza marginale è infinitamente elastica perché egli trascura, di
proposito, l’imperfezione della concorrenza ed ipotizza rendimenti costanti di scala. Al tasso
d’interesse è sommata la curva del rischio marginale perché l’imprenditore è disposto ad investire
solo se il tasso di profitto atteso, oltre all’interesse, copre anche un certo premio per il rischio.
L’ammontare investito è pertanto determinato dalla condizione d’uguaglianza tra efficienza
marginale dell’investimento e somma del rischio marginale con il tasso di interesse. La domanda di
beni strumentali risulta in ogni caso finita: il principio del rischio crescente consente infatti di
spiegare la limitata dimensione degli investimenti anche in un mercato perfettamente
concorrenziale.

Rischio, autofinanziamento e leverage


La dimensione dell’impresa è limitata dall’ammontare di capitale proprio: minore è il capitale
imprenditoriale, maggiore è il rischio economico-finanziario cui l’impresa va incontro. 

11
Nelle stesse circostanze un grande imprenditore può investire molto di più di un piccolo
imprenditore perché le perdite hanno un peso relativo minore sulla sua ricchezza. Il capitale proprio
costituisce, inoltre, una solida garanzia che gli consente di ricorrere, senza problemi, al credito
bancario e al mercato finanziario. Il livello di rischio è pertanto influenzato dalla formazione di
risparmio di impresa: i profitti non distribuiti hanno, infatti, l’effetto di potenziare il capitale proprio
e possono essere investiti senza ridurre la sicurezza patrimoniale.
La curva del rischio marginale è quindi situata tanto più in alto, quanto minore è il capitale
proprio dell’imprenditore e quanto maggiore è il grado d’indebitamento dell’impresa:
l’accumulazione del capitale mediante destinazione dei profitti correnti a riserva ha l’effetto di
spingere verso il basso la curva del rischio, rendendo attraenti nuovi progetti di investimento26.
È forse il caso di ricordare che sui rapporti leverage e rischio esiste una vasta letteratura. La
maggior parte dei lavori cerca di individuare la combinazione ottima tra fonti interne e fonti esterne
di finanziamento attraverso lo studio dell’effetto del leverage sul valore dell’impresa. Secondo le
teorie tradizionali la crescita del leverage avrebbe, in un primo momento, l’effetto benefico di
permettere all’impresa di sviluppare al massimo le sue potenzialità; ovvia mente, superato un certo
livello critico di indebitamento, la possibilità di ottenere profitti sarebbe di gran lunga neutralizzata
dagli effetti del rischio crescente. E a tal proposito opinione diffusa che esista una fascia ottima di
indebitamento il cui limite massimo è determinato dal punto oltre il quale il saggio marginale di
interesse richiesto dal mercato supera il tasso medio di redditività del capitale investito (return on
investment). Evidentemente la posizione di tale punto dipende, in larga parte, dai vincoli posti dalle
banche e dalle maggiori istituzioni finanziarie ed è basato sulla loro valutazione del rischio
economico-finanziario che l’impresa affronta27.
  
Rischio e squilibri patrimoniali
Il rischio economico-finanziario è poi sicuramente legato agli squilibri presenti sia nella
composizione degli investimenti sia nella struttura dei finanziamenti. In caso di congiuntura
sfavorevole l'impresa caratterizzata da rigidità nell'attivo e da piani di espansione difficilmente
reversibili non potrà né vendere agevolmente i beni strumentali né smobilizzare rapidamente gli

26
. Sono stati fatti diversi tentativi di costruire funzioni dinamiche dell’investimento che tengano conto del principio del rischio
crescente. I vari modelli ipotizzano che l’investimento sia una funzione crescente de fondi interni, del tasso di profitto atteso e del
grado di utilizzo della capacità produttiva ed una funzione decrescente del grado di indebitamento, del tasso di interesse e dello stock
di capitale per occupato. Si veda, ad esempio, J. Steindl, Maturity and Stagnation in American Capitalism, Oxford, 1952, pp. 211-
228
 
27
. E. Solomon, The Theory of financial management, New York, 1963, pp. 91-119.
 

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investimenti né tanto meno riconvertire in tempi brevi lo stock di capitale per la produzione di
nuovi prodotti.
Sul rischio d’impresa, oltre alla quantità dei finanziamenti esterni, incideranno quindi sicuramente
pure la composizione e la durata dei debiti. A parità di leverage, diverso infatti è il rischio di
un’impresa che ha finanziato i propri investimenti solo con debiti a lungo termine rispetto al rischio
di un'azienda che ha fatto ricorso anche a debiti a breve. Il minor grado di copertura delle
immobilizzazioni determinerà per la seconda azienda maggior fragilità finanziaria, vista
l’imprescindibile necessità di rinnovare i prestiti, la forte esposizione ad aumenti nei tassi di
interesse e la non trascurabile possibilità di incorrere in un vero e proprio strozzamento del credito.
Anche progetti d’investimento caratterizzati da forte incidenza dei costi fissi (ammortamenti, canoni
di leasing, spese di manutenzione, interessi passivi,…) determineranno un forte aumento del rischio
marginale: in tali imprese l'assorbimento di tali costi richiederà volumi di fatturato stabilmente
elevati ed il raggiungimento del break-even point risulterà decisamente più difficile rispetto a
quanto normalmente avviene nelle imprese caratterizzate da strutture dei costi meno rigide.
Il principio del rischio crescente mostra anche come la disponibilità di fondi interni, sotto la forma
di risparmio di utili, sia necessaria non solo per acquistare beni strumentali e per attrarre risorse
dall’esterno ma anche per ridurre l’incertezza economica: l’autofinanziamento, oltre ad essere un
vincolo28, è una delle determinanti principali dell’espansione perché, riducendo il rischio di impresa,
rende attraenti nuovi piani di investimento. Di fatto, Kalecki ha preceduto Keynes nel capovolgere
la legge di Say, affermando più volte che «non è il profitto che crea l’investimento ma è
investimento che crea il profitto»29 e che «l’investimento, una volta eseguito, provvede automatica
mente i risparmi per finanziarlo»30: non è tuttavia azzardato affermare che il principio del rischio
crescente consente, sotto un certo aspetto, di rivalutare il flesso causale «classico» tra risparmio e
investimento.
 
Il teorema di Modigliani-Miller ed il paradosso del debito
La critica più dura che è stata portata al principio del rischio crescente è rappresentata dal “teorema
di Modigliani-Miller”. Secondo tale teorema, a causa degli arbitraggi che si verificano sui mercati
mobiliari, il valore dell’impresa, in un situazione di libera e perfetta concorrenza, sarebbe

28
. Per la teoria dei fondi residui, ad esempio, l’attesa di profitti futuri resta sempre il primum movens dell’espansione mentre il
livello dei profitti passati determina la misura in cui l’investimento può rendersi operante. Si veda, a tal proposito, J. Meyer e E. Kuh,
The investment decision, Cambridge, 1957, pp. 204-205.
 
29
. M. Kalecki, Studi sulla teoria dei cicli economici, Milano, 1972, pp. 37-38 e J.M. Keynes, Teoria generale della occupazione,
dell’interesse e della moneta, op. cit., pp. 315-325.
 
30
. M. Kalecki, Teoria della dinamica economica, op. cit., pp. 51-52.
 

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insensibile alle variazioni del rapporto di indebitamento e risulterebbe determinato solamente dal
valore attuale dei profitti netti attesi31.
Il teorema di Modigliani-Miller incontra, però, tutta una serie di limiti dovuti principalmente al
fatto che il mercato dei titoli risulta, nella realtà, fortemente imperfetto. Di fatto se in un mercato
mobiliare perfettamente concorrenziale è ragionevole pensare che ad un aumento del grado di
indebitamento corrisponda sia un incremento dei rendimenti netti attesi sia un aumento del rischio
marginale (che finiscono poi per compensarsi a vicenda), in mercati mobiliari caratterizzati da varie
forme di concorrenza imperfetta è naturale ritenere che la presenza di una elevato leverage incida
sia sul valore dell’azienda che sulle quotazioni azionarie. Un'impresa molto indebitata ha, infatti,
probabilità di fallire mediamente più alte rispetto ad un'impresa meno indebitata. Evidentemente la
probabilità di fallire non è una funzione lineare del grado d’indebitamento ma, oltre ad un certo
livello, essa aumenta più che proporzionalmente rispetto al leverage. L’acquisto di azioni e di
obbligazioni di un'azienda fortemente indebitata interesserà, pertanto, più un ristretto numero di
speculatori e di giocatori d’azzardo che larghe fasce di soci e finanziatori.
Un’altra critica portata al principio del rischio crescente ed all’ipotesi della crescente fragilità
finanziaria è rappresentata dal cosiddetto “paradosso del debito”. Secondo alcuni economisti i
profitti generati dagli investimenti sarebbero in grado di ridurre il leverage, determinando una
progressiva riduzione del rischio marginale32. Evidentemente tale paradosso tiene conto solo in
parte del fatto che i profitti non si trasformano automaticamente ed integralmente in flussi di
finanziamento, dovendo essere spesso copiosamente distribuiti sotto forma di dividendi. In periodi
di espansione economica il miglioramento delle aspettative può poi determinare uno spostamento
verso l’alto della curva dell’efficienza marginale del capitale, favorendo ulteriori investimenti,
contrastando la caduta del leverage e neutralizzando gli effetti benefici esercitati dai nuovi profitti
sul rischio marginale.33

Enrico Rivera 
 
31
. F. Modigliani e M.H. Miller, The cost of capital, corporation finance and the theory of investment, in “American Economic
Review”, 1958, vol. 48, pp. 261-297 e F. Modigliani e M.H. Miller, Dividend policy, growth and the valuation of shares, in “Journal
of Business”, vol. 34, ottobre 1961, pp. 411-433.
 
32
. M. Lavoie, Horizontalism, Structuralism, Liquidity Preference and the Principle of Increasing Risk, in “Scottish Journal of
Political Economy”, vol. 43, n. 3, 1996, pp.275-300.
 
33
. G. Corbisiero, La problematica della crescente fragilità nella ipotesi di instabilità finanziaria da una prospettiva kaleckiana, in
Temi di discussione, Banca d’Italia, n. 330, marzo 1998, pp. 48-55.
 

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