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L’arte di porgere

Ioannis Barbas

Design in Italia: 1945-2022

Prof. Gabriele Neri

Semestre Autunnale AA 2022-2023


Abstract

Le fini geometrie cartesiane di Franco Albini si articolano nell’aria: leggerezza e sospensione


diventano per l’architetto milanese strumenti con cui “scrivere la modernità”, adoperando una
calligrafia che combina armoniosamente il razionalismo con il sogno, la precisione con l’incan-
to.
Il termine “calligrafia” si presta per descrivere l’opera di Albini, in quanto l’architetto propone
un registro espressivo che si declina attraverso sottili linee scure, da sembrare tracciate con
l’inchiostro. Lo stesso Gio Ponti pare riconoscere questa caratteristica peculiare nel lavoro del
progettista, quando nel servizio Una mostra perfetta, scrive: “nel vedere le sue cose si sente
che, prima di esser materia, son state un bel disegno di Albini artista”0.
Con Albini nulla sembra toccare il pavimento; delle volte lo sfiora appena, ma ogni cosa è
sempre appesa ad un filo, agganciata a sottili montanti scuri. In particolare, negli allestimenti
museografici e nei padiglioni fieristici, questa poetica della sospensione diventerà simbolo di un
nuovo linguaggio etico ed estetico.
La museografia è forse l’ambito nel quale Albini disegna le sue invenzioni più riuscite; l’allesti-
mento diventa un luogo di vera sperimentazione architettonica, che prende forma in un dialogo
costante con altri protagonisti del panorama culturale italiano del dopoguerra, quali il gruppo
BBPR a Milano e Carlo Scarpa a Verona, Venezia e Palermo. Si assiste alla formazione di una
nuova idea di museo “vivente”, mossa da una ritrovata coscienza storica, nel quale vengono
maturate teorie espositive d’avanguardia riguardanti l’opera d’arte, il pubblico e la funzione
stessa dei musei. Gli architetti delineano ognuno la propria idea di modernità, adoperando mo-
tivi lessicali rarefatti che, anche nelle affinità, presentano sottili differenze.
Di questi personaggi, Franco Albini è probabilmente quello che più è rimasto nell’ombra. Tut-
tavia, si tratta forse del più contemporaneo, capace di fissare un attimo fuggente del tempo in
una perfetta, infinita immobilità.
Nell’edizione n.143 di Domus, Gio Ponti, scrivendo di Franco Albini, sottolinea “quella ‘fantasia
di precisione’ che Albini ama in concezioni equilibrate pericolosamente fra rigore e libertà”1.
Sono parole emblematiche che riescono a cogliere la personalità quasi ossimorica, per certi
versi contraddittoria, dell’architetto milanese. Personaggio dal carattere rigoroso e schivo, Al-
bini opera nel silenzio del suo studio, contribuendo alla formazione di una rinnovata identità
italiana nel panorama architettonico-culturale del 900.
In questa “costruzione della modernità” proposta dagli architetti della scuola di Milano, le linee
sottili di Albini si diramano nell’aria, in una poetica della sospensione ancora assolutamente
contemporanea. In particolare, è nell’ambito della museografia e degli allestimenti a manife-
starsi questa attitudine volta a cogliere l’elemento effimero dello spazio, nel quale, con le parole
dello stesso Albini, “aria e luce sono materiali da costruzione”2. L’architetto delinea un linguag-
gio rarefatto, musicale, composto da molteplici registri espressivi che, tuttavia, si declinano
sempre attraverso alcuni motivi ricorrenti. È un architetto razionalista: le fini geometrie cartesia-
ne si articolano in un reticolato spaziale sempre tracciato con precisione e misura, come già si
denota, ad esempio, dalle pavimentazioni dei padiglioni fieristici progettati per l’Ina a Milano e
Bari nel 1935.

È importante sottolineare come gli allestimenti di padiglioni o di mostre temporanee degli anni
trenta, prima ancora della rivoluzione nell’ambito della museografia del dopoguerra, fossero
delle sperimentazioni d’avanguardia da parte degli architetti, quasi volte a studiare e delineare
un carattere che avrebbe in seguito segnato l’architettura moderna. È presente la traccia di una
matrice neoplastica nel linguaggio degli allestimenti di Albini; i sottili montanti scuri che corrono
lungo le pareti, o che attraversano lo spazio seguendo una tensione cartesiana, un po’ ricor-
dano le linee nere di Mondrian, tese al limite della tela. Queste sono le stesse linee “tensionali”
che troviamo nella scomposizione ortogonale delle linee d’ombra che scandiscono la facciata
rigorosa degli uffici Ina, costruiti a Parma negli anni cinquanta. Il motivo del telaio cartesiano
nell’alzato deve qualcosa agli studi degli allestimenti intrapresi da Albini. In particolare, non si
può non sottolineare come nel dettaglio dei pilastri che, rastremandosi verso l’alto, si piegano
in sommità a mensola per sorreggere il coronamento dell’edificio, vi sia un eco del linguaggio di
Albini allestitore; è come se l’architetto “porgesse” il cornicione aggettante nel vuoto, sospen-
dendolo nell’aria, presentandolo con la delicatezza di un oggetto esposto.

Il linguaggio di Albini si declina differentemen-


te a partire dal contesto nel quale l’architetto
viene chiamato ad operare. Si denota un sottile
cambio di registro, ad esempio, nel trattamento
di Albini nei riguardi degli allestimenti musea-
li rispetto a quelli progettati per le esposizioni
temporanee, contraddistinte da un carattere
più provvisorio, effimero. L’architetto Antonio
Monestiroli sottolinea come per gli architetti mi-
lanesi, esponenti del razionalismo, “il punto di
partenza di un progetto di architettura fosse la
conoscenza del tema. La casa, il teatro, il mu-
seo, sono temi che appartengono alla città e
che la città affida agli architetti perché questi
ne mettano in opera il significato”3. Questa idea
dello studio interpretativo del “tema” segna una
demarcazione fondamentale nei confronti del
passato; particolare, il tema del museo diventa
centrale nella logica di ricostruzione e ristruttu-
razione del dopoguerra.
Gli anni del dopoguerra diventano un’opportu-
nità per ripensare alla funzione sociale dei musei, al loro significato, di cui Albini, BBPR e Scar-
pa diventeranno i maggiori interpreti. Si assiste alla nascita di una nuova idea di museo vivente,
un principio espositivo “attivo” che presenta anche una funzione formativa. In un breve saggio,
Giulio Carlo Argan scrive: “Soltanto l’educazione formale fornita dall’arte ci dà l’attitudine a si-
tuare gli atti della vita quotidiana in un tempo e in uno spazio definiti, come a prendere coscien-
za del mondo in cui operiamo”4. Il museo moderno nasce dunque da una coscienza storica ri-
trovata, e mira a diventare uno strumento di educazione attraverso la conoscenza. Albini crede
profondamente nel valore della ricostruzione del mondo contemporaneo, come esplicita con
una certa urgenza nel primo editoriale di Costruzioni-Casabella sotto la sua direzione: “Quasi
il mondo intero è ricoperto di rovine e i compiti della ricostruzione sono immensi: si tratta di
far sorgere veramente da queste rovine la ‘città di domani’ e l’architettura di domani, altrimenti
anche questa occasione, unica nella storia dei millenni trascorsi, di affermare la validità di un
nuovo credo sociale, tecnico ed estetico”5. Si evince da queste parole come l’opera di Albini sia
sempre stata venata di un certo idealismo, delle volte passato in secondo piano, forse a causa
dal carattere riservato e silenzioso dell’architetto.
La museografia italiana, che frequentemente trova sede nei palazzi storici, prima degli anni cin-
quanta presentava ancora soluzioni espositive ottocentesche. Architetti quali Albini o Scarpa si
trovano a confronto con edifici dalla struttura quasi intoccabile, o difficilmente alterabile. L’ope-
razione dei progettisti diviene quindi uno studio della dicotomia antico-moderno, nella quale il
tempo e la sottolineatura dell’involucro storico assumono un ruolo di massima rilevanza.
A Genova, la sistemazione delle gallerie comunali di Palazzo Bianco, progettata da Albini e
realizzata tra il 1949 e il 1951, segna uno dei primi capolavori dell’architettura moderna nell’am-
bito della museografia. Frutto di un’intensa collaborazione con Caterina Marcenaro, direttrice
dell’ufficio delle Belle Arti del comune di Genova, Albini disegna alcune delle sue invenzioni
espositive più apprezzate e riconosciute.

Le pareti bianche del palazzo cinquecentesco


vengono spogliate della maggior parte delle tele
che le ricoprono, molte delle quali non verranno
esibite nel nuovo allestimento. Viene effettuata
un’attenta selezione delle opere da parte della
Marcenaro, che elimina anche il mobilio e l’arre-
damento in stile patrizio. Ogni tela selezionata
viene posta ad una adeguata distanza dall’altra,
sottolineando dei momenti di pausa e di respiro
nel tempo di osservazione delle opere d’arte.
Albini stesso sembra rendersi conto dell’impor-
tanza di questi spazi vuoti, che chiama “zone
di influenza dello spazio pittorico”6. La sottile
calligrafia di Albini entra nello spazio espositivo,
creando una sorta di “ambiente nell’ambiente”,
motivo che ritorna in quasi tutti i suoi allesti-
menti. L’architetto pone l’accento sull’involucro
esistente, sovrapponendo alle pareti bianche
del palazzo le sottili geometrie cartesiane dei
tiranti scuri ai quali sono appesi i dipinti, le cui
guide sono fissate a ridosso dell’imposta delle volte. Albini dunque “abita” lo spazio storico
con un registro espressivo differente, un ordine gerarchico secondario la cui filigrana parla di
un linguaggio contemporaneo che nega il primo, ma che per logica spaziale è perfettamente
integrato ad esso. Ritorna il motivo della sospensione nell’aria, con determinate tele sospese
nel vuoto, sorrette da eleganti profili di ferro curvilinei, infissi nelle basi di colonne antiche o
frammenti di capitelli di spoglio. La luce naturale viene filtrata dalle tende alla veneziana, mentre
il sistema di illuminazione artificiale viene articolato attraverso un esile sistema di telai, sospesi
nell’aria da cavi d’acciaio che si diramano nello spazio espositivo.
Si instaura un rapporto dialettico con le opere d’arte, in un equilibrio di contrasti: la sottigliezza
delle linee di albini, gli ambienti d’aria che esse generano, si inseriscono senza invasività nel
tessuto espositivo dello spazio storico. Ad un primo sguardo quasi non si notano gli interven-
ti “volatili” dell’architetto, come se si dissolvessero nell’intento di porre l’accento sulle opere
d’arte.

È chiaro come Albini operasse progettando spazi definiti da linee tensionali, piuttosto che ri-
cercare soluzioni materiche o scultoree per mettere in risalto le tele. Questa concezione archi-
tettonica dello spazio, unita alla leggerezza calligrafica del linguaggio di Albini, suggerisce una
coreografia spontanea all’interno delle sale da parte del pubblico, il cui ruolo diventa protago-
nista. Albini stesso esplicita questa volontà, scrivendo: “L’architettura deve farsi mediatrice tra
il pubblico e le cose esposte; deve dare valore all’ambiente come potente elemento di sugge-
stione sul visitatore. Per raggiungere questo risultato bisogna, secondo me, ricorrere a soluzioni
spaziali piuttosto che a soluzioni plastiche: bisogna creare spazi architettonici, o sottolineare
quelli esistenti, legandoli in una unità assoluta con le opere esposte. È la mia opinione che sono
proprio i vuoti che occorre costruire, essendo aria e luce materiali da costruzione. L’atmosfera
non deve essere ferma, stagnante ma vibrare, e il pubblico si deve trovare immerso e stimolato,
senza che se ne accorga”7. È interessante notare come un’architetto esponente del razionali-
smo insista su termini quali “atmosfera”, parola che rimanda ad un universo onirico, quasi una
dimensione metafisica. In realtà, Albini progetta delle “atmosfere” quasi in senso letterale, in
quanto si tratta di disegnare vuoti d’aria e di luce. L’elemento onirico è dato dalla sospensione
degli oggetti che fluttuano nello spazio; le opere d’arte quasi si incontrano camminando, come
fossero dei soggetti viventi. Carlo Scarpa riprenderà la medesima idea nei piedistalli progettati
per le sculture nel museo di Castelvecchio a Verona; le statue sembrano non poggiare mai
direttamente sul pavimento, la base del piedistallo è disegnata in maniera tale da scomparire
avvolta dall’ombra. In tal modo, le statue sembrano galleggiare su piattaforme fluttuanti, come
se stessero passando di lì in quel momento. I passi dello spettatore seguono l’atteggiamento,
il gesto delle opere esposte, che si incontrano quasi per caso.
Questi scelte suggestive, che permettono il “coinvolgimento inconsapevole” dello spettatore,
segnano una rottura con la tradizione espositiva italiana. Albini scrive: “L’architettura, spostan-
do anch’essa il suo fuoco dall’opera esposta al pubblico, tende ora ad ambientare il pubblico,
se così si può dire, anziché ambientare l’opera d’arte. L’architettura crea attorno all’opera d’arte
un’atmosfera moderna, e proprio per questo entra direttamente in rapporto con la sua sensibili-
tà, con la sua cultura, con la sua mentalità di uomo moderno”8. Avviene dunque un ribaltamento
fondamentale: si ambienta il pubblico, non l’opera d’arte. Le persone che valicano lo spazio
espositivo sono invitate ad interagire dinamicamente
con le opere d’arte, girandoci attorno e osservandole in
movimento, in una coreografia che consente molteplici
punti di vista differenti.
Una delle invenzioni espositive più ingegnose e celebri
di Albini, disegnata per le gallerie di Palazzo Bianco, è il
supporto per i frammenti del gruppo scultoreo Elevatio
Animae di Margherita di Bramante, opera di Giovanni
Pisano. L’architetto immagina un supporto mobile in
ferro, costituito da due mensole lievemente asimme-
triche rastremate alle estremità, che si innestano su
una struttura telescopica. Un motore elettrico, nasco-
sto sotto la pavimentazione, permette l’innalzamento,
l’abbassamento e la rotazione della scultura secondo
il gusto dello spettatore, che è invitato fisicamente a
maneggiare il sistema pensato da Albini. Questo per-
mette l’osservazione dell’opera da diverse prospettive,
ma consente anche di apprezzarne il rilievo scultoreo,
che si svela al cambiare della luce. Negli stessi anni, a
Palermo, nel museo di Palazzo Abatellis, Carlo Scarpa progetta un piedistallo dal motivo simile,
per il busto marmoreo raffigurante Eleonora d’Aragona, scultura di Francesco Laurana. È im-
portante quindi sottolineare il dialogo, lo scambio di conoscenze che avviene tra i due maestri,
che imparano l’uno dall’altro in uno spirito di collaborazione e amicizia, forse nato negli anni di
insegnamento presso l’università di Venezia.
Qualche anno più tardi, nelle gallerie di Palazzo Rosso, Albini studierà, per i dipinti situati in
prossimità delle finestre, un fine supporto rotante a bandiera, dotato all’estremità di una mani-
glia con la quale lo spettatore potrà decidere l’inclinazione della tela che più gli è congeniale.
Un sistema simile verrà adottato dal gruppo BBPR a Milano, nella sistemazione del museo di
Castello Sforzesco.

È stato sottolineato come il trattamento sensibile delle


superfici materiche di Albini presenti delle affinità con
l’opera di Scarpa. Tuttavia, questi tratti condivisi non
nascondono la sottile differenza di poetica dei due ar-
chitetti, che operano con tratti profondamente diversi.
Scarpa lavora con i frammenti; i suoi allestimenti, di as-
soluta raffinatezza, sono delineati da un forte caratte-
re interpretativo, reso “materico” attraverso un dialogo
costante con gli artigiani che lo accompagnano. L’ar-
chitetto entra in un rapporto di empatia con i soggetti
che espone, attraverso un processo di “ascolto” dell’o-
pera d’arte. Nella retrospettiva di Paul Klee alla Bienna-
le di Venezia del 1948, Scarpa coglie determinati motivi
dell’astrattismo che caratterizza le tele, riproponendoli
attraverso una personale rilettura spaziale. Gli ambienti
di Scarpa sono avvolti da un enigma che Albini non ri-
cerca; questo perché Scarpa studia una narrativa che
vuole accompagnare le opere, cogliendone l’essenza
in un’accezione contemporanea. Il tratto di Scarpa
non vuole scomparire, ma “tenere in vita” gli oggetti
esposti, che, spaesati e privati della loro ragione d’uso,
riacquistano nel museo il loro motivo perduto. A propo-
sito dell’allestimento geniale della statua di Cangran-
de I della Scala a Castelvecchio, Lanzarini e Mulazzani
scrivono: “Scarpa non esalta soltanto le qualità della
scultura ma rivela lo spirito di un’epoca, mettendo in
scena l’apparizione imminente di un guerriero, vivo, av-
volto nell’atmosfera”9. Questo gesto è compiuto senza
il minimo sentimentalismo: l’architetto non si accosta mai all’antico, ma sottolinea sempre con
un taglio, uno spazio vuoto, oppure un raffinato cambio di materiale, lo scarto temporale che
esiste tra la realizzazione dell’opera e il proprio intervento. Ogni oggetto esposto ha una storia
differente, e va raccontato in maniera differente; questo aspetto rende gli allestimenti di Scarpa
impossibili da replicare in una logica “seriale”. Il linguaggio artigianale di Scarpa, più “perso-
nale” e figurativo rispetto a quello di Albini, si moltiplica nei suoi particolari con una precisione
millimetrica. Già a partire dai suoi schizzi di studio, i lucidi di Scarpa sono caratterizzati da infi-
nite, articolate ricerche di misteriose geometrie, difficili da cogliere ad un primo sguardo. Albini,
più silenzioso del suo collega, attua il procedimento opposto: se con Scarpa si ha l’animazione
dell’opera d’arte, con Albini l’oggetto si fissa in un tempo sospeso, metafisico, in un equilibrio
di perfetta immobilità. L’architetto non vuole suggerire alcuna interpretazione personale dell’o-
pera; al contrario, cerca di “scomparire” per permettere allo spettatore la formulazione di una
propria rilettura. Forse Scarpa non avrebbe mai disegnato dei supporti mobili come quello di
Albini a Palazzo Bianco, che consentono infinite possibilità di interazione ed interpretazione.
La modernità di Albini si manifesta, forse, nella
sua attitudine spontanea a ‘far volare le cose’,
e nella capacità di nascondere con eleganza lo
studio dietro tale gesto. Federico Bucci, appro-
fondendo l’opera di Albini, scrive: “Gli ogget-
ti vivono e producono meraviglia perché Albini
sospende nel vuoto la loro rappresentazione,
stimolando la nostra immaginazione spaziale”10.
L’aspetto interessante, in cui risiede l’unicità del
maestro milanese, è come questa ‘poetica della
leggerezza’ attraversi tutta la produzione artisti-
ca dell’architetto. Lontano dall’essere confinata
negli allestimenti museografici, la si ritrova negli
oggetti che abitano il suo appartamento in Via
de Togni a Milano, o nel disegno della famosa
libreria Cassina. Si tratta di qualcosa che va ol-
tre il razionale; è una personale teoria di equilibri
con la quale l’architetto legge lo spazio che lo
circonda. Tutto è sospeso, quasi a catturare un
istante che sfugge; c’è una forte percezione di
stasi, di attesa, una sottile inquietudine che per-
vade tutti gli oggetti di Albini. Osservando la libreria Veliero nel suo appartamento milanese,
quasi ci si chiede quando avrà luogo la rottura dell’equilibrio impossibile che la sospende. La
struttura in legno di frassino e vetro temperato si regge da sola, con un solo punto di appoggio:
è una tensostruttura di fantasia, disegnata seguendo le linee di forze la attraversano. Come
negli allestimenti, la libreria genera uno spazio attorno a se, dove i libri sono sospesi in un fine
reticolato a mezz’aria. Lo stesso nome del mobile, Veliero, rimanda ad una dimensione onirica,
surreale, apparentemente lontana dal razionalismo. Eppure, il disegno esecutivo tiene conto di
ogni flessione, ogni nodo, in un gioco di pesi attentamente studiato. Come sottolinea Bucci, “La
coerenza, l’essenzialità, il rigore di Franco Albini non sono altro che maschere con cui la critica
ha interpretato una silenziosa eloquenza, nella quale convivono la razionalità con il sogno, il
metodo con l’invenzione, la misura con la sorpresa”11.
La stessa atmosfera onirica si ritrova nell’appartamento di Caterina Marcenaro a Palazzo Ros-
so, nel quale nulla tocca terra ma tutto è appeso a un filo: la lampada, i quadri, le sculture,
addirittura la scala sfiora il pavimento senza toccarlo. È un mondo di oggetti volanti, il cui sur-
realismo accompagna la vita delle persone che lo abitano. La Stanza di soggiorno in una villa,
esposta alla Triennale di Milano nel 1940, sfuma il confine tra dentro e fuori, tra sopra e sotto:
gli oggetti appesi, tra i quali un’altalena, abitano il soggiorno di una villa immaginaria, dove si
trovano un albero fiorito e una voliera per uccelli.

Negli spazi di Albini, la filigrana dei


metalli e del vetro, indice di moderni-
tà, si coniuga sempre con tessuti più
materici che rimandano ad un immagi-
nario legato alla tradizione. Dalla sedia
di cuoio negli allestimenti a Palazzo
Bianco, alla parete di beola nella stan-
za per un uomo, alle nicchie in mat-
tone che avvolgono le opere maggiori
di Scipione alla Pinacoteca di Brera,
Albini dimostra nel trattamento dei
materiali una sensibilità quasi artigia-
nale, tattile, un lessico familiare “anti-
co” che ambienta lo spettatore. In una
delle rare conferenze rilasciate pres-
so l’università di Venezia, l’architetto
propone una riflessione riguardante il
rapporto antico-moderno in relazio-
ne alle sue installazioni espositive: “Il
fine delle esposizioni, nel quadro di
culturale di questo momento, è quello
di far comprendere al pubblico che le
opere esposte, antiche o moderne che
siano, appartengono all’attualità della
sua vita, alla cultura viva; di far com-
prendere che la tradizione è una real-
tà, sempre nuova, che è continuata nel
presente proprio dagli artisti moderni
che ogni giorno vi aggiungono la loro creazione; di far comprendere che i problemi di coerenza
tra società e arte permangono in ogni tempo”12. Quella di Albini è una posizione particolarmente
contemporanea, forse la più d’avanguardia se messa a confronto con il pensiero dei suoi col-
leghi: la tradizione siamo noi, non è confinata nel passato ma è una linea viva che percorre la
storia attraversandola, fino ad addentrarsi nel presente. Nell’articolazione di ogni giunto, ogni
volta che una linea sospesa incontra un piano, in tutti gli spazi atmosferici di Albini, “la memoria
è declinata sempre al futuro”13.

0
G. Ponti, Una mostra perfetta, in Stile, n.3, Marzo 1941 p.1
1
G. Ponti, La casa dell’architetto Franco Albini, Domus, Novembre 1939, p.28
2
F. Albini, lezione tenuta presso l’IUAV, 1954-44, ora in Casabella, n.370, Febbraio 2005, p.2
3
A. Monestiroli, I musei e gli allestimenti di Franco Albini, Electa, 2005, p.9-10
4
G. Argan, Il museo come scuola, Comunità n.3, Maggio-Giugno 1949, p.64-66
5
F. Albini, G. Palanti, Costruzioni-Casabella n.193, Marzo 1946, p.2
6
F. Albini, Le funzioni e l’architettura del museo: alcune esperienze, ciclostilato, Facoltà di Architettura al Politecnico
di Torino, 1954-55, p.9
7
F. Albini, lezione tenuta presso l’IUAV, 1954-44, ora in Casabella, n.370, Febbraio 2005, p.2
8
F. Albini, Le funzioni e l’architettura del museo: alcune esperienze, ciclostilato, Facoltà di Architettura al Politecnico
di Torino, 1954-55, p.5
9
O. Lanzarini, M. Mulazzani, Zero gravity - Franco Albini: costruire le modernità, Electa, 2006, p.159
10
F. Bucci, I musei e gli allestimenti di Franco Albini, Electa, 2005, p.23
11
F. Bucci, I musei e gli allestimenti di Franco Albini, Electa, 2005, p.21
12
F. Albini, lezione tenuta presso l’IUAV, 1954-44, ora in Casabella, n.370, Febbraio 2005, p.8-9
13
F. Bucci, I musei e gli allestimenti di Franco Albini, Electa, 2005, p.20
Iconografia, in ordine:

F. Albini, Libreria Veliero presso l’appartamento dell’architetto a Milano, 1940 (in copertina)

F. Albini, Uffici INA a Parma, 1950-53

F. Albini, Gallerie di Palazzo Bianco a Genova, 1949-51

F. Albini, Supporto mobile per un frammento scultoreo di Giovanni Pisano a Palazzo Bianco,
1949-51

C. Scarpa, schizzo di studio per la statua del Cangrande al museo di Castelvecchio a Verona,
1958-64

F. Albini, Libreria Veliero presso l’appartamento dell’architetto a Milano, 1940

F. Albini, Appartamento per Caterina Marcenaro a Palazzo Rosso, Genova, 1952-61

F. Albini, Mostra di Scipione alla Pinacoteca di Brera, Milano, 1941

Bibliografia consultata

- Franco Albini, 1905-1977, Antonio Piva, Vittorio Prina, Electa 1998

- I musei e gli allestimenti di Franco Albini, a cura di Federico Bucci e Augusto Rossari, Electa,
2005

- Zero gravity - Franco Albini: costruire le modernità, a cura di Federico Bucci e Fulvio Irace,
Electa, 2006

- Conservare il moderno: Franco Albini e il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova, saggio
introduttivo di Manuela Salvitti, Altralinea, 2015

- Franco Albini. La sostanza della forma, Carlo Olmo, Istituto Italiano di Cultura, 2016
I hereby certify that the present work entitled:

L’arte di porgere

was indipendently written by me, that no other sources and aids than those specified have been
used and that the parts of the essay taken from other publications, including electronic media,
in wording or meaning, have been identified as borrowed, stating the source.

Ioannis Barbas

Mendrisio, 24.01.2023

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